Magistratura democratica

Dalla protezione umanitaria alla protezione complementare: cos'è cambiato?

di Antonella Di Florio

Il presente contributo rappresenta una sintesi delle conclusioni del seminario svoltosi in Corte di cassazione lo scorso 22 febbraio 2023, che sono affidate al collegamento fra tre parole, emerse reiteratamente nei vari interventi, e cioè: “caleidoscopio”, “sinergia” e “ponte”.

Subito dopo l’incontro e nelle more della presente pubblicazione, si è verificata l’ennesima tragedia in mare, alla quale è seguita l’emanazione del dl 9 marzo 2023, n. 20 (successivamente convertito nella l. 5 maggio 2023, n. 50 ), sul quale, pure, sono state svolte alcune brevi considerazioni.

1. Premessa / 2. Le parole chiave di questo incontro / 3. Il “ponte” tracciato dalla giurisprudenza di legittimità / 4. Cosa deve ancora cambiare. Cosa speriamo che rimanga immutato dopo il “naufragio di Cutro”

 

1. Premessa

Da questo seminario sono emersi moltissimi stimoli di riflessione, tanto che è molto difficile “concludere” il discorso sul tema affrontato: i vari aspetti della vulnerabilità e la forma di protezione nazionale che le tutela – “complementare” rispetto alla “protezione internazionale” – sono legati alla miriade di casi concreti e, cioè, alle drammatiche e disparate vicende umane dalle quali sono scaturite le esigenze migratorie.

Esigenze che, purtroppo, gli eventi bellici, naturali e umani non finiscono di tratteggiare: né credo che la storia potrà segnare battute d’arresto, in quanto la migrazione è diventata, ora più che mai, un dato strutturale della nostra società.

Per tali ragioni, dai vari interventi che ho ascoltato è emerso che il principio di non respingimento, sancito dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra, sul quale si fonda la protezione complementare, attribuisce a tale istituto un necessario carattere evolutivo, volto essenzialmente a tutelare i diritti fondamentali degli stranieri la cui condizione di vulnerabilità possa determinare il rischio della «privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale», così come affermato dal primo arresto della giurisprudenza di legittimità (Cass., n. 4455/2018), attraverso il quale è stato infranto il muro interpretativo che impediva di dare una forma concreta alla protezione umanitaria, prevista originariamente nell’art. 5, comma 6, d.lgs n. 286/1998 con formulazione ampia e indefinita (proprio perché sono tali le ipotesi umanitarie degne di tutela), e di consentire che nel nostro Paese potessero essere accolti anche coloro che si trovassero in situazioni non riconducibili alle protezioni cd. “maggiori” e cioè «lo status di rifugiato» e la «protezione sussidiaria»[1].

In sintesi, i principi espressi dai vari interventi sono i seguenti: 

a. nella materia della protezione internazionale è importante «incrociare il punto di vista del giurista con altre professionalità», indispensabili per cogliere gli aspetti degni di tutela; 

b. l’evoluzione normativa consente di ritenere che la protezione complementare rappresenta un capitolo fondamentale nella normativa sul diritto dell’immigrazione, in quanto valorizza la tutela del rispetto alla vita privata e familiare predicata dall’art. 8 Cedu; 

c. la protezione complementare ha, comunque, un fondamento unionale ed è una forma di protezione ampiamente utilizzata in molti Paesi dell’Ue; 

d. l’ascolto, anche in sedi diverse da quella giudiziaria, è indispensabile per cogliere aspetti nascosti della vulnerabilità e ciò rende assolutamente fondamentale la collaborazione di psichiatri e mediatori culturali; 

e. l’evoluzione ermeneutica sta portando a un progressivo riconoscimento, soprattutto nella giurisprudenza di merito, dei cd. “conflitti a bassa intensità”, spesso sviluppati in modo altamente aggressivo sulla vulnerabilità della persona;

f. raccontare, anche attraverso le immagini, le storie dei migranti rappresenta uno strumento fondamentale per consentire ai cittadini di avvicinarsi a un pensiero inclusivo, lontano da pregiudizi e deprecabili forme di razzismo.

 

2. Le parole chiave di questo incontro

Ripercorrendo i pensieri espressi nel corso dei vari interventi, credo che dal dialogo che si è sviluppato debbano essere valorizzate tre parole particolarmente significative, e cioè: “caleidoscopio”, “sinergia” e “ponte”.

Le prime due sintetizzano l’approccio del giudice alla valutazione della vulnerabilità.

Quanto alla rievocazione del “caleidoscopio”, si osserva infatti che i criteri di giudizio dei fatti narrati impongono all’interprete una valutazione fondata su elementi spesso difficilmente inquadrabili in modo univoco: l’approccio a culture molto diverse comporta che, a seconda “dell’angolatura” dalla quale si accede alla lettura degli atti, possano emergere multiple considerazioni che formano immagini imprevedibili e variabilissime, rispetto alle quali la decisione finale – concernente la sussistenza di una condizione di vita connotata dalla violazione dei diritti fondamentali tale da compromettere la dignità umana e da imporre la regola del “non respingimento” – rappresenta un approdo privo di certezze assolute. Per tale ragione è normativamente prevista la valorizzazione del “beneficio del dubbio”[2] e la ragionevolezza del giudizio, in ragione dei criteri sanciti dall’art. 3, comma 5, d.lgs n. 251/2007, considerati principi di valutazione generale nella materia.

La seconda parola è “sinergia”.

Il giurista non può rimanere solo nella valutazione di vicende che presentano aspetti per i quali il diritto, processuale e sostanziale, non è sufficiente: è necessario il supporto di altre professionalità, fondate su culture diverse, che consentano di fare luce in modo appropriato e completo su tutti gli aspetti delle vicende narrate.

La cultura giuridica che si forma attraverso lo studio dei fascicoli in questa materia è, in tal modo, ricchissima e fondata su criteri di valutazione ulteriori rispetto a quelli normalmente usati nelle controversie “ordinarie”.

Il riconoscimento della vulnerabilità è fondato, dunque, anche sul contributo di chi sa leggere le storie raccontate con occhi diversi e sa cogliere anche la portata e il significato del silenzio.

Inoltre, la protezione complementare si fonda su un dovere di accoglienza che solo la consapevolezza della diversità può far maturare: è necessario, dunque, che le storie che riempiono i fascicoli giudiziari siano raccontate all’esterno con un linguaggio comune, che tutti possano comprendere. 

La narrazione attraverso il linguaggio filmico risulta allora utilissima per consentire di comprendere le storie dei migranti e per mettere a fuoco le ragioni del rischio che loro mettono in conto di correre.

Il lavoro inclusivo e sinergico è, quindi, quello vincente anche per la giurisdizione.

 

3. Il “ponte” tracciato dalla giurisprudenza di legittimità

La terza parola è “ponte”.

Il percorso giurisprudenziale finora tracciato, soprattutto a seguito delle sollecitazioni che provengono dalla giurisprudenza di merito, mostra un’evoluzione fondata su alcuni “pilastri” giurisprudenziali che si sono consolidati di pari passo all’evoluzione normativa e al raggiungimento di una sempre più profonda consapevolezza dell’interprete circa l’importanza della materia, che ha determinato anche profonde ricadute organizzative sul nostro sistema giudiziario.

Come già detto, il primo pilastro della giurisprudenza di legittimità in materia di protezione umanitaria è rappresentato dalla sentenza Cass., sez. I, n. 4455/2018, con la quale la “vulnerabilità” è stata considerata come il risultato di una valutazione fondata su plurimi fattori (derivanti dalla storia passata, dal presente e da proiezioni future) da comparare con l’integrazione raggiunta dal migrante nel Paese che lo aveva ospitato: l’osservazione si fondava sull’esame dei due piatti della bilancia, affidato ai giudici di merito e alle motivazioni da essi rese nei provvedimenti emessi. 

Tuttavia, la fluidità dei concetti da comparare ha reso il giudizio incerto (e, soprattutto, poco utilizzabile come precedente rispetto ai canoni della prevedibilità) proprio in ragione del problema interpretativo costituito da eventi spesso narrati in condizioni di grave criticità e, soprattutto, riguardanti culture e vicende estranee a quella “occidentale”: la questione ermeneutica ha riguardato, per molti anni, sia il concetto di integrazione (e cioè in cosa consistesse: lavoro, famiglia, contesto sociale) sia la prevalenza assoluta di essa sulla condizione di vulnerabilità e, conseguentemente, la conformazione concreta del giudizio di comparazione; sia, soprattutto, nei casi in cui non era provata un’integrazione lavorativa, l’idoneità delle altre forme di inclusione al di fuori del lavoro a renderlo favorevole per il richiedente, al fine di riconoscere il suo diritto alla concessione del permesso di soggiorno per protezione umanitaria/speciale.

La normativa intervenuta successivamente all’art. 5, comma 6, d.lgs n. 286/1998 – in particolare (dopo il breve periodo di vigenza del dl n. 113/2018, conv. nella l. n. 132/2018) il dl n. 130/2020 conv. nella l. n. 173/2020[3] – ha contribuito, dopo un primo momento di preoccupazione collegato all’entrata in vigore delle modifica del 2018, a plasmare e dare forma più concreta all’esigenza di certezza dell’interprete: la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto centrale, nell’approccio ermeneutico, l’applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e, in particolare, dell’art. 8 Cedu sull’integrazione familiare .

Infatti, il secondo pilastro interpretativo del “ponte” in costruzione è rappresentato dalla sentenza Cass., sez. unite, n. 24413/2021, che rappresenta, ad avviso di chi scrive, un’altra tappa fondamentale per l’esplorazione del concetto di vulnerabilità: con essa, oltre a confermarsi l’irretroattività della normativa in materia[4], si ribadisce l’esigenza di procedere al giudizio di comparazione precisandosi, tuttavia, che: «occorre operare una valutazione comparativa tra la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine e la situazione d’integrazione raggiunta in Italia, attribuendo alla condizione del richiedente nel paese di provenienza un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che il richiedente dimostri di aver raggiunto nella società italiana, fermo restando che situazioni di deprivazione dei diritti umani di particolare gravità nel paese originario possono fondare il diritto alla protezione umanitaria anche in assenza di un apprezzabile livello di integrazione in Italia; qualora poi si accerti che tale livello è stato raggiunto e che il ritorno nel paese d’origine renda probabile un significativo scadimento delle condizioni di vita privata e/o familiare tali da recare un “vulnus” al diritto riconosciuto dall’art. 8 della Convenzione EDU, sussiste un serio motivo di carattere umanitario, ai sensi dell’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998, per riconoscere il permesso di soggiorno»[5].

Viene, quindi, riconosciuta la centralità dell’art. 8 Cedu, ritenuto un valore di riferimento anche in relazione al principio di non respingimento, tale da consentire una “comparazione attenuata” volta ad assegnare al rischio di vulnerabilità derivante dal rimpatrio una rilevanza proporzionalmente minore in favore dell’avvenuto raggiungimento dell’integrazione, «desumibile da indici socialmente rilevanti quali la titolarità di un rapporto di lavoro (pur se a tempo determinato, costituendo tale forma di rapporto di lavoro quella più diffusa, in questo momento storico, di accesso al mercato del lavoro), la titolarità di un rapporto locatizio, la presenza di figli che frequentino asili o scuole, la partecipazione ad attività associative radicate nel territorio di insediamento»: in presenza di tali dimostrati elementi, dunque, saranno le condizioni oggettive e soggettive nel Paese di origine ad assumere una rilevanza proporzionalmente minore.

Recentemente, tuttavia, si riscontra un ulteriore sviluppo interpretativo declinato con riferimento alla nuova formulazione dell’art. 19 d.lgs n. 286/1998, come modificato dalla l. n. 173/2020, che, attraverso le precisazioni “in negativo[6]” («non sono ammessi il respingimento e l’espulsione»: cfr. nota 1, ultimo cpv.) ha, nella sostanza, tracciato una strada ermeneutica di ulteriore apertura, ricollocando al centro delle valutazioni del giudice l’integrazione raggiunta dal richiedente, ed escludendo che, nei casi in cui essa sia «piena», e cioè fondata su un obiettivo radicamento del migrante, non sia più necessario procedere al giudizio di comparazione.

L’approdo interpretativo di Cass., n. 18455/2022, afferma infatti che «In tema di protezione internazionale “speciale”, la seconda parte dell’art. 19, comma 1.1, del d.lgs. 286 del 1998, come modificato dal d.l. n. 130 del 2020, convertito con l. n. 173 del 2020 – applicabile “ratione temporis” nel giudizio di legittimità avverso una decisione resa successivamente all’entrata in vigore della legge, quindi dal 22 ottobre 2020 – attribuisce diretto rilievo all’integrazione sociale e familiare in Italia del richiedente asilo, da valutare tenendo conto della natura e dell’effettività dei suoi vincoli familiari, del suo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno e dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo paese d’origine, senza che occorra procedere ad un giudizio di comparazione con le condizioni esistenti in tale paese, neppure nelle forme della comparazione attenuata con proporzionalità inversa».

Tale arresto, seguito da altre pronunce orientate nello stesso senso[7], consente di affermare che possa ritenersi superata la necessità del giudizio di comparazione in tutti i casi in cui possa attribuirsi all’integrazione un rilievo diretto, in ragione della sua piena consistenza derivante dalla natura e dall’effettività dei vincoli familiari del richiedente asilo, del suo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno e dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine.

Si ritiene che il “ponte” interpretativo sopra descritto sia indicativo di un percorso evolutivo che la giurisprudenza ha faticosamente seguito, e che l’attuale normativa portata dall’art. 19 d.lgs n. 286/1998, nella formulazione novellata, consentirà di confermare.

 

4. Cosa deve ancora cambiare. Cosa speriamo che rimanga immutato dopo il “naufragio di Cutro”

Gli approdi raggiunti dalla giurisprudenza di legittimità fanno ritenere che le previsioni normative sulla concessione del permesso di soggiorno per protezione speciale rappresentino l’applicazione nazionale del “principio di non respingimento”. 

È stato condivisibilmente affermato che «in estrema sintesi il permesso per motivi di protezione speciale è la veste giuridica che nell’ordinamento interno è stata individuata per dare attuazione agli obblighi costituzionali e internazionali. È la traduzione in termini giuridici positivi dell’obbligo negativo di non-refoulement. Obblighi che sono in parte specificati nell’art. 19, in parte scritti altrove, nella Costituzione e in altre norme internazionali, e per le quali abbiamo l’adattamento speciale con rinvio. C’è quindi ancora spazio per la tutela residuale con rinvio? Quanto spazio? Si potrebbe dire “in tutti i casi nei quali sia necessaria”, perché è proprio questa la funzione del principio di non-refoulement. Lasciare una discrezionalità in capo all’autorità amministrativa e giurisdizionale di riconoscere qualsiasi situazione bisognosa di tutela, alla luce degli obblighi internazionali e costituzionali»[8].

Rispetto a tali affermazioni, l’auspicio sarebbe certamente quello di una rigorosa e quindi ampia applicazione della norma in sede amministrativa[9], finalizzata ad evitare un indiscriminato aumento dei ricorsi giudiziari e a realizzare un progetto di inclusione che in molti chiedono dal mondo del lavoro e che, anche per ragioni demografiche, appare indispensabile per la sopravvivenza del nostro Paese. 

Tuttavia, contemporaneamente alla stesura del presente contributo – che riporta, in sintesi, le conclusioni del seminario sulla protezione complementare tenutosi lo scorso 22 febbraio in Corte di cassazione –, si è verificato il tragico “naufragio di Crotone” che, dopo la immediata partecipazione istituzionale in loco del solo Presidente della Repubblica, ha indotto il consiglio dei Ministri a riunirsi nell’aula consiliare del Comune di Cutro, e ad approvare un decreto-legge (dl 9 marzo 2023, n. 20) intitolato «Disposizioni urgenti in materia di flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri e di prevenzione e contrasto all’immigrazione irregolare». Nel comunicato presente sul sito della Presidenza del Consiglio dei ministri, si afferma che «le nuove norme rafforzano gli strumenti di contrasto ai flussi migratori illegali e all’azione delle reti criminali che operano la tratta di esseri umani, semplificano le procedure per l’accesso, attraverso canali legali, dei migranti qualificati».

Non è questa la sede per commentare il provvedimento in tutti i suoi aspetti tecnici: sembra, tuttavia, attinente con il tema finora trattato formulare qualche considerazione in relazione alle modifiche introdotte sulla protezione speciale e, in particolare, proprio sull’art. 19 d.lgs n. 286/1998 esaminato.

Nel comunicato della Presidenza del Consiglio del 9 marzo 2023, si afferma succintamente, nella parte finale, che il decreto «definisce meglio la protezione speciale per evitare interpretazioni che portano a un suo allargamento improprio», e si aggiunge che «con norma transitoria si prevede che la nuova disciplina operi dall’entrata in vigore del decreto-legge».

In realtà, rispetto a tale istituto, si osserva, in primis, che risulta del tutto assente il carattere di necessità e urgenza che giustifica la decretazione d’urgenza, in quanto le tragiche conseguenze del naufragio dal quale ha preso occasione il nuovo provvedimento sono ricadute su persone provenienti per lo più da Paesi (Siria, Afghanistan e Iran) dilaniati da guerre e caratterizzati da condizioni di vita disumane e degradanti (soprattutto delle donne), rispetto alle quali vige l’insuperabile principio di «non respingimento» (art. 33 Convenzione di Ginevra), che si traduce nel diritto a ottenere il riconoscimento della protezione internazionale (stato di rifugiato o protezione sussidiaria, ben diverse dalla protezione speciale) e che esclude la possibilità di respingimento, espulsione o estradizione. 

Più precisamente, il decreto legge prevede[10] l’abrogazione (impropriamente definita «soppressione») del terzo e quarto periodo dell’art 19, comma 1.1, d.lgs n. 286/1998 (Testo unico immigrazione), che consentiva il riconoscimento della protezione speciale alle persone che in Italia avevano costruito una vita privata e familiare[11], norma rispetto alla quale è stato costruito il “ponte” giurisprudenziale sopra tratteggiato (cfr. supra, par. 3) con riferimento all’art. 8 Cedu. 

La conseguenza di questa abrogazione sarà quella di aumentare enormemente il contenzioso e di accrescere l’area di illegalità e clandestinità dei migranti: per tali ragioni, forti dei principi internazionali vigenti (richiamati dal Presidente della Repubblica in più occasioni), si auspica che il decreto-legge non venga convertito e che il problema dell’immigrazione venga affrontato non costruendo inefficaci muri normativi, ma consolidando una intelligente politica di inclusione.

 

 

*  Il presente contributo rappresenta una sintesi delle conclusioni tratte dal seminario svoltosi in Corte di cassazione lo scorso 22 febbraio, la cui registrazione video integrale è accessibile al link: www.youtube.com/watch?v=VbhkmZCN8P8&list=PLXfm-acsZZ9AadTqz5LT6gm5CFNZgtGZU.

1. Per maggiore chiarezza è opportuno descrivere l’evoluzione della formulazione normativa che tratteggia il passaggio dalla protezione umanitaria alla protezione speciale, complementare a quella internazionale.
La protezione umanitaria era sancita dall’art. 5, comma 6, d.lgs n. 286/1998, che nella versione originale prevedeva che «il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, salvo che ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano».
Il dl n. 73/2018, conv. nella l. n. 132/2018 ( cd. “decreto Salvini”), modificò l’art. 5, comma 6, eliminando l’ultimo inciso, e cioè il riferimento ai «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano», tanto che la formulazione della norma risultò la seguente: «Il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti».
Successivamente l’art. 5, comma 6, venne ulteriormente modificato dalla l. n. 173/2020 di conversione del dl n. 130/2020, con la quale venne reintrodotto l’inciso «fatto salvo il rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano», ragione per cui la formulazione attualmente vigente è la seguente: «6. Il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, fatto salvo il rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano».
Tale norma deve essere interpretata in combinato disposto con l’art. 19 d.lgs n. 286/1998, che, prevedendo ai commi 1 e 1.1 una serie di casi in cui non sono ammessi il respingimento e l’espulsione, sancisce che nelle ipotesi di rigetto della domanda di protezione internazionale, ove ricorrano i requisiti previsti, la commissione territoriale trasmette gli atti al questore per il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione speciale; e che, nel caso in cui sia presentata una domanda di rilascio di un permesso di soggiorno, ove ricorrano i requisiti di cui ai commi 1 e 1.1, il questore, previo parere della commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, rilascia un permesso di soggiorno per protezione speciale.

2. Cfr. Cass., nn. 8819/2020 e 22527/2020. La Corte ha affermato il seguente principio di diritto: «L’art. 3 co 5 Dlvo 251/2007 prevede, come doverosa, una valutazione complessiva e non atomistica della narrazione ed una “generale attendibilità” del richiedente asilo, rispetto alla quale deve essere valorizzato anche il “beneficio del dubbio”; la valutazione delle condizioni del paese di origine deve essere basata su fonti informative ufficiali ed aggiornate alla data della decisione e, soprattutto, non riferite genericamente all’area geografica di appartenenza ma alla regione di provenienza del richiedente asilo».

3. In sede di emanazione del decreto legge, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella precisò che «in materia, come affermato nella Relazione di accompagnamento al decreto, restano fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato, pur se non espressamente richiamati nel testo normativo, ed, in particolare, quanto direttamente disposto dall’art. 10 della Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall’Italia». Ciò indusse a modificare il testo della legge di conversione, con espresso richiamo letterale degli obblighi internazionali dello Stato. 

4. L’irretroattività delle norme emanate rispetto ai procedimenti già avviati era già stata affermata con l’altro importante arresto delle sezioni unite della Corte di cassazione (n. 29459/2019), che, dopo aver confermato la necessità, a legislazione vigente, del giudizio di comparazione fra la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza, senza che abbia rilievo l’esame del livello di integrazione raggiunto in Italia, isolatamente e astrattamente considerato, ha affermato che «Il diritto alla protezione umanitaria, espressione di quello costituzionale di asilo, sorge al momento dell’ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta ad ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile. Ne consegue che la normativa introdotta con il d.l. n. 113 del 2018, convertito in l. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina di cui all’art. 5, comma 6 del d. lgs. n. 286 del 1998 e disposizioni consequenziali, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge; tali domande saranno, pertanto, scrutinate sulla base delle norme in vigore al momento della loro presentazione, ma in tale ipotesi l’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari, valutata in base alle norme esistenti prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018, convertito nella l. 132 del 2018, comporterà il rilascio del permesso di soggiorno “per casi speciali” previsto dall’art. 1, comma 9, del suddetto decreto legge».

5. Cfr. il principio di diritto di Cass., sez. unite, n. 24413/2021. Il caso trattato era il seguente. In riforma della pronuncia di primo grado che aveva respinto interamente le domande proposte in via gradata, la Corte d’appello di Milano aveva riconosciuto a un cittadino pakistano la protezione umanitaria, rilevando che il rimpatrio del medesimo nel Paese d’origine avrebbe comportato la perdita di «opportunità apprezzabili sotto un profilo etico-giuridico» giacché l’appellante aveva dimostrato di volersi inserire stabilmente nel tessuto socio-economico del Paese ospitante, cercando di formarsi professionalmente e reperendo occupazioni lavorative che, sebbene a tempo determinato, gli avevano consentito di far fronte alle esigenze del quotidiano e di affrontare la spesa per una sistemazione abitativa autonoma, tutti elementi documentalmente provati. La corte distrettuale aveva pertanto concluso che, non essendo il Pakistan «idoneo a garantire apprezzabili prospettive di vita», il rimpatrio forzoso avrebbe cagionato al richiedente un «trauma emozionale tale da esporlo a contesti di estrema vulnerabilità». Il ricorso del Ministero dell’interno è stato respinto dalla Corte di cassazione con la motivazione sopra riportata.

6. L’art. 19 d.lgs n. 286/1998, modificato dalla l. n. 173/2020, prevede che:
«1. In nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, ((di orientamento sessuale, di identità di genere,)) di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione. 
1.1. Non sono ammessi il respingimento o l’espulsione o l’estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura o a trattamenti inumani o degradanti ((o qualora ricorrano gli obblighi di cui all’articolo 5, comma 6)). Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani. Non sono altresì ammessi il respingimento o l’espulsione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della [sua] vita privata e familiare, a meno che esso ((sia necessario per ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica nonché di protezione della salute nel rispetto della Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951, resa esecutiva dalla legge 24 luglio 1954, n. 722, e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea)). Ai fini della valutazione del rischio di violazione di cui al periodo precedente, si tiene conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine.
1.2. Nelle ipotesi di rigetto della domanda di protezione internazionale, ove ricorrano i requisiti di cui ai commi 1 e 1.1, la Commissione territoriale trasmette gli atti al Questore per il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione speciale. Nel caso in cui sia presentata una domanda di rilascio di un permesso di soggiorno, ove ricorrano i requisiti di cui ai commi 1 e 1.1, il Questore, previo parere della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, rilascia un permesso di soggiorno per protezione speciale. 
1-bis. In nessun caso può disporsi il respingimento alla frontiera di minori stranieri non accompagnati. 
2. Non è consentita l’espulsione, salvo che nei casi previsti dall’articolo 13, comma 1, nei confronti: 
a) degli stranieri minori di anni diciotto, salvo il diritto a seguire il genitore o l’affidatario espulsi; 
b) degli stranieri in possesso della carta di soggiorno, salvo il disposto dell’articolo 9; 
c) degli stranieri conviventi con parenti entro il secondo grado o con il coniuge, di nazionalità italiana; 
d) delle donne in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio cui provvedono. (2A) 
d-bis) degli stranieri che versano in ((gravi condizioni psicofisiche o derivanti da gravi patologie)), accertate mediante idonea documentazione rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale, tali da determinare un rilevante pregiudizio alla salute degli stessi, in caso di rientro nel Paese di origine o di provenienza. In tali ipotesi, il questore rilascia un permesso di soggiorno per cure mediche, per il tempo attestato dalla certificazione sanitaria, comunque non superiore ad un anno, rinnovabile finché persistono le condizioni ((di cui al periodo precedente)) debitamente certificate, valido solo nel territorio nazionale ((e convertibile in permesso di soggiorno per motivi di lavoro)).
2-bis. Il respingimento o l’esecuzione dell’espulsione di persone affette da disabilità, degli anziani, dei minori, dei componenti di famiglie monoparentali con figli minori nonché dei minori, ovvero delle vittime di gravi violenze psicologiche, fisiche o sessuali sono effettuate con modalità compatibili con le singole situazioni personali, debitamente accertate».

7. Cfr. Cass., nn. 32275/2022 e 36789/2022.

8. Cfr. C. Favilli, L’attuazione del principio di non respingimento nell’Ordinamento Italiano, in Diritto dell’immigrazione, Ssm, Quad. n. 22/2022, pp. 105 ss. 

9. Cfr. M. Acierno, La nuova protezione complementare, in Diritto dell’immigrazione, Ssm, Quad. n. 22/2022, pp. 143 ss., secondo cui «Il permesso rilasciato dal Questore, contrariamente ad un’interpretazione che si è affacciata nelle prime applicazioni da parte delle autorità di polizia, è convertibile in permesso di lavoro, analogamente a tutte le forme di protezione complementare previste dal legislatore». La soluzione proposta si fonda sulla analisi sistematica delle norme. L’art. 19, comma 2, aggiunge un binario semplificato per richiedere il permesso di soggiorno per tutte le ipotesi contemplate dall’art. 19, comma 1.1. Come già osservato, la potestà del questore non è discrezionale, dovendosi fondare la decisione sul parere vincolante della commissione. I requisiti giuridici sono identici e la decisione si fonda sui medesimi presupposti di fatto. Non si ravvisa alcuna giustificabile ratio per escludere la convertibilità in permesso di lavoro solo perché la domanda è stata rivolta al questore invece che alla commissione territoriale in prima battuta, essendo identico anche il procedimento di riesame giurisdizionale, alla luce della disciplina giuridica attuale (procedimento sommario collegiale e impugnazione con ricorso per cassazione).

10. Art. 7 dl 9 marzo 2023, n° 20:
«All’articolo 19, comma 1.1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, il terzo e il quarto periodo sono soppressi. 2. Per le istanze presentate fino alla data di entrata in vigore del presente decreto, ovvero nei casi in cui lo straniero abbia già ricevuto l’invito alla presentazione dell’istanza da parte della Questura competente, continua ad applicarsi la disciplina previgente. 3. I permessi di soggiorno già rilasciati ai sensi del citato articolo 19, comma 1.1, terzo periodo, in corso di validità, sono rinnovati per una sola volta e con durata annuale, a decorrere dalla data di scadenza. Resta ferma la facoltà di conversione del titolo di soggiorno in motivi di lavoro se ne ricorrono i requisiti di legge».

11. L’art. 19, comma 1.1, terzo e quarto periodo, prevede il divieto di respingimento ed espulsione «qualora esistano fondati motivi di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della ((sua)) vita privata e familiare, a meno che esso ((sia necessario per ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica nonché di protezione della salute nel rispetto della Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951, resa esecutiva dalla legge 24 luglio 1954, n. 722, e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea)). Ai fini della valutazione del rischio di violazione di cui al periodo precedente, si tiene conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine».