Magistratura democratica

Oltre la crisi

di Nello Rossi

Lentamente, faticosamente, non senza scontri interni, sbandamenti ideali e persistenti contraddizioni, la magistratura italiana sta lavorando per superare la vera e propria emergenza etica rivelata dalla vicenda romana delle nomine.

Sotto la guida del suo Presidente, e grazie alla sensibilità istituzionale dei suoi stessi componenti, il Consiglio superiore della magistratura ha fatto valere un metro rigoroso di misura della “responsabilità” dei suoi membri, riaffermando che essa è ben più incisiva e cogente delle ordinarie responsabilità dei magistrati.

Questa linea di condotta ha segnato una sensibile differenza dai comportamenti di altri settori della classe dirigente, spesso inclini a minimizzare le proprie colpe e cadute o a sollevare su di esse dense cortine fumogene, confidando di volta in volta nella partigianeria cieca, nella disattenzione o nella disinformazione dell’opinione pubblica.

Grazie all’adozione di un metodo severo, l’organo di governo autonomo – dopo essere stato a un passo da uno scioglimento traumatico e senza precedenti – ha potuto recuperare un minimo di serenità e proseguire il lavoro, impegnandosi a rinnovare le sue prassi di azione.

L’Associazione nazionale magistrati, dal canto suo, dopo l’indignazione e la ripulsa espressa nelle assemblee infuocate svoltesi in tutta Italia, tiene un congresso – il XXXIV della sua lunga storia – inevitabilmente “straordinario” per l’asprezza dei temi che è chiamato ad affrontare.

La stessa Scuola della magistratura ha partecipato, con gli strumenti e i metodi che le sono propri, all’impegno di ripensamento e di rigenerazione, promuovendo un’iniziativa di studio e di riflessione che ha investito la “questione giustizia” nei suoi diversi aspetti: l’ordinamento giudiziario, il sistema elettorale del Csm, il funzionamento del circuito del governo autonomo, l’efficacia e la credibilità della giurisdizione.

La magistratura sta, dunque, guardando dentro se stessa.

E deve continuare a farlo, senza indulgenze, ma con la necessaria freddezza, se vuole evitare che la crisi inneschi interne pulsioni distruttive o apra la porta a iniziative esterne miranti a mortificarla o a comprometterne la capacità di azione e di intervento.

Di entrambi questi rischi – interni istinti autolesionistici ed esterne ostilità – ci sono non poche evidenze.

Le voci di dentro

Sul primo fronte – quello delle voci di dentro – ci si misura con la svalutazione e, talora, l’aperta denigrazione del modello di associazionismo pluralistico che la magistratura italiana ha creato nel corso della sua storia e, per taluni, anche del modello costituzionale di un Consiglio superiore realmente e fedelmente rappresentativo delle diverse componenti culturali e professionali della magistratura.

A questa realtà si contrappone, a volte, l’immagine suggestiva del magistrato più indipendente e laborioso perché “solo”, a volte la prospettiva di un sindacalismo asfittico, che esaurisca il suo compito nel definire carichi di lavoro e working rules e nel contrattare le retribuzioni; a volte, infine, l’idea che l’associazionismo dei magistrati debba divorziare dal pluralismo che lo ha caratterizzato in passato per dar vita a una rappresentanza il più possibile unitaria degli interessi  istituzionali e professionali del corpo della magistratura. Con il corollario – solo nella versione critica più estrema – di un Consiglio superiore che, essendo concepito come un ufficio di gestione del personale, ben può essere composto per sorteggio, senza che ci si preoccupi della sua rappresentatività, sciocca ubbia dei Costituenti da accantonare disinvoltamente.

È, questo, un terreno sul quale non sono possibili confusioni e cedimenti.

Non sono pochi i magistrati che, avvertendo i disagi del presente, sperano di trovare sollievo semplicemente cambiando posizione.

Ma non sarà ripudiando il ruolo e la pratica dell’associazionismo – che ha reso la magistratura italiana una componente grande e vitale della vita democratica del Paese e un esempio per i giudici di altri Paesi – che i magistrati possono sperare di migliorare la propria condizione professionale e istituzionale e di salvaguardare l’assetto disegnato dalla Costituzione.

Sotto questo profilo, l’attenzione costante che questa Rivista dedica alla storia della magistratura costituisce uno dei suoi maggiori contributi alla consapevolezza del proprio ruolo e all’orientamento ideale dei magistrati, soprattutto dei più giovani.

L’analisi e la ricostruzione di ciò che la magistratura è stata ed è nelle vicende dell’Italia repubblicana mostra infatti, ad ogni passo, quanto un associazionismo vivace, colto e tutt’altro che monolitico abbia contribuito ad affermare i valori del giudiziario e a difendere da attacchi reiterati lo status di indipendenza di ciascun magistrato. E dice quanto sia sconsiderato rinnegare il valore di questa esperienza invece di impegnarsi, con tutta l’energia possibile, a rivitalizzarla in forme adeguate alle esigenze del presente.

Ci si può certo augurare che la giovane magistratura sappia rinnovare e reiventare le modalità e gli strumenti di pensiero e di azione collettiva per conformarli ai suoi peculiari bisogni, ma non che abbandoni il metodo di “pensare insieme”, imboccando una strada che porta inesorabilmente verso una interpretazione burocratica della funzione.

