Magistratura democratica

Lo sviluppo delle cliniche legali nelle università italiane: un processo bottom-up che parte dalla reazione verso il formalismo formativo e arriva a ridefinire l’identità del giurista contemporaneo

di Laura Scomparin
A dieci anni dal loro primo ingresso nelle università italiane, le cliniche legali rappresentano oggi una metodologia didattica in crescente espansione nei corsi di laurea in giurisprudenza. Lo scritto ripercorre le tappe di questo cammino evolutivo e le principali caratteristiche delle cliniche legali italiane alla luce dei paradigmi definitori di matrice internazionale.

1. L’evoluzione della formazione del giurista in Italia e l’irruzione dell’educazione clinico-legale all’interno delle università

 L’affermarsi dell’educazione clinica come strumento funzionale al raggiungimento degli obiettivi formativi del giurista è un percorso che ha preso avvio all’interno delle facoltà di giurisprudenza italiane oltre dieci anni fa, con l’iniziativa spontanea di un gruppo di professori e di ricercatori dell’Università di Brescia animati dal desiderio di sperimentare un nuovo modello di apprendimento, già da tempo diffuso nelle migliori law school statunitensi e in rapida esportazione anche in ambito europeo.

Attraverso un processo indubbiamente bottom-up, e con non poche diffidenze – se non vere e proprie resistenze – da parte delle istituzioni universitarie (e non solo), le cliniche legali sono poi arrivate progressivamente ad affermarsi nel panorama universitario italiano, fino a rappresentare una delle più significative trasformazioni dei tradizionali percorsi di studio giuridici e delle metodologie didattiche utilizzate nelle accademie.

Per tutti gli anni cinquanta e sessanta, i principi del purismo kelseniano avevano infatti monopolizzato pressoché indistintamente la formazione universitaria, indirizzandola verso la conoscenza e l’interpretazione della norma più che delle sue applicazioni concrete: come la scienza giuridica, anche la didattica universitaria era sostanzialmente positivistica, dogmatica, e i settori disciplinari (così come gli insegnamenti curricolari) erano caratterizzati da una rigida gerarchia interna e da una scarsa tensione verso possibili compenetrazioni. Nelle facoltà di giurisprudenza l’insegnamento era basato quasi esclusivamente sulla didattica frontale e sulla trasmissione del sapere attraverso il linguaggio verbale, con un professore depositario delle/a conoscenze/a e uno studente il cui principale obiettivo era raggiungere il termine del proprio cursus studiorum con una approfondita conoscenza del diritto (o, meglio, dei diritti riconducibili ai diversi settori giuridici)[1]. Si tratta di un sistema che già iniziò a vacillare di fronte alle profonde trasformazioni socio-politiche nazionali e internazionali di fine anni sessanta. Da quel momento, e nel corso di tutti gli anni settanta, la critica al formalismo giuridico e alle pretese di un diritto de-ideologizzato, all’idea di una separatezza del diritto dalle altre scienze e all’atomicità dei settori disciplinari, nonché alla pretesa neutralità dell’attività interpretativa di giudici e giuristi, travolge la didattica delle facoltà di giurisprudenza. È una fase di avvio per il superamento delle logiche formalistiche e per la fertilizzazione reciproca tra diritto e altre scienze (in particolare, tra diritto e scienze sociali e politiche); la contestazione dell’insegnamento ex cathedra determina, poi, un’ampia diffusione delle cd. “attività seminariali” e delle attività autogestite dagli studenti[2]. Nell’università la conoscenza del diritto inizia a cedere terreno alle abilità, anche se questo spazio è conquistato soprattutto dalle abilità cognitive e, dunque – secondo la descrizione derivante dal «Quadro europeo delle qualifiche» collegate all’apprendimento[3] –, da quelle legate all’uso del pensiero logico, intuitivo e creativo.

Gli anni ottanta e lo sviluppo di ampie dinamiche transnazionali, sia in ambito sociale sia nel contesto giuridico (in particolare, con il processo di integrazione europea), determinano ulteriori cambiamenti che incidono sulla stessa identità del giurista italiano e sulle sue necessità dal punto di vista formativo. Sono gli anni, non a caso, della nascita dei programmi di mobilità studentesca all’interno dell’Unione europea: costruzione e raggiungimento degli obiettivi dell’apprendimento si aprono a contaminazioni ultranazionali che condizionano pressantemente i contenuti delle conoscenze da ritenere indispensabili per il giurista in formazione. Si impone sempre più, in questo quadro, la comparazione giuridica come scienza e come metodo, e la didattica si apre a dinamiche che pongono per la prima volta l’accento in modo forte su un apprendimento originato dall’esperienza: il learning by doing.

Tra gli anni novanta e il 2000, la trasformazione dei pesi delle tre componenti pedagogiche (conoscenze, abilità e competenze) fino ad allora sviluppatasi come processo bottom-up, particolarmente lento e faticoso nelle facoltà di giurisprudenza, arriva comunque a trovare riconoscimento nella Dichiarazione di Bologna, nei cd. «Descrittori di Dublino» e nella consacrazione di abilità e competenze quali espliciti learning outcomes, determinando conseguentemente in Italia l’avvio di faticosi tentativi di riforma (1990-1994, 1999, 2004) che tendono a ridisegnare, tra gli altri, anche il percorso formativo del giurista. L’apertura all’acquisizione di abilità e competenze resta, tuttavia, molto limitata per quanto riguarda il mondo giuridico, come dimostrano emblematicamente la mancata codificazione degli obiettivi formativi della classe di laurea in giurisprudenza nei termini fatti propri dai Descrittori di Dublino, oltre che l’accento su una formazione universitaria incentrata principalmente sulla sola “conoscenza” che caratterizzò la cd. riforma del “3+2”[4].

In un quadro nazionale caratterizzato da una soft law assai timida sotto il profilo riformistico, l’idiosincrasia di quei docenti che proprio negli anni settanta e ottanta si erano formati nelle facoltà di giurisprudenza verso il modo in cui il diritto continuava a essere insegnato nelle proprie istituzioni di appartenenza giunge allora, nel nuovo millennio, a determinare un’importante svolta, anche in questo caso secondo un approccio tipicamente bottom-up: il modello delle law clinics statunitensi diviene uno strumento attraverso il quale sembra possibile incanalare aspirazioni di cambiamento ben più ampie rispetto alle blande aperture delle riforme normative. Si sviluppano, così, nel nostro Paese le prime esperienze cliniche, a partire – come già si accennava – dall’Università di Brescia, nel cui ambito nascita e sviluppo di quel peculiare metodo didattico sono efficacemente riassunti, da chi ne fu il principale artefice, proprio in termini di reazione verso il formalismo giuridico della formazione universitaria tradizionale e verso le premesse culturali e politiche su cui la stessa si era fondata per molti anni[5].

Quei primi coraggiosi passi segnarono l’avvio di un processo emulativo destinato a non subire arresti: altre facoltà di giurisprudenza iniziarono a convogliare le tensioni di riforma della formazione universitaria del giurista nello strumento dell’educazione clinica. A Roma e Torino si aggiunsero, progressivamente, molti altri atenei dislocati su tutto il territorio nazionale e oggi, in un variegato panorama soggetto a molteplici cambiamenti anno dopo anno, è addirittura difficile individuare un numero preciso delle cliniche legali presenti, da Nord a Sud, su tutto il territorio nazionale. Un processo analogo – va sottolineato – ha caratterizzato, soprattutto negli ultimi anni, la didattica universitaria di moltissime law schools europee[6].

2. Cliniche legali e resistenze definitorie

Se è vero che, tanto in Italia quanto più in generale in Europa, i concetti di “conoscenza”, “abilità” e “competenza” sono progressivamente divenuti i caposaldi di ogni ragionamento in tema di formazione superiore, è altresì indubitabile che uno strumento didattico come le cliniche legali – che mira ad attivare abilità, sviluppare competenze e, per effetto di ciò, costruire conoscenze in un percorso in cui i diversi obiettivi pedagogici si realizzano all’interno di una perfetta circolarità – sia in grado di svolgere un ruolo fondamentale all’interno delle università.

Nel riferirsi all’educazione clinico-legale, è tuttavia importante non trascurare la circostanza che il concetto stesso di “clinica” in ambito giuridico non è di agevole identificazione e da tempo resiste, in particolare in Italia, a ogni tentativo definitorio. Questa resistenza, generalmente giustificata col timore di una riduttività rispetto a esperienze che presentano caratteri multiformi, è indubbiamente legata anche a quelli che abbiamo visto essere i tratti che hanno accompagnato la nascita dell’esperienza clinica e, dunque, al valore della sperimentazione didattica e al ripudio di ogni dogmatismo, fosse anche quello sotteso a qualsivoglia aspirazione definitoria.

Due sono, peraltro, i punti fermi che meritano di essere posti in luce.

Da un lato, è indiscusso che – se non la vera origine[7], quantomeno – l’affermazione compiuta dell’insegnamento clinico all’interno del sistema universitario trovi le proprie radici nel Nord-America degli anni sessanta e settanta, anche in questo caso come approccio rivoluzionario all’impostazione tradizionale e dogmatica dell’insegnamento del diritto all’interno dell’accademia[8].

Dall’altro lato, è indubbio che esista una tensione generale e progressiva verso un obiettivo definitorio[9] capace di individuare una cornice di metodologie condivise e un quadro comune di obiettivi e finalità: in altre parole, una serie di denominatori comuni dell’esperienza clinica, tanto a livello internazionale quanto italiano.

Pur non negando le complessità di tale percorso, il tentativo di fornire almeno un quadro di riferimento concettuale rinviene, in ambito europeo, un importante ausilio, in quanto lo «European Network of Clinical Legal Education» – la più importante rete di clinician a livello europeo, che riunisce centinaia di membri provenienti da oltre trenta Paesi – si riferisce all’educazione clinica come a un «legal teaching method based on experiential learning, which fosters the growth of knowledge, personal skills and values as well as promoting social justice at the same time»[10]. Da un punto di vista metodologico, dunque, le cliniche legali rappresentano uno strumento di insegnamento del diritto basato sull’apprendimento esperienziale, che ha lo scopo di favorire la crescita di conoscenza, abilità e valori nello studente, tendendo altresì a promuovere obiettivi di giustizia sociale.

Nelle multiformi concretizzazioni che le cliniche legali hanno avuto nelle università italiane è possibile scorgere, anche se non sempre in perfetta corrispondenza con lo schema definitorio assunto a riferimento, i tre tratti fondamentali della clinical legal education qui sopra menzionati.

3. I paradigmi dell’educazione clinico-legale nell’attuazione nazionale

La prima caratteristica di una clinica legale è il contesto esperienziale nel quale l’obiettivo dell’apprendimento si colloca.

Con l’insegnamento clinico, lo studente è collocato in un contesto esperienziale reale: dinanzi a un migrante che deve affrontare l’audizione presso la commissione territoriale per l’accoglimento della sua domanda di asilo o che si rivolge a uno sportello di counseling per conoscere i rimedi che può esperire nei confronti di un diniego della protezione internazionale e ottenere supporto nella loro messa in atto; al cospetto di un detenuto che, all’interno del carcere, necessita di un supporto per la redazione dell’istanza che gli può consentire l’accesso a un beneficio penitenziario o che chiede risposte rispetto alle proprie quotidiane difficoltà (ad esempio, in materia di assistenza sanitaria o di diritto al colloquio con familiari e altre persone); in una comunità che accoglie persone con disabilità, che incontrano nella loro quotidianità ostacoli nell’accesso a servizi o – nei casi di disabilità cognitive, magari progressive – all’esercizio della propria capacità negli spazi in cui è ancora possibile una sua estrinsecazione; di fronte a genitori di minorenni con cui essi auspicano un ricongiungimento familiare, o che incontrano dubbi o difficoltà nell’accesso ai servizi e ai diritti economici e sociali (assistenza sanitaria, alloggio, educazione).

Non necessariamente il contesto esperienziale reale ha a che fare con un “cliente” in modo diretto. Questo accade nelle cliniche, peraltro in progressiva espansione, che attivano sportelli di ascolto o di in-house counseling (emblematica, a questo proposito, l’esperienza di Roma Tre)[11], ma anche in quei casi in cui sono gli studenti a fornire il proprio contributo a sportelli legali attivati all’esterno degli spazi universitari da ordini professionali, istituti penitenziari, organizzazioni non governative.

Altre volte l’attività clinica può dispiegarsi molto più chiaramente come attività che assume chiari caratteri di advocacy, con concretizzazioni talmente variegate che è possibile qui dar conto solo di parte delle molteplici iniziative che vengono realizzate nei diversi atenei.

A volte, professori e studenti sono impegnati in attività di ricerca-azione, che sfociano, tra le altre cose, nella presentazione di report aventi lo scopo prioritario di sensibilizzare l’opinione pubblica e di influenzare le decisioni politiche e istituzionali (è il caso del primo report dell’International University College di Torino in merito alla situazione del Centro di identificazione ed espulsione della città[12], poi seguito dall’Osservatorio sulla giurisprudenza dei giudici di pace, volto a monitorare il controllo giurisdizionale in materia di immigrazione[13]). Altre volte, la clinica prende parte a processi legislativi, spesso a livello regionale, attraverso audizioni formali o presentazione di osservazioni scritte alle commissioni legislative competenti (particolarmente attiva in materia ambientale, ad esempio, è l’Università di Bergamo, che ha su questi temi una risalente e collaudata esperienza con il WWF Lombardia[14]). In molti contesti gli studenti partecipano, poi, ad attività di elaborazione e diffusione di leaflets o vademecum giuridici a contenuto informativo, destinati a categorie di individui in condizione di particolare vulnerabilità o agli operatori che con le stesse si interfacciano (tra i molti esempi, si possono menzionare la «Guida ai diritti» per i detenuti realizzata in quattro lingue e diffusa in tutte le carceri della Regione dalla Clinica «Carcere e diritti» dell’Università di Torino[15] e il Vademecum per le richieste di protezione internazionale realizzato dalla «Clinica legale per i diritti umani» dell’Università di Palermo e destinato agli operatori che effettuano i colloqui con i richiedenti protezione internazionale[16]).

Particolarmente significativo è, inoltre, l’avvio di veri e propri “casi pilota” ad opera degli studenti clinici, supportati dal docente e, ove occorra, in stretto collegamento con un professionista del foro. Si tratta di azioni condotte nell’interesse di un singolo o di un gruppo di individui il cui eventuale esito positivo, al termine del procedimento, non genera ripercussioni solo nei confronti dei singoli soggetti coinvolti, ma assume anche portata generale (nell’esperienza bresciana, tra le altre, l’attività di contenzioso strategico assume specifica rilevanza, come dimostrano alcune significative esperienze in materia antidiscriminatoria e di immigrazione)[17]. Talvolta – perché l’intervento di terze parti nel processo è espressamente contemplato – la didattica clinica può essere svolta tramite la predisposizione di un intervento all’interno di un procedimento giurisdizionale già incardinato e avente per oggetto tematiche di public interest: è quanto accaduto nel più recente caso emblematico di questo genere, con l’intervento di terzo di fronte alla Corte europea dei diritti dell’uomo redatto da quattro studentesse dell’Università di Torino, che la Corte ha non solo utilizzato, ma anche espressamente richiamato in motivazione nel condannare il Governo italiano nel cd. “caso Ilva” (Cordella e altri c. Italia)[18].

Come si è visto, dunque, è indifferente l’ambito disciplinare nel quale la clinica legale si colloca (ed è, anzi, frequente rinvenire collaborazioni tra professori appartenenti a diversi settori scientifico-disciplinari). Ciò che la contraddistingue pare invece essere la circostanza che l’apprendimento esperienziale si cala comunque in un contesto reale e non, semplicemente, realistico. Simulazioni giuridiche – o più specificamente processuali – così come attività di consulenza giuridica svolte attraverso la redazione di atti o pareri in relazione a casi già chiusi, o seguiti in autonomia nell’ambito di un rapporto professionale da avvocati del foro, rappresentano infatti strumenti didattici di indubbia efficacia, e da tempo diffusi nell’ambito degli insegnamenti di molte università italiane, ma sono esperienze didattiche che – sia pure talvolta identificate come “cliniche legali” – difficilmente ne presentano tutte le caratteristiche[19].

 Riprendendo il tentativo definitorio compiuto a livello europeo dall’ENCLE («European Network for Clinical Legal Education»), il secondo parametro che serve a definire una clinica legale è l’obiettivo di promuovere la conoscenza, le abilità e i valori degli studenti. Solo in apparenza si tratta di una caratteristica pacificamente acquisita nelle esperienze che si definiscono “cliniche” in ambito nazionale.  In relazione ai primi due elementi della triade (conoscenza e abilità), è vero che non sussistono particolari profili problematici perché l’attività clinica è anzi una concretizzazione emblematica del learning by doing. Nel caratterizzarsi come un apprendimento che parte dall’esperienza, non è anzi neppure imprescindibile che gli studenti che vi si approcciano abbiano già conoscenze approfondite sulle materie con le quali si confronteranno. Se è vero, infatti, che l’offerta formativa delle cliniche ha spesso come destinatari studenti del terzo, quarto e quinto anno del corso di laurea in giurisprudenza, non è generalmente richiesto il superamento di specifici esami propedeutici di carattere tradizionale, e gli elementi conoscitivi del contesto in cui il discente viene chiamato a operare sono, per lo più, oggetto di apprendimento nell’ambito della stessa attività clinica. Il tutto, pertanto, secondo un’accezione piena del concetto di learning by doing, che rappresenta un superamento radicale e rivoluzionario dell’impostazione pedagogica dominante all’interno delle università.

Al di là della finalità di promozione delle conoscenze e delle abilità, è l’ulteriore obiettivo dell’insegnamento clinico, ossia la crescita dei valori dello studente che lo riceve, a porre qualche profilo interpretativo di una certa delicatezza, specie laddove si tenti di individuare univocamente i contenuti di questo aspetto “valoriale”. Nella progettazione di una clinica, così come nel suo concreto realizzarsi, le componenti deontologiche, ma anche più in generale etiche dell’attività del giurista devono tuttavia rappresentare un elemento irrinunciabile per non tradire l’essenza stessa della clinical legal education. La clinica non serve, infatti, soltanto a costruire abilità professionali, insegnando fin dalle aule dell’università – ad esempio – come ci si relaziona con un cliente, un collega o un altro professionista o come si redige un ricorso o un atto di appello, ma deve altresì mirare ad avvicinare lo studente a quei valori professionali che comprendono le responsabilità pubbliche degli avvocati nei confronti della società, dei giudici nell’interpretazione e nell’applicazione della legge, o dei giuristi in generale nella diffusione e promozione di una cultura non solo del diritto ma anche dei diritti[20]. Solo in questo modo, la portata trasformativa delle cliniche legali supera – in coerenza con le matrici storiche che ne hanno determinato la nascita – i confini del positivismo giuridico educativo e contribuisce a formare nello studente una coscienza critica in relazione al significato politico e all’impatto sociale del diritto.

Si tratta di un elemento che è da leggere in stretta correlazione con l’ulteriore obiettivo di promozione della giustizia sociale, che è stato individuato a livello europeo come terzo tassello che definisce i contenuti dell’educazione clinica.

Il ruolo trasformativo di questa esperienza educativa non è invero collegato esclusivamente al piano pedagogico, ma – anche nei tentativi definitori che se ne sono dati – è posto parimenti in stretta connessione con l’obiettivo di trasformazione della società, di riduzione delle disuguaglianze sociali, di rimozione degli ostacoli che impediscono o limitano l’accesso degli individui alla giustizia[21]. Si tratta di una caratteristica della clinical legal education particolarmente avvertita nel contesto italiano e considerata prioritaria ed irrinunciabile, soprattutto da quelle università che, per prime, hanno utilizzato tale metodologia didattica.

Le attività nelle quali i docenti si impegnano con i loro studenti risultano dunque latamente connotate in termini di public interest o indirizzate in favore di categorie vulnerabili, per le quali la conoscenza del diritto, il godimento dei propri diritti, l’accesso alla giustizia incontrano ostacoli di varia natura. Può trattarsi di limiti previsti o indirettamente determinati dalla stessa legge (risiedendo, ad esempio, nei confini stessi previsti per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato) o possono essere le specifiche circostanze concrete (come nel caso, per citare alcuni ambiti tradizionali dell’attività dei clinicians, dei detenuti o dei richiedenti protezione internazionale) a rendere necessario o quantomeno opportuno un intervento clinico. Talvolta – come in materia di ambiente o di tutela di altri interessi diffusi, ma anche, in generale, in relazione alla protezione dei diritti umani e, nello specifico, dei migranti –, cresce progressivamente la necessità di una specifica attività volta anche alla promozione dei diritti. Ecco perché le strategic litigation, sia pure a prescindere dall’effettivo successo in termini processuali, rappresentano una metodologia clinica particolarmente utile per il riconoscimento giudiziale di un diritto leso o, perlomeno, per una sensibilizzazione dell’opinione pubblica o dei law maker. Allo stesso modo, informazioni, supporto e sostegno giuridico extragiudiziale, nonché affiancamento a organizzazioni che, a vario titolo, si occupano di soggetti deboli (dalle vittime di tratta, ai minori stranieri non accompagnati e ai loro tutori; dalle vittime di usura, alle persone colpite da decadimento cognitivo e ai loro familiari) rappresentano forme di clinica in progressiva espansione.

Non è insomma, come si potrebbe credere, la sola rappresentanza in giudizio a costituire un’attività clinica idonea a rimuovere gli ostacoli nell’accesso alla giustizia e, quindi, a combattere le diseguaglianze sociali. Quest’ultima, anzi, essendo in Italia prerogativa esclusiva di chi esercita la professione forense (a differenza di quanto accade generalmente nei Paesi di common law), non è avvertita come il tassello primario dell’esperienza clinica sotto il profilo didattico, anche in virtù del fatto che lo studente – potendo soltanto presenziare alle attività che si svolgono in udienza – può portare il suo contributo alle strategie di assistenza difensiva solo in momenti diversi rispetto a quelli direttamente giudiziali. Ulteriori profili problematici, che non è dato qui approfondire, si incontrano poi in relazione al rapporto fiduciario che, nel nostro sistema, il professionista instaura direttamente col cliente, e rispetto al quale l’intervento di soggetti terzi deve essere sempre oggetto di delicate ponderazioni e di partecipazione decisionale da parte dell’interessato. L’esperienza di questi anni e le riflessioni svolte in relazione a tali limiti, comuni a molti Paesi europei e particolarmente avvertiti in Italia, portano comunque a ritenere che queste peculiarità nazionali, e in particolare l’impossibilità di un’assistenza legale da parte di soggetti diversi dai professionisti abilitati, non indeboliscano in realtà significativamente la portata formativa dell’esperienza vissuta dallo studente.

Va in ogni caso evidenziato come, in ambito internazionale[22], la stretta correlazione tra attività clinica e obiettivo di promozione della giustizia sociale, di riduzione delle diseguaglianze e degli ostacoli nell’accesso alla giustizia stia subendo negli ultimi anni, sia sul piano dogmatico che su quello empirico, una certa erosione. È addirittura individuabile un filone interpretativo che ricollega tale funzione esclusivamente a quelle cliniche che operano nei Paesi in via di sviluppo e che muovono i primi passi nell’ambito della clinical legal education. In Italia, tuttavia, l’idea che l’esistenza di una dimensione sociale delle cliniche possa essere così fortemente connessa alla situazione politica ed economica di un Paese o alla compiutezza o meno del sistema di assistenza legale non trova significativi riscontri, evidenziandosi semmai come l’“accesso alla giustizia” sia concetto così ampio da non poter essere ricondotto esclusivamente a quello di accesso alle aule di giustizia e come le cliniche possano, in ogni contesto, essere comunque utilizzate – come si accennava poc’anzi – come strumenti “di secondo livello” (laddove supportano, fornendo consulenza, l’attività di organizzazioni non governative o di associazioni con finalità di tutela di soggetti vulnerabili) o nella loro dimensione di street law (diffondendo nella comunità di appartenenza informazione giuridica volta a incrementare la consapevolezza dei diritti), nonché per promuovere azioni di prevenzione delle disuguaglianze che possono determinare, in concreto, un ostacolo nella tutela dei propri diritti.

A livello accademico, la progressiva espansione delle cliniche legali ha anzi trovato, nella dimensione della promozione sociale ad esse sottesa, un fattore eziologico che può aver giocato un ruolo di qualche peso nel successo dell’insegnamento clinico. Nel concreto dispiegarsi delle loro attività – così come fin qui sinteticamente ed esemplificativamente individuate –, il ruolo che viene svolto risulta infatti perfettamente rispondente alla cd. «responsabilità sociale dell’Università»[23], ossia al contributo che gli atenei sono chiamati a portare allo sviluppo della società e del territorio, monitorando l’efficacia della propria azione non solo sui tradizionali versanti della didattica erogata e della ricerca realizzata, ma anche sulle ricadute di interesse pubblico che essi sono in grado di produrre.

Non è un caso, dunque, che nelle recenti esperienze di bilancio sociale delle università, da un lato, e dei monitoraggi sulla cd. “terza missione”, dall’altro, sia possibile riscontrare espliciti riferimenti alle attività clinico-legali. In una via che pare ormai indubitabilmente tracciata, i passi successivi, non meno importanti, del movimento clinico nazionale[24] dovranno essere correlati alla costruzione di appositi sistemi di valutazione della qualità e allo sviluppo di specifiche politiche di finanziamento a livello locale e ministeriale.

[1] Per un’ampia ricostruzione critica delle trasformazioni didattiche delle facoltà di giurisprudenza dagli anni cinquanta ai primi anni novanta, cfr. F. Viola, Nuovi percorsi dell’identità del giurista, in B. Montanari (a cura di), Filosofia del diritto: identità scientifica e didattica, oggi, Giuffrè, Milano, 1994, pp. 121 ss.

[2] Si tratta di esperienze diffuse ancora oggi, anche se per lo più solo nel nome, come strumenti didattici alternativi o complementari ai corsi. Peraltro, nell’attuale sistema universitario, si tratta generalmente di contesti formativi ormai privati di quella dimensione “reattiva” che li aveva condotti, negli anni settanta, fino alla totale autogestione.

[3] Il documento è accessibile al seguente link: https://ec.europa.eu/ploteus/sites/eac-eqf/files/leaflet_it.pdf.

[4] In quell’ambito, l’obiettivo formativo viene descritto come il «possesso del sicuro dominio dei principali saperi afferenti all’area giuridica» e la «conoscenza approfondita dei settori fondamentali dell’ordinamento». Solo nel dm n. 270/2004 si giunge a menzionare espressamente la capacità di valutare gli istituti del diritto positivo, di produrre testi giuridici normativi, negoziali e processuali, nonché la capacità di analisi dei casi e di aggiornamento delle proprie competenze.

[5] M. Barbera, The Emergence of an Italian Clinical Legal Education Movement: The University of Brescia Law Clinic, in A. Alemanno e L. Khadar (a cura di), Reinventing Legal Education. How Clinical Education Is Reforming the Teaching and Practice of Law in Europe, Cambridge University Press, Cambridge, 2018, pp. 60 ss.: «One way to tell the story of the Brescia Law Clinic is to look at it as an example of that experiential and reflective practice which constitutes one of the distinctive features of the clinical methodology.In fact, the Clinic was initially born out of the deep feeling of discontent among a group of faculty members who decried the state of legal education in Italy and the lack of appreciation for the social dimension of the law within the academy». Si trattò di un’esperienza unica, indubbiamente, per chi la sperimentò in prima persona: «there were no clinics in any Italian university», così, la sensazione fu di essere «like explorers, like pathfinders going through new territories, new lands to be conquered».

[6] Per un recente quadro di insieme, cfr. A. Alemanno e L. Khadar (a cura di),Reinventing, op. ult. cit., pp. 57 ss.

[7] Per un’attenta ricostruzione delle radici ottocentesche dell’esperienza clinica in territorio europeo, vds. R.J. Wilson, The Global Evolution of Clinical Legal Education: More than a Method, Cambridge University Press, Cambridge, 2017, pp. 85 ss. Per alcune preconizzazioni dei primi del Novecento, cfr. J. Frank, Why Not a Clinical Lawyer-School?, in University of Pennsylvania Law Review, vol. 81, 1933, pp. 907 e 916 ss.; F. Carnelutti, Clinica del diritto, in Riv. dir. proc. civ., I, 1935, pp. 169 ss.

[8] Tra le ricostruzioni, anche per ampie citazioni, vds. P.H. Lee, The role and impact of clinical programs on entrepreneurship and economic growth, in M.M. Carpenter (a cura di), Entrepreneurship and Innovation in Evolving Economies: The Role of Law, Edward Elgar Publishing, Cheltenham (GB), 2012, pp. 178 ss.

Va ricordato come, sia in America sia in Europa, la progressiva diffusione delle law clinics abbia presto dovuto fare i conti con la tendenza a un’interpretazione delle stesse in chiave moderata, orientata più alla professionalizzazione del curriculum formativo degli studenti in giurisprudenza che all’estensione dell’accesso alla giustizia o, più in generale, a quegli elementi di trasformazione politica che avevano caratterizzato l’esperienza alle sue origini. Cfr. M.R. Marella ed E. Rigo, Cliniche legali, commons e giustizia sociale, in Parolechiave, Carocci, Roma, n. 53/2015, pp. 181 ss.

[9] R.J. Wilson, The Global Evolution, op. cit., pp. 1 ss.

[10] http://encle.org/about-encle/definition-of-a-legal-clinic.

[11] www.giur.uniroma3.it/?q=cliniche_legali.

[12] U. Stiege – M. Veglio – E. Roman – A. Ogada-Osir (a cura di), Betwix and between: Turin’s CIE. An investigation into Turin’s Immigration Detention Centre, International University College, Torino, 2012.

[13] www.lexilium.it/.

[14] Per una sintesi delle attività, vds. P. Brambilla, La clinica legale ambientale e le ONG.: formazione e partecipazione nell’università dell’antropocene, in A. Maestroni (a cura di), Teorie e pratiche nelle cliniche legali, volume II, Giappichelli, Torino, 2018, pp. 69 ss.

[15] www.cr.piemonte.it/dwd/organismi/garante_detenuti/2017/guida_ai_diritti.pdf.

[16] www.unipa.it/dipartimenti/di.gi./clinica-legale-per-i-diritti-umani/.

[17] L. Masera, La tutela dei diritti dei migranti nell’attività delle cliniche legali dell’Università statale di Brescia: un caso di contenzioso strategico, in M. Colombo (a cura di), Immigrazione e contesti locali, Annuario CIRMiB, Vita e Pensiero, Milano, 2015, pp. 155-166 (disponibile online: http://clinicalegale.unibs.it/wp-content/uploads/2017/07/Masera-La-tutela-dei-diritti-dei-migranti-nell%E2%80%99attivit%C3%A0-delle-cliniche-legali-dell%E2%80%99Universit%C3%A0-statale-di-Brescia.pdf).

[18] www.clinichelegali.unito.it/do/avvisi.pl/Show?_id=hpb6.

[19] Per questa ragione – e anche perché è indubbio che si rinvengano, sul piano dogmatico, aperture a pratiche simulative nel contesto clinico – è stata proposta una distinzione tra programmi clinici prevalentemente rivolti alla didattica e programmi clinici prevalentemente rivolti al servizio. Cfr. G. Smorto(a cura di), Clinica legale. Un manuale operativo, Edizioni Next, Palermo, 2015, pp. 20 ss. (disponibile online: http://clinicalegale.it/wp-content/uploads/2015/03/clinica-legale-un-manuale-operativo.pdf).

[20] Il duplice obiettivo formativo delle cliniche legali è efficacemente riassunto da F.S. Bloch e N.R. Madhava Menon, The global clinical movement, in F.S. Bloch (a cura di), The Global Clinical Movement: Educating Lawyers for Social Justice, Oxford University Press, Oxford, 2011, pp. 268-269: «Clinical legal education around the world focuses on two curricular goals aimed at preparing students for practicing law not otherwise emphasized sufficiently in the traditional law school curriculum: providing professional skills training and instilling professional values of public responsibility and social justice».

[21] Il focus sulla promozione della giustizia sociale attraverso lo strumento clinico – è stato efficacemente sottolineato – è importante in due differenti dimensioni: «not only because of its effect upon clients but also because of its effect upon students» (così M. Guggenheim, Fee Generating Clinics: Can We Bear the Costs?, in Clinical Law Review, n. 1/1995, p. 683). A livello nazionale, vds. C. Bartoli, Legal clinics in Europe: for a commitment of higher education in social justice, in Diritto e questioni pubbliche, numero speciale, maggio 2016 (www.dirittoequestionipubbliche.org/page/2016_nSE_Legal-clinics-in-Europe/DQ_2016_Legal-Clinics-in-Europe_specialissue.pdf).

[22] Per un recentissimo quadro d’insieme sull’evoluzione dei rapporti tra cliniche legali e obiettivi di promozione della giustizia sociale, vds. C. Ashford e P. McKeown (a cura di), Social Justice and Legal Education, Cambridge Scholars Publishing, Newcastle (GB), 2018.

[23] Sul tema, di recente, vds. A. Cassone e L. Sacconi (a cura di), Autonomia e responsabilità sociale dell’Università. Governance e accountablity, Giuffrè, Milano 2013.

[24] Recentissima è la costituzione – il 15 marzo 2019 – dell’Associazione «Coordinamento Nazionale delle Cliniche Legali Italiane», con sede legale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Brescia.