Magistratura democratica

La protezione dei cittadini stranieri provenienti da cd. «Paesi sicuri» in seguito alle modifiche introdotte dal dl n. 20 del 2023

di Martina Flamini

Il contributo affronta il tema delle principali caratteristiche del procedimento e delle garanzie previste, dal legislatore europeo e nazionale, per l’esame delle domande di protezione dei cittadini provenienti da Paesi designati di origine sicuri, con particolare riferimento alle modifiche in tema di procedure accelerate introdotte dal dl n. 20 del 2023 e al nuovo decreto interministeriale contenente l’elenco dei detti Paesi. 

1. Premessa / 2. La nozione di «Paese di origine sicuro» / 3. La presunzione di sicurezza e l’onere di allegazione del richiedente / 4. Le caratteristiche della procedura accelerata applicabile ai richiedenti provenienti da cd. «Paesi sicuri» in seguito alle modifiche introdotte dal dl n. 20/2023 / 4.1. La sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato / 5. L’elenco dei Paesi sicuri contenuto nei decreti interministeriali e le “schede-Paese” / 6. Prime questioni in ordine alla compatibilità della disciplina nazionale con le fonti sovranazionali / 6.1. La designazione di un Paese sicuro limitatamente a una porzione del territorio o a determinate categorie di individui / 6.2. Paesi di origine sicura e persone vulnerabili / 6.3. Il termine per l’esame della domanda / 6.4. Il rispetto dell’obbligo di motivazione del provvedimento di rigetto della domanda / 6.5. L’inclusione di un Paese nell’elenco dei Paesi sicuri e le indicazioni provenienti dalle Country Guidance / 7. Possibili prospettive interpretative

 

1. Premessa

La nozione di Paese di origine sicura è antitetica rispetto alla disciplina sul diritto d’asilo: la prima, infatti, si riferisce a una situazione oggettiva da valutare ex ante e in modo generalizzato, mentre il diritto di asilo si fonda su un esame specifico del caso individuale, all’interno del quale la sicurezza del Paese di provenienza del ricorrente viene considerata una circostanza da accertare ex post

Tale premessa appare indispensabile prima di compiere l’esame delle specifiche disposizioni dettate dal legislatore europeo e nazionale in merito all’esame di tali domande. La presentazione di una domanda di protezione internazionale da parte di un cittadino straniero proveniente da un Paese designato di origine sicura, infatti, determina sensibili scostamenti rispetto alla procedura ordinaria, con inevitabili ricadute in termini di diritto di difesa e diritto ad un rimedio effettivo. 

La disciplina relativa a tali domande, anche alla luce delle recenti modifiche introdotte dal dl n. 20 del 2023 (convertito con modifiche dalla l. n. 50/2023), nonché delle fonti secondarie e degli atti amministrativi in forza dei quali un Paese è designato come di origine sicura, verrà esaminata per valutarne la conformità alle disposizioni di rango costituzionale e sovranazionale. 

 

2. La nozione di «Paese di origine sicuro»

Il legislatore italiano, con la legge n. 132 del 2018, avvalendosi di una facoltà prevista dalla cd. “direttiva procedure” (art. 36 dir. 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013), ha introdotto nell’ordinamento interno il concetto di «Paesi di origine sicuri», da tenere distinto rispetto al «Paese terzo sicuro» e al «Paese di primo asilo».

Il «Paese terzo sicuro», infatti, è una nozione giuridica che consente di enucleare una presunzione di sicurezza rispetto a Paesi che presentino determinate caratteristiche, elencate all’art. 38, par. 1 della direttiva procedure, mentre con il termine «Paese di primo asilo», ai sensi dell’art. 35 della direttiva procedure, si individua uno Stato che riconosca all’individuo ivi inviato la protezione di cui questi abbia goduto in passato o una protezione che il legislatore europeo definisce sufficiente e che comprenda, quanto meno, la tutela dal refoulement.

Tale distinzione appare ancor più significativa alla luce della recente proposta di regolamento procedure, approvata l’8 giugno 2023[1], che nella sezione V disciplina i «safe country concepts», anche con riferimento alla nozione di Paese di primo asilo.

L’articolo 37 della menzionata direttiva statuisce che gli Stati membri possono mantenere in vigore o introdurre una normativa che consenta di designare a livello nazionale Paesi di origine sicuri ai fini dell’esame delle domande di protezione internazionale. La definizione di tale nozione è contenuta nell’allegato I della direttiva 2013/32, in forza del quale «[u]n Paese è considerato di origine sicuro se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni (...) né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale».

Inoltre, l’articolo 36 della medesima direttiva detta le condizioni soggettive affinché un Paese possa essere considerato di origine sicuro per un determinato richiedente asilo. In particolare, è necessario che quest’ultimo: sia cittadino del Paese di provenienza definito sicuro, o apolide, che in quel Paese abbia soggiornato abitualmente; non abbia invocato gravi motivi a lui riferibili, tesi a escludere che il Paese di origine sia sicuro.

Tanto premesso, a fronte della normativa europea, l’art. 7-bis del dl 4 ottobre 2018, n. 113 (cd. “decreto sicurezza”), introdotto in sede di conversione dall’art. 1 della l. 1° dicembre 2018, n. 132, ha inserito nel d.lgs 28 gennaio 2008, n. 25, l’art. 2-bis, intitolato «Paesi di origine sicuri».

Secondo quanto disposto dal comma 1, «[c]on decreto del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, di concerto con i Ministri dell’interno e della giustizia, è adottato l’elenco dei Paesi di origine sicuri», elenco che viene aggiornato periodicamente ed è notificato alla Commissione europea. Al comma 2, si stabilisce che «[u]no Stato non appartenente all’Unione europea può essere considerato Paese di origine sicuro se, sulla base del suo ordinamento giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che, in via generale e costante, non sussistono atti di persecuzione (…), né tortura o altre forme di pena o trattamento inumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale». Si precisa, altresì, che la designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l’eccezione di parti del territorio o di categorie di persone. 

Per operare suddetta valutazione si tiene conto, ai sensi del comma 3, «della misura in cui è offerta protezione contro le persecuzioni ed i maltrattamenti mediante: 

a) le pertinenti disposizioni legislative e regolamentari del Paese ed il modo in cui sono applicate;

b) il rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, aperto alla firma il 19 dicembre 1966, ratificato ai sensi della legge 25 ottobre 1977, n. 881, e nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 10 dicembre 1984, in particolare dei diritti ai quali non si può derogare a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, della predetta Convenzione europea; 

c) il rispetto del principio di cui all’articolo 33 della Convenzione di Ginevra; 

d) un sistema di ricorsi effettivi contro le violazioni di tali diritti e libertà». 

Inoltre, siffatta valutazione deve basarsi sulle informazioni fornite dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo, nonché da altri Stati membri dell’Unione europea, dall’Easo, dall’Unhcr, dal Consiglio d’Europa e da altre organizzazioni internazionali competenti (par. 4). 

Infine, affinché un Paese designato possa essere considerato Paese di origine sicuro per il richiedente, questi deve avere «la cittadinanza di quel Paese» o essere «un apolide che in precedenza soggiornava abitualmente in quel Paese» e non avere invocato «gravi motivi per ritenere che quel Paese non è sicuro per la situazione particolare in cui lo stesso richiedente si trova» (par. 5).

L’introduzione di questo concetto rende operative altre disposizioni modificative del d.lgs n. 25/2008, introdotte dallo stesso art. 7-bis dl n. 113/2018, che concernono il procedimento (amministrativo e giurisdizionale) di riconoscimento della protezione internazionale, tra le quali quelle in tema di obblighi informativi, di esame prioritario delle domande di protezione internazionale, di ampliamento dei casi di manifesta infondatezza e di eccezione alla regola dell’effetto sospensivo automatico dipendente dal deposito del ricorso.