«Non fare nulla per sentirsi superiori a tutto»

Per quanto intellettualmente sgangherate, ignare della storia e tuttora minoritarie nel corpo della magistratura, queste “voci di dentro” hanno offerto, nella fase più acuta della crisi, una sponda consistente a chi dall’esterno è avverso all’autonomia istituzionale – ritenuta incompatibile con il predominio della politica – della nostra magistratura e giudica eccessiva l’indipendenza di giudici e pubblici ministeri.

Ne è scaturito un accresciuto vigore delle iniziative “riformatrici” miranti ai punti nevralgici dell’attuale assetto del giudiziario.

Iniziative che vanno dalla prospettiva di svisare il Consiglio, sorteggiandone i membri togati, alle proposte, da sempre ricorrenti, di separare le carriere di giudici e pubblici ministeri, di modificare il giudizio e il giudice disciplinare, di intervenire sull’obbligatorietà dell’azione penale.

Come sia possibile affrontare una fase che si preannuncia così insidiosa senza far perno su forme di impegno collettivo, di critica e di controproposta è una domanda da porre a quanti, seguendo la moda del momento, rivendicano la distanza da ogni istanza associativa o la superiorità di un sindacalismo economicistico.

«Non facevano nulla per sentirsi superiori a tutto»: questo l’ironico rimprovero che – se la memoria non mi inganna – Elena Croce muoveva alle signorine bene del suo tempo.

Non è il caso che siano dei magistrati, pochi o tanti non importa, a meritare un simile rimprovero, se non altro perché quell’ingenuo snobismo nuoceva solo a chi ne faceva una regola di vita, mentre nella vicende del giudiziario sono sempre in gioco le aspettative e i diritti dei cittadini.

I giudici e il Paese profondo

Per le ragioni sinora ricordate, questo numero della Rivista è centrato, più di altri, sui mondi della cultura giuridica e della magistratura.

La Trimestrale dedica infatti uno dei suoi due “obiettivi” alle cliniche legali – laboratori di studio e riflessione nei quali teoria e prassi, il diritto dei testi e quello della vita si fondono, dando vita a esperienze in grado di rispondere a esigenze professionali e a bisogni sociali – mentre, nell’altro obiettivo, l’attenzione è focalizzata sui temi della magistratura, seguendo un sentiero variegato, ma internamente coerente.

Un percorso che prende la mosse dalla formazione dei magistrati, con l’intervista al presidente della Scuola superiore della magistratura, Gaetano Silvestri, e prosegue con lo scritto di Massimo Luciani che, partendo da un dato apparentemente particolare – la disciplina dell’errore di diritto –, esplora problemi di teoria generale e pone importanti interrogativi sulla legittimazione dell’attività interpretativa.

A completare il quadro di una riflessione sullo stato attuale della giurisdizione e della magistratura concorrono, infine, i contributi sull’etica professionale (che non è un’immobile “Arcadia”, ma un vero e proprio “campo di battaglia”), sull’associazionismo, sullo strumento del processo penale.

Se un impegno di questa natura è stato reso urgente e indispensabile dalla crisi, la magistratura e, con essa – per la piccola parte che le compete –, questa Rivista dovranno continuare a guardare il mondo esterno con l’attenzione, la curiosità e lo stupore che generano conoscenza e comprensione.

Diciamolo con sobrietà: molto di quello che vediamo nel presente e intravediamo all’orizzonte non è confortante. Ma resta il dovere di scrutare il Paese profondo, di capire anche ciò che non si condivide, di comprendere senza essere corrivi, di difendere i principi senza spocchia e, soprattutto, senza estraniarsi dai timori e dalle ansie del nostro popolo.

Solo a questa condizione i magistrati potranno cooperare, con il loro quotidiano  lavoro, nella ricerca di soluzioni utili, praticabili, civili alle questioni che preoccupano i loro concittadini: il grumo di problemi posto dai fenomeni migratori; la sicurezza reale e percepita; le crescenti difficoltà dei lavoratori, in un contesto produttivo nel quale prima regola dell’efficienza sembra essere divenuta la riduzione degli occupati e scompare ogni idea di “ripensare” il lavoro, e così via, in un lungo elenco di nodi spinosi che tutti, in diversa maniera, toccano e coinvolgono l’operato della magistratura.

Sarà forte, e se ne avvertono i segnali, la tentazione di rinchiudersi in una nuova torre.

Non più la torre del formalismo tecnico-giuridico e dell’asserita neutralità, abitata dai giudici dell’immediato dopoguerra, ma una nuova – fatta di principi, di convenzioni internazionali, di insegnamenti giurisprudenziali e dottrinari – che è, però, destinata a essere fragile e indifesa se mancherà l’intelligenza della società, dell’economia, della politica, di “ciascuno” dei magistrati, soprattutto di quelli che operano nel merito, nella prima linea della giurisdizione.

Con una brutta parola, questo atteggiamento si chiama “autoreferenzialità”.

È stato superato in passato, quando, a partire dalla fine degli anni sessanta, una nuova generazione di magistrati ha incontrato le correnti più vitali e dinamiche della società italiana. Può essere evitato oggi, se giudici e pubblici ministeri resteranno capaci di muovere in permanenza lo sguardo dalle norme alla realtà sociale ed economica nell’interpretare e nell’applicare il diritto.

Novembre 2019