Magistratura democratica

Perché non abbiamo avuto un caso Brown.
Il ruolo delle cliniche legali nelle strategie di public interest litigation

di Marzia Barbera
L’articolo si interroga sulle ragioni per le quali nel caso italiano manca un’esperienza di strategic litigation simile al caso Brown,suggerendo che quest’assenza sia dovuta anche al nostro modello di educazione giuridica, al fatto  che – per dirla in breve – nelle nostre università il modo di insegnare e di apprendere il diritto fa sì che chi praticherà il diritto sia esposto per lo più a problemi di diritto, ma è raramente esposto a problemi di giustizia ed è difficile che si confronti con l’esistenza di chi è discriminato o vive condizioni di svantaggio e deprivazione sociale.

L’opposizione a questo modo di intendere l’educazione giuridica e, in buona sostanza, di intendere il diritto stesso, è una delle ragioni fondamentali per cui, nel corso degli ultimi dieci anni, sono nate anche in Italia le cliniche legali, le quali non sono solo un metodo alternativo di fare didattica, ma sono anche un modo alternativo di guardare al diritto. È per questo motivo che dalle cliniche legali si può sviluppare una promettente riflessione teorica (oltre che una pratica innovativa) sull’uso del diritto in funzione di strategie di cambiamento sociale.

1. Perché non abbiamo avuto un caso Brown e perché parlare di cliniche legali può aiutarci a capirlo

Nel 1954 la Corte suprema degli Stati Uniti stabilì, nella causa Brown c. Board of Education, che la segregazione razziale nelle scuole pubbliche, ammessa da molte leggi statali, fosse incostituzionale per violazione della clausola di eguaglianza sancita dal XIV emendamento della Costituzione. Si tratta di un caso mitico della storia costituzionale americana, forse il caso mitico, diventato il modello delle strategie giudiziarie di contrasto alla legislazione razziale dei decenni successivi.

Della sua eredità si continua a parlare a distanza di 65 anni. Come ha scritto Martha Minow, «[t]he legacies of Brown invite a look at the capacity ofindividuals to push and achieve change using law and social science; the histories are interconnected with social movements as well as unexpected consequences of resulting reforms»[1].

Gli individui di cui parla Minow sono figure straordinarie, come l’avvocato afroamericano Thurgood Marshall, principale consulente giuridico della National Association for the Advancement of Colored People (NAACP – l’associazione che, dalla sua fondazione agli inizi del secolo scorso, aveva concentrato i suoi sforzi sulla lotta alla discriminazione razziale nelle aule di giustizia), che sua volta, nel 1967, sarebbe stato nominato da Lyndon Johnson giudice della Corte suprema. Fu sua la decisione di lanciare una campagna di strategic litigation centrata sulla segregazione scolastica, fino ad arrivare, appunto, al ricorso presentato contro il consiglio scolastico della città di Topeka, nel Kansas, per conto dei Brown, una famiglia di neri americani alla quale il distretto scolastico pubblico locale aveva rifiutato l’iscrizione della figlia Olivia alla scuola più vicina a casa, costringendola a recarsi in una scuola per soli neri, raggiungibile con il bus, che presentava standard e risultati educativi più bassi.

L’idea di Marshall era che «The only way to get the white folks to give us decent schools was to make it be their schools too». Ci volle la fermezza di un altro straordinario individuo, il giudice Earl Warren, divenuto nel 1953 presidente della Corte suprema, a portare gli altri componenti della Corte, che avevano a lungo vacillato sulla strada da prendere, ad adottare una decisione unanime (nove giudici su nove si espressero in senso favorevole ai ricorrenti), che sposò per intero la visione di Marshall secondo cui la strada maestra verso il superamento della discriminazione era l’integrazione razziale. Ove pure fosse possibile assicurare gli stessi standard di qualità e lo stesso tipo di strutture, affermò la Corte, «separate educational facilities are inherently unequal».

Gli storici sono divisi nel valutare gli effetti prodotti da Brown in termini di reale de-segregazione delle scuole pubbliche americane. Negli anni successivi, non solo i progressi furono estremamente lenti ma, in risposta a Brown,in molti stati del Sud si intensificarono le cd. “Jim Crow Laws”, che sancivano la separazione fra bianchi e neri nei luoghi pubblici, sui mezzi di trasporto, nei bagni, nei ristoranti. Per abolirle ci sarebbe voluto il Civil Rights Act del 1964, espressione di una volontà politica di affrontare la questione razziale alle radici che non si sarebbe mai più manifestata con la stessa forza negli anni a seguire. C’è anche chi pensa che l’essersi concentrati sulla lotta per i diritti civili abbia distratto da quella, più radicale, per una maggiore giustizia sociale e che l’aver puntato tanto sul divieto di classificazioni basate sulla razza abbia offerto il viatico necessario, anni dopo, per affossare i programmi di affirmative action a favore dei gruppi di minoranza svantaggiati, sulla base dell’aforisma – suggestivo, ma falso – per cui «The way to stop discrimination on the basis of race is to stop discriminating on the basis of race»[2].

A distanza di alcuni decenni, la segregazione scolastica di diritto è stata soppiantata da una segregazione di fatto che riflette, a sua volta, la segregazione abitativa che caratterizza la maggior parte delle città nordamericane. L’una e l’altra sono il frutto del progressivo disimpegno delle corti e degli attori politici, restii a proseguire su una strada che non ha tardato a incontrare il sospetto, se non l’ostilità, della maggioranza bianca; nonché delle scelte private che hanno portato i bianchi dotati di mezzi a iscrivere i loro figli nelle scuole private dei quartieri bianchi in cui abitano, invece di consentire che fossero ricollocati nelle scuole pubbliche dei quartieri poveri abitati prevalentemente da neri. La loro percezione era (e continua ad essere) quella di una penalizzazione della loro progenie in termini di qualità dell’educazione e di opportunità, nonostante il fatto che, inizialmente, la desegregazione e i contatti inter-razziali, grazie anche alla riduzione dei pregiudizi e degli stereotipi, avessero in realtà accresciuto l’una e le altre, sia per gli studenti neri che per gli studenti bianchi.

Eppure, malgrado Brown venga talvolta descritta come “a hollow hope[3] – “una speranza vuota” –, è a Brown che continuano a ritornare tutti i movimenti che hanno cercato, in questi anni, di contrastare nelle aule di giustizia le diseguaglianze fondate sul genere, sull’orientamento sessuale, sulla religione, sullo status di migrante, sulla disabilità[4]. Non solo negli Stati Uniti, ma anche in altri Paesi e continenti, Europa compresa, dove il primo caso di segregazione scolastica su base etnico-razziale a danno di bambini rom è stato deciso dalla Corte di Strasburgo in una causa intenzionalmente modellata sulla causa Brown[5].

In realtà, gli effetti di Brown non sono misurabili solo sul terreno dei numeri – guardando a quante scuole, cioè, siano state effettivamente desegregate. Anzitutto, come ci ricorda Venera Protopapa in una ricostruzione attenta delle vicende che portarono a Brown e degli eventi successivi, la decisione ha sicuramente contribuito a ispirare gli afroamericani: «la dichiarazione di incostituzionalità della segregazione è stata molto importante dal punto di vista simbolico, rafforzando la speranza e la convinzione che un cambiamento radicale fosse possibile»[6]. Inoltre, la stessa feroce reazione a Brown da parte dei segregazionisti ha costretto, a loro volta, i bianchi del Nord a schierarsi e ha portato, infine, all’adozione del Civil Rights Act. Il che dimostra che gli effetti delle strategie legali volte a provocare cambiamenti sociali vanno misurati in un contesto più ampio e che i rischi che esse comportano assumono rilevanza solo se esistono strategie di cambiamento alternative[7].

In definitiva, l’eredità più duratura di Brown risiede soprattutto nel suo valore simbolico, nella sua capacità di mostrare la forza e i limiti del diritto, quello che il diritto può e non può fare.

Il diritto, suggerisce Brown, può arrivare a rendere illegittimo un sistema consolidato di segregazione razziale, ripudiando una dottrina centenaria e ingiusta – la dottrina del “separate but equal” – che, a partire dal caso Plessy c. Ferguson del 1896, aveva ammantato di  legittimità un sistema istituzionalizzato di gerarchia sociale  e di subordinazione razziale; ma fallisce, suggerisce anche, nell’abolirlo effettivamente, se non è accompagnato da pratiche sociali e politiche coerenti con quell’obiettivo egualitario e se non è sostenuto da  movimenti sociali che si prefiggano di combattere l’oppressione di gruppo che produce la segregazione.

Brown mostra anche le contraddizioni degli ideali egualitari: a distanza di qualche tempo, la stessa comunità nera avrebbe cominciato a interrogarsi sulla saggezza di smantellare le scuole delle comunità nere, dove i ragazzi entravano a contatto con modelli di riferimento autorevoli e con un senso di impegno comune per il bene della comunità, per puntare soprattutto al successo individuale di ciascuno di loro.

Se sono tante le ragioni per cui, nel bene e nel male, si continua a parlare di Brown, c’è da chiedersi, allora, perché da noi non ci sia stato un caso Brown.

Le occasioni non sono mancate. Nonostante l’Italia oggi non viva certo una situazione paragonabile a quella degli Stati Uniti degli anni cinquanta, il nostro Paese ha sperimentato una lunga serie di discriminazioni istituzionali, a partire dalla stagione delle ordinanze locali in materia di sicurezza pubblica e sicurezza urbana emanate nel corso del decennio scorso, passando per il “decreto emergenza rom” del 2008, fino ad arrivare ai  recenti provvedimenti del Governo in carica in materia di migrazione e sicurezza pubblica, in cui non mancano, accanto ad aspetti illiberali, esempi di disposizioni direttamente o indirettamente discriminatorie.

Per altro verso, anche in Italia vi sono stati casi di un consapevole uso strategico del diritto nel campo delle discriminazioni razziali da parte di associazioni che hanno, fra le loro finalità, quella di contrastare le discriminazioni, e che si avvalgono di giuristi dotati di un know how sofisticato e determinati a impiegare tutte le opportunità offerte dal sistema giuridico al servizio di una visione politica progressista[8].

La dimensione e i risultati di queste strategie non sono “però” paragonabili a quelli del caso Brown e nessuno dei casi trattati, neppure quelli che hanno occupato anche i media e le pagine dei social, è assurto al rango di caso iconico rivestito da Brown.

Ragionare a fondo su questo interrogativo ci condurrebbe lontano. Anzitutto, a riflettere sulla particolare concezione dei diritti e del ruolo delle corti che caratterizza il sistema nordamericano. Le strategie di public interest litigation si sono, infatti, sviluppate all’interno di un’esperienza fortemente segnata dalla concezione secondo la quale il potere politico e i suoi modi di esercizio sono vincolati al rispetto dei diritti individuali dei singoli e che condizione del legittimo esercizio del potere è che esso non leda i diritti naturali dell’individuo e la sua autonomia. Ciò ha affidato alle corti (ma anche agli avvocati, dato il carattere avversariale del sistema processuale nordamericano) un ruolo di risoluzione dei conflitti sociali e politici, in funzione della protezione della libertà dei singoli dall’autoritarismo del potere pubblico, sconosciuto agli altri ordinamenti. Oppure il ragionamento ci porterebbe a osservare come i sistemi di common law, basati su precedenti giudiziari, favoriscano il fatto che la creazione del diritto nasce dai casi, da un problema concreto, poiché la legge viene creata dai giudici dopo che una pretesa è stata avanzata in giudizio da una parte privata.

L’intento di questo scritto è molto più limitato. Quel che si vuole suggerire è che una delle ragioni per le quali, nel caso italiano, manca un’esperienza di strategic litigation simile al caso Brown sia riconducibile al nostro modello di educazione giuridica, al fatto che – per dirla in breve – nelle nostre università il modo di insegnare e di apprendere i diritto fa sì che chi praticherà il diritto sia esposto per lo più a problemi di diritto, ma è raramente esposto a problemi di giustizia ed è difficile che si confronti con l’esistenza di chi è discriminato o vive condizioni di svantaggio e deprivazione sociale.

L’opposizione a questo modo di intendere l’educazione giuridica e, in buona sostanza, di intendere il diritto stesso, è una delle ragioni fondamentali per cui, nel corso degli ultimi dieci anni, sono nate anche in Italia le cliniche legali, le quali non sono solo un metodo alternativo di fare didattica, ma anche un modo alternativo di guardare al diritto.

Per questo motivo, a partire dalle cliniche legali si può sviluppare una promettente riflessione teorica (oltre che una pratica innovativa) sull’uso del diritto all’interno di strategie di “public interest litigation”. Parlare di cliniche legali è un modo per parlare dell’emersione anche nel contesto europeo e nazionale di questo tipo di strategie, per indagarne i limiti ed esplorarne le potenzialità[9].

2. Le cliniche legali italiane: nascita e crescita di un’idea

Definite in poche parole, le cliniche legali sono corsi universitari nei quali gli studenti apprendono il diritto assumendo la difesa di clienti reali in casi reali, sotto la supervisione di professori-avvocati. Fin dalla loro nascita negli Stati Uniti, durante la seconda metà del secolo scorso, le cliniche si sono dimostrate uno strumento di apprendimento del diritto in grado di combinare conoscenze teoriche e approccio pratico.  

In Italia le cliniche legali nascono esattamente dieci anni fa, quando vengono istituite in un gruppo pionieristico di università (Brescia, poi Torino, Roma Tre, oltre allo IUC di Torino), per diffondersi negli anni successivi anche alle università di Genova, Milano, Bergamo, Verona, Ferrara, Firenze, Perugia, Teramo, Napoli, Bari, Lecce, Palermo, Catania[10]. Data l’assenza della figura del professore-avvocato, il ruolo di supervisore è rivestito, in modo congiunto, da accademici e da avvocati. Questo modello ibrido, inizialmente adottato per necessità, si è rivelato preferibile a quello nordamericano, perché evita la creazione di una carriera a doppio binario, ove i clinician, in molti casi, non godono dello stesso prestigio e della stessa autorità degli accademici puri. Vale la pena di ricordare, comunque, che Francesco Carnelutti parlava dell’opportunità di istituire cliniche legali sulla falsariga delle cliniche mediche già alla metà degli anni trenta, più o meno nello stesso periodo in cui Jerome Frank, esponente del realismo nordamericano, proponeva che le law school si dotassero di strutture simili a quelle delle cliniche o degli ambulatori medici[11].

Il fatto che si tratti di casi reali e non di casi simulati o di casi decisi dalla corti e poi analizzati retrospettivamente è caratteristica distintiva delle cliniche legali (così come lo è, del resto, delle cliniche mediche). Come osserva Matteo Carrer nella sua acuta rilettura del saggio di Carnelutti, nella decisione di istituire cliniche legali vi è «ben di più dell’aspetto organizzativo pratico» di far apprendere agli studenti le abilità del futuro professionista[12]: le cliniche postulano una certa visione del rapporto fra diritto e realtà, fra norma e interpretazione. Più precisamente, postulano un approccio di tipo realista, che guarda non solo alla “law in the books”,ma anche alla“law in action, al diritto quale risulta dall’interazione con i fatti reali, temperato, rispetto alla visione interamente scettica e pragmatica dei realisti nordamericani, dall’assumere come orizzonte normativo-ideale l’“higher law”:le carte costituzionali e le carte sovranazionali dei diritti umani.

Le cliniche legali rifuggono dalle concezioni idealistiche e formalistiche del sapere e del diritto, rifuggono dalla distinzione fra momento pratico, che sarebbe proprio  dell’economia e della sociologia, e momento teoretico, che sarebbe proprio della logica giuridica, e aderiscono invece all’idea che il significato del diritto si riveli nella pratica, dove l’ordine dei principi astratti e oggettivi lascia il posto al disordine della realtà, che appare confusa, soggettiva, indefinita, contraddittoria[13].

Si capisce, allora, perché le cliniche legali – che sono state una caratteristica costante della formazione giuridica nel Regno Unito, in Norvegia e nei Paesi Bassi già a partire dai primi anni settanta, in Europa orientale e centrale a partire dalla metà degli anni novanta[14] – hanno conosciuto nell’ultimo decennio una crescita esponenziale anche nei Paesi di civil law dell’Europa occidentale, sviluppandosi prima in Spagna, poi in Paesi come Belgio, Francia, Germania e Italia. Aderire al movimento clinico è stata, anzitutto, una reazione di una parte degli studiosi del diritto europei a una formazione giuridica – cui essi stessi partecipano in qualità di docenti – ancora fondata sulle categorie concettuali del formalismo giuridico. Questi studiosi hanno avvertito come un paradosso il fatto che, mentre il formalismo giuridico non può certo dirsi la corrente teorica oggi dominante nel discorso filosofico-giuridico, esso rivesta ancora un ruolo centrale nella formazione dei giuristi, teorici e pratici.

Ciò che costituisce una caratteristica specifica del formalismo giuridico, e che influenza profondamente il nostro modo di apprendere e comprendere il diritto, è la primazia del testo, l’idea che la legge sia ciò che è scritto, il che impedisce ai giudici di applicarla arbitrariamente, poiché la legge è voluta e creata dal legislatore.

Dal momento che la legge non è creata, ma è appresa dagli interpreti, il ruolo dei giuristi è visto fondamentalmente come un ruolo di concettualizzazione del significato di principi e regole, che si compie esplicitando la razionalità insita nel sistema giuridico. L’elaborazione degli studiosi del diritto, raccolta nei manuali e nei trattati, è quindi una parte sostanziale di ciò che molti di noi insegnano e molti dei nostri studenti e delle nostre studentesse imparano, in un modo che li porta a credere che manuali e trattati sono il diritto. Di conseguenza, le capacità principali che ci si aspetta essi acquisiscano sono la conoscenza e la padronanza dei testi di legge o dei testi delle sentenze e di ciò che la dottrina giuridica elabora a partire da quei testi.

Quanto alle capacità principali che ci si aspetta da chi deve insegnare il diritto, un buon modo per descriverle è ricorrere alla definizione utilizzata da uno dei docenti del mio dipartimento durante una discussione che avemmo tempo fa sui nostri metodi di insegnamento. Secondo tale definizione, «l’insegnante perfetto è l’oratore perfetto». Se questo è il modo in cui si concepisce il modello ideale di docente, allora è evidente che chi ascolta è solo il destinatario passivo di un discorso che mira, più che a fare apprendere, a dimostrare qualcosa, a intrattenere e a persuadere il pubblico: a probare, delectare, flectere, secondo l’insegnamento di Cicerone.

Per contro, la forma di ragionamento più usata nel common law è induttiva: progredisce dalle osservazioni dei singoli casi verso lo sviluppo di un principio generale. Come conseguenza, agli studenti è richiesto di pensare analiticamente e analogicamente, di partire dal problema e condurre uno scrutinio rigoroso delle circostanze in base alle quali i precedenti possono essere distinti dalla controversia in questione o estendersi analogicamente ad essa. Ai docenti è richiesto di guidare questo processo di scoperta della soluzione del problema giuridico posto dal fatto, tradizionalmente attraverso il metodo socratico, un metodo d’indagine basato sul dialogo, sull’alternarsi di domande e risposte, che tende a far emergere le false credenze e ad arrivare a una soluzione che costituisca una forma di verità provvisoria.

Queste differenze tra i due sistemi spiegano perché nei sistemi di common law si sono sviluppati prima che da noi metodi alternativi di insegnamento come le cliniche legali, focalizzati non solo sulla conoscenza delle regole giuridiche e degli strumenti dell’interpretazione, ma anche su altre abilità, che richiedono di partire dal problema e si basano su operazioni mentali induttive o pragmatiche e su ragionamenti di tipo teleologico[15].

Ma vi è una seconda ragione – non meno importante della prima – per cui una parte dei giuristi, nonché dei filosofi e dei sociologi del diritto, ha rivolto in questi anni l’attenzione alle cliniche legali, e cioè il rigetto dell’idea che la formazione universitaria sia un’attività che non ha (e non deve avere) nulla a che fare con la politica.  

Cent’anni fa Max Weber scriveva, ne La scienza come professione, che la politica non si addice alle aule universitarie, poiché il primo dovere di un docente competente dovrebbe essere quello di «insegnare ai suoi studenti a riconoscere fatti scomodi», vale a dire fatti «che sono scomodi per le loro opinioni politiche personali». Scienza e politica – insiste Weber – hanno un linguaggio differente. Le parole che usiamo in classe non sono le stesse utilizzate in un raduno politico: in classe, le nostre parole sono «vomeri per smuovere il terreno del pensiero contemplativo»; in un raduno politico, sono «spade contro gli avversari»[16].

Max Weber ha ragione quando sostiene che i docenti devono ben guardarsi dall’imporre allo studente una specifica presa di posizione politica, tanto più che ciò avviene all’interno di una relazione di potere asimmetrica, chiaramente squilibrata a loro favore. Tuttavia, contrariamente a quanto Weber stesso ritiene, il primo fatto scomodo da far apprendere agli studenti è proprio l’impossibilità di mantenere così distinte le due arene del discorso – quella del sapere e quella della politica – e, nel campo specifico del sapere giuridico, la necessità di riconoscere invece l’essenziale funzione politica del giurista-interprete, sia esso teorico, avvocato o giudice.

È ovvio che, come ha osservato Nicola Lipari, «non può trattarsi di una visuale politica del tutto personale ed utopica, ma semmai (…) di un modo di raccordare il processo applicativo del diritto alla concretezza dell’esperienza sociale»[17]. E non potrebbe essere diversamente, perché la costruzione di significato del diritto non può risultare dalle sue sole categorie interne.  

Le cliniche legali gettano un ponte fra l’astrattezza delle categorie giuridiche e la costruzione del loro significato e riaffermano l’essenziale funzione del diritto come pratica sociale, come «discorso persuasivo, indirizzato ad un contesto storicamente individuato che si farà persuadere, nello scambio di un dialogo mai consegnato a formule definitive»[18].

3. I precedenti delle cliniche legali: la stagione dell’uso alternativo del diritto e il neo-costituzionalismo

Non si tratta certo di posizioni nuove nel dibattito italiano. Tra i primi a far osservare il carattere necessariamente politico dell’attività dei giuristi è stato Giovanni Tarello[19]. Vi fu, poi, la breve e intensa stagione dell’uso alternativo del diritto, che si poneva all’interno di un processo di rinnovamento complessivo del bagaglio culturale del giurista[20].

In uno dei testi di base di quel periodo, L’educazione del giurista, Pietro Barcellona ragiona sui motivi dell’attaccamento dei giuristi tradizionali all’idea dell’autonomia del diritto dalle sfere della politica, dell’economia, della morale[21].Forse è perché, osserva Barcellona, il contrario significherebbe ricadere nel mondo dell’indistinto, nella confusione dello stato patrimoniale pre-moderno, quando si postulava l’unità di morale, politica e diritto.

Il giurista sembra allora essere prigioniero di un dilemma: se riconosce la compenetrazione fra queste diverse sfere, pare dover rinunciare all’autonomia della propria disciplina e il prezzo è la confusione e la paura dell’ignoto; se, invece, ribadisce l’autonomia del punto di vista giuridico, allora deve rimanere con gli occhi bendati di fronte ai processi reali e il prezzo è la cecità[22].  Ma il dilemma, conclude lo studioso, è un falso dilemma. La scelta dell’autonomia fa imbattere in altre più gravi contraddizioni perché si arriva sempre a un punto in cui una spiegazione puramente giuridica del dover essere del diritto diventa impossibile. Il ritenere che il giurista si debba occupare solo della norma e di come applicarla e non della giustizia di una determinata soluzione giuridica si regge perciò su una finzione – in altre parole, ha natura e sostanza ideologica[23].

Nel 1973, Barcellona constatava che questa concezione del diritto e dei suoi rapporti con le altre scienze sociali e con la politica dominava ancora l’organizzazione degli studi: da una parte, le materie “professionali” (civile, penale, procedure); dall’altra, alcune materie “generaliste”, che consentono di speculare su filosofia, società, economia (filosofia del diritto, sociologia, economia politica e aziendale). Liberatosi dei fatti sociali, dei valori e dei problemi della giustizia, il vero giurista poteva dedicarsi alle pure forme, delle quali l’insegnamento costituiva la trasmissione.

Già a metà degli anni settanta, Barcellona riteneva che solo operando a livello di formazione del giurista fosse possibile rompere il cerchio vizioso della riproduzione di questo modo di intendere il diritto.

Da allora, le cose sono cambiate poco per quel che riguarda il modo di organizzare i curricula universitari, ma nel frattempo si sono accentuate le tendenze  già intraviste dallo studioso, e cioè il fatto che lo sviluppo di un punto di vista critico sul diritto e sulla giustizia coincide con un processo di modernizzazione del diritto (di come esso è inteso e praticato) e di revisione della concezione tradizionale del diritto e della funzione dell’interprete (in particolare, della funzione giudiziale).

Il diritto – lo si è detto – da tempo non è più descritto come un sistema di norme ordinato secondo regole logiche che, a loro volta, ordinano la realtà, ma come un insieme di regole e strumenti giuridici condizionati dalla realtà circostante, dal contesto, dai modelli culturali dominanti.  

Nella prospettiva dell’uso alternativo del diritto, rispetto alla funzione dell’interprete vi era l’indicazione di un necessario indirizzo del procedimento applicativo secondo una scelta precisa, quella in favore delle classi subalterne, che si assumeva «già operata dalla Costituzione repubblicana». Il diritto doveva essere decostruito e ricreato come strumento di conflitto e di riequilibrio delle diseguaglianze strutturali di classe.

Oggi, acclarata la centralità del diritto vivente e ormai definitivamente acquisita la «necessaria giurisdizionalità del diritto», emerge, secondo gli studiosi del diritto vivente, «la regola delle peculiarità del caso»: i diritti che cadono nel bilanciamento operato dai giudici, «troveranno protezione solo se la loro tutela è conforme a giustizia»[24].

È per questa ragione che il movimento italiano degli anni settanta trova un più effettivo parallelo nel movimento statunitense dei “Critical Legal Studies”(CLS)che nell’attuale movimento clinico. Le cliniche sembrano adottare alcuni degli argomenti dell’uno e dell’altro movimento, come il rifiuto dell’idea della natura puramente tecnica della norma giuridica e la necessità di considerare la dimensione politica delle norme giuridiche e delle decisioni giudiziali. Nel movimento clinico, tuttavia, l’approccio decostruttivo è in larga parte assente[25] e rimane una fiducia di base nel “diritto vivente”, nella quale si mescolano posizioni che guardano alla ricerca della “giusta soluzione” del caso e posizioni più radicali, che vanno alla ricerca di ciò che è “socialmente giusto”, a partire da un punto di vista “socialmente istituito”, vale a dire dal punto di vista dei soggetti svantaggiati nella distribuzione dei beni primari della vita.

D’altra parte, l’attuale discorso del movimento clinico europeo non può essere completamente assimilato alla visione scettica dell’interpretazione giudiziaria espressa dalla tradizionale dottrina realista. Incorporando una prospettiva di “public interest law”, dell’uso del diritto a favore dei soggetti socialmente svantaggiati, e scegliendo un modello clinico orientato alla giustizia, i clinici europei hanno implicitamente sposato le posizioni neo-costituzionaliste.

“Neo-costituzionalismo” è il termine suggerito nella filosofia legale e politica per descrivere gli scritti di filosofi del diritto e della politica come Ronald Dworkin, Robert Alexy, Carlos Nino e, in Italia, Luigi Ferrajoli e Gustavo Zagrebelsky. Tutti, facendo salve le differenze che corrono fra le diverse posizioni, sostengono un’idea di diritto che connette diritti e valori morali, come conseguenza del riconoscimento giuridico nelle costituzioni post-belliche di diritti e principi fondamentali di natura assiologica, in quanto esprimono valori morali come l’uguaglianza, la libertà individuale, la dignità umana, la solidarietà[26].

Questo riconoscimento va di pari passo con un insieme di procedure, pratiche e dispositivi volti a promuovere l’attuazione di tali principi e a garantire la loro tutela giurisdizionale. Le cliniche legali partecipano a questo processo di attuazione dei diritti e dei principi fondamentali, promuovendo un metodo anti-formalista di interpretazione del diritto e, quindi, dell’applicazione giudiziaria della legge. Ma riorientano anche il percorso dell’educazione giuridica, spostando l’attenzione degli studenti verso la struttura del ragionamento giuridico e verso le funzioni di ponderazione e bilanciamento tra principi giuridici eventualmente concorrenti.

Il realismo del movimento clinico italiano è, per usare un’espressione paradossale come quella di “realismo magico”, un “realismo normativo”, vale a dire un realismo cui è non estraneo un orizzonte di senso valoriale. Per questo, il movimento clinico è immune dalle derive nichiliste che riducono il diritto al mero fatto dell’interpretazione e del gioco linguistico.

Anzitutto, vi è la consapevolezza che «qualsiasi decisione presa nel nome del diritto “privilegia” un valore e ne sacrifica (secondo varie proporzioni) altri e, così facendo, avvantaggia talune fasce sociali e svantaggia le altre». In secondo luogo, vi è l’intenzione di prendersi cura, primariamente, proprio di quei «valori che rimangono disattesi, interessi che non ricevono soddisfazione, aspirazioni che restano deluse»[27].

4. La centralità del problema della giustizia e dell’accesso alla giustizia nelle cliniche legali

La nascita del movimento clinico italiano coincide, come si è visto, con un rinato interesse per le questioni di metodo, per l’interpretazione, per le teorie sul diritto, per la “law in action”, ed è stato un modo per ripensare e ri-concettualizzare le norme legali, le istituzioni, i processi legislativi e applicativi e il ruolo dei diversi attori coinvolti in questi meccanismi. Il particolare metodo pedagogico che è al cuore delle cliniche legali offre un terreno particolarmente fertile per un rinnovamento della ricerca scientifica su tutti questi aspetti.

A questo proposito, si può vedere nella diffusione delle cliniche legali l’espressione di due fenomeni epocali: il ri-orientamento della cultura giuridica verso una visione della costituzione ex parte societatis, non più riducibile a mera espressione di un onnipotente potere costituente, e il riaffiorare dell’idea del diritto come sapere pratico, guidato da giudizi di equità. Il che permette di ricongiungere l’esperienza dei sistemi di civil law con quella dei sistemi di common law, colmando una contrapposizione che è in realtà da tempo superata, grazie alla crescente importanza del case law nei primi e dello statutory law nei secondi.

La prima tendenza può essere osservata molto chiaramente nel nuovo jus commune europeo creato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e dal dialogo con le altre corti. Le decisioni della Corte di giustizia sono articolate seguendo modi di ragionamento e di argomentazione tipici del common law (di conseguenza, lo stile di una lezione di diritto dell’Unione europea tende a essere molto simile allo stile di una lezione, ad esempio, sui torts).

Per altro verso, vi è un’ibridazione/integrazione di tecniche giuridiche: da un lato, un impiego crescente nei sistemi di civil law di norme a carattere procedurale, di meccanismi di negoziazione e consulenza, che richiedono approcci più flessibili e processi di pensiero più vicini a quelli utilizzati dai common lawyers; dall’altro, nei sistemi di common law, uno spazio sempre più ampio riservato a norme di carattere sostanziale, che richiedono un’accresciuta attenzione ai concetti astratti e all’interazione di regole e principi.

Infine, l’idea che la public interest strategic litigation sia in grado di produrre cambiamenti sociali è venuta affermandosi anche nei sistemi di civil law, insieme a rilevanti interventi normativi in campi quali la protezione antidiscriminatoria e i diritti dei consumatori, che forniscono nuovi strumenti di contenzioso, come le class actions ela legittimazione di soggetti collettivi.

Più nello specifico, la circolazione dei modelli riguarda non solo i sistemi giuridici e la cultura giuridica, ma la stessa formazione dei giuristi. A livello europeo, ciò avviene dentro la cornice del Processo di Bologna[28], che costituisce una messa in discussione del carattere chiuso del sistema universitario e della tradizionale gerarchizzazione dei curricula accademici, con la marginalizzazione dei saperi trasversali e metodologici. In verità, è in atto una circolazione su scala globale di nuovi modelli formativi che si realizza principalmente attraverso reti accademiche e di élite professionali fluide e informali, che operano nei diversi sistemi giuridici e sono connesse fra loro sulla base di una varietà di interessi comuni: ambiti di ricerca, scambi universitari, inclinazioni politiche, approcci metodologici o ideologici e così via[29].

5. Public interest litigation e ruolo delle cliniche legali

È a questo punto evidente come, nel movimento clinico, una certa concezione del diritto risulti strettamente legata a una certa concezione dell’educazione dei giuristi[30], ai quali sono richieste capacità e abilità nuove, che attengono alla conoscenza, ma soprattutto all’applicazione del diritto e sono più in assonanza con un diritto che si struttura intorno a principi generali e norme flessibili, che si situano in sistemi ordinamentali multilivello aperti alla circolazione e alla comparazione.

Proprio perché ciò avviene non in relazione a casi pensati, ma in relazione a casi reali, le cliniche legali possono essere un potente strumento per riconnettere sapere giuridico e società, esponendo coloro che insegnano e coloro che apprendono il diritto a rilevanti e concreti problemi di giustizia.

Questo significa che il movimento clinico si pone al suo interno, e pone al dibattito giuridico, un problema di “giustizia” e di “accesso alla giustizia”, non solo nel caso di liti strategiche, ma anche nel caso di liti individuali. E lo fa a partire dall’attenzione ai diritti fondamentali, che segnano il confine di ciò che non è nella disponibilità di variabili di maggioranza politiche, ma anche a partire dall’attenzione alla comunità e alla realtà circostante. Il che è una scelta di metodo, ma è altresì un posizionamento del giurista e del sapere giuridico rispetto alla società e alle dinamiche di potere e di diseguaglianza che la attraversano.

Per questa ragione, nell’impostazione di alcune correnti del movimento clinico il sapere giuridico è configurabile come un bene comune, un prodotto collettivo necessario alla soddisfazione di bisogni essenziali; pertanto, è vitale che la sua gestione non riproduca le logiche di mercato. Le cliniche legali sono il tramite che consente di condividere la conoscenza prodotta dentro l’università con la più ampia comunità che vive fuori dai suoi confini, il che ha importanti ricadute anche in termini di accesso alla giustizia, poiché è dai soggetti concreti con cui la clinica entra in relazione e dalla loro richieste di giustizia che l’applicazione del diritto prende vita[31].

L’oggetto delle cause e l’identità dei soggetti rappresentati danno immediatamente l’idea di quali siano gli ambiti in cui i diritti fondamentali della persona sono in questo momento maggiormente esposti al pericolo di violazioni o abusi da parte del potere pubblico o dei poteri privati: si tratta di migranti, richiedenti asilo, associazioni ambientaliste o di consumatori, lavoratori colpiti da licenziamenti collettivi o individuali, disabili, carcerati, vittime di tratta o sfruttamento lavorativo, senzatetto privi di residenza. Guardando ai criteri di selezione delle cause, in molti di questi casi il sistema di gratuito patrocinio non era accessibile ovvero offriva un’assistenza legale di bassa qualità. La negazione dei diritti si accompagnava anche a una negazione del diritto di tutelarli davanti a un giudice. In altri casi, le cause sono state scelte sulla base della loro rilevanza strategica e della possibilità che la decisione del giudice potesse innescare mutamenti giuridici e politico-sociali di portata più generale[32].

A scanso di equivoci, va chiarito che le cliniche legali non tendono a sostituirsi al meccanismo del gratuito patrocinio: non ve ne sono le condizioni materiali; prima ancora, l’ambizione del movimento clinico non è certo quella di subentrare a un servizio la cui prestazione spetta al potere pubblico. Peraltro, la predisposizione di un modello sussidiario di gratuito patrocinio potrebbe porsi in contrasto con le finalità didattiche delle cliniche, che devono necessariamente convivere con quelle di advocacy e che potrebbero essere compromesse da un carico eccessivo di casi da seguire.

Viceversa, proprio grazie a questa loro duplice funzione – di pedagogia giuridica e di advocacy – le cliniche offrono un punto di vista privilegiato per riflettere sui temi da cui siamo partiti analizzando il caso Brown:le opportunità e gli aspetti critici che presentano le strategie di public interest law e le forme vecchie e nuove di advocacy. Non si tratta di un apporto solo speculativo: l’esperienza delle cliniche legali, come vedremo, consente di sperimentare nella pratica, nell’esercizio in concreto del diritto, i dilemmi posti dall’uso strategico del diritto in funzione del cambiamento sociale, e di farlo a partire dalla natura riflessiva della metodologia didattica clinica.

La riflessività è un concetto fondamentale delle didattiche di tipo costruttivistico – delle quali fa parte la didattica clinica[33] – e si riferisce all’obiettivo di sviluppare in chi apprende la capacità di riconoscere il proprio rapporto epistemico con la realtà: il proprio modo di conoscere e interpretare la realtà, gli schemi di riferimento, le presupposizioni e le assunzioni tacite utilizzati nella selezione e nell’attribuzione di significato agli eventi. Si tratta, dunque, di una didattica che favorisce la ricerca e la costruzione attiva e autonoma del sapere e non la ricezione passiva di contenuti e tecniche, che innesca un processo di apprendimento basata sul riadattamento flessibile della conoscenza preesistente in funzione di situazioni nuove[34].

6. Ragionando sui problemi posti dal caso Brown a partire dall’esperienza delle cliniche legali. L’uso “ribelle” del diritto

È tempo di tornare al caso Brown. Nella sostanza, il problema centrale che esso pone è se il diritto possa davvero essere usato come leva di cambiamento sociale e quale rapporto l’uso politico della legge istituisca fra i giuristi che costruiscono il caso – o lo decidono – e i soggetti sociali dei cui diritti si controverte.

Il caso Brown è un esempio affascinante di interrelazione fra dinamiche giuridiche e dinamiche di cambiamento sociale: come si è visto, le strategie giudiziali, inizialmente adoperate per l’assenza o la debolezza di altre forme di mobilitazione sociale e politica, hanno poi prodotto effetti, in gran parte non intenzionali, anche su quest’ultimo piano. Il carattere ambivalente di Brown in quanto caso paradigmatico di strategic litigation finalizzata a un progetto di cambiamento sociale ha portato gli studiosi di “Law and Society”ad adottare un approccio critico a tali strategie, più articolato e più attento al contesto, un approccio che ne misura gli effetti alla luce di una serie di condizioni[35]. L’aspetto forse più interessante di tale approccio è che il diritto è visto come «forza costitutiva delle relazioni sociali»: in questa prospettiva, «il diritto contribuisce a dare forma all’identità e al comportamento delle persone, strutturando la loro comprensione della realtà, le loro aspettative, nonché le modalità dell’interazione con gli altri e rappresenta un’importante risorsa per impostare questa interazione, formulare rivendicazioni legittime e negoziare i conflitti»[36]. Questa idea del diritto, come si è detto, è intrinseca all’esperienza americana e alla visione del diritto e dei diritti che la contraddistingue, ed è una delle ragioni sufficienti a far sì che si continui a parlare di Brown e a tentare di riproporne la logica in altri contesti di diseguaglianza sociale.

C’è da chiedersi, allora, se proprio una scarsa consapevolezza del diritto quale «forza costitutiva delle relazioni sociali», strettamente dipendente dai rapporti di forza istituiti nel dominio sociale, non sia proprio un’altra delle ragioni che spiegano come mai, da noi, non ci sia stato un caso Brown. Una consapevolezza che non si apprende durate gli anni della propria formazione come giurista, perché – lo si è visto – non è questa la lezione che viene impartita nelle aule universitarie, e che si sviluppa a fatica anche nella pratica concreta del diritto, perché questa pratica manca spesso di “riflessività”.

C’è, però, da prendere in considerazione un altro aspetto, che emerge là dove tale consapevolezza sia (o sia stata) presente, e cioè nei casi di strategic litigation sviluppatisi nel tempo nell’esperienza italiana[37].

Alcuni di questi sono significativi per dimensione e qualità. Si è già detto del movimento dell’uso alternativo del diritto, tradottosi anche in una concreta prassi giudiziaria. Un altro importante esempio è il contenzioso in materia di Statuto dei lavoratori che si registrò negli anni immediatamente successivi alla sua entrata in vigore, in cui i sindacati, attraverso gli uffici legali e gli avvocati legati alle organizzazioni sindacali anche da vincoli di militanza politica, agirono da soggetti catalizzatori e da gate-keeper delle quantità e qualità delle cause individuali e collettive, utilizzando la domanda di giustizia a sostegno della mobilitazione politica e sindacale.

In anni più recenti – lo si è detto nelle pagine iniziali –, una strategia di contrasto in giudizio delle discriminazioni istituzionali a danno degli stranieri è stata portata avanti con successo, soprattutto nei tribunali del Norditalia, da parte di associazioni della società civile, ed esempi significativi di strategic litigation si registrano anchenell’ambito dell’attività delle cliniche legali.

La ricerca condotta da parte di un gruppo di noti sociologi e studiosi del diritto sull’“uso politico” dello Statuto dei lavoratori, a qualche anno di distanza dalla sua entrata in vigore, ebbe un grande impatto sulla letteratura sociologica e giuridica del tempo[38].Era la prima volta che ricercatori di diversa formazione analizzavano la domanda di giustizia e la risposta giudiziaria sulla base di grandi aggregati, evidenziando le relazioni esistenti tra il comportamento degli attori del processo giudiziario e la struttura sociale e politica in cui si trovavano ad agire. A questo proposito, i risultati della ricerca mostravano l’inadeguatezza di qualsiasi interpretazione deterministica della relazione tra il quadro politico e sociale e le tendenze quantitative e qualitative della domanda di giustizia e della risposta giudiziaria. Ad esempio, non c’era una correlazione univoca tra forza o debolezza del sindacato e ricorso alla lite strategica, così come essa non sussisteva fra ricorso alla legge e situazione economica complessiva.

Nel secondo caso, l’analisi che accompagna la pubblicazione di più di sessanta decisioni in tema di discriminazione dello straniero sottolinea come la tutela in giudizio contro le discriminazioni si affermi proprio «nel momento in cui il tema dell’uguaglianza tocca il punto più basso di popolarità e sparisce quasi completamente dal discorso politico»[39]. Il diritto discriminatorio – e il suo uso in giudizio – si conferma così come lo strumento capace di contrastare «la progressiva emarginazione dei gruppi sociali minoritari»[40].

In ognuno di questi casi, esplicitamente o implicitamente, il contenzioso strategico viene visto come un processo “actor-driven”, guidato cioè dalle decisioni strategiche dei soggetti che decidono di portare l’azione in giudizio, sia pure nella consapevolezza che la partita decisiva si gioca poi sul versante sociale, politico, culturale.

Ma di quali attori si parla?

Ricostruendo le vicende del movimento dell’uso alternativo del diritto, Nicola Lipari scrive che «sul presupposto che le classi subalterne, i soggetti deboli non avessero la forza sufficiente per incidere sul momento di posizione delle norme, i sostenitori dell’uso alternativo del diritto predicavano la necessità di spostare il tentativo di riequilibramento degli interessi in conflitto al momento applicativo. Alla “verità” del legislatore veniva contrapposta la diversa “verità” dell’interprete, e segnatamente del giudice, più sensibile alle speranze e alle attese dei soggetti esclusi». Questi ultimi restavano, però, silenti rispetto a tale pratica giuridica.

Non accadde diversamente al tempo dell’“uso politico” dello Statuto dei lavoratori. Mentre si sa molto del rapporto tra strategie legali e strategie sindacali, si sa poco di come i rappresentanti sindacali interagirono con i lavoratori rappresentati in giudizio, individualmente e come comunità, e fino a che punto fu dato peso alle scelte personali degli individui.

Né accade diversamente oggi, quando, nelle cause strategiche intraprese dalle associazioni e dalle stesse cliniche legali, i soggetti reali di queste vicende giudiziarie si manifestano spesso solo al momento di conferire una delega o di rafforzare, con la loro presenza in giudizio, la legittimazione ad agire dei soggetti collettivi, ma poi scompaiono dalla scena, se si esclude il momento (ovviamente tutt’altro che secondario) in cui vi tornano per beneficiare dei vantaggi derivanti dall’esito positivo dell’azione.

A differenza del contenzioso strategico in tema di Statuto dei lavoratori, ove almeno sussisteva un vincolo di rappresentanza, nell’assenza di legami stabili tra i legali delle associazioni e i clinici da una parte, e i gruppi o singoli individui i cui diritti sono tutelati in giudizio dall’altra, vi è il rischio concreto che l’azione in giudizio non si trasformi in azione collettiva e che le vittorie nei tribunali non si traducano in vittorie politiche.

In questo caso, ricorrere ai tribunali per superare situazioni di debolezza sociale e politica, invece di essere uno strumento ausiliario di mobilitazione sociale e azione collettiva, può diventare il loro sostituto.

Tutto ciò avviene a prezzo di qualcosa, qualcosa che Gerard López, uno dei più influenti clinici americani, ha così ben descritto ventisette anni fa in Rebellious lawyering, parlando dei civil rights lawyers che prestavano la loro opera a favore della comunità chicana di East Los Angeles, da cui López stesso proviene. Scrive l’Autore: «these activist lawyers tended to fit our needs and aspirations into preestablished frameworks that were neither animated by nor ultimately much responsive to the lives we were leading»[41].

Questo succedeva, anzitutto, perché gli stessi professionisti erano incapaci di scrollarsi di dosso i presupposti taciti della loro cultura giuridica. Per esempio, tendevano a pensare che la via dell’azione in giudizio fosse sempre il modo migliore di risolvere un problema e prestavano poca attenzione a vie alternative al processo; o non esploravano abbastanza la possibilità che le soluzioni migliori fossero di altro tipo, politiche o economiche; o non erano consapevoli del fatto che il ricorso al processo escludeva la partecipazione attiva dei singoli e delle comunità coinvolte. Oppure, all’opposto, pensavano che risolvere un problema politicamente significasse dedicarsi a estenuanti incontri e trattative con burocrati locali o politici, senza, però, includere negli incontri i loro rappresentati o altri componenti della comunità locale. Così, pur essendo realmente dediti alla difesa dei diritti dei loro clienti, essi finivano con l’avere molto in comune con la loro controparte, di cui condividevano esattamente la stessa idea di diritto e di pratica del diritto, e poco in comune con la comunità che rappresentavano, della quale ignoravano che cosa potesse veramente cambiare l’esistenza, contribuendo così a perpetuare, invece che a combattere, la loro condizione di vulnerabilità e subordinazione sociale.

E questo perché i giuristi sono i «mandarini del diritto»[42], parlano una lingua che pochi comprendono – e chi non comprende non può partecipare alla conversazione – e perché le università in cui si insegna il diritto non espongono chi le frequenta alla vita concreta delle persone che lottano contro la deprivazione e la marginalizzazione sociale.

Gerard López è partito da questa disillusione, dallo scoprire che i giuristi progressisti per primi non avevano idea di come rapportarsi con la comunità di cui ritenevano, in perfetta buona fede, di tutelare gli interessi, ed è arrivato alla conclusione che il «rebellious lawyering», l’uso “ribelle” del diritto, deve essere radicato nel mondo che si cerca di cambiare.

Nella pratica del diritto orientata alla giustizia si deve riflettere anche la pratica sociale dei soggetti deboli, subordinati, vulnerabili che si vogliono rappresentare.

Non sono solo gli avvocati e i giudici a praticare il diritto: in realtà, lo praticano molti tra coloro che fanno parte delle comunità svantaggiate che i giuristi rappresentano, nella misura in cui sono molti i soggetti sociali che tentano di indirizzare il diritto verso il cambiamento sociale. Il libro di López ci restituisce la storia di tanti fra loro (clienti, segretarie, assistenti sociali, rappresentanti di associazioni, preti, rabbini, attivisti politici), descritti nel minuto impegno di promuovere un modo progressista di praticare il diritto.

Per parte loro, i giuristi devono diventare capaci di valutare l’interazione fra l’approccio legale e l’approccio sociale e politico ai problemi e capire, come conclude López, «how to be part of coalitions, as well as how to build them».

7. Le cliniche legali come spazio riflessivo

Le cliniche legali non sono estranee al modo “ortodosso” di praticare il diritto descritto da Gerard López, ma sono anche il luogo in cui questa pratica è già diventata oggetto di riflessione e di critica. Questo stesso articolo è nato dalla mia personale esperienza all’interno della clinica legale bresciana, dallo scambio di idee e dalla ricerca condivisa con altri componenti della nostra e di altre cliniche legali.

Questo non significa che altri attori delle strategie di public interest litigation non riflettano criticamente su ciò che fanno e sull’impatto delle loro attività. La differenza tra le cliniche legali e gli altri attori, a questo riguardo, sta nel fatto che le cliniche tendono a farlo per loro natura, perché sono progettate per essere anche uno spazio riflessivo.

L’unicità delle cliniche legali a questo riguardo risale, ancora una volta, alla convivenza di scopi di advocacy e scopi educativi, e alla particolare metodologia didattica impiegata, che si basa sul riadattamento flessibile della conoscenza preesistente in funzione di situazioni nuove. È quello che Gregory Bateson chiama «deutero-apprendimento» o «apprendimento dell’apprendimento» e che permette al soggetto che apprende non solo di risolvere i singoli problemi, ma di diventare capace di risolvere problemi in generale[43].

 Un elemento necessario del deutero-apprendimento è proprio la riflessività: la sola esperienza non è elemento sufficiente, ma è necessaria anche una riflessione su di essa perché la conoscenza si trasformi in pensiero consapevole. Occorre attivare tale riflessione sia rispetto alla posizione del problema (problem setting) che alla sua risoluzione (problem solving)[44].

La pratica riflessiva riguarda non solo chi apprende, ma anche chi insegna: l’interrogarsi sul senso della sua azione formativa consente al docente clinico di dare corso ad azioni che modifichino il senso ordinario attribuito al contesto consolidato. È in questo senso che le cliniche sono un forum che facilita una migliore comprensione della natura della conoscenza giuridica e della pratica alternativa del diritto.

[1] M. Minow, In Brown’s Wake. Legacies of America’s Educational Landmark, Oxford University Press, Oxford-New York, 2010, p. 2.

[2] Così il giudice John Roberts nell’opinione con la quale, nel 2007, in Parents Involved in Community Schools v. Seattle School District, una maggioranza risicata delle Corte suprema ha dichiarato incostituzionale un piano di integrazione scolastica adottato volontariamente dal Distretto scolastico di Seattle.

[3] G. Rosenberg, The hollow hope: Can courts bring about social change?, University of Chicago Press, Chicago, 2008.

[4] M. Minow, In Brown’s Wake, op. cit., p. 5.

[5]  Si tratta del caso D.H. e altri c. Repubblica Ceca (ric. n. 57325/00), deciso dalla Corte nel senso della sussistenza di una discriminazione indiretta a danno dei bambini di famiglie rom segregati in scuole speciali per alunni con ritardi cognitivi. Vds., più in generale, B. Hepple, The European Legacy of Brown v. Board of Education, in University of Illinois  Law Review, 2006, pp. 605 ss. (cfr. www.equalrightstrust.org/sites/default/files/ertdocs//Hepple%20Paper%202006.pdf).

[6] V. Protopapa, Percorso di lettura su cause strategiche e cambiamento sociale, in Giorn. dir. lav. rel. ind., n. 3/2019, pp. 565-579.

[7] L’Autrice ricostruisce anche, in termini più ampi, il dibattito sul rapporto fra strategie di public interest e mobilitazione sociale. Con l’espressione “public interest”gli studiosi di “Law and Society” intendono riferirsia«una varietà di pratiche attraverso le quali gli attori, individuali o collettivi, usano il diritto come strumento per promuovere le loro richieste nei confronti di altri individui o della società».

[8] L’esempio più significativo è costituito dalle decine di cause intraprese da Asgi, Avvocati per niente (Apn), Naga, con il sostegno di Cgil e Fondazione “Guido Piccini”, raccolte nel volume: A. Guariso (a cura di), Senza distinzioni. Quattro anni di contrasto alle discriminazioni istituzionali nel Nord Italia, in Quaderni di Apn, n. 2/2012 (www.asgi.it/wp-content/uploads/2017/08/Senza-distinzioni.pdf). In un ambito diverso, un altro importante esempio sono le cause promosse da Rete Lenford contro le discriminazioni contro le persone LGBTI (www.retelenford.it/attivita/tutela-giudiziaria/).

[9] Nell’analisi delle caratteristiche delle cliniche legali e del movimento clinico, verranno riprese alcune considerazioni già svolte in M. Barbera, Il movimento delle cliniche legali e le sue ragioni, in A. Maestroni – P. Brambilla – M. Carrer (a cura di), Teorie e pratiche nelle cliniche legali. Cliniche legali – Vol. II, Giappichelli, Torino, 2018, pp. XIX ss.; M. Barbera, The emergence of Italian Clinical Legal Education movement, inA. Alemanno e L.B.R. Khadar, Reinventing Legal Education in Europe: How Clinical Education is Reforming the Teaching and Practice of Law, Cambridge University Press, Cambridge, 2018.

[10] Per la ricostruzione di questo processo, vds. C. Bartoli (a cura di), Legal Clinics in Europe: for a commitment of higher education in social justice, in Diritto e questioni pubbliche, numero speciale, maggio  2016, www.dirittoequestionipubbliche.org/page/2016_nSE_Legal-clinics-in-Europe/DQ_2016_Legal-Clinics-in-Europe_specialissue.pdf; C. Amato, Experiential Learning: If the cap fits... , in  R. Grimes (a cura di),Re-thinking Legal Education under the Civil and Common Law. A road map for constructive change, Routledge, Londra, 2017.

[11] F. Carnelutti, Clinica del diritto, in Riv. dir. proc. civ., n. 2/1935 (parte I), pp. 169 ss.; J. Frank, Why Not a Clinical Lawyer-School?, in University of Pennsylvania Law Review, 1933, pp. 907 ss.

[12] M. Carrer, Rileggendo Carnelutti su La clinica del diritto. Problemi e questioni sui fondamenti della clinica legale, in A. Maestroni – P. Brambilla – M. Carrer (a cura di), Teorie e pratiche, op. cit.

[13] Cfr. J. Perelman, Penser la pratique, théoriser le droit en action: des cliniques juridiques et des nouvelles frontières épistémologiques du droit, in Revue interdisciplinaire d’études juridiques, n. 2/2014, pp. 133 ss.

[14] Ciascuna di queste esperienze ha un’origine e uno sviluppo differenti. Ad esempio, nel Regno Unito – dove esistono da decenni – le cliniche, benché influenzate dal modello americano, si sono poi sviluppate seguendo un modello diverso, più centrato su obiettivi di formazione professionale. Quanto alle cliniche dei Paesi di civil law, mentre quelle sorte in Europa occidentale hanno avuto una genesi di carattere endogeno, essendo nate su una spinta proveniente dall’interno delle università, quelle sorte in Europa centrale e orientale hanno avuto una genesi di carattere esogeno. In questo secondo caso, la spinta è arrivata da finanziatori privati, come l’Open Society Justice Initiative o la Ford Foundation, che volevano rafforzare il processo di democratizzazione e la ricostruzione di una società civile attiva nella fase post-comunista, esportando l’esperienza della public interest litigation proveniente dalle cliniche legali statunitensi. Per un’analisi dei diversi processi di sviluppo delle cliniche legali nei vari Paesi europei vds. A. Alemanno e L.B.R. Khadar (a cura di), Reinventing, op. cit.

[15] Fra quanti per primi, in Italia, hanno indagato sui metodi pedagogici di tipo esperienziale, si segnala soprattutto Giovanni Pascuzzi: Giuristi si diventa. Come riconoscere e apprendere le abilità proprie delle professioni legali, Il Mulino, Bologna, 2013 (seconda edizione); La creatività del giurista. Tecniche e strategie dell’innovazione giuridica, Zanichelli, Bologna, 2013.

[16] M. Weber, La scienza come professione, edizione a cura di L. Pellicani, Armando Editore, 1997, pp. 61 ss.

[17] N. Lipari, L’uso alternativo del diritto, oggi, in Giust. civ., n. 1/2018, pp. 75-97 (www.biblio.liuc.it/scripts/essper/ricerca.asp?tipo=scheda&codice=11381774).

[18] Ivi.

[19] Cfr. G. Tarello, Orientamenti della magistratura e della dottrina sulla funzione politica del giurista-interprete, in Politica del diritto, nn. 3-4/1972, p. 459, ora in Diritto, enunciati, usi. Studi di teoria e metateoria del diritto, Il Mulino, Bologna, 1974.

[20] Cfr. A. Cantaro, L’idea di diritto nei “giuristi d’area”, in L. Nivarra (a cura di), Gli anni settanta del diritto privato, Giuffrè, Milano, 2008, pp. 59 ss., che include in questo rinnovamento complessivo il rilancio del normativismo kelseniano (R. Treves, N. Bobbio), la scoperta del realismo giuridico americano (G. Tarello), l’introduzione dell’analisi economica del diritto (P. Trimarchi), l’ingresso nella teoria generale del diritto dell’analisi del linguaggio (U. Scarpelli) e del neopositivismo logico (ancora, Bobbio e Tarello).

[21] P. Barcellona, L’educazione del giurista. Capitalismo dei monopoli e cultura giuridica, in Id. - D. Hart - U. Mückenberger, L’educazione del giurista, De Donato, Bari, 1973, pp. 9 ss., in particolare pp. 45 ss.

[22] Ivi, p. 47.

[23] Ivi, p. 48.

[24] Tutte le citazioni sono tratte da N. Lipari, L’uso alternativo, op. cit.

[25] Cfr. L. Cruciani, “E giustizia per tutti”. Accesso alla giustizia e “cliniche legali” come beni comuni, in Riv. crit. dir. priv., 2012, p. 307.

[26] Cfr. T. Mazzarese, Towards a Positivist Reading of Neo-constitutionalism, in Associations, n.  6/2002, pp. 233-260, disponibile online in Jura gentium, 2008 (www.juragentium.org/topics/rights/en/mazzares.htm); M. Barberis, Diritto e morale: la discussione odierna, in Revus, n. 16/2011, pp. 55-93, disponibile online (https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2427419).

[27] Vds. M. Barcellona, Il diritto e il conflitto, in F. Ciaramelli e F.G. Menga (a cura di), L’epoca dei populismi. Diritti e conflitti, Mimesis, Milano, 2015, pp. 19-46, disponibile online (www.academia.edu/19999238/Diritto_e_Conflitto).

[28] Il «Processo di Bologna» è un processo di convergenza dei vari sistemi di istruzione superiore europei, che ha l’obiettivo di creare un’«Area Europea dell’Istruzione Superiore».Iniziato nel 1999, quando i ministri dell’istruzione superiore di 29 Paesi europei si sono incontrati a Bologna per sottoscrivere un accordo noto come la «Dichiarazione di Bologna», prosegue tuttora guidato da incontri a cadenza biennale degli stessi ministri dei Paesi aderenti.

[29] G. Capuzzo, “In mani esperte”: il ruolo della legal expertise nei sistemi transnazionali, in Riv. crit. dir. priv., n. 4/2014, pp. 497 ss.

[30] Cfr. M. Barbera, Insegnare il diritto del lavoro. Cosa si insegna e come si insegna, come si impara e cosa si impara, in Lavoro e diritto, n. 4/2016, pp. 1041 ss., da cui sono tratte le osservazioni che seguono.

[31] M.R. Marella ed E. Rigo Le cliniche legali, i beni comuni e la globalizzazione dei modelli di accesso alla giustizia e di lawyering, in Riv. crit. dir. priv., n. 4/2015, pp. 537 ss.

[32] Alcuni casi di liti strategiche intrapresi dall’Università di Brescia nel settore della migrazione e dei richiedenti asilo sono analizzati da L. Masera, La tutela dei diritti dei migranti nell’attività delle cliniche legali dell’Università statale di Brescia: un caso di contenzioso strategico, in M. Colombo (a cura di), Immigrazione e contesti locali – Annuario CIRMiB 2015, Vita e Pensiero, Milano, pp. 155-166 (disponibile online: http://clinicalegale.unibs.it/wp-content/uploads/2017/07/Masera-La-tutela-dei-diritti-dei-migranti-nell%E2%80%99attivit%C3%A0-delle-cliniche-legali-dell%E2%80%99Universit%C3%A0-statale-di-Brescia.pdf).

[33] Mentre la cultura accademica esalta in genere le teorie cognitivistiche e il modello di valore della razionalità cognitivae considera la prestazione individuale – l’achievement – un elemento fondamentale del processo di apprendimento e un prodotto atteso dell’insegnamento, nella cultura dei docenti della scuola domina da tempo una visione costruttivista dell’apprendimento,  considerato come il risultato di un processo sociale, culturalmente connotato, in cui la dimensione di gruppo assume un ruolo prioritario.

[34] C. BlenginoS.L. Brooks - M. Deramat - S. Mondino, Reflective Practice: Connecting Assessment and Socio-Legal Research in Clinical Legal Education, in International Journal of Clinical Legal Education, n. 3/2019, pp. 54-92.

[35] Cfr. V. Protopapa, Percorso di lettura, op. cit.

[36] Ibid.

[37] L’analisi di questo aspetto è sviluppata più compiutamente in M. Barbera e V. Protopapa, Access to Justice and Legal Clinics: Developing a Reflective Lawyering Space. Some Insights from the Italian Experience, in Indiana Journal of Global Legal StudiesAccess to Justice and Liberal Democracies: Global, Regional and National Solutions to a Worldwide Problem, working paper Csdle “Massimo D’Antona”,  n. 141/2017 (www.academia.edu/37448721/Access_to_Justice_and_Legal_Clinics_Developing_a_Reflective_Lawyering_Space._Some_Insights_from_the_Italian_Experience).

[38] Cfr. T. Treu (a cura di), Sindacato e magistratura nei conflitti di lavoro, voll. I e II, Il Mulino, Bologna, 1975 e 1976; Id., Una ricerca empirica sullo Statuto del lavoratori negli anni ’80, in Giorn. dir. lav. rel. ind., n. 23/1984, pp. 497 ss.; M. Barbera, Vecchi e nuovi attori sulla scena dello Statuto, in Riv. giur. lav.,n. 1/1995, pp. 135 ss.

[39] Cfr. A. Guariso, Introduzione, in Id. (a cura di), Senza distinzioni, op. cit., p. 9.

[40] Ivi, p. 13.

[41] G. López, Rebellious Lawyering. One Chicano’s Vision of Progressive Law Practice, Westview Press, Boulder-San Francisco-Oxford, 1992.

[42] D. Bonilla, Los mandarines del derecho: trasplantes jurídicos, análisis cultural del derecho y trabajo pro bono, Siglo del Hombre Editores, Bogotà, 2017.

[43] G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1998, p. 204.

[44] D.A. Schön, Formare il professionista riflessivo, Franco Angeli, Milano, 2007, p. 64.