 

3. La presunzione di sicurezza e l’onere di allegazione del richiedente

L’interpretazione letterale dell’art. 2-bis, comma 5, d.lgs n. 25/2008[2] – che rende inutile il ricorso a ulteriori criteri interpretativi – consente di chiarire in primo luogo, che, per superare la presunzione di sicurezza, il ricorrente debba limitarsi a “invocare” (e dunque ad allegare) e non a “provare” la presenza di elementi tali in forza dei quali la designazione generale (ed ex ante) del Paese come sicuro non riguardi anche la storia individuale del ricorrente. La formulazione della norma rivela, inoltre, come debba ritenersi sufficiente l’allegazione della sussistenza di fattori di inclusione astrattamente idonei a integrare uno dei requisiti per la protezione internazionale[3]. Il ricorrente, in particolare, potrebbe limitarsi ad allegare il proprio orientamento omosessuale o la propria condizione di donna fuggita dal Paese d’origine perché costretta a un matrimonio forzato per superare la presunzione di sicurezza del Paese d’origine, a prescindere dalla valutazione di credibilità dei fatti narrati. La possibilità di “invocare” gravi motivi, per superare la presunzione relativa di sicurezza, infatti, sarebbe frustrata ove si pretendesse una valutazione in termini di fondatezza della prova sui predetti gravi motivi, già nella fase deputata alla verifica della sicurezza (ritenuta in via generale ed ex ante) del Paese d’origine con riferimento alla specifica situazione individuale del ricorrente. 

Per comprendere quando l’onere di allegazione dei gravi motivi possa ritenersi assolto, non può prescindersi dall’individuazione del significato e della portata dell’obbligo di cooperazione dell’autorità accertante. Lo stretto legame tra onere di allegazione e dovere di cooperazione è stato da tempo messo in luce dalla Corte di giustizia[4]: «benché il richiedente sia tenuto a produrre tutti gli elementi necessari a motivare la domanda, spetta tuttavia allo Stato membro interessato cooperare con tale richiedente nel momento della determinazione degli elementi significativi della stessa. Tale obbligo di cooperazione in capo allo Stato membro implica, pertanto – concretamente – che se, per una qualsivoglia ragione, gli elementi forniti dal richiedente una protezione internazionale non sono esaustivi, attuali o pertinenti, è necessario che lo Stato membro interessato cooperi attivamente con il richiedente in tale fase della procedura per consentire di riunire tutti gli elementi atti a sostenere la domanda. Peraltro, uno Stato membro riveste una posizione più adeguata del richiedente per l’accesso a determinati tipi di documenti».

Nella giurisprudenza di Strasburgo, invece, la portata del dovere di cooperazione – declinato come accertamento “motu proprio” – si atteggia in modo diverso, assumendo contenuti più o meno pregnanti in ragione del rischio lamentato (con particolare riferimento al rischio di essere sottoposto a trattamenti inumani o degradanti) o del carattere generale della condizione di insicurezza nel Paese di destinazione. La Corte Edu (Grande Chambre), nel caso F.G. c. Svezia[5], ribaltando la decisione resa in primo grado, ha affermato che, pur spettando al richiedente asilo l’onere di fornire gli elementi che sostanziano la domanda, l’autorità decidente, al fine di accertare e valutare tutte le circostanze rilevanti del caso, può fare ricorso a tutti i mezzi a sua disposizione, anche prevedendone l’acquisizione d’ufficio[6]. Nella pronuncia in esame la Corte ha distinto due ipotesi: la prima ricorre in relazione alle richieste di protezione internazionale che si fondano su un rischio di potenziale violazione del diritto alla vita e/o di trattamenti inumani e degradanti che appaia generalizzato e conosciuto (stabilendo che, in questi casi, sussiste un obbligo in capo all’autorità nazionale di valutare di propria iniziativa il rischio cui verrebbe esposto il richiedente asilo se rinviato nel suo Paese); nella seconda, relativa invece ai casi di richieste di protezione internazionale che si fondano su un rischio di persecuzione individuale, è esclusivamente onere del ricorrente sostanziare la domanda (con la conseguenza che, se il richiedente decide di non basare la sua richiesta d’asilo su un determinato motivo, o comunque non fornisce elementi al riguardo, non è possibile ritenere che vi sia un dovere da parte dello Stato di attivarsi). 

Con riferimento alla valutazione della situazione generale di sicurezza del Paese d’origine, nonché alla capacità delle autorità statali di offrire protezione al ricorrente, la Corte europea, anche in forza di un espresso richiamo al par. 6 del Manuale Unhcr «Note on Burden and Standard of Proof in Refugee Claims», ha ribadito che le autorità accertanti devono tenere conto della situazione oggettiva del Paese d’origine motu proprio.

Nella successiva decisione della Grande Camera sul caso Ilias e Ahmed c. Ungheria, del 21 novembre 2019, la Corte, dopo aver ricordato che spetta al richiedente asilo apportare gli elementi probatori che attestino il rischio di essere sottoposto a trattamenti persecutori nel Paese di origine, ha precisato che, nel caso di domande di asilo basate su un rischio generale ben noto, accertabile in una serie considerabile di fonti, l’art. 3 impone agli Stati di avviare di propria iniziativa una valutazione sul rischio in parola.

Orbene, la designazione di un Paese come «sicuro» non esonera comunque l’autorità accertante dall’obbligo di adempiere il dovere di cooperazione istruttoria: la domanda di protezione di un soggetto proveniente da un Paese sicuro deve essere, infatti, esaminata e istruita dal giudice di merito, con pieno esercizio dei poteri-doveri di cooperazione istruttoria, alla sola condizione che essa contenga un’allegazione specifica e circostanziata di motivi che giustifichino la non assimilabilità della condizione del ricorrente a tutti i ricorrenti provenienti dal cd. Paese sicuro. Non sembra, pertanto, che tali circostanze debbano altresì essere «gravi».

In questo senso sembra orientata la Suprema corte (nell’ord. n. 29914 del 18 novembre 2019, non massimata, e nella successiva Cass., n. 19252 del 16 settembre 2020, chiamata a pronunciarsi sul profilo, del tutto peculiare, delle zone insicure all’interno di un Paese designato come sicuro). Nella decisione del 2020, la Cassazione, dopo aver sottolineato la possibilità per il richiedente asilo «di dedurre la propria provenienza da una specifica area del Paese stesso interessata a fenomeni di violenza e insicurezza generalizzata che, ancorché territorialmente circoscritti, possono essere rilevanti ai fini della concessione della protezione internazionale o umanitaria», ha affermato che, in presenza di detta allegazione, sussiste il dovere del giudice di procedere all’accertamento in concreto sulla pericolosità di detta zona e sulla rilevanza dei predetti fenomeni.

Ancora in tal senso può essere ricordata anche la pronuncia n. 8819/2020, ove i giudici di legittimità (pronunciatisi su un caso di richiedente che non proveniva da un Paese sicuro) hanno affermato, con principi che ben possono ritenersi applicabili anche nell’esame di domande proposte da ricorrenti che provengono da Paesi sicuri, che «qualsiasi valutazione di non credibilità della narrazione non può in alcun modo essere posta a base, ipso facto, del diniego di cooperazione istruttoria cui il giudice è obbligato ex lege. Quel giudice non sarà mai in grado, ex ante, di conoscere e valutare correttamente la reale ed attuale situazione del Paese di provenienza del richiedente asilo, sicché risulta frutto di un evidente paralogismo l’equazione mancanza di credibilità/insussistenza dell’obbligo di cooperazione».

Un primo aspetto che merita di essere indagato concerne la natura del concetto di “Paese sicuro”, e ciò al fine di verificare se le conseguenze procedurali discendenti dall’applicazione della presunzione di sicurezza del Paese terzo costituiscano un automatismo o, al contrario, se sia comunque necessaria una valutazione più approfondita della situazione in essere nel Paese di respingimento, anche in caso di mancato esame nel merito della domanda.

La questione è stata specificatamente affrontata dalla Corte Edu nella già citata sentenza resa nella causa Ilias e Ahmed c. Ungheria[7], nella quale, tra le numerose questioni affrontate, i giudici di Strasburgo si sono occupati di individuare gli oneri di uno Stato che faccia applicazione della nozione di Paese sicuro con specifico riferimento a un rischio di violazione del principio di non-refoulement (art. 3 Cedu). In merito, la Corte ha ribadito quanto già in precedenza affermato relativamente alla responsabilità dello Stato contraente che intenda rimuovere dei richiedenti asilo verso un Paese terzo, che comporta il dovere di non deportare tali soggetti «se siano stati presentati motivi sostanziali per credere che una tale azione possa esporli direttamente (cioè in quel Paese terzo) o indirettamente (per esempio, nel Paese di origine o in altro Paese) a un trattamento contrario, in particolare, all’articolo 3» (par. 129). In questa prospettiva, tra le valutazioni che necessitano di essere effettuate, rientra sicuramente una verifica circa l’adeguatezza della procedura di asilo del Paese di destinazione, al fine di accertare che vengano assicurate garanzie sufficienti per evitare che un richiedente asilo fosse respinto, direttamente o indirettamente, verso il proprio Paese di origine senza una valutazione consona del rischio che possa affrontare nei termini dell’art. 3 Cedu[8]

In Ilias e Ahmed, la Corte ha però fatto un passo ulteriore, poiché ha espressamente negato qualsiasi automatismo discendente dal criterio del Paese sicuro. I giudici, infatti, hanno affermato che, «in tutti i casi di spostamento di un richiedente asilo da uno Stato contraente a un Paese terzo intermedio senza esame della domanda d’asilo nel merito, e indipendentemente dall’appartenenza dello Stato terzo all’Ue o alla Cedu, resta il dovere dello Stato espellente di valutare in dettaglio se vi sia o meno il rischio reale che il richiedente asilo si veda negare, nel Paese terzo, l’accesso a una procedura d’asilo adeguata e che possa proteggerlo/la dal refoulement. Se viene stabilito che le garanzie esistenti in merito sono insufficienti, l’articolo 3 implica un obbligo di non ricollocamento dei richiedenti asilo verso tale Paese terzo» (par. 134). Dunque, in merito alla valutazione, mentre il richiedente asilo ha l’onere di allegare le proprie circostanze individuali che non possono essere a conoscenza delle autorità nazionali, «queste stesse autorità devono procedere di propria iniziativa a una valutazione aggiornata, in particolare, dell’accessibilità e del funzionamento del sistema d’asilo del Paese ricevente e delle garanzie che dia in pratica. La valutazione va condotta principalmente con riferimento ai fatti che fossero conosciuti dalle autorità nazionali al momento dell’espulsione, ma è obbligo di quelle autorità ricercare a tal fine ogni informazione rilevante che sia generalmente accessibile (…). Vi è una presunzione di conoscenza per quanto concerne carenze generali che siano ben documentate in rapporti autorevoli, in particolare quelli dell’Unhcr, del Consiglio d’Europa e dell’Ue. (…) [Lo Stato espellente] deve, come prima cosa, verificare come le autorità di quel Paese applichino in concreto la loro legislazione sull’asilo» (parr. 139-141).

 

4. Le caratteristiche della procedura accelerata applicabile ai richiedenti provenienti da cd. «Paesi sicuri» in seguito alle modifiche introdotte dal dl n. 20/2023

L’art. 28-bis (titolato «Procedure accelerate») del d.lgs n. 25/2008 prevede, al suo secondo comma: «La Questura provvede senza ritardo alla trasmissione della documentazione necessaria alla Commissione territoriale che, entro 7 giorni dalla data di ricezione della documentazione, provvede all’audizione e decide entro i successivi 2 giorni nei seguenti casi: (…) c) richiedente proveniente da un Paese designato di origine sicura, ai sensi dell’articolo 2-bis; d) domanda manifestamente infondata, ai sensi dell’articolo 28-ter; (…)».

Il comma 1 dell’art 7-bis dl n. 20 del 2023, come introdotto dalla legge di conversione n. 50 del 2023 (in vigore dal 6 maggio 2023), alla lettera b, amplia le ipotesi di casi di procedure accelerate di esame delle domande di protezione internazionale. Rispetto al previgente art. 28-bis, comma 2 del d.lgs n. 25/2008 (nella parte in cui prevede che la questura provveda, senza ritardo, alla trasmissione della documentazione alla commissione territoriale che, entro 7 giorni dalla ricezione, provvede all’audizione dell’interessato e decide entro i successivi 2 giorni per determinate fattispecie), la novella introduce una nuova fattispecie “accelerata” per le domande di protezione internazionale presentate direttamente alla frontiera, o nelle zone di transito, da cittadino straniero proveniente da un Paese di origine designato come “sicuro”. In tali casi, inoltre, è previsto che la procedura accelerata potrà essere svolta direttamente alla frontiera o nelle zone di transito, e che il termine per la decisione venga ulteriormente abbreviato (solo 7 giorni decorrenti dalla ricezione della domanda, entro i quali la commissione territoriale dovrà adottare la decisione).

La nuova disciplina delle domande presentate da richiedenti provenienti da Paesi designati di origine sicura prevede, in virtù del disposto dell’art. 6-bis, aggiunto al d.lgs n. 142/2015, che il richiedente che non abbia consegnato il «passaporto o altro documento equipollente» o che non abbia prestato «idonea garanzia finanziaria», possa essere trattenuto durante lo svolgimento della procedura accelerata di esame della domanda di protezione internazionale presentata alla frontiera, o nelle zone di transito, «al solo scopo di accertare il diritto ad entrare nel territorio dello Stato».

Nella nota tecnica alla legge di conversione del dl n. 20/2023, l’Unhcr ha sottolineato la necessità di istituire procedure di frontiera «rispettose delle necessarie garanzie procedurali». In particolare, ha evidenziato come «possano essere esaminate in tempi più ristretti e in frontiera quelle domande di protezione internazionale che, in una fase iniziale di raccolta delle informazioni e registrazione, appaiano manifestamente infondate (ovvero chiaramente non riconducibili ai criteri per il riconoscimento della protezione internazionale o proposte con il solo fine di trarre in inganno le autorità). Il trattenimento sarà, pertanto, ammissibile nel caso di domande manifestamente infondate, per un periodo limitato, e in ogni caso non eccedente le quattro settimane, allo scopo di concludere l’esame della domanda, fatta salva l’applicabilità delle previste garanzie legali e procedurali».

Con specifico riferimento all’ipotesi di trattenimento sopra indicata, l’Alto commissariato ha sottolineato come appaia «ingiustificato collegare i presupposti per un trattenimento di quattro settimane, volto a completare l’esame della domanda di protezione, nell’ambito della procedura di frontiera, a criteri quali la mancanza di documenti o di mezzi finanziari, combinati con la provenienza da un Paese di origine designato come sicuro, senza alcuna valutazione preliminare sulla fondatezza o meno della domanda».

Non potendo in questa sede approfondire le numerose questioni processuali relative alle conseguenze derivanti dal mancato rispetto dei termini previsti per le procedure accelerate e al diverso e complesso rapporto tra procedure accelerate e ipotesi di manifesta infondatezza, ci si soffermerà, in particolare, sul tema del diritto del cittadino straniero proveniente da un Paese sicuro di restare in Italia durante la pendenza del procedimento (e, dunque, dell’applicazione, o meno, dell’eccezione relativa all’effetto sospensivo automatico conseguente alla proposizione del ricorso).

 

4.1. La sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato

L’art. 46, par. 5 della “direttiva procedure” dispone che «gli Stati membri autorizzano i richiedenti a rimanere nel loro territorio fino alla scadenza del termine entro il quale possono esercitare il loro diritto a un ricorso effettivo oppure, se tale diritto è stato esercitato entro il termine previsto, in attesa dell’esito del ricorso», ma fa espressamente salvo il successivo par. 6, in cui è prevista l’ipotesi della domanda amministrativa rigettata per manifesta infondatezza. In tal caso, l’autorizzazione a rimanere nel territorio deve essere concessa dal giudice, su istanza del richiedente o d’ufficio, e salve disposizioni più favorevoli del diritto nazionale.

L’art. 7-bis, lett. d del dl n. 20 interviene sul disposto dell’art. 35-bis d.lgs n. 25/2008, ampliando il novero delle eccezioni alla regola generale (dell’effetto sospensivo automatico conseguente alla proposizione del ricorso, prevista dal comma 3 del citato art. 35-bis) e comprendendo così anche il caso della domanda di protezione internazionale presentata direttamente alla frontiera, o nelle zone di transito, da un richiedente proveniente da un Paese designato di origine sicura. 

Ancora in merito alla sospensione dell’efficacia esecutiva della decisione della commissione, l’art. 7-bis, lett. e, introduce, dopo il citato art. 35-bis, un nuovo art. 35-ter avente ad oggetto la «sospensione della decisione in materia di riconoscimento della protezione internazionale nella procedura di frontiera»: la norma in esame prevede che, ove il ricorrente sia trattenuto ai sensi dell’art. 6-bis d.lgs n. 142/2015 (l’ipotesi di trattenimento esaminata nel paragrafo precedente), il ricorso avverso la decisione della commissione territoriale debba essere proposto nel termine di 14 giorni (in luogo dell’ordinario termine di 30), e che l’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva sia proposta, a pena di inammissibilità, unitamente al ricorso introduttivo.

Tanto premesso, anche alla luce delle modifiche introdotte dal recente intervento normativo, occorre soffermarsi, da un lato, sugli elementi da prendere in considerazione ai fini dell’accoglimento dell’istanza di sospensiva e, dall’altro, sulle ipotesi di riviviscenza dell’effetto sospensivo automatico, in caso di adozione di procedure accelerate in modo non conforme alle norme di legge. 

Con riferimento al primo aspetto, per quanto riguarda il rapporto tra normativa interna e Cedu, l’art. 13 della detta Convenzione richiede che, in presenza di una domanda «difendibile» («arguable claim»), l’allontanamento sia sempre differito sino a una decisione nel merito che consenta un’analisi approfondita, attenta, indipendente e rigorosa del rischio in caso di rimpatrio – conseguente, per quel che rileva in questa sede, a un diniego dell’accoglimento dell’istanza cautelare di sospensiva.

Nella giurisprudenza della Corte Edu non si rinviene una definizione di «arguable claim», in quanto la Corte ha deciso con una valutazione ex post, svolta alla luce delle circostanze del caso concreto portato alla sua attenzione[9]. Dall’esame delle decisioni della Corte emerge però, come osservato da attenta dottrina[10], che il contenuto della nozione di “difendibilità” della doglianza sia variabile, non potendosi prescindere dalle caratteristiche dei rischi allegati. Così come, peraltro, già affermato dalla Corte in merito al contenuto dei poteri officiosi del giudice (tanto più estesi, tanto maggiore è il rischio di violazione degli artt. 2 e 3 della Convenzione)[11], ove dunque venga allegato un rischio di esposizione a trattamenti contrari ai citati artt. 2 e 3, in caso di allontanamento dal territorio, un ricorso effettivo ai sensi dell’art. 13 deve tassativamente consentire un esame attento e rigoroso dei rischi derivanti dall’espulsione e produrre l’effetto di impedire il rimpatrio.

Con riferimento alle conseguenze di un provvedimento di diniego dell’istanza di sospensiva proposta da un richiedente proveniente da un Paese sicuro, devono essere tenuti in considerazione i seguenti aspetti:

- il rigetto dell’istanza di sospensiva proposta dal richiedente protezione internazionale (e il conseguente allontanamento dal territorio) può pregiudicare non solo il concreto esercizio del diritto di difesa (precludendo al ricorrente le possibilità di un costante e aggiornato contatto con il suo difensore), ma anche l’effetto utile di una futura decisione di merito favorevole;

- il rigetto della domanda cautelare potrebbe precludere al giudice la possibilità di disporre l’audizione del ricorrente, ove l’esigenza di tale audizione – da valutare secondo i noti criteri indicati dalla Corte di giustizia nella sentenza Sacko – sorgesse solo nel corso del giudizio di merito.

Nel composito sottosistema delle sospensive che caratterizza le fattispecie di protezione internazionale, i richiedenti asilo provenienti da un Paese sicuro non devono allegare «gravi e fondati motivi» (come nel caso del comma 13 dell’art. 35-bis), bensì «gravi e circostanziate ragioni». 

Occorre, dunque, chiarire cosa debba allegare il richiedente protezione internazionale proveniente da un Paese sicuro per evitare che il decorso del tempo necessario per lo svolgimento del giudizio di merito – che, in caso di diniego dell’istanza cautelare, si svolgerebbe quando il richiedente potrebbe non trovarsi più sul territorio italiano – si risolva in un danno per la parte.

Nella valutazione delle gravi e circostanziate ragioni, deve essere prima chiarito se gli elementi relativi al fumus boni iuris e al periculum in mora devono coesistere entrambi o possono essere alternativi.

La generica previsione normativa – che non trova possibili riferimenti né nell’art. 283 cc (che fa riferimento ai «gravi e fondati motivi») né nell’art. 373 cc (che guarda, invece, al «grave ed irreparabile danno») – porta a ritenere preferibile la scelta interpretativa che considera i due requisiti come alternativi. Per l’accoglimento dell’istanza cautelare, dunque, sarà sufficiente sia la positiva valutazione, necessariamente sommaria, della fondatezza della domanda che l’allegazione di un pericolo nel pregiudizio.

La giurisprudenza di merito, chiamata a interpretare le «gravi e circostanziate ragioni», lo ha fatto in modo molto disomogeneo. Alcuni tribunali, ad esempio, le ritengono integrate solo in presenza di un pericolo di pregiudizio per il ricorrente (integrato, ad esempio, da gravi condizioni di salute, sopravvenute rispetto alla prima decisione o, ancora, dall’aggravamento della situazione nel Paese di origine del richiedente), mentre in altre decisione si rileva come la valutazione delle gravi e circostanziate ragioni includa sia la considerazione di nuovi elementi che possano condurre all’accoglimento del ricorso, sia questioni relative alla prospettazione di nuove e ulteriori circostanze suscettibili di autonoma valutazione, anche sotto il profilo dell’irreparabilità del danno derivante dal rigetto della sospensione.

Le differenti opzioni interpretative dovrebbero, comunque, confrontarsi con il necessario riferimento ai principi generali di effettività della tutela e di proporzionalità. 

In merito al primo principio, nella motivazione di un provvedimento emesso all’esito di una domanda cautelare proposta da un richiedente proveniente da un Paese sicuro, il giudice deve esaminare i profili relativi al possibile pregiudizio a una tutela effettiva (in termini di diritto di difesa, di partecipazione al processo, di effetto utile della futura decisione, etc.) conseguenti a una declaratoria di rigetto.

In realtà, il rispetto del principio di effettività della tutela dovrebbe assumere un valore dirimente nell’ottica della valutazione di sicurezza già nella fase legislativa di compilazione delle liste di Paesi considerati “sicuri”, poiché è sulla scorta di esse che trovano poi spazio le limitazioni alle garanzie normalmente assicurate nell’ambito delle procedure di esame delle domande asilo. Infatti, nell’Allegato I alla direttiva procedure, trasposto nell’art. 2-bis, comma 3, d.lgs n. 25/2008, si richiede espressamente che, ai fini della valutazione sulla sicurezza del Paese, si tenga in considerazione la predisposizione di un sistema di ricorsi effettivi contro le violazioni di diritti e libertà sanciti dalla Cedu, nonché dalla Convenzione di Ginevra.

A maggior ragione, nella successiva fase di controllo giurisdizionale, una verifica dell’effettiva conformità del sistema giuridico del Paese terzo ai principi che regolano lo stato di diritto, quali l’indipendenza e l’imparzialità dei giudici, appare assolutamente imprescindibile per assicurare un pieno rispetto dell’articolo 47 della Carta. Come precisato dalla Corte di giustizia, con la sentenza FMS, FNZ e SA, SA junior, peraltro, tale disposizione corrisponde a «un principio generale del diritto comunitario che deriva dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e che è inoltre sancito agli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali»[12], che non necessita di alcuna norma di trasposizione e, pertanto, è direttamente attivabile all’interno degli ordinamenti nazionali[13].

Dunque, la constatazione del mancato rispetto da parte dello Stato di origine dei principi fondanti lo Stato di diritto dovrebbe condurre non soltanto a escludere l’operabilità della presunzione di sicurezza nel caso concreto, ma, a livello generale, a mettere in discussione l’adeguatezza della scelta di inserire un determinato Paese terzo all’interno della lista dei Paesi sicuri.

Con riferimento al principio di proporzionalità, deve osservarsi come il giudice, nell’adempimento del compito di bilanciamento dei diritti e delle libertà fondamentali, debba applicare il predetto principio al singolo caso concreto, stabilendo così se e a quali condizioni il sacrificio del diritto del richiedente proveniente da un Paese sicuro di rimanere nelle more dell’esame della sua domanda di merito sia proporzionato rispetto al confliggente interesse dello Stato (in forza della presunzione relativa di sicurezza del Paese d’origine) di non consentire la permanenza sul proprio territorio sino alla decisione definitiva.

Per quanto attiene, infine, al secondo aspetto sopra indicato – le ipotesi di riviviscenza dell’effetto sospensivo automatico, in caso di adozione di procedure accelerate in modo non conforme alle norme di legge –, mi limiterò a richiamare il recente rinvio pregiudiziale alla Suprema corte, proposto dal Tribunale di Bologna con ordinanza dell’11 giugno 2023 (provvedimento che affronta, in modo approfondito e completo, ogni aspetto relativo alla questione in esame). Nel caso portato all’attenzione dei giudici bolognesi, il ricorrente, cittadino proveniente da Paese designato di origine sicura, aveva proposto istanza di sospensione del provvedimento di rigetto per manifesta infondatezza, adottato ai sensi dell’art. 28-ter, primo comma, lett. b, d.lgs n. 25/2008, sostenendo che detta decisione doveva intendersi automaticamente sospesa, atteso che il provvedimento non aveva seguito una corretta procedura accelerata, in quanto l’autorità amministrativa non aveva rispettato i termini previsti dall’art. 28-bis del citato d.lgs (nella versione ratione temporis applicabile). Nell’ordinanza di rinvio, il Tribunale, rispetto agli effetti della deroga della procedura accelerata per i soggetti provenienti da Paese sicuro, ha dato atto dell’esistenza di tre distinte opzioni esegetiche, due delle quali conducono ad assumere che alla proposizione del ricorso giurisdizionale consegua la sospensione automatica del provvedimento amministrativo (seppure, in un caso, ritenendo che tale regola si imponga sempre; nell’altro, che si imponga solo per i Paesi sicuri e le inammissibilità), mentre per un’altra opinione la deroga produce effetti solo in relazione al dimezzamento del termine per impugnare, ma non ai fini della sospensione. Ricostruite con precisione le diverse opzioni interpretative offerte dalla giurisprudenza di merito, così come richiesto dall’art. 363-bis cpc, il Tribunale ha sottolineato l’esistenza di «un quadro normativo nazionale opaco e spesso frutto di stratificazione di interventi legislativi contraddittori tra loro», su cui «forse incide pure la preoccupazione derivante dagli abnormi effetti pratici che nel nostro ordinamento derivano dalla decisione sulla sospensione o meno del provvedimento amministrativo impugnato», e ha ravvisato la sussistenza di tutti i requisiti previsti dall’art. 363-bis cpc, invocando un intervento chiarificatore della Suprema corte.

 

5. L’elenco dei Paesi sicuri contenuto nei decreti interministeriali e le “schede-Paese” 

In forza del primo comma dell’art. 2-bis d.lgs 28 gennaio 2008, n. 25, il 4 ottobre 2019 era stato emanato un primo decreto interministeriale, pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 7 ottobre 2019, contenente un elenco di Paesi d’origine sicuri. In particolare, l’art. 1, comma 1 del decreto individua quali Paesi sicuri: Albania, Algeria, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Senegal, Serbia, Tunisia e Ucraina.

Con decreto del 17 marzo 2023, pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 25 marzo 2023 è stata aggiornata la lista dei Paesi di origine sicura e, all’art. 1, comma 1, sono considerati tali: Albania, Algeria, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Nigeria, Senegal, Serbia e Tunisia.

Inoltre, all’art. 1, comma 2 del medesimo decreto (così come già previsto nel precedente decreto del 4 ottobre 2019), si legge che, «[n]ell’ambito dell’esame delle domande di protezione internazionale, la situazione particolare del richiedente è valutata alla luce delle informazioni sul Paese d’origine risultanti dall’istruttoria di cui in premessa». Tale riferimento rimanda direttamente all’«appunto n. 181962 del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale». Nell’appunto appena citato, si rileva come «l’inclusione nella lista permett[a] infatti di processare in tempi più certi e rapidi le istanze di protezione internazionale, fatte salve eccezioni riguardanti territorio o categorie a rischio di persecuzione». Tanto premesso, si legge come, a parte la conferma di 12 dei 13 Stati già inclusi nell’elenco (a eccezione dell’Ucraina, il cui inserimento nella lista era stato già sospeso con decreto del 9 marzo 2022), «potrebbero inoltre essere inseriti nella Lista ulteriori quattro Paesi, che appaiono in possesso della caratteristiche necessarie per essere definiti sicuri: Georgia, Costa d’Avorio, Nigeria e Gambia». Nella nota in esame vengono introdotti due ulteriori elementi, quali il fatto che dai detti quattro Paesi provengano la maggior parte dei richiedenti asilo che presentano domanda in Italia e il tasso di diniego delle domande di protezione avanzate dai cittadini delle dette quattro nazionalità (stimato al 58%).

Per comprendere le valutazioni che sono state compiute ai fini dell’inclusione nell’elenco, appare significativa almeno una delle cosiddette “schede-Paese”[14], in particolare quella relativa alla Nigeria (del 3 novembre 2022). Nella scheda in esame, viene esaminata la situazione politica generale, le condizioni dell’ordinamento giuridico, le questioni relative all’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico, nonché l’esistenza di atti di persecuzione, di tortura o altre forme di pena o trattamento inumano o degradante, la possibilità di ricevere protezione contro i maltrattamenti e le persecuzioni e la presenza di eventuali eccezioni per determinate categorie di persone o porzioni del territorio. L’attenta lettura delle informazioni riportate nella scheda rivela l’insussistenza delle condizioni per considerare sicuro il Paese poi incluso nell’elenco. In particolare, vengono evidenziati i seguenti elementi:

- «[I]l Paese è da anni impegnato a fronteggiare l’insurrezione del gruppo fondamentalista Boko Haram (…) [I]n questo specifico contesto del Nord-Est la situazione della sicurezza e le condizioni umanitarie risultano gravemente compromesse. Il numero delle vittime, la situazione degli sfollati interni e le gravi violazioni commesse dai miliziani islamisti e dalla Civilian Joint Task Force (milizia armata costituita da popolazione civile, operanti in affiancamento dell’esercito nigeriano) caratterizzano una situazione particolarmente critica»;

- «Contestualmente le Autorità nigeriane si trovano ad affrontare il conflitto tra pastori (a maggioranza musulmana e di etnia fulani) e agricoltori (a maggioranza cristiana) che ha conosciuto una consistente escalation di violenza dal 2018. Il conflitto è localizzato principalmente in aree rurali nella estesa regione centro-settentrionale, c.d. Middle Belt, che comprende sette Stati (Niger, Kogi, Benue, Plateau, Nassarawa, Kwara e il Federal Capital Territory)»;

- «Nella regione del Delta del Niger invece, a seguito dell’amnistia e degli accordi di pace raggiunti con il MEND nel 2013-14, gli insorti hanno cessato i rapimenti di stranieri o di cittadini nigeriani, e gli attacchi armati contro oleodotti o si registrano solo sporadicamente – analogamente a quanto avviene in altre aree del Paese – per mano di gruppi criminali privi di sigle e non portatori di rivendicazioni politiche»;

- «Tra le altre questioni legate alla situazione della sicurezza interna della Nigeria si segnalano le tensioni tra l’esercito nigeriano e l’Islamic Movement in Nigeria (IMN), movimento politico-religioso di ispirazione sciita creato nel 1979 (in un Paese dove tutti i musulmani sono tradizionalmente sunniti) dallo Sceicco Zakzaki e da lui tuttora guidato»;

- «La violenza domestica sulle donne è diffusa nel Paese e non esiste una legislazione volta alla prevenzione ed al suo contrasto»;

- «La comunità LGBT è stata oggetto di soprusi, minacce ed estorsioni, e forme di discriminazioni anche gravi continuano a persistere, in particolare nelle aree rurali»;

- «Le vittime di tratta che rientrano nel Paese sono generalmente stigmatizzate e soggette a marginalizzazione sociale, ma, in considerazione del loro numero limitato e delle grandi somme stanziate da numerosi Paesi, inclusa l’Italia, per i progetti di reintegrazione, esse hanno ampie possibilità di accesso a progetti di formazione e piccola imprenditoria (…)»;

- «Nel Paese è in vigore la pena di morte per numerosi tipi di reato (…). La Nigeria ha di fatto sospeso le esecuzioni dal 2006»;

- «Le aree a rischio per la diffusa conflittualità interna riguardano gli Stati della regione del Nord-Est»;

- «Le categorie più a rischio sono: detenuti, giornalisti, rifugiati, disabili, albini, sieropositivi, vittime di discriminazione sulla base dell’appartenenza di genere, incluse vittime e potenziali vittime di MGF e vittime o potenziali vittime di tratta, persone LGBTIQ+».

 

6. Prime questioni in ordine alla compatibilità della disciplina nazionale con le fonti sovranazionali

Così brevemente descritte le caratteristiche principali del sistema di tutela dei diritti previsto per i cittadini stranieri provenienti da Paesi cd. di origine sicura, occorre soffermarsi su alcuni aspetti problematici, che sembrano emergere quando il detto sistema viene esaminato alla luce dei principi costituzionali e sovranazionali.

 

6.1. La designazione di un Paese sicuro limitatamente a una porzione del territorio o a determinate categorie di individui

In primo luogo, si osserva che la direttiva procedure del 2013, a differenza della precedente del 2005, non consente di designare un Paese come sicuro limitatamente a determinate porzioni di territorio o a determinati gruppi di individui. Di contro, il legislatore italiano ha esplicitamente ammesso questa possibilità non prevista dalla direttiva (art. 2-bis, comma 2, d.lgs n. 25/2008) e la Commissione nazionale per il diritto di asilo, responsabile di redigere le schede-Paese contenenti le informazioni relative alla situazione di sicurezza, ha contemplato eccezioni di questo tipo (come indicato, ad esempio, nella scheda-Paese relativa alla Nigeria). 

Questa scelta pone però alcune problematiche: da un lato, essa parrebbe contraddire la ratio sottesa alla stessa direttiva, volta al ravvicinamento delle normative nazionali; dall’altro, sembrerebbe smentire il concetto stesso di Stato «sicuro in via generale e costante», considerando tale un Paese che nega protezione a una parte della propria popolazione. Ciò, a maggior ragione, se si considera che il decreto interministeriale contenente la lista di Paesi d’origine sicuri, nel caso di inserimento nell’elenco di un Paese non interamente sicuro, non fa riferimento alle esclusioni relative alle parti del territorio non ritenute tali o alle categorie di persone considerate a rischio. A tal proposito, si dovrebbe verificare se, nel caso in cui si ammettesse l’esclusione di parti del territorio o di gruppi di individui, sia necessario specificare tali esclusioni in sede di designazione dei Paesi di origine considerati sicuri (quindi, con riferimento alla normativa italiana, se siffatte eccezioni debbano essere esplicitamente indicate nel decreto interministeriale contenente il relativo elenco).

 

6.2. Paesi di origine sicura e persone vulnerabili

Alcun problema dovrebbe porsi, invece, con riferimento alle persone vulnerabili. Infatti, sebbene sia prevista anche dalla direttiva procedure la possibilità di applicare anche nei confronti dei minori la presunzione di sicurezza per provenienza da un Paese d’origine sicuro e, di conseguenza, di esaminare le domande da essi promosse con procedura accelerata, il legislatore italiano ha previsto un’espressa limitazione in tale senso (cfr. art. 28-bis, comma 6, d.lgs n. 25/2008 e art. 17 d.lgs n. 142/2015).

Le domande spiegate da persone «portatrici di esigenze particolari», pertanto, non potranno essere esaminate con procedura accelerata (dovendo essere esaminate, invece, con esame prioritario), come peraltro ribadito anche dall’Alto commissariato nella nota del 5 maggio 2023 («i minori e tutte le altre persone con esigenze particolari, come da disposizioni vigenti, sono esonerati da ogni forma di procedura accelerata»).

 

6.3. Il termine per l’esame della domanda

Come detto, ai sensi della novella del 2023, in caso di domanda presentata direttamente alla frontiera, o nelle zone di transito, da persona straniera proveniente da Paese designato di origine sicura, oppure fermato per aver eluso i controlli, la commissione territoriale dovrà decidere nel termine complessivo di 7 giorni.

Invero, alla luce di quanto disposto dalla direttiva procedure, le tempistiche della procedura accelerata in esame non sembrano poter essere qualificate come «ragionevoli» ai sensi dell’art. 31, par. 9, e dunque non sembrano tali da poter consentire un esame «adeguato e completo» delle domande di asilo, come richiesto dall’art. 31, par. 2.

In tema di ragionevolezza dei termini procedurali, si è espressa la Corte di giustizia nella sentenza H.I.D., B.A.[15], statuendo che «l’istituzione di una procedura prioritaria come quella oggetto dei procedimenti principali deve pienamente consentire l’esercizio dei diritti che la direttiva in parola conferisce ai richiedenti asilo (…). Questi ultimi, in particolare, devono poter beneficiare di un termine sufficiente per raccogliere e presentare gli elementi necessari a suffragare le loro domande, permettendo così all’autorità accertante di compiere un esame equo e completo di tali domande, nonché di garantire che i richiedenti non siano esposti a pericoli nel loro Paese d’origine». 

Inoltre, è la stessa direttiva a stabilire che «gli Stati membri possono superare i termini laddove necessario per assicurare un esame adeguato e completo della domanda di protezione internazionale» (art. 31, par. 9, seconda parte). 

Pertanto, al fine di assicurare il rispetto dei principi fondamentali e delle garanzie previste dalla direttiva procedure, volte ad assicurare ai richiedenti un accesso effettivo alle procedure di asilo[16], dovrà ammettersi un’interpretazione conforme al diritto europeo, che comporti la possibilità di considerare meramente indicativo il termine impartito, al fine di assicurare comunque un esame adeguato e completo della domanda. 

 

6.4. Il rispetto dell’obbligo di motivazione del provvedimento di rigetto della domanda

Il comma 2-bis dell’art. 9 d.lgs n. 25/2008 prevede che «la decisione con cui è rigettata la domanda presentata dal richiedente di cui all’articolo 2-bis, comma 5, è motivata dando atto esclusivamente che il richiedente non ha dimostrato la sussistenza di gravi motivi per ritenere non sicuro il Paese designato di origine sicuro in relazione alla situazione particolare del richiedente stesso». 

Dalla lettera della norma, pare possibile desumere che le commissioni territoriali, a seguito del colloquio personale con il richiedente asilo, possano emanare un provvedimento di manifesta infondatezza della domanda, limitandosi a giustificare la propria decisione con un mero riferimento al mancato adempimento dell’onere probatorio configurabile in capo all’interessato. Non risulta, invece, che venga richiesto alle commissioni di argomentare in merito alla credibilità delle dichiarazioni del richiedente asilo, di esplicitare i motivi concernenti la sicurezza del Paese di origine (che giustifica il rigetto per manifesta infondatezza della domanda), ovvero di allegare ragioni per cui non si reputino sussistenti i «gravi motivi per ritenere non sicuro il Paese designato di origine sicuro», con riferimento alla situazione specifica del richiedente

Pertanto, in applicazione della nozione di «Paese di origine sicuro», il diniego della domanda di protezione potrebbe assumere carattere stereotipato, finendo per restare sostanzialmente privo di motivazione, almeno fino alla fase giurisdizionale: sarebbe rimesso al giudice – in caso di (eventuale) ricorso – l’espletamento della valutazione in ordine all’effettiva sicurezza nel Paese di origine (con particolare attenzione al rischio di refoulement), data per presupposta in fase amministrativa. 

Peraltro, lo stesso decreto interministeriale con cui sono stati designati i Paesi di origine considerati sicuri ai fini dell’applicazione della relativa disciplina, in forza della sua portata generale, non rientra tra gli atti sottoposti ad obbligo di motivazione (art. 3, comma 2, l. n. 241/1990). Da esso si evince che le valutazioni relative allo stato di sicurezza dei Paesi di origine sono stati effettuate dalla Commissione nazionale per il diritto d’asilo, in forza delle informazioni fornite dai competenti uffici geografici del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale. Tuttavia, dalla mera elencazione dei Paesi di origine considerati sicuri contenuta nel decreto[17], non è possibile individuare quali siano le ragioni che hanno determinato l’inserimento di determinati Paesi e non di altri all’interno della lista. In particolare, come osservato nel caso della Nigeria, le ragioni di perplessità aumentano laddove i numerosi elementi di criticità riscontrati nella scheda-Paese militino nel senso opposto a una conclusione in termini di sicurezza del Paese. 

La normativa nazionale descritta pare porsi in contrasto, innanzitutto, con quanto statuito dall’art. 11, par. 2 della direttiva 2013/32, in virtù del quale è espressamente previsto un obbligo di motivazione in fatto e in diritto del provvedimento di rigetto della domanda di protezione internazionale[18]

L’obbligo di congrua motivazione, che esplichi l’iter logico-argomentativo seguito dall’autorità competente per giungere a una determinata conclusione, è posto a tutela del diritto di difesa dell’interessato, il quale può così disporre di un ulteriore strumento di verifica sulla coerenza e ragionevolezza dell’operato dell’autorità decidente. Come precisato dalla Corte di giustizia, «[il diritto al contraddittorio] implica anche che l’amministrazione competente presti tutta l’attenzione necessaria alle osservazioni della persona coinvolta esaminando, in modo accurato e imparziale, tutti gli elementi rilevanti della fattispecie e motivando circostanziatamente la sua decisione (vds. sentenze Technische Universität München, C-269/90, punto 14, e Sopropé, punto 50), laddove l’obbligo di motivare una decisione in modo sufficientemente dettagliato e concreto, al fine di consentire all’interessato di comprendere le ragioni del diniego opposto alla sua domanda, costituisce un corollario del principio del rispetto dei diritti della difesa (sentenza M., punto 88)»[19].

Infatti, la motivazione del provvedimento è un presupposto essenziale per l’esercizio di un diritto a un rimedio effettivo, ai sensi dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione e dell’art 46 della direttiva procedure: essa, infatti, fornisce all’interessato le indicazioni utili per valutare la fondatezza di un atto ovvero l’esistenza di un vizio che ne consenta la contestazione. È la stessa Corte di giustizia, ad affermare che, «[i]l diritto a un mezzo di impugnazione efficace costituisce un principio fondamentale del diritto dell’Unione» e «[a]ffinché l’esercizio di tale diritto sia effettivo, il giudice nazionale deve poter verificare la fondatezza dei motivi che hanno indotto l’autorità amministrativa competente a considerare la domanda di protezione internazionale infondata o abusiva, senza che detti motivi beneficino di una presunzione inconfutabile di legittimità»[20]. Quest’obbligo, di conseguenza, deve riguardare anche la decisione relativa alla designazione del Paese di origine come sicuro: soltanto così il giudice sarà messo nella condizione di esaminare compiutamente il fondamento fattuale della decisione e la correttezza della valutazione del rischio operata[21].

Da un punto di vista più generale, è poi possibile prospettare una violazione dell’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, che prevede, tra gli elementi costitutivi del principio di buona amministrazione, il dovere di motivare le singole decisioni. Infatti, sebbene il diritto sancito dall’art. 41 Cdfue non sia riferito agli Stati membri, ma unicamente alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione, la Corte di giustizia ha ritenuto che il diritto a una buona amministrazione rifletta un principio generale del diritto dell’Unione e, dunque, debba trovare applicazione con riferimento alle procedure d’asilo, poiché gli Stati membri applicano il diritto dell’Unione quando esaminano le domande di protezione internazionale[22].

 

6.5. L’inclusione di un Paese nell’elenco dei Paesi sicuri e le indicazioni provenienti dalle Country Guidance

Con regolamento UE n. 2303 del 15 dicembre 2021[23] è stata istituita l’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo (EUAA). Con specifico riferimento al tema oggetto del presente contributo, l’art. 2, tra i compiti affidati all’Agenzia, individua quello di stilare ed aggiornare «regolarmente le relazioni e altri documenti che forniscono informazioni sulla situazione nei Paesi terzi interessati, compresi i Paesi d’origine, a livello dell’Unione» (lett. e) e quello di fornire «informazioni e analisi sui Paesi terzi per quanto riguarda il concetto di Paese di origine sicuro (…)» (lett. f).

L’art. 11, relativo all’«analisi comune sulla situazione nei Paesi d’origine e note di orientamento» (le Country Guidance), al primo comma dispone che, «per promuovere la convergenza nell’applicazione dei criteri di valutazione stabiliti nella direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, l’Agenzia coordina gli sforzi fra gli Stati membri per sviluppare un’analisi comune sulla situazione negli specifici Paesi d’origine e note di orientamento che assistano gli Stati membri nella valutazione delle pertinenti domande di protezione internazionale».

Al comma 3 dell’art. 11, inoltre, è espressamente previsto che gli Stati membri tengano conto dell’analisi comune («shall take into account») e delle note di orientamento nell’esaminare le domande di protezione internazionale, ferma restando la loro competenza a decidere in merito alle singole domande di protezione internazionale.

Orbene, solo per citare un esempio dalla Country Guidance EUAA relativa alla Nigeria (ed. 2021), la parte relativa all’esame della situazione di eventuale violenza indiscriminata rivela in modo chiaro come vaste aree del Paese si trovino in condizioni di elevata insicurezza (cfr., in particolare, p. 111).

Nell’applicazione della disciplina sull’esame delle domande di protezione spiegate dai cittadini stranieri provenienti da Paesi di origine sicura occorrerà, pertanto, valutare se, in caso di indicazioni contenute nelle note di orientamento contrastanti con quelle risultanti dal decreto adottato dal legislatore nazionale, il giudice nazionale debba, in ossequio al disposto del citato art. 11.3 del regolamento, dare applicazione alla disposizione sovranazionale.

 

7. Possibili prospettive interpretative

Il diritto alla protezione internazionale subisce, come visto, rilevanti limitazioni in ragione della provenienza del ricorrente da un Paese designato di origine sicura. Dette limitazioni appaiono coerenti con le norme europee e nazionali solo laddove il Paese d’origine, in ossequio alle fonti che devono essere consultate, possa ritenersi “sicuro” e solo quando il ricorrente non abbia invocato ragioni che facciano venir meno l’operatività della presunzione nei suoi confronti. Entrambi questi requisiti, come detto, devono essere vagliati alla luce dei principi sovranazionali e costituzionali, così come interpretati dalle corti.

Laddove, invece, il giudice ravvisi l’esistenza di ragioni che portano a dubitare della compatibilità con i principi sopra brevemente richiamati, occorrerà interrogarsi sui possibili rimedi.

A tal proposito, appare significativo quanto affermato dalla Suprema corte nella sentenza n. 29914 del 2019: laddove il giudice ordinario dovesse ravvisare un vizio di legittimità del decreto, egli può ritenerlo «non vincolante». In particolare, la Corte ha affermato:

«va considerato che l’inserimento del Paese nel predetto elenco non preclude la possibilità per il ricorrente di dedurre la propria provenienza da una specifica area del Paese stesso interessata a fenomeni di violenza e insicurezza generalizzata che, ancorché territorialmente circoscritti, possono essere rilevanti ai fini della concessione della protezione internazionale o umanitaria, né esclude il dovere del giudice, in presenza di detta allegazione, di procedere all’accertamento in concreto sulla pericolosità di detta zona e sulla rilevanza dei predetti fenomeni». 

Seguendo la strada indicata dalla Suprema corte, pertanto, per quanto riguarda il profilo di non compatibilità da ultimo indicato, non si tratterebbe di disapplicare il decreto che ha previsto la lista dei Paesi cd. “sicuri”, ma di limitarsi a una non applicazione – in luogo di una diretta applicazione – della disposizione sovranazionale (il citato art. 11.3 del regolamento) che impone di tener conto delle note di orientamento elaborate dall’Agenzia.

Ancora, atteso che, in forza del principio del primato del diritto dell’Unione, nonché del principio di leale cooperazione (art. 4.3 Tue), i giudici nazionali sono chiamati a operare un’interpretazione delle norme interne in modo che essa risulti conforme alla disciplina sovranazionale, qualora il tenore letterale della norma interna dovesse costituire un limite insuperabile all’interpretazione adeguatrice, il giudice interno sarebbe tenuto a valutare, a seconda dei casi, la necessità di un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia o di una rimessione alla Corte costituzionale per contrasto della norma interna con il parametro interposto. 

Il problema, più in generale, è quello volto a individuare quelle garanzie, insopprimibili, che presidiano il diritto dei richiedenti protezione, anche se provenienti da Paesi sicuri. Garanzie che, sin dalla fase amministrativa, devono essere rispettate, sebbene nei limiti molto ridotti disegnati per le persone straniere solo in ragione della loro provenienza geografica. Se tali garanzie non dovessero essere rispettate nella fase amministrativa, se ne dovrebbe imporre un recupero nella fase giurisdizionale.

Il testo dell’accordo raggiunto l’8 giugno 2023 dal Consiglio sulla proposta di regolamento procedure e sulla proposta di regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione non fa presagire nulla di buono. Per descrivere la situazione che sembra profilarsi, prendiamo in prestito le parole che Cecilia aveva utilizzato nel 2018 per descrivere un rischio ancora solo nazionale:

«Il rischio è quello di una strisciante, silenziosa, ma pervasiva modifica del modo di percepire e disciplinare la libertà degli altri, una sorta di libertà “diversa”, sottratta in alcuni casi alle più elementari garanzie costituzionali e convenzionali, in fondo un’indebita trasformazione della nostra Costituzione e dei principi di uno stato di diritto»[24].

Di fronte a tale inarrestabile e progressivo indebolimento delle garanzie, l’attività ermeneutico-ricostruttiva del giudice deve tendere ad assicurare una tutela effettiva al diritto umano fondamentale alla protezione internazionale, anche quando tale diritto venga invocato da una cittadina straniera o da un cittadino straniero provenienti da un Paese designato di origine sicura. 

 

 

1. https://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-10444-2023-INIT/en/pdf.

2. «Un Paese designato di origine sicuro ai sensi del presente articolo può essere considerato Paese di origine sicuro per il richiedente solo se questi ha la cittadinanza di quel Paese o è un apolide che in precedenza soggiornava abitualmente in quel Paese e non ha invocato gravi motivi per ritenere che quel Paese non è sicuro per la situazione particolare in cui lo stesso richiedente si trova».

3. Cfr. C. Pitea, La nozione di “Paese di origine sicuro” e il suo impatto per le garanzie dei richiedenti protezione internazionale in Italia, in Riv. dir. internaz., n. 3/2019, pp. 21 ss.

4. Cgue, C-277/11, 2012, punto 65.

5. Corte Edu, F.G. c. Svezia, ric. n. 43611/11, 23 marzo 2016. F.G., cittadino iraniano, aveva presentato una domanda di asilo invocando come motivo di persecuzione le sue opinioni politiche. In occasione della sua audizione, avvenuta alla presenza di un legale e di un interprete, F.G. esibiva la dichiarazione di un ministro di culto svedese in cui si attestava che, durante il suo soggiorno in Svezia, F.G. era stato battezzato e divenuto membro di una congregazione cristiana. Tuttavia, F.G. dichiarò di considerare la sua conversione come una vicenda strettamente privata e di non voler avvalersi di tale motivo ai fini della sua richiesta di asilo. A seguito del rigetto della domanda d’asilo, F.G. aveva presentato ricorso dinnanzi all’autorità giurisdizionale, invocando, quali ragioni fondanti la richiesta di rifugio, sia i motivi politici sia quelli religiosi. Tuttavia, in sede di interrogatorio, F.G. aveva confermato l’intenzione di non voler fondare la sua richiesta di asilo sul rischio di persecuzione religiosa, pur osservando che la conversione avrebbe determinato ovviamente dei problemi in caso di ritorno in Iran. Il giudice di primo grado rigettò l’impugnazione, limitandosi ad osservare, in relazione al motivo religioso, che il richiedente aveva col suo comportamento implicitamente ritirato la sua domanda in relazione a tale aspetto. L’appello contro questa decisione ebbe ugualmente esito negativo per il ricorrente, così come la presentazione di una nuova domanda di asilo, fondata esclusivamente su motivi religiosi, la quale venne qualificata dall’autorità amministrativa come domanda reiterata, essendo tale profilo già emerso nel corso della prima procedura.

6. Ivi, § 122.

7. Corte Edu [GC], Ilias e Ahmed c. Ungheria, ric. n. 47287/15, 21 novembre 2019.

8. Corte Edu, M.S.S. c. Belgio e Grecia, ric. n. 30696/09, 21 gennaio 2011, par. 358; Sharifi, ric. n. 16643/09, 21 ottobre 2014, par. 30; K.R.S. c. Regno Unito, ric. n. 32733/08, 2 dicembre 2008.

9. Corte Edu (plenaria), Boyle e Rice c. Regno Unito, ricc. nn. 9659/82 e 9658/82, 27 aprile 1988, par. 54; Plattform “Ärzte für das Leben” c. Austria, ric. n. 10126/82, 21 giugno 1988, par. 27; Ivan Atanasov c. Bulgaria, ric. n. 12853/03, 2 dicembre 2010, par. 100; M.A. c. Cipro, ric. n. 41872/10, 23 luglio 2013, par. 117; Asalya c. Turchia, ric. n. 43875/09, 15 aprile 2014, par. 97; A.D. et al. c. Turchia, ric. n. 43875/09, 22 luglio 2014, par. 86.

10. C. Pitea, La nozione di “Paese di origine sicuro”, op. cit.

11. Nella decisione della Grande Camera sul caso Ilias e Ahmed c. Ungheria, cit., dopo aver ricordato che spetta al richiedente asilo apportare gli elementi probatori che attestino il rischio di essere sottoposto a trattamenti persecutori nel Paese di origine, la Corte ha precisato che, nel caso di domande di asilo basate su un rischio generale ben noto, accertabile in una serie considerabile di fonti, l’art. 3 impone agli Stati di avviare di propria iniziativa una valutazione sul rischio in parola.

12. Cgue, Johnston, C-222/84, 15 maggio 1986, § 18; Heylens et al., C-222/86, 15 ottobre 1987, § 14; MRAX c. Belgio, C-459/99, 25 luglio 2002, § 101.

13. Cgue [GS], Egenberger, C-414/16, 17 aprile 2018, e, più di recente, Torubarov, C-556/17, 29 luglio 2019, § 56.

14. Per un esame completo dell’appunto operativo e delle schede-Paese, oscurate e non, cfr. i documenti pubblicati da Asgi in seguito all’accesso civico:
www.asgi.it/asilo-e-protezione-internazionale/accesso-civico-asgi-le-schede-dei-paesi-di-origine-sicuri/#:~:text=L’attuale%20elenco%20di%20Paesi,%2C%20Senegal%2C%20Serbia%20e%20Tunisia.

15. Cgue, H.I.D. e B.A., C-175/11, 31 gennaio 2013, punto 75.

16. Cfr. Cgue, Samba Diouf, C-69/10, 28 luglio 2011, punto 33.

17. Peraltro, come già ricordato (cfr. supra, par. 3), la Corte Edu, nella più volte citata sentenza Ilias e Ahmed c. Ungheria, ha espresso chiaramente l’idea per cui la mera qualificazione di un Paese come “sicuro” attraverso il suo inserimento in un elenco formale, non sia sufficiente a provare l’effettiva situazione di sicurezza dello Stato stesso. Secondo la Corte è comunque indispensabile una valutazione in concreto, la cui intensità è desunta sulla base degli elementi a disposizione.

18. Vds., altresì, il considerando 25 della direttiva procedure. 

19. Cgue, Mukarubega, C-166/135, novembre 2014, punto 48. Cfr. Id., Boudjlida, C-249/13, 11 dicembre 2014, punto 38.

20. Cgue, Samba Diouf, C-69/10, 28 luglio 2011, punto 61. Per analogia: Id., Moussa Sacko, C-348/16, 26 luglio 2017, punto 36; [GS], ZZ, C-300/11, 4 giugno 2013, EU:C:2013:363, punto 53.

21. Cgue, Samba Diouf, cit., punti 47 e 56. In particolare, la Corte ha sottolineato che, ai fini del rispetto del diritto a un ricorso effettivo, il giudice deve avere la possibilità di esaminare anche le motivazioni addotte dall’autorità competente per scegliere l’applicazione di una procedura accelerata che «coincidono con, o corrispondono significativamente a, quelle che hanno condotto alla decisione di merito».

22. Vds. Cgue, H.N. c. Minister for Justice, Equality and Law Reform, Ireland, Attorney General, 8 maggio 2014, C-604/12, 8 maggio 2014, EU:C:2014:302, punti 49-50.

23. https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:32021R2303.

24. C. Corsi, Un (in)arrestabile indebolimento delle garanzie costituzionali nei confronti degli stranieri?, in Osservatorio sulle fonti, n. 2/2018, p. 17 (www.osservatoriosullefonti.it/mobile-saggi/speciali/speciale-la-costituzione-tra-rigidita-e-trasformazioni-fasc-2-2018/1223-un-in-arrestabile-indebolimento-delle-garanzie-costituzionali-nei-confronti-degli-stranieri/file).