Magistratura democratica

Le vulnerabilità tutelabili: le conseguenze del viaggio e del transito

di Umberto Scotti

Il contributo analizza, in primo luogo, il concetto di «Paese di transito» nella normativa europea e italiana in materia di protezione internazionale nelle sue forme dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, sia sotto il profilo sostanziale, sia sotto il profilo processuale. Il focus si sposta quindi sulla protezione complementare di diritto nazionale per esaminare, in particolare attraverso la lente della giurisprudenza di legittimità e del suo percorso evolutivo, la possibile rilevanza in questa prospettiva delle violenze, dei maltrattamenti e soprattutto dei veri e propri atti di tortura subiti nel Paese di transito nel corso del viaggio migratorio. L’accento viene posto in particolare sulle conseguenze traumatiche delle violenze e sulla loro incidenza sulla vulnerabilità soggettiva. Il contributo si chiude, infine, con un breve accenno alla vulnerabilità determinata dagli eventi subiti nel Paese di transito quale strumento difensivo in sede di opposizione a un provvedimento di espulsione.

1. Il Paese di transito / 2. Protezione internazionale / 3. La “direttiva procedure” / 4. Sintesi / 5. Protezione complementare e violenza e tortura nel Paese di transito / 5.1. La giurisprudenza di legittimità / 5.2. Traumi e conseguenze / 5.3. Le vittime di tortura / 5.4. La tutela dei vulnerabili in sede di espulsione

 

1. Il Paese di transito

Il Paese di transito viene usualmente definito come il «paese attraverso cui si svolgono i flussi migratori (regolari o irregolari). Con ciò si intende quindi il paese diverso (o i paesi diversi) dal paese di origine, che un migrante attraversa per arrivare al paese di destinazione».

La giurisprudenza si è occupata del problema perlopiù con riferimento alla Libia, che costituisce assai frequentemente il luogo tradizionale di passaggio della migrazione africana e, talora, anche il luogo di più o meno temporaneo radicamento del migrante.

 

2. Protezione internazionale

La disciplina sostanziale europea in tema di protezione internazionale non contiene alcun riferimento specifico ai Paesi di transito dei richiedenti asilo.

La cd. “direttiva qualifiche” del 13 dicembre 2011, n. 95, ai fini dell’attribuzione a cittadini di Paesi terzi o apolidi della qualifica di beneficiario di protezione internazionale (art. 2, lett. d, g e n), conferisce rilievo alla situazione del Paese di origine o provenienza, inteso come il Paese o i Paesi di cui il richiedente è cittadino; fa eccezione il solo caso dell’apolide, per cui occorre riferirsi al Paese di dimora abituale.

L’art. 2, lett. d, quanto ai rifugiati, menziona il Paese di cui costoro hanno la cittadinanza, mentre la successiva lettera f, quanto alle persone meritevoli di protezione sussidiaria, si riferisce al «paese di origine».

Comunque, la successiva lettera n sgombra il campo da dubbi interpretativi, apparentemente provocati dalla differente terminologia, perché definisce il Paese di origine, apolidi a parte, proprio come «il paese o i paesi di cui il richiedente è cittadino».

Solo l’art. 4 della direttiva 2011/95, allorché tratta il tema dell’esame dei fatti e delle circostanze, al par. 2 elenca, fra gli elementi che il richiedente è tenuto a produrre quanto prima, anche l’indicazione dei Paesi e dei luoghi in cui ha soggiornato in precedenza e degli itinerari di viaggio. 

Del tutto analogamente provvede, nella legislazione nazionale, il d.lgs 19 novembre 2007, n. 251, che fa costante riferimento al Paese di cui il richiedente ha la cittadinanza o al Paese di origine, come sopra inteso.

Infatti, in piena armonia con la disciplina europea che ha inteso attuare, la legge italiana, con l’art. 2, comma 1, lett. e, d.lgs n. 251/2007, definisce il «rifugiato» come il cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale, od opinione politica, si trova fuori dal territorio del «paese di cui ha la cittadinanza» e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di «tale paese».

Alla successiva lett. g, l’art. 2 predetto definisce la «persona ammissibile alla protezione sussidiaria» come il cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel «paese di origine», correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dal presente decreto e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese.

La successiva lett. n dello stesso art. 2 definisce il «paese di origine» come il Paese o i Paesi di cui il richiedente è cittadino e, solo per gli apolidi, il Paese in cui aveva precedentemente la dimora abituale.

La necessità per il richiedente asilo di indicare i Paesi e i luoghi in cui ha soggiornato in precedenza e gli itinerari di viaggio (art. 3, comma 2, d.lgs n. 251/2007) trova, evidentemente, una sua finalizzazione e la sua giustificazione nella necessaria ottica del cd. “onere probatorio attenuato”, che costituisce la regola di giudizio in tema di complessiva credibilità del racconto del richiedente asilo. 

Come è noto, tale credibilità va scrutinata secondo i parametri indicati nello stesso art. 3, comma 5, d.lgs n. 251/2007, che dispone:

«Qualora taluni elementi o aspetti delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale non siano suffragati da prove, essi sono considerati veritieri se l’autorità competente a decidere sulla domanda ritiene che: a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) il richiedente ha presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, a meno che egli non dimostri di aver avuto un giustificato motivo per ritardarla; e) dai riscontri effettuati il richiedente è, in generale, attendibile».

 

3. La “direttiva procedure”

Un accenno al Paese di transito è invece contenuto nella “direttiva procedure”, 2013/32/CE, e precisamente nell’art. 10, par. 3, lett. b, secondo cui l’esame della domanda di protezione internazionale è effettuato su base individuale e prevede la valutazione di informazioni precise e aggiornate, provenienti da fonti quali l’Easo e l’Unhcr e le organizzazioni internazionali per i diritti umani pertinenti, circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti e, ove occorra, nei Paesi in cui questi hanno transitato. 

Tale disposizione è poi puntualmente ripresa dalla disciplina nazionale con l’art. 8, comma 3, d.lgs 28 gennaio 2008, n. 25.

Sembra, però, molto difficile attribuire a tale norma, eminentemente procedurale, una valenza tale da ribaltare l’assetto generale della disciplina sostanziale che assegna rilievo fondamentale al Paese di cui il richiedente asilo è cittadino, e cioè al Paese che sarebbe tenuto ad accordargli protezione e in cui rischia di essere rimpatriato. In tal senso si è espressa la sentenza della Cassazione, sez. I, n. 37416, del 31 dicembre 2022. 

Né si può dire che la predetta disposizione dell’art. 8, comma 3, d.lgs n. 25/2008, così interpretata, sarebbe inutile, se la si collega allo scrutinio di credibilità che deve investire l’intero racconto della propria vicenda personale reso dal richiedente asilo. Si giustifica, cioè, l’esperimento di indagini istruttorie sulla situazione generale del Paese di transito se e in quanto (e ciò sta appunto a significare l’inciso «ove occorra») le esperienze vissute nel Paese di transito possano assumere rilievo ai fini del riconoscimento di un titolo di protezione secondo il diritto sostanziale: ad esempio, ai fini di una valutazione complessiva di credibilità della narrazione del percorso migratorio, ovvero in sede di apprezzamento di una condizione di specifica vulnerabilità personale.

 

4. Sintesi

È giocoforza concludere, anche in ragione della natura euro-armonizzata della disciplina della protezione internazionale, che la situazione del Paese di transito non assuma rilievo per i rifugiati dotati di una cittadinanza, dovendosi aver riguardo ai fini del rimpatrio al Paese di origine e cittadinanza dello straniero non apolide.

Qualche dubbio potrebbe sorgere per i soggetti cittadini di uno Stato e radicati solidamente in un altro da cui sono stati costretti a fuggire: i principi generali inducono, però, a escludere la protezione internazionale se il richiedente non incontrerebbe alcun ostacolo a rientrare nel Paese di cui è cittadino, se colà non rischierebbe di essere esposto a persecuzioni, morte, tortura, trattamenti inumani o degradanti, o alla violenza indiscriminata scaturente da un conflitto armato interno.

Come si vedrà poco oltre, il problema si atteggia differentemente per la protezione complementare di diritto nazionale, per cui non operano i vincoli euro-unitari. 

 

5. Protezione complementare e violenza e tortura nel Paese di transito

Ci si chiede se e quale rilievo possano assumere, nella prospettiva del riconoscimento della protezione complementare di diritto nazionale – antea protezione umanitaria e attualmente, ratione temporis, protezione speciale –, i maltrattamenti, le violenze e i veri e propri atti di tortura che il ricorrente adduca di aver subito in un Paese diverso da quello di origine nel quale ha transitato e/o soggiornato durante il viaggio migratorio.

 

5.1. La giurisprudenza di legittimità

La giurisprudenza più risalente della Corte di cassazione (ad esempio: sez. I, 6 dicembre 2018, n. 31676; sez. VI-1, 20 novembre 2018, n. 29875), partendo dalle premesse sopra illustrate, ha affermato ripetutamente che l’allegazione da parte del richiedente che in un Paese di transito si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, senza evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese e il contenuto della domanda, costituisce circostanza irrilevante ai fini della decisione, perché l’indagine del rischio persecutorio o del danno grave in caso di rimpatrio va effettuata con riferimento al Paese di origine o alla dimora abituale, ove si tratti di un apolide. V’è da notare che, presumibilmente, il citato orientamento restrittivo è stato espresso in relazione a controversie nelle quali non era stata illustrata in modo completo e approfondito la possibile rilevanza delle violenze subite dal richiedente asilo nel suo percorso migratorio.

Si è tuttavia precisato, conferendo così una qualche valenza a un radicamento di fatto in altro Paese, che il Paese di transito (o, meglio, di soggiorno) può assumere rilievo allorché l’esperienza ivi vissuta presenti un certo grado di significatività in relazione a indici specifici, quali la durata in concreto del soggiorno, in comparazione con il tempo trascorso nel Paese di origine (Cass., sez. I, 3 luglio 2020, n. 13758). In quel caso, è stato cassato il decreto con il quale il giudice del merito aveva rigettato la domanda di protezione umanitaria, trascurando del tutto di valutare il lungo soggiorno del ricorrente in Libia, ove era giunto a poco più di dieci anni, rimanendovi fino alla morte del padre, intervenuta quando ne aveva diciotto.

La giurisprudenza più recente della Corte, a partire dal 2019, ha iniziato ad affermare che il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari (nella disciplina previgente al dl 4 ottobre 2018, n. 113, conv. con modif. in l. 1° dicembre 2018, n. 132) costituisce una misura atipica e residuale, volta ad abbracciare situazioni in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento di una tutela tipica, non può disporsi l’espulsione del richiedente che si trovi in condizioni di vulnerabilità, da valutare caso per caso, anche considerando le violenze subite nel Paese di transito e di temporanea permanenza del richiedente asilo, potenzialmente idonee, quali eventi in grado di ingenerare un forte grado di traumaticità, a incidere sulla condizione di vulnerabilità della persona. 

In tal senso si sono espresse numerose decisioni: 

• Cass., sez. I, 15 maggio 2019, n. 13096. In quel caso era stata omessa completamente la valutazione in ordine alle violenze sessuali che la richiedente asilo, cittadina nigeriana, aveva allegato di aver subito in Libia, Paese di transito e di permanenza per un biennio; 

• Cass., sez. I, 20 gennaio 2020, n. 1104. Nella specie la Corte, accogliendo il ricorso, ha ritenuto che la violenza sessuale e l’induzione alla prostituzione subite in Libia dalla ricorrente fossero indice di una situazione di così grave vulnerabilità da rendere intollerabile l’abbandono forzato del Paese di accoglienza;

• Cass., sez. I, 2 luglio 2020, n. 13565. Nella specie, è stata cassata la decisione di merito, che aveva negato la protezione umanitaria senza valutare le circostanziate deduzioni del richiedente relative alle violenze subite in Libia, ove si era recato per reperire un’occupazione lavorativa, indicate come causa della compromissione delle sue condizioni psico-fisiche, così evidenziandosi la connessione tra il transito in quel Paese e il contenuto della domanda;

• Cass., sez. I, 16 dicembre 2020, n. 28781. È stato precisato che il permesso di soggiorno per motivi umanitari non può essere accordato automaticamente per il solo fatto che il richiedente abbia subito violenze o maltrattamenti nel Paese di transito, ma solo se tali violenze, per la loro gravità o per la durevolezza dei loro effetti, abbiano reso il richiedente vulnerabile ai sensi dell’art. 5 d.lgs n. 286/1998;

• Cass., sez. I, 1° marzo 2021, n. 5523. In quel caso è stata cassata la pronuncia di merito che, nel rigettare il ricorso, non aveva preso posizione in ordine a quello che riteneva essere il Paese di origine della richiedente;

• Cass., sez. VI-1, 12 maggio 2021, n. 12649. È stato ritenuto che, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, la circostanza che il richiedente abbia dedotto, tra l’altro, di avere subito, da minorenne, violenze nel Paese di transito deve essere considerata unitamente al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo nel nostro Paese, poiché si tratta di fatto potenzialmente idoneo a incidere sulla sua condizione di vulnerabilità, tanto da essere ostativa al rientro del richiedente nel suo Paese di provenienza. Si è aggiunto che occorre tener conto altresì del fatto che l’art. 19, comma 2-bis, d.lgs n. 286/1998 (introdotto dal dl n. 89/2011, conv. con modif. dalla l. n. 129/2011), nell’individuare ai fini del divieto di espulsione e di respingimento le categorie vulnerabili, dà rilievo alle gravi violenze psicologiche, fisiche o sessuali;

• Cass., sez. III, 22 settembre 2021, n. 25734. È stata cassata la decisione di merito, che aveva negato la protezione umanitaria senza valutare le circostanziate deduzioni del richiedente relative alle vessazioni e violenze subite in Libia, paese di transito, ove era rimasto per circa quattro anni, di cui due e mezzo in un campo di prigionia, indicate come causa della compromissione delle sue condizioni psico-fisiche;

• Cass., sez. III, 13 giugno 2022, n. 19045. È stata cassata la decisione con cui il tribunale, ritenendo non credibile la vicenda narrata dalla richiedente, aveva negato anche il permesso di soggiorno per motivi umanitari, senza tener conto che la stessa richiedente, cittadina nigeriana vittima di ripetute violenze nel Paese di transito, viveva in Italia unitamente al compagno e al figlio minore in tenera età;

• Cass., sez. lav., 18 febbraio 2022, n. 5467. Si è ritenuto che la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, di cui all’art. 5, comma 6, d.lgs n. 286/1998, va valutata comparando la situazione soggettiva e oggettiva della richiedente nel Paese di origine alla situazione d’integrazione raggiunta in Italia, ponendo particolare attenzione all’idoneità dei forti traumi, riportati per le violenze domestiche subite, a incidere sulla sua condizione di vulnerabilