Magistratura democratica

Tre domande sui Paesi sicuri

di Marco Gattuso

Il contributo esamina tre problemi che si pongono avanti alla commissione territoriale e al giudice in ipotesi di manifesta infondatezza per chi viene da un Paese di origine sicuro. In particolare, ci si interroga se sia necessaria una procedura accelerata ai fini della dichiarazione di manifesta infondatezza; che valutazione debba farsi delle allegazioni del richiedente asilo ai fini della manifesta infondatezza; che valutazioni siano possibili quando oggetto del giudizio non sia il ribaltamento della presunzione, ma la sua contestazione.

1. Quale rapporto fra procedura accelerata e manifesta infondatezza / 2. La valutazione delle allegazioni del richiedente asilo proveniente da Pos / 3. La presunzione di sicurezza: dall’onere di ribaltamento alla sua contestazione

 

1. Quale rapporto fra procedura accelerata e manifesta infondatezza

Scopo di questo contributo non è un esame sistematico della nozione di Paese di origine sicuro (Pos)[1], ma la segnalazione di tre problemi, o quesiti, che si pongono alla commissione territoriale e al giudice in ipotesi di manifesta infondatezza per chi viene da un Paese di origine sicuro. In particolare, ci si interroga se sia necessaria una procedura accelerata ai fini della dichiarazione di manifesta infondatezza; che valutazione debba farsi delle allegazioni del richiedente asilo ai fini della manifesta infondatezza; che valutazioni siano possibili quando oggetto del giudizio non sia il ribaltamento della presunzione, ma la sua contestazione.

Il primo dei tre quesiti attiene, dunque, al nesso fra procedura accelerata e manifesta infondatezza dichiarata per i richiedenti asilo provenienti da un Paese di origine sicuro.

È pacifico che, in tali casi, la commissione territoriale possa emettere un provvedimento di rigetto, sia ad esito di procedura ordinaria che accelerata, con l’ovvia conseguenza della sospensione automatica in caso di ricorso giurisdizionale[2]; è parimenti pacifico che, in caso di manifesta infondatezza dichiarata ad esito di una corretta procedura accelerata[3], tale effetto di sospensione automatica non si produca[4].

Un serio problema si pone, invece, nei numerosissimi casi (oggi in esponenziale aumento, anche per effetto dell’ampliamento dell’elenco dei Pos) in cui la commissione territoriale decida con manifesta infondatezza senza avere seguito una corretta procedura accelerata. 

A tale riguardo, le sezioni che si occupano di protezione internazionale sono sostanzialmente divise fra diversi indirizzi, sicché al fine di dirimere il contrasto è pendente un rinvio pregiudiziale avanti alla Corte di cassazione proposto dal Tribunale di Bologna[5], attualmente rimesso alle sezioni unite[6]. I tre orientamenti interpretativi si sostanziano, grosso modo, in un primo indirizzo che afferma la necessità che la manifesta infondatezza sia sempre preceduta da una regolare procedura accelerata; una seconda opinione che assume che la manifesta infondatezza possa essere pronunciata dalla commissione territoriale anche ad esito di una procedura ordinaria; un terzo orientamento, mediano, che ritiene che la procedura accelerata sia imposta dalla legge italiana non per tutti i casi di manifesta infondatezza, ma soltanto per l’ipotesi in cui sia dichiarata per richiedenti provenienti da Paesi di origine sicuri.

La rigorosa analisi delle ragioni giuridiche dei diversi indirizzi trascende dai limiti di questo contributo, ma vale segnalare che, come rappresentato nella stessa ordinanza di rinvio, la Corte di cassazione dovrà affrontare preliminarmente un serio problema di ammissibilità, dovendo stabilire l’effettiva latitudine del nuovo istituto introdotto nel marzo u.s. decidendo, in buona sostanza, se il rinvio pregiudiziale di cui all’art. 363-bis cpc possa applicarsi anche ai procedimenti per cui non è previsto il ricorso in Cassazione.

Su tale, primo, quesito tocca dunque attendere la decisione della Corte di cassazione, pur nella consapevolezza che il rinvio pregiudiziale potrebbe arrestarsi con una pronuncia di inammissibilità, sicché l’onere di un’auspicabile ricomposizione dei diversi orientamenti tornerebbe alla giurisprudenza di merito. Poiché le diverse opzioni conducono a esiti opposti in ordine all’effetto automatico del ricorso all’autorità giudiziaria, non è chi non veda le enormi ricadute sostanziali di una questione che, formalmente, è di mero rito.

 

2. La valutazione delle allegazioni del richiedente asilo proveniente da Pos

Il secondo quesito riguarda la valutazione che la commissione territoriale, prima, e il giudice della sospensione, dopo, sono chiamati a compiere ai fini della manifesta infondatezza per chi proviene da Pos.

Come si legge nel recente rapporto dell’EUAA, «nel contesto dell’asilo, il termine “paese sicuro” si riferisce a paesi che generalmente non generano bisogni di protezione per le loro persone o paesi in cui i richiedenti asilo sono protetti e non sono in pericolo» (c.vo aggiunto)[7]

Come noto, la direttiva indica quattro nozioni di Paese sicuro e fra queste l’Italia ha recepito (nel 2018)[8], come altri 21 Paesi europei[9], la sola nozione di «Paese di origine sicuro». Tale nozione è definita dagli artt. 36 e 37 e dall’allegato 1 della direttiva e, in Italia, dall’art. 2-bis. Data per nota la definizione, peraltro identica nelle fonti europea e italiana, è pacifico che la designazione di un Paese quale Pos abbia come effetto l’introduzione di una presunzione iuris tantum di sicurezza del Paese designato. Come rammentato dalla Corte europea di giustizia, tali disposizioni istituiscono difatti «un regime particolare di esame basato su una forma di presunzione relativa di protezione sufficiente nel Paese di origine, la quale può essere confutata dal richiedente indicando motivi imperativi attinenti alla sua situazione particolare» (c.vo aggiunto)[10]

Tale presunzione può essere ricondotta, nella pratica, a tre ipotesi:

1) presunzione che lo Stato o altra autorità non perseguiti i propri cittadini (oppositori, minoranze etniche, donne, lgbti+ etc.);

2) presunzione che lo Stato o altra autorità assicuri protezione interna in caso di timore di danno grave;

3) presunzione di carenza di conflitti che generino violenza indiscriminata.

La designazione del Paese di provenienza come Paese di origine sicuro agevola dunque l’autorità amministrativa preposta perché l’esime dal provare di volta in volta che il Paese di origine offre al richiedente un’effettiva e sufficiente protezione dal rischio di persecuzione o di altri gravi danni, riversando sul richiedente l’onere di fornire elementi contrari connessi alla sua situazione particolare.

Al riguardo, tanto l’art. 36, par. 1 della direttiva[11] che l’art. 2-bis, quinto comma[12], segnalano come al richiedente asilo occorra «invocare» gravi motivi che consentano di assumere che nella «sua situazione particolare» il suo Paese non sia sicuro. Nella direttiva il riferimento è univoco nel segnalare un onere di mera allegazione e non di prova, come si desume anche dalla sua lettura in altre lingue[13]. Anche la Corte di giustizia, nella menzionata sentenza del luglio 2018, usa, in luogo di «invocare», l’analogo termine «indicare» (collegando alla mancata indicazione di motivi imperativi l’emanazione di un provvedimento di manifesta infondatezza, con conseguente deroga alla sospensione automatica)[14]. Parimenti, la Corte di cassazione ha segnalato come la designazione comporti un «onere di allegazione rafforzata», motivando la carenza di effetti per i ricorsi giurisdizionali proposti prima dell’entrata in vigore del Decreto interministeriale del 2019 con la rilevanza di effetti giuridici che «si collocano sul versante degli oneri allegativi di situazioni particolari contrastanti il criterio di valutazione sotteso all’inserimento»[15]. Pure, il Massimario della Corte di cassazione, nella relazione sulla introduzione della nozione di Paese di origine sicuro, rileva che «in mancanza di una simile allegazione, la domanda può essere rigettata de plano dalla Commissione territoriale per manifesta infondatezza, ai sensi degli art. 28-ter e 32-bis del d. lgs. n. 25 del 2008; in presenza di adeguata allegazione, essa deve essere invece esaminata nel merito»[16]

Non può condividersi, dunque, l’affermazione per cui la designazione di un Paese come Paese di origine sicuro non inciderebbe sui soli oneri di allegazione ma implicherebbe un’inversione dell’onere della prova[17].

Per conseguenza, non può darsi rilevanza dirimente al disposto di cui al nostro art. 9, comma 2-bis (per cui «la decisione con cui è rigettata la domanda presentata dal richiedente di cui all’articolo 2-bis, comma 5, è motivata dando atto esclusivamente che il richiedente non ha dimostrato la sussistenza di gravi motivi per ritenere non sicuro il Paese designato di origine sicuro in relazione alla situazione particolare del richiedente stesso» – c.vo aggiunto)[18], atteso che tale norma appare in aperto contrasto con la direttiva, sicché andrebbe disapplicata tanto dal giudice che dalla commissione territoriale, o quantomeno interpretata in sua conformità[19]. Come rilevato da attenta dottrina[20], va pure considerato che questa disposizione, che è stata introdotta nel 2018 e ha superato indenne anche gli interventi del 2020 e 2023, appare in manifesta violazione della direttiva non solo per il riferimento alla “prova”, ma anche sotto altro profilo, posto che esenta dall’obbligo di congrua motivazione che è invece univocamente imposto dall’art. 11, par. 2 della direttiva[21].

Dunque, mentre il richiedente asilo proveniente da Paese “non sicuro” può limitarsi ad allegare le ragioni di timore di persecuzione o danno grave, il richiedente asilo proveniente da un Pos è onerato (non della prova, ma) di una sorta di doppia allegazione, dovendo invocare anche le ragioni per cui il suo Paese, presunto sicuro, non sia sicuro per lui. 

Ovviamente, nella pratica, tale doppia allegazione si sostanzia in un unico racconto, dove la specificazione dei gravi motivi deve essere desunta da una complessiva analisi della narrazione, apparendo evidente come il richiedente asilo, in questa fase di fatto mai assistito da un difensore, non possa essere gravato di un onere di conoscenza della complessa legislazione del Paese ospitante in materia di protezione internazionale, della inclusione o meno del suo Paese nell’elenco dei Paesi sicuri e dei conseguenti oneri di allegazione. Il generale onere del giudicante (autorità amministrativa o giudice) di qualificazione giuridica della domanda e lo specifico onere di cooperazione istruttoria previsto nella materia della protezione internazionale impongono dunque di trarre dal racconto, anche sintetico, del richiedente asilo tutti gli elementi utili richiesti dalle disposizioni vigenti[22].

Fatta questa breve premessa, una discussione sul punto si rende necessaria in quanto le commissioni territoriali adottano parametri assai differenziati, finendo sovente col proporre, nelle motivazioni dei provvedimenti di manifesta infondatezza, dei veri e propri giudizi di credibilità dell’allegazione del richiedente asilo. Si legge, dunque, che nei confronti del richiedente asilo proveniente da Pos, che pure ha invocato le ragioni per cui il Paese non è sicuro per lui (ho avuto una relazione con un’alta autorità della mia città che per ciò mi perseguita; i familiari della mia ragazza contrastano la nostra relazione e mi perseguitano, sono molto potenti sicché è inutile che io mi rivolga alla polizia; mio zio è un poliziotto e mi minaccia perché vuole l’eredità di famiglia; sono perseguitato da bande criminali o per ragioni di culto e la polizia del mio Paese in tali casi è inefficiente), viene emesso un provvedimento di manifesta infondatezza in quanto il suo racconto è stato ritenuto generico, stereotipato, poco dettagliato.

Si tratta di una lettura che viene seguita non di rado dalle commissioni territoriali, anche in relazione alla lettera a dell’art. 28-ter (per cui - in conformità all’art. 31, par. 8, lett. a della direttiva - può dichiararsi la manifesta infondatezza se «il richiedente ha sollevato esclusivamente questioni che non hanno alcuna attinenza con i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale»), sicché, ritenuti non credibili i fatti attinenti alla protezione internazionale (non credo che tu sia perseguitato o sia esposto a rischio di danno grave, perché il tuo racconto è impreciso, generico, poco personale), si dà atto che residuerebbero, allora, solo allegazioni non attinenti alla protezione internazionale (hai pure dichiarato che sei andato via perché non avevi un lavoro), deliberando la manifesta infondatezza ai sensi della lettera a.

Tale lettura, tanto per chi proviene da Pos che per la lett. a, non può essere condivisa atteso che la lettera delle due disposizioni segnala in modo univoco un onere di mera allegazione[23]. Ai sensi della lett. a, la manifesta infondatezza è esclusa se il richiedente asilo ha «sollevato esclusivamente» questioni non attinenti alla protezione internazionale; in materia di Paesi di origine sicuri, la manifesta infondatezza è preclusa in conseguenza di una mera «invocazione» di gravi motivi che consentano di superare la presunzione di sicurezza. Si deve invero distinguere, in rito, l’onere di allegazione dal successivo onere di prova, e non v’è dubbio che in questi casi la legge si riferisca al primo, senza che assuma rilievo che nel regime processuale della protezione internazionale la prova possa spesso fondarsi, in modo anche esclusivo, sullo stesso giudizio di attendibilità delle allegazioni del richiedente asilo. Tale specifico regime probatorio non può condurre a una sovrapposizione e confusione dei due piani, dell’allegazione e della prova.

L’opzione interpretativa che esclude la dichiarazione di manifesta infondatezza per chi proviene da un Paese d’origine sicuro sulla base di una mera allegazione può, forse, essere integrata e temperata, tenendo conto che nulla impedisce che la manifesta infondatezza sia dichiarata dalla commissione territoriale ai sensi dell’art. 28-ter, primo comma, lett. c, che – com’è noto – concerne l’ipotesi in cui «il richiedente ha rilasciato dichiarazioni palesemente incoerenti e contraddittorie o palesemente false, che contraddicono informazioni verificate sul Paese di origine»[24]. È indispensabile, tuttavia, che il provvedimento della commissione territoriale segnali espressamente le palesi contraddizioni, incoerenze, falsità, essendo assai dubbio che il giudice in sede di sospensione possa sostituirsi all’autorità nella individuazione, dal racconto del ricorrente, di ragioni diverse da quelle che emergono dal provvedimento. Se il riferimento nel provvedimento della commissione è alle ipotesi di cui alla lett. c, si rientra, a differenza che nei casi di cui alla lett. a e dei soggetti provenienti da Pos, in un vero e proprio giudizio di credibilità, ma lo stesso è estremamente ristretto, anche perché, come sottolineato dalla Corte europea di giustizia nella più volte menzionata decisione del 2018[25], la fattispecie nella direttiva recast del 2013 è più circoscritta rispetto alla direttiva 2005/85/CE, che consentiva la manifesta infondatezza anche per «dichiarazioni insufficienti»[26]. In conclusione, la manifesta infondatezza può essere dichiarata solo se vi è esplicito richiamo a una «palese» contraddittorietà, incoerenza o falsità, ma non in caso di allegazioni meramente generiche, insufficienti o poco credibili. In questi casi, in buona sostanza, è possibile un rigetto, ma non una manifesta infondatezza.

Da ultimo, ancora in relazione alla valutazione che il giudice deve compiere in sede di sospensiva del provvedimento di manifesta infondatezza, va ovviamente rammentato l’indispensabile vaglio della sussistenza o meno dei presupposti della protezione complementare (vulnerabilità, radicamento, conflitto di bassa intensità… ), posto che, in sede di decisione sulla protezione internazionale, la commissione territoriale deve operare la necessaria valutazione anche ai sensi dell’art. 32, terzo comma, e così deve fare il giudice in sede di sospensione e, poi, di decisione nel merito. 

 

3. La presunzione di sicurezza: dall’onere di ribaltamento alla sua contestazione

Venendo, quindi, alla terza e ultima questione (dal ribaltamento alla contestazione della presunzione), va osservato come la presunzione relativa di sussistenza di protezione interna si deve basare, com’è ovvio, su fonti attendibili che certifichino che effettivamente il sistema giudiziario e le forze dell’ordine di quel Paese siano in grado di assicurare protezione. 

I criteri che consentono l’iscrizione di un Paese nella lista nazionale dei Paesi di origine sicuri sono indicati nei considerando 46[27] e 48[28], nell’art. 37, par. 3[29], nell’allegato 1[30] della direttiva e nel regolamento EUAA 2303, del 15 dicembre 2021[31], oltre che, nel diritto interno, nell’art. 2-bis, secondo[32], terzo[33] e quarto[34] comma.

In seguito al venir meno della prospettiva di una lista europea dei Paesi di origine sicuri (bocciata dalla Corte di giustizia per ragioni non di merito)[35], tutti gli indici normativi sono netti nel prescrivere, in modo manifesto e univoco, la necessità per i singoli Paesi aderenti di avere riguardo agli orientamenti, ai manuali operativi, alle informazioni e alle metodologie indicate dall’EASO (oggi EUAA) e dall’Unhcr (così il considerando 46), di «garantire l’applicazione corretta dei concetti di Paese sicuro» basandosi su informazioni aggiornate, «comprese in particolare le informazioni di altri Stati membri, dell’EASO, dell’UNHCR, del Consiglio d’Europa e di altre pertinenti organizzazioni internazionali» (così il considerando 48), di tenere conto «di fonti di informazioni, comprese in particolare le informazioni fornite da altri Stati membri, dall’EASO, dall’UNHCR, dal Consiglio d’Europa e da altre organizzazioni internazionali competenti» (art. 39, par. 3), così come prescritto anche dal regolamento istitutivo dell’EUAA (avente diretta applicazione negli Stati aderenti), il quale, dopo aver segnalato all’art. 2, par. 1, lett. h, e all’art. 12 la competenza specifica dell’EUAA nella raccolta delle informazioni necessarie al fine della designazione di un Paese come Pos, prevede all’art. 11, par. 3, il dovere dei Paesi di «tenere conto» delle dette informazioni e, in particolare, delle Country Guidance redatte dall’EUAA per singoli Paesi[36]. Anche la Corte di cassazione ha avuto modo di sottolineare come la designazione vada condotta sulla base di «informazioni particolarmente qualificate»[37].

La direttiva prevede, quindi, un vero e proprio onere probatorio in capo allo Stato aderente, posto che ai sensi dell’allegato 1, richiamato dall’art. 37, par. 1, la designazione quale Paese di origine sicuro è consentita solo se «si può dimostrare» che «non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni», «né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale». Tale onere probatorio in capo all’autorità preposta alla redazione della lista nazionale è stato previsto espressamente anche dalla legge italiana, che all’art. 2-bis, secondo comma, stabilisce, in conformità alla direttiva, che la designazione può avvenire soltanto se «si può dimostrare» la condizione di sicurezza interna. 

La presunzione non è dunque una fictio, ma deve essere fondata su fonti certe che consentano di dimostrare la sicurezza del Paese designato.

 

3.1. Venendo dunque al terzo quesito oggetto del presente contributo, va detto che può capitare, e anzi capita in un numero assai consistente di ricorsi, che il richiedente asilo invochi una circostanza attinente alla protezione internazionale (timore di persecuzione o danno grave) sostanzialmente contestando che il Paese sia sicuro non su una base individuale, ma per rilievi d’ordine generale. Le “gravi ragioni” non riguardano in tal caso gravi motivi relativi a una sua «situazione particolare» (sono stato l’amante del coniuge del tal personaggio potente...), ma a una questione di ordine generale, concernente intere categorie di cittadini o zone del Paese (vengo da una zona del Paese in cui c’è violenza generalizzata rilevante ex art. 14, lett. c, d.lgs n. 251/2007; sono un oppositore politico, un attivista, un giornalista e nel mio Paese non è consentita piena agibilità politica o libertà di espressione e sono a rischio persecuzione; nel mio Paese sono esposta al rischio di violenza di genere, di mutilazioni genitali, di matrimonio imposto, d’essere sottoposta a tratta di esseri umani, senza che mi sia assicurata protezione dalle istituzioni; sono una persona lgbti+ e nel mio Paese sono a rischio di persecuzione; appartengo a un gruppo sociale - una minoranza etnica, una casta, una minoranza religiosa, gli albini, i malati di mente, coloro che sono sospetti di stregoneria… - che nel mio Paese è oggetto di persecuzione).

A questo riguardo, soccorrono alcuni autorevoli precedenti della giurisprudenza internazionale, in particolare della UK Supreme Court[38] (la massima autorità nel Regno Unito) e del Conseil d’État francese[39] (anche qui la massima autorità giurisdizionale, posto che, com’è noto, in gran parte degli altri Paesi europei la giurisdizione o competence in materia di protezione internazionale è devoluta alla giurisprudenza amministrativa).

La Corte suprema inglese, nel 2015, ha dichiarato l’illegittimità dell’inclusione nella lista dei Paesi di origine sicuri della Giamaica (un Paese dal quale è notevole il flusso di migranti verso il Regno Unito), in ragione della persecuzione delle persone lgbti+. Similmente, il Consiglio di Stato francese, nel 2021, ha ritenuto illegittima l’inclusione del Senegal e del Ghana, anche in questo caso perché vi è persecuzione delle persone lgbti+. In entrambi i casi, si badi, non è stata introdotta una sorta di “clausola di esclusione” per chi sia (rectius: invochi di essere) lgbti+, ma, in ragione della persecuzione delle persone lgbti+, è stato escluso che il Paese possa essere incluso nella lista nazionale dei Paesi di origine sicuri.

In questa materia, dove i principi sono comuni, la consultazione della giurisprudenza straniera è quanto mai utile e opportuna: mentre la sentenza francese è, com’è nella tradizione d’oltralpe, assai sintetica ed è sostanzialmente fondata sul richiamo della disposizione della legge francese per cui la sicurezza va assicurata «in generale e in modo uniforme per uomini e donne, indipendentemente dal loro orientamento sessuale»[40], la lettura della decisione inglese (e dell’accluso parere adesivo) è particolarmente interessante e istruttiva.

La Corte suprema, richiamata la situazione di persecuzione sofferta dalle persone lgbti+ in Giamaica, ha osservato come in questi casi non si tratti di superare la presunzione di sicurezza sulla base di una eccezione individuale, ma di verificare se il Paese sia sicuro per intere categorie di persone, ritenendo al riguardo irrilevante che il Paese sia, invece, sicuro per la maggioranza della popolazione. La Corte ha rilevato come la locuzione «in general» (contemplata nella legge inglese e sostanzialmente analoga ai termini «generalmente», previsto nell’allegato 1 della direttiva europea, e «in generale», previsto nel nostro art. 2-bis, primo comma) sia «intesa a differenziare uno stato di cose in cui la persecuzione è endemica, cioè si verifica nel corso ordinario delle cose, da uno in cui possono esserci isolati episodi di persecuzione»[41]. È chiaro, invero, che un Paese può essere solo «generalmente», ma non «universalmente» sicuro, posto che la designazione di un Paese come sicuro ammette certamente eccezioni, tant’è che è possibile ribaltare la presunzione (neppure in un Paese europeo occidentale, d’altra parte, possono escludersi del tutto rischi di persecuzione o di danno grave). Bisogna, tuttavia, tenere a mente la distinzione fra una condizione di insicurezza determinata da una «situazione particolare», o individuale, e una condizione di persecuzione o insicurezza che si rivolge in modo ordinario verso chiunque appartenga a un gruppo, per quanto piccolo, della popolazione. Secondo i giudici inglesi, la nozione di “generale” va riferita non alla generalità della popolazione, ma alla circostanza che la persecuzione non debba essere «endemica», «sufficientemente sistematica», non avvenga «nel corso ordinario delle cose».

Non rileva, dunque, la percentuale di popolazione esposta al rischio di persecuzione. La persecuzione, in effetti, è esercitata tipicamente da una maggioranza verso una minoranza. Salvo casi eccezionali (lo sono stati, forse, i casi limite di Ceausescu o di Pol Pot, che scatenavano la loro furia in modo pressoché indiscriminato contro i propri cittadini), la persecuzione è sempre esercitata da una maggioranza contro alcune minoranze, a volte molto piccole. Il sistema della protezione internazionale è nato proprio per tutelare chi appartiene a gruppi minoritari fatti oggetto di persecuzione. La Convenzione di Ginevra è stata pensata e sottoscritta nel 1951, subito dopo la caduta del regime nazista, ma – potremmo dire – paradossalmente la Germania nazista era un Paese estremamente sicuro per la stragrande maggioranza della popolazione tedesca: fatti salvi gli ebrei (poco più di 500.000, divenuti 214.000 all’inizio della guerra) e fatti salvi gli omosessuali, gli oppositori politici o gli zingari, oltre 65 milioni di tedeschi vantavano una condizione di sicurezza invidiabile. Leonardo Sciascia, in suo indimenticato romanzo, rammentava il detto popolare per cui «durante il fascismo si dormiva con le porte aperte»[42] e, in effetti, la persecuzione delle minoranze è da sempre giustificata proprio col pretesto di assicurare sicurezza alla maggioranza. Il sistema della protezione internazionale è dunque, per sua natura, sistema giuridico di garanzia per le minoranze esposte a rischi provenienti da agenti persecutori, statuali o meno. Se dovessimo ritenere sicuro un Paese quando la sicurezza è garantita alla generalità della popolazione, la nozione giuridica di Paese di origine sicuro si potrebbe applicare a tutti i Paesi del mondo, e sarebbe dunque priva di qualsiasi consistenza giuridica. Consentirebbe, sulla base di valutazioni di convenienza politica, di aggirare il principio di sospensione automatica prescritto dall’art. 46, par. 6 della direttiva.

Definire, dunque, la nozione di Paese di origine sicuro sulla base della sicurezza assicurata alla generalità della popolazione è incompatibile col sistema della protezione internazionale e si rileva un vero e proprio nonsenso giuridico. Mentre il riferimento alla condizione di sicurezza della generalità della popolazione è carente di base giuridica, la distinzione fra «situazione particolare» e persecuzione «sufficientemente sistematica e ordinaria» sembra in grado di garantire una distinzione sufficientemente chiara fra le due categorie giuridiche. È vero che il confine fra le due nozioni è, nella pratica, come spesso accade in diritto, non sempre netto: se, ad esempio, sono a rischio di persecuzione perché un mio parente ha ucciso un potente criminale, sono esposto a un rischio di danno grave in quanto appartenente al “gruppo” dei familiari dell’omicida, ma ognuno intende la differenza rispetto a chi sia perseguitato in quanto ebreo, oppositore politico od omosessuale. 

In base a tale percorso argomentativo, le due corti, inglese e francese, hanno dunque escluso che assuma rilevanza dirimente la percentuale di popolazione esposta a persecuzione, non apparendo né utile, né giuridicamente fondato e, in ultima analisi, neppure possibile sulla base di dati certi, verificare ad esempio quanta parte della popolazione sia esposta a persecuzione in quanto lgbti+.

 

3.2. Venendo quindi alla nostra giurisprudenza, va rammentata l’unica decisione nota, del Tribunale di Firenze, che ha disposto nel 2021 la sospensione del provvedimento di manifesta infondatezza della commissione territoriale rilevando il contrasto della designazione del Senegal quale Paese di origine sicuro con la persecuzione in atto, in quel Paese, contro le persone lgbti+, e riservando al merito una più approfondita valutazione sulla possibilità o meno di limitare la designazione di Paese sicuro con l’esclusione di alcune categorie di richiedenti asilo[43].

Com’è noto, la legge italiana consente in effetti distinzioni tanto per zone che per gruppi (art. 2-bis, secondo comma: «La designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l’eccezione di parti del territorio o di categorie di persone») ed è anche vero che l’art. 36, par. 2 della direttiva prevede che «Gli Stati membri stabiliscono nel diritto nazionale ulteriori norme e modalità inerenti all’applicazione del concetto di Paese di origine sicuro», tant’è che 7 Paesi su 30 (Ungheria, Estonia, Repubblica Ceca, Olanda, Danimarca, Lussemburgo, Norvegia) prevedono eccezioni in relazione ad alcune zone del Paese sicuro[44], o in relazione a chi appartiene a specifici gruppi etnici[45], a un genere[46], a particolari categorie[47] o profili[48].

La dottrina ha evidenziato, al riguardo, come sia quantomeno dubbio che tali modalità di designazione siano consentite dalla direttiva, posto che tale facoltà era prevista nella direttiva precedente, sulle cd. «norme minime», ed è stata quindi eliminata nella direttiva recast, sulle «procedure comuni»[49].

Su tale questione pende attualmente un rinvio pregiudiziale avanti alla Corte di giustizia, promosso nel 2022 da un Tribunale della Repubblica Ceca, il quale ha tuttavia ad oggetto soltanto l’ipotesi della clausola di esclusione territoriale (oltre alla questione se sia designabile come sicuro un Paese che abbia momentaneamente sospeso la Cedu e se la questione possa essere rilevata d’ufficio dal giudice, questione quest’ultima evidentemente non problematica per il giudice italiano)[50], ma non la – più spinosa – questione della legittimità di clausole di esclusione per appartenenza a gruppi sociali o per profili. D’altra parte, la mancata previsione di clausole di esclusione nei decreti interministeriali italiani, esclude che il giudice italiano possa proporre un ulteriore rinvio pregiudiziale, in particolare in relazione alla legittimità della previsione di clausole di esclusione per gruppi etnici, categorie, profili.

Oltre ai profili di compatibilità con la direttiva, va pure segnalato come la previsione di “clausole di esclusione” fondate su profili specifici appaia scarsamente, o affatto, compatibile con quanto da tempo affermato dalla nostra Corte di cassazione in relazione all’accertamento del rischio di persecuzione. La regola per cui un richiedente asilo proveniente da un Paese dove intere categorie di persone e gruppi sociali sono sottoposti a costante e sistematica persecuzione, possa essere onerato di “invocare” al suo arrivo la sua appartenenza al gruppo sociale perseguitato al fine di escludere un provvedimento di rigetto immediatamente esecutivo, non appare invero realistica. La donna che arriva sulle spiagge italiane è, in quel momento, trattata, è stata condotta qui dal gruppo criminale che la sottoporrà ancora a sfruttamento ed è tuttora oggetto di tratta, sicché la giurisprudenza di legittimità sottolinea come incomba sul giudice l’onere di ricercare gli indici di tratta, tanto che la stessa reticenza può essere, delle due, persino un indice di tratta. Anche la giurisprudenza sulla legittimità di domande reiterate, fondate sul fatto nuovo dell’acquisita consapevolezza del proprio orientamento sessuale, avvenuta dopo mesi o anni di contatto con la realtà occidentale, milita contro l’inclusione nella lista di un Paese caratterizzato da una sistematica persecuzione delle persone lgbti+. Immaginare che un ragazzino, magari minorenne o appena maggiorenne, giunga sulle coste italiane pronto a dichiarare i propri sentimenti a funzionari di cui non sa nulla e che neppure conoscono la sua lingua, è davvero fuori dalla realtà. Va inoltre tenuto a mente come i gruppi sociali non siano affatto gruppi chiusi, avendo confini labili e mobili, sicché il rischio persecutorio rivolto verso le donne, gli ebrei, gli omosessuali, gli oppositori, i giornalisti si diffonde rapidamente in chi circonda la vittima. Non è dunque sufficiente indicare una esenzione per profili, perché se in un Paese vi è persecuzione sistematica, nessuno è, in fondo, sicuro.

Infine, va detto come appaia assai incerta la distinzione fra l’onere di ricondurre la propria situazione a una clausola di esclusione e l’onere di ribaltare la presunzione di sicurezza sulla base di una propria situazione particolare, sicché, in buona sostanza, appare ragionevole che la direttiva del 2013 non abbia più previsto tali clausole di esclusione.

In ogni caso, tanto il decreto del 2019[51] quanto il decreto del 2023[52] hanno omesso l’indicazione di clausole di esclusione, per zone o per profili, sicché può dubitarsi che una tale clausola possa essere introdotta dal giudice: un conto è la disapplicazione da parte del giudice ordinario di un provvedimento amministrativo ritenuto illegittimo, altra cosa è una disapplicazione parziale, selettiva, della disposizione, che conduca alla ricostruzione, creativa, di una nuova regola giuridica, peraltro di incerta conformità alla direttiva.

 

3.4. Proseguendo l’analisi dell’ultimo quesito oggetto del presente contributo, va osservato, infine, quanto segue.

Com’è noto, il recente decreto interministeriale del 17 marzo 2023 ha esteso la lista dei Paesi di origine sicuri ad alcuni ulteriori Paesi. In origine, quando era stata immaginata la redazione di una lista devoluta al Consiglio dell’Unione europea, la discussione sulle possibili designazioni era limitata ai Paesi europei per cui risultava pendente una domanda di adesione all’Unione[53]. La competenza attribuita ai Paesi aderenti, oltre che del tutto irragionevole, posto che la designazione dovrebbe basarsi su fonti informative comuni, ha condotto a una progressiva estensione, da parte di alcuni Paesi, fra cui l’Italia, anche a Paesi extraeuropei.

Esula dai limiti di questo contributo un’analisi in dettaglio delle condizioni di sicurezza di tutti i Paesi inclusi nella lista, dovendosi restringere qui l’esame, per ragioni di spazio, a qualche rapida osservazione su due soli casi.

Il Tribunale di Bologna, sino al giugno 2022, ha concesso in modo indiscriminato la protezione speciale per conflitto a bassa intensità a tutti i cittadini ivoriani, poiché, seguendo le indicazioni dell’Unhcr, risultava accertata l’esposizione a seri rischi di trattamento disumano e degradante in conseguenza della sola presenza in quel Paese. Per l’effetto di aggiornamenti della stessa Unhcr che hanno segnalato un miglioramento della situazione, il Tribunale, dal luglio 2022, svolge un esame caso per caso. Resta comunque sorprendente il salto compiuto dalla Costa d’Avorio da una valutazione di indiscriminata esposizione a trattamenti disumani e degradanti a una valutazione di presunta sicurezza. Sembra registrarsi, in buona sostanza, un giudizio non convergente fra autorità giurisdizionale e amministrativa. La Costa d’Avorio, d’altra parte, fra i 30 Paesi europei, è stata inclusa nella lista dei Paesi sicuri soltanto dall’Italia.

Fra i 30 Paesi europei, oltre all’Italia, solo Cipro indica la Nigeria come Paese di origine sicuro. Dalla lettura della scheda-Paese sulla cui base è stata operata la designazione, si segnala che «la situazione di sicurezza e le condizioni umanitarie risultano gravemente compromesse» nello Stato di Borno; per il Tribunale di Bologna sono, invece, 5 gli Stati nigeriani per cui è stata accertata attualmente una compromissione in varia misura delle condizioni di sicurezza, sino a condizioni di conflitto che comportano il rischio di violenza generalizzata tale da imporre la protezione sussidiaria. Vi è dunque, anche qui, una discrepanza fra valutazioni in sede politico-amministrativa e accertamento dell’autorità giudiziaria. Nella detta scheda-Paese si segnalano inoltre «possibili atti di persecuzione verso i membri del summenzionato movimento politico-religioso dell’IMN e verso gli Esponenti dell’IPOB e del suo braccio militare ESN» e, ancora, si evidenzia che «ulteriori gruppi sociali che possono essere a rischio, sono: 1) Detenuti, 2) Persone con disabilità fisiche o mentali, 3) Albini, 4) Sieropositivi, 5) Comunità LGBT, 6) Vittime di discriminazione sulla base dell’appartenenza di genere, incluse vittime e potenziali vittime di MGF, 7) Vittime di tratta, 8) IDPs, 9) Giornalisti». Fra tali gruppi se ne osservano diversi per cui la giurisprudenza italiana, di merito e di cassazione, unanimemente riconosce non un generico rischio, ma una condizione di persecuzione sistematica: fra gli altri, per i vertici dell’Ipob, per le persone lgbti+, per chi è a rischio di ritratta o mutilazione genitale i tribunali italiani riconoscono, senza eccezione, lo status di rifugiato in quanto risulta dimostrato in Nigeria un elevato rischio di persecuzione. 

La «Lista dei paesi violenti» redatta dall’Acled (ente che rappresenta un’autorevolissima fonte in questa materia, citato anche dalla scheda-Paese) divide i Paesi del mondo in quattro categorie: “extreme”; “high”; “moderate”; “limited”. Nel gennaio 2023 la Nigeria risulta collocata nel secondo gruppo (high) insieme a Ucraina, Somalia, Afghanistan, Iraq, Burkina Faso, Sud Sudan[54]. Per intenderci, la categoria “extreme” è riservata invece a Mali, Siria, Yemen. Il livello di violenza cui è esposta la popolazione civile in Nigeria è, dunque, analogo a quello che troviamo in Afghanistan, Iraq, Somalia, Ucraina.

Nel volume edito da EASO nel novembre 2018, «Informazioni sui paesi di origine - Nigeria - Attori della protezione»[55], si legge che «la carenza di organico della polizia nigeriana è aggravata dal fatto che “quasi la metà del personale si occupa della protezione di persone in vista come i politici, gli uomini d’affari e altre persone agiate”[56]. (…) A causa delle carenze della polizia e della sua scarsa presenza, “i gruppi criminali non temono di essere arrestati o perseguiti per i loro reati”[57]. In alcuni casi, si è persino scoperto che la polizia aiuta i criminali[58]. A questo si aggiunge il fatto che “la polizia locale e le associazioni di vicinato, compresi i gruppi di vigilanti, generalmente non hanno un effetto deterrente o risolutivo nei confronti dei crimini e raramente arrestano o trattengono i sospetti”[59]. (…) L’esercizio della giustizia da parte dei vigilanti spesso fa sì che gli autori dei reati siano bruciati o picchiati a morte dalla folla prima dell’arrivo della polizia[60]».

Tali informazioni sulla capacità delle forze dell’ordine nigeriane di garantire sicurezza nel Paese sono confermate dal rapporto della Commissione nazionale per il diritto di asilo (Cna), edito il 15 dicembre 2021, dove si legge che, «nel novembre 2017, il World Security and Police Index International (WISPI, Indice Mondiale sulle Forze di Sicurezza Interna e di Polizia) ha classificato la polizia nigeriana come la “peggiore” nella graduatoria dei 127 paesi esaminati dal punto di vista della capacità di gestire le sfide riguardanti la sicurezza interna»[61]. Dunque, esaminata l’efficienza delle polizie di 127 Paesi, in buona sostanza tutte le polizie del mondo, la polizia nigeriana, secondo quanto riferito dalla Commissione, è risultata in definitiva «la peggiore».

 

3.5. Se queste informazioni, tratte come visto da fonti quali la Cna, Acled, l’EUAA, sono corrette, è assai dubbio che si possa «dimostrare» che «non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni» o pericolo di danno grave, come imposto dall’art. 2-bis, secondo comma, e dall’allegato 1, richiamato dall’art. 37, par. 1 della direttiva.

Se, all’esito di un attento vaglio delle condizioni di un Paese incluso nella lista nazionale, dovesse emerge che la designazione non coincide con quanto si desume dalle fonti europee e italiane, avremmo dunque non solo una violazione della direttiva, ma anche della Convenzione di Ginevra e della nostra Costituzione, perché si produrrebbe una violazione del principio di non discriminazione sulla base della cittadinanza (art. 3 Cost.) in relazione a un diritto fondamentale assicurato dalla stessa Costituzione (art. 10, terzo comma, Cost.)[62]. È evidente, invero, che un trattamento disuguale in materia di asilo sulla base della cittadinanza può essere giustificato solo dall’effettiva sussistenza di una situazione differente.

Nel parere che il Csm ha reso ai sensi dell’art. 10 l. 24 marzo 1958, n. 195, sul dl n. 113 del 4 ottobre 2018, si legge, a proposito del decreto interministeriale sui Paesi sicuri, che «appare dubbio che esso, quanto all’identificazione del Paese sicuro, possa considerarsi vincolante; è evidente, infatti, che venendo in gioco diritti costituzionali, rimane fermo il potere dell’autorità giurisdizionale ordinaria di riconsiderare l’inserimento di un Paese nella lista dei Paesi sicuri mediante congrua motivazione, tanto più ove la predetta indicazione si discosti dai criteri di inserimento pure previsti dalla norma generale» (p. 9).

In conclusione, in sede di sospensiva, spetta al giudice verificare: se sia possibile onerare comunque il richiedente asilo, proveniente da un Paese che dovesse essere stato illegittimamente designato come Paese di origine sicuro, di allegare una sua «situazione particolare», così implicitamente confermando la legittimità della designazione; se si possa disapplicare parzialmente il provvedimento amministrativo, con i dubbi in punto di legittimità di tale disapplicazione selettiva, della conformità della regola così creata rispetto alla direttiva, dell’effettiva possibilità di discernere giuridicamente l’onere di allegazione di una situazione particolare dall’onere di allegazione di una clausola di esclusione (peraltro neppure normativamente indicata); se si possa disapplicare la disposizione del provvedimento amministrativo che prevede un’inclusione non conforme ai criteri legali stabiliti dalla direttiva e dall’art. 2-bis.

 

 

*  Relazione tenuta in occasione del Laboratorio per le sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea, organizzato dalla Scuola superiore della magistratura, dal titolo «Le novità di cui alla legge n. 50 del 2023 che ha convertito il d.l. n. 20 del 2023» (11 luglio 2023).

1. Sulla nozione di “Paese di origine sicurocfr. F. Venturi, Il diritto d’asilo: un diritto “sofferente”. L’introduzione nell’ordinamento italiano del concetto di “paesi di origine sicuri” ad opera della L. 132/2018 di conversione del cd. «decreto sicurezza» (d.l. 113/2018), in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 2/2019, p. 147; C. Pitea, La nozione di «paese di origine sicuro» e il suo impatto sulle garanzie per i richiedenti protezione internazionale in Italia, in Rivista di diritto internazionale, n. 3/2019, p. 627; G. Armone, Il decreto interministeriale sui Paesi di origine sicuri e le sue ricadute applicative, in Questione giustizia, numero speciale a cura di M. Acierno, Il diritto alla protezione internazionale e l’impegno della giurisdizione, gennaio 2021, pp. 141-155 (www.questionegiustizia.it/data/speciale/articoli/875/qg_speciale_2021-1_armone.pdf); E. Colombo e M. Flamini, La procedura accelerata “Paesi sicuri”, in Aa. Vv., Casebook in materia di protezione internazionale, volume realizzato su iniziativa della Ssm e dell’Università di Trento nell’ambito del Progetto europeo di formazione giudiziaria FRICoRe (Fundamental Rights In Courts and Regulation), 2021, pp. 189-218 (www.fricore.eu/sites/default/files/content/materials/casebook_protezione_internazionale_revisione_finale_ssm_def_r_0.pdf); M. Flamini, La protezione dei cittadini stranieri provenienti da cd. «Paesi sicuri» in seguito alle modifiche introdotte dal dl n. 20 del 2023, in questo fascicolo. Estremamente utili anche la Relazione sull’Art. 2 bis d. lgs. n. 25 del 2008 e connesso Decreto Interministeriale attuativo dell’elenco dei paesi di origine sicuri, redatta nel dicembre 2020 dall’Ufficio del massimario della Corte di cassazione, e il rapporto EUAA, Applying the Concept of Safe Countries in the Asylum Procedure, dicembre 2022 (https://euaa.europa.eu/sites/default/files/publications/2022-12/2022_safe_country_concept_asylum_procedure_EN.pdf).

2. Come prescritto dall’art. 46, par. 5 della direttiva n. 32/2013 (cd. “direttiva procedure Recast”, da ora: “direttiva”) e dall’art. 35-bis, comma 3, d.lgs n. 25/2008 (da ora, tutte le norme saranno tratte da tale decreto, se non diversamente indicato).

3. Si ha corretta procedura accelerata se il presidente della commissione territoriale, dopo un esame preliminare, avvii una procedura accelerata e la commissione ne dia tempestiva comunicazione al richiedente, come prescritto dall’art. 28, primo comma, rispettando quindi gli stretti termini previsti dall’art. 28-bis, secondo comma, di giorni 7 per l’audizione e di giorni 2 per la decisione dal deposito della domanda (con il cd. “modello C3”) ed emetta all’esito la decisione di manifesta infondatezza in ragione della mancata allegazione, da parte del richiedente asilo, di gravi motivi attinenti alla sua situazione particolare che consentano di ribaltare la presunzione di sicurezza del suo Paese.

4. Come si desume dal combinato disposto degli artt. 46, par. 6, e 31, par. 8 della direttiva e, in Italia, dall’art. 35-bis, comma 3.

5. Trib. Bologna, ord. 11 giugno 2023 (www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Ordinanza_Trib_Bologna_RG_5751_2023_oscuramento_no-index.pdf).

6. www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Provv_PP_assegnazione_Sezioni_Unite_civili_Rg_13777.23.pdf.

7. «In the context of asylum, the term ‘safe country’ refers to countries which generally do not generate protection needs for their people or countries in which asylum seekers are protected and are not in danger», rapporto EUAA, cit., p. 4.

8. L’art. 7-bis dl 4 ottobre 2018, n. 113 (cd. “decreto sicurezza”), introdotto in sede di conversione dall’art. 1 l. 1° dicembre 2018, n. 132, ha inserito nel d.lgs 28 gennaio 2008, n. 25 l’art. 2-bis, titolato «Paesi di origine sicuri».

9. Su 30 Paesi (quelli aderenti all’Ue, cui si sommano Islanda, Norvegia e Svizzera), mancano all’appello Spagna, Polonia e Lettonia. In altri Paesi la nozione è recepita, ma manca una lista nazionale (Portogallo, Bulgaria, Lituania e Romania). In Finlandia la nozione è applicata nonostante la mancanza di una lista nazionale.

10. Cgue, sez. I, A c. Migrationsverket, C-404/17, 25 luglio 2018, su domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Förvaltningsrätten i Malmö (https://curia.europa.eu/juris/liste.jsf?num=C-404/17&language=IT). 

11. Art. 36, par. 1 della direttiva: «Un Paese terzo designato paese di origine sicuro a norma della presente direttiva può essere considerato Paese di origine sicuro per un determinato richiedente, previo esame individuale della domanda, solo se: (…) non ha invocato gravi motivi per ritenere che quel Paese non sia un Paese di origine sicuro nelle circostanze specifiche in cui si trova il richiedente stesso e per quanto riguarda la sua qualifica di beneficiario di protezione internazionale a norma della direttiva 2011/95/UE» (c.vo aggiunto).

12. Art. 2-bis, quinto comma: «Un Paese designato di origine sicuro ai sensi del presente articolo può essere considerato Paese di origine sicuro per il richiedente solo se questi ha la cittadinanza di quel Paese o e’ un apolide che in precedenza soggiornava abitualmente in quel Paese e non ha invocato gravi motivi per ritenere che quel Paese non è sicuro per la situazione particolare in cui lo stesso richiedente si trova» (c.vo aggiunto).

13. «… he or she has not submitted any serious ground for considering… »; «… n’a pas fait valoir des raisons sérieuses permettant de penser… »; «... und er keine schwerwiegenden Gründe dafür vorgebracht hat... »; «... no ha aducido… » (c.vi aggiunti).

14. Cgue, del 25 luglio 2018, cit., punto 25, per cui la presunzione «può essere confutata dal richiedente indicando motivi imperativi attinenti alla sua situazione particolare». Termine analogo nelle versioni della sentenza in lingua francese («s’il fait état», ossia «riferisce») e inglese («submit»).

15. Cass., sez. I, 11 novembre 2020, n. 25311.

16. Relazione dell’Ufficio del massimario, cit., p. 11.

17. In questi termini, invece, seppure criticamente, F. Venturi, Il diritto d’asilo, op. cit., p. 149, per cui la designazione condurrebbe «ad un’inversione del regime probatorio che ordinariamente vige nel settore della protezione internazionale», stigmatizzando a p. 156 la «inversione e l’aggravio dell’onere della prova, che apparentemente viene a ricadere esclusivamente sul richiedente protezione internazionale», che condurrebbe a una vera «probatio diabolica» (p. 170). Sembrerebbero richiamare una «presunzione iuris tantum di manifesta infondatezza della domanda di asilo (art. 32, par. 2), cui sono connessi l’esame prioritario e una procedura accelerata (art. 31, par. 8, lett. b)), con inversione dell’onere della prova a carico del richiedente in ordine alle condizioni di “non sicurezza” del Paese stesso in relazione alla propria situazione particolare», sicché «le norme dell’art. 2-bis si profilano (…) come norme sulla prova», anche E. Colombo e M. Flamini, La procedura accelerata, op. cit., pp. 189-190, seppure nello stesso contributo si legga poi, assai più chiaramente, che «la formulazione letterale della norma – che rende inutile il ricorso ad ulteriori criteri interpretativi – consente di chiarire, in primo luogo, che, per superare la presunzione di sicurezza, il ricorrente debba limitarsi ad “invocare” (e dunque ad allegare) e non a “provare” la presenza di elementi tali in forza dei quali la designazione generale (ed ex ante) del Paese come sicuro non riguardi anche la storia individuale del ricorrente» (p. 205). Dalla relazione del Massimario, cit., sembra trarsi una inversione dell’onere della prova limitata alla fase giurisdizionale: «una volta assolti gli oneri di allegazione, il nuovo art. 2-bis del d. lgs. n. 25 del 2008 pone la più volte menzionata presunzione relativa di sicurezza dei Paesi elencati nel d. intermin. sì da generare un ribaltamento dell’onere della prova» (p. 14).

18. Ascrive invece particolare rilevanza a tale disposizione F. Venturi, Il diritto d’asilo, op. cit., p. 149, per il quale verrebbe «a gravare sul richiedente l’onere di dimostrare “la sussistenza di gravi motivi per ritenere non sicuro il Paese designato di origine sicuro in relazione alla [sua] situazione particolare” (art. 9, co. 2-bis del d.lgs. 25/2008)»; l’A. sembra suggerire soltanto «un’interpretazione costituzionalmente conforme della norma in esame», che potrebbe «tutt’al più condurre a preservare la sopravvivenza della cooperazione istruttoria dello Stato con il richiedente asilo» (ivi, p. 172).

19. Sull’obbligo di disapplicazione delle norme contrarie al diritto dell’Unione da parte delle autorità amministrative, vds. Cgue, Fratelli Costanzo, C-103/88, 22 giugno 1989, punto 30. Più di recente, sull’obbligo di disapplicazione anche da parte della p.a., cfr. pure la sent. 4 dicembre 2018, Minister for Justice and Equality e Commissioner of the Garda Síochána, C-378/17, punto 38, per cui «tale obbligo di disapplicare una disposizione nazionale contraria al diritto dell’Unione incombe non solo sui giudici nazionali, ma anche su tutti gli organismi dello Stato, ivi comprese le autorità amministrative, incaricati di applicare, nell’ambito delle rispettive competenze, il diritto dell’Unione».

20. E. Colombo e M. Flamini, La procedura accelerata, op. cit., p. 211.

21. Art. 11, par. 2 della direttiva: «Gli Stati membri dispongono inoltre che la decisione con cui viene respinta una domanda riguardante lo status di rifugiato e/o lo status di protezione sussidiaria sia corredata di motivazioni de jure e de facto (…)».

22. Ritiene che «i “gravi motivi” che il richiedente proveniente da un Paese designato come “sicuro” deve “invocare” (quindi non provare, ma allegare diligentemente) per superare la presunzione di sicurezza non possono che coincidere con circostanze che evidenzino la sussistenza di fatti (di per sé gravi) astrattamente idonei a integrare uno dei requisiti per la protezione internazionale», C. Pitea, La nozione, op. cit., p. 17.

23. In questi termini, per i Paesi di origine sicuri, cfr., ad esempio, C. Pitea, op. ult. cit., p. 17; M. Flamini, La protezione, op. cit., p. 3.

24. Questa, a differenza della lett. a, è dunque la lettera utilizzabile in relazione alla credibilità: in sede di sospensione, il giudizio non è tuttavia sulle chance di accoglimento della domanda (il fumus boni iuris dei giudizi cautelari), ma è ristretto alla “palese” incoerenza, contraddittorietà, falsità, dove la (palese) “incoerenza” attiene alla carenza di coerenza logica e la “contraddittorietà” all’allegazione di fatti incompatibili fra loro. La disposizione italiana appare, peraltro, persino più stringente della corrispondente disposizione della direttiva, contenuta nell’art. 31, par. 8, lett. e, per cui la manifesta infondatezza potrebbe essere dichiarata anche per dichiarazioni «evidentemente improbabili che contraddicono informazioni sufficientemente verificate sul Paese di origine». Dunque, la lettera c non è mai utilizzabile perché il claim è giudicato genericamente inverosimile, non sufficientemente chiarito, poco credibile.

25. Cgue, 25 luglio 2018, cit., punto 33: «se è vero che l’articolo 23, par. 4, lettera g), della direttiva 2005/85 riguardava il caso di dichiarazioni “insufficienti” del richiedente, l’articolo 31, par. 8, lettera e), della direttiva 2013/32, che ha sostituito detta disposizione, non fa più riferimento a tale caso», sicché, punto 34: «dalla formulazione dell’articolo 31, par. 8, lettera e), della direttiva 2013/32, letto in combinato disposto con l’articolo 32, par. 2, di quest’ultima, risulta che uno Stato membro non può ritenere manifestamente infondata una domanda di protezione internazionale adducendo l’insufficienza delle dichiarazioni del richiedente».

26. Art. 26, par. 4, lett. g della direttiva 2005/85/CE: «il richiedente ha rilasciato dichiarazioni incoerenti, contraddittorie, improbabili o insufficienti, che rendono chiaramente non convincente la sua asserzione di essere stato oggetto di persecuzione di cui alla direttiva 2004/83/CE».

27. Considerando 46: «Qualora gli Stati membri applichino i concetti di Paese sicuro caso per caso o designino i Paesi sicuri adottando gli elenchi a tal fine, dovrebbero tener conto tra l’altro degli orientamenti e dei manuali operativi e delle informazioni relative ai Paesi di origine e alle attività, compresa la metodologia della relazione sulle informazioni del Paese di origine dell’EASO, di cui al regolamento (UE) n. 439/2010 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 maggio 2010, che istituisce l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo (1), nonché i pertinenti orientamenti dell’UNHCR».

28. Considerando 48: «Al fine di garantire l’applicazione corretta dei concetti di Paese sicuro basati su informazioni aggiornate, gli Stati membri dovrebbero condurre riesami periodici sulla situazione in tali Paesi sulla base di una serie di fonti di informazioni, comprese in particolare le informazioni di altri Stati membri, dell’EASO, dell’UNHCR, del Consiglio d’Europa e di altre pertinenti organizzazioni internazionali. Quando gli Stati membri vengono a conoscenza di un cambiamento significativo nella situazione relativa ai diritti umani in un Paese designato da essi come sicuro, dovrebbero provvedere affinché sia svolto quanto prima un riesame di tale situazione e, ove necessario, rivedere la designazione di tale Paese come sicuro».

29. Art 37 (designazione nazionale dei Paesi terzi quali Paesi di origine sicuri), par. 3: «La valutazione volta ad accertare che un paese è un paese di origine sicuro a norma del presente articolo si basa su una serie di fonti di informazioni, comprese in particolare le informazioni fornite da altri Stati membri, dall’EASO, dall’UNHCR, dal Consiglio d’Europa e da altre organizzazioni internazionali competenti».

30. Art. 37, par 1, consente la designazione «a norma dell’Allegato 1», il quale prevede che «Un Paese è considerato Paese di origine sicuro se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95/UE, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale».

31. È il regolamento che ha trasformato l’EASO in EUAA («European Union Agency for Asylum»).

32. Art. 2-bis, secondo comma: «2. Uno Stato non appartenente all’Unione europea può essere considerato Paese di origine sicuro se, sulla base del suo ordinamento giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che, in via generale e costante, non sussistono atti di persecuzione quali definiti dall’articolo 7 del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, né tortura o altre forme di pena o trattamento inumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. La designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l’eccezione di parti del territorio o di categorie di persone».

33. «3. Ai fini della valutazione di cui al comma 2 si tiene conto, tra l’altro, della misura in cui è offerta protezione contro le persecuzioni ed i maltrattamenti mediante: a) le pertinenti disposizioni legislative e regolamentari del Paese ed il modo in cui sono applicate; b) il rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, aperto alla firma il 19 dicembre 1966, ratificato ai sensi della legge 25 ottobre 1977, n. 881, e nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 10 dicembre 1984, in particolare dei diritti ai quali non si può derogare a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, della predetta Convenzione europea; c) il rispetto del principio di cui all’articolo 33 della Convenzione di Ginevra; d) un sistema di ricorsi effettivi contro le violazioni di tali diritti e libertà». 

34. «4. La valutazione volta ad accertare che uno Stato non appartenente all’Unione europea è un Paese di origine sicuro si basa sulle informazioni fornite dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo, che si avvale anche delle notizie elaborate dal centro di documentazione di cui all’articolo 5, comma 1, nonché su altre fonti di informazione, comprese in particolare quelle fornite da altri Stati membri dell’Unione europea, dall’EASO, dall’UNHCR, dal Consiglio d’Europa e da altre organizzazioni internazionali competenti».

35. L’art. 29 della direttiva 2005/85/CE prevedeva che il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, potesse adottare un elenco comune minimo dei Paesi d’origine sicuri. Tale disposizione fu annullata dalla Corte di giustizia perché introduceva una riserva di competenza in favore del Consiglio, con semplice obbligo di consultazione del Parlamento europeo, che non poteva essere prevista da un atto derivato (Cgue, Parlamento europeo c. Consiglio dell’Unione europea, C-133/06, 6 maggio 2008).

36. Ad oggi l’EUAA ha edito Country Guidance per 5 Paesi: Afghanistan, Iraq, Nigeria, Somalia e Siria.

37. Cass., n. 25311/2020, cit.: «la valutazione tesa ad accertare che uno Stato non appartenente all’Unione europea è un Paese di origine sicuro si basa quindi su informazioni particolarmente qualificate, tali essendo quelle fornite – come detto – dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo e da altri Stati membri della UE (oltre che dall’EASO, dall’UNHCR, dal Consiglio d’Europa e da altre organizzazioni internazionali competenti)».

38. UK Supreme Court, R v. Secretary of State for the Home Department, decisione del 4 marzo 2015 (www.supremecourt.uk/cases/uksc-2013-0162.html). 

39. Conseil d’État, 2ème-7ème chambres réunies, 2 luglio 2021, n. 437141 (www.legifrance.gouv.fr/ceta/id/CETATEXT000043754071).

40. Art. 722-1 legge 18 settembre 2018 (testo in vigore alla data della decisione): «Un pays est considéré comme un pays d’origine sûr lorsque, sur la base de la situation légale, de l’application du droit dans le cadre d’un régime démocratique et des circonstances politiques générales, il peut être démontré que, d’une manière générale et uniformément pour les hommes comme pour les femmes, quelle que soit leur orientation sexuelle, il n’y est jamais recouru à la persécution, ni à la torture, ni à des peines ou traitements inhumains ou dégradants et qu’il n’y a pas de menace en raison d’une violence qui peut s’étendre à des personnes sans considération de leur situation personnelle dans des situations de conflit armé international ou interne».

41. UK Supreme Court, cit., punto 21: «I read the words “in general” as intended to differentiate a state of affairs where persecution is endemic, ie it occurs in the ordinary course of things, from one where there may be isolated incidents of persecution».

42. L. Sciascia, Porte aperte, Adelphi, Milano, 1987.

43. Trib. Firenze, RG 110/2020, in Questione giustizia online, con nota di C. Pitea, I primi nodi della disciplina sui Paesi di origine sicuri vengono al pettine, 7 febbraio 2020 (www.questionegiustizia.it/articolo/i-primi-nodi-della-disciplina-sui-paesi-di-origine-sicuri-vengono-al-pettine_07-02-2020.php). 

44. Dal rapporto EUAA (Applying the Concept, op. cit.) si rileva che l’Estonia ha incluso l’Armenia nella lista a esclusione della regione del Nagorno-Karabakh, e la Bosnia Erzegovina a esclusione della Srpska. Tanto l’Estonia che la Danimarca e la Repubblica Ceca includono nella lista la Georgia con l’esclusione di Abkhazia e Ossezia del Sud. La Repubblica Ceca include la Moldavia con l’eccezione della Transnistria. L’Olanda include l’India con l’eccezione del Jammu e del Kashmir. L’Ungheria include gli Stati Uniti d’America con l’eccezione di tutti gli Stati che prevedono la pena di morte.

45. L’Olanda include l’India, escludendo tuttavia cristiani e musulmani. La Norvegia esclude le minoranze in Kosovo. La Danimarca include la Russia, ad eccezione dei ceceni e degli ebrei.

46. Il Lussemburgo esclude le donne per Benin, Ghana e Mali.

47. Ancora dal rapporto EUAA del 2022 si apprende che prevedono esclusioni per le persone lgbti+: l’Olanda (in relazione a Georgia, Armenia, Brasile, Ghana, Giamaica, Mongolia, Senegal, Serbia, Trinidad e Tobago, Tunisia), la Danimarca (in relazione alla Russia), la Norvegia (in relazione a Ghana, Namibia, Tanzania). La Norvegia esclude inoltre gli albini in relazione alla Tanzania.

48. Sempre dal rapporto EUAA si apprende che l’Olanda esclude i detenuti per l’Armenia, chi rischia la detenzione in Serbia e chi è esposto a processo penale in Mongolia e Senegal. Ancora l’Olanda esclude i giornalisti per il Ghana, l’India, la Serbia e il Brasile, e i giornalisti che si sono occupati della situazione del Rif in Marocco, nonché i militanti ecologisti in Brasile e gli attivisti per i diritti umani e oppositori politici in India. La Norvegia esclude chi ha subito un matrimonio forzato in Ghana e Tanzania. La Danimarca gli oppositori politici in Russia.

49. Vds. E. Colombo e M. Flamini, La procedura accelerata, op. cit., p. 193, che osservano che «questa scelta pone però alcune problematiche: da un lato, essa parrebbe contraddire la ratio sottesa alla stessa direttiva, volta al ravvicinamento delle normative nazionali, e, dall’altro, sembrerebbe smentire il concetto stesso di Stato “sicuro in via generale e costante”, considerando tale un Paese che nega protezione ad una parte della propria popolazione».

50. Corte regionale di Brno, decreto del 20 giugno 2022 (https://curia.europa.eu/juris/showPdf.jsf;jsessionid=54A16B8AF775808DF0DE5366C2A3427B?text=&docid=263901&pageIndex=0&doclang=IT&mode=req&dir=&occ=first&part=1&cid=1603310).

51. Decreto interministeriale 4 ottobre 2019, «Individuazione dei Paesi di origine sicuri, ai sensi dell’articolo 2-bis del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25» (GU, 7 ottobre 2019).

52. Decreto interministeriale 17 marzo 2023, «Aggiornamento periodico della lista dei paesi di origine sicuri per i richiedenti protezione internazionale» (GU, 25 marzo 2023).

53. F. Venturi, Il diritto d’asilo, op. cit., p. 154, ricorda come la Commissione avesse suggerito di includere in suddetta lista Stati quali l’Albania, la Bosnia Erzegovina, la Macedonia, il Kosovo, il Montenegro, la Serbia e la Turchia (Commissione europea, Proposal for a Regulation of the European Parliament and of the Council establishing an EU common list of safe countries of origin for the purposes of Directive 2013/32/EU of the European Parliament and of the Council on common procedures for granting and withdrawing international protection, and amending Directive 2013/32/EU, Bruxelles, 9 settembre 2015.

54. https://acleddata.com/conflict-severity-index/.

55. EASO, Informazioni sui paesi di origine – Nigeria – Attori della protezione, novembre 2018.

56. A. Kriesch (DW), Nigeria fails to protect kids from Boko Haram, 26 febbraio 2018 (www.dw.com/en/nigeria-fails-to-protect-schools-from-boko-harams-attacks/a-42737072).

57. OSAC, Nigeria 2017 Crime and Safety Report, Lagos, 7 aprile 2017.

58. Sahara Reporters, ‘Arrow’ And Ex-Policeman – Two ‘Key’ Offa Bank Robbers Arrested By Police, 21 maggio 2018.

59. OSAC, Nigeria 2017 Crime and Safety Report, Lagos, op. cit.

60. The Economist, Suspects are beaten up and burned by “jungle justice” vigilantes, 24 dicembre 2016 (www.economist.com/middle-east-and-africa/2016/12/24/suspects-are-beaten-and-burned-by-jungle-justice-vigilantes); OSAC, Nigeria 2017 Crime and Safety Report, Lagos, op. cit.

61. Commissione nazionale per il diritto di asilo (Ufficio IV, unità COI), rapporto del 15 dicembre 2021 («Nigeria – Cultismo, omicidi rituali (Uromi – Edo State), Gang Blue Queen (Port Harcourt – Rivers State), Gang Arrow Barger […]»); l’analisi citata sulle polizie del mondo è a cura della International Police Science Association (IPSA), World Internal Security and Police Index, 2016 (www.ipsa-police.org/images/uploaded/Pdf%20file/WISPI%20Report.pdf).

62. C. Favilli, L’Unione che protegge e l’Unione che respinge. Progressi, contraddizioni e paradossi del sistema europeo di asilo, in Questione giustizia trimestrale, n. 2/2018, pp. 28-43 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/507/qg_2018-2_04.pdf); similmente, E. Colombo e M. Flamini, La procedura accelerata, op. cit., p. 196, per cui «potrebbe configurarsi un contrasto con l’art. 10, comma 3 della Costituzione, poiché la disposizione costituzionale osterebbe ad una limitazione dell’accesso al diritto di asilo costituzionale sulla sola base della provenienza da un determinato Paese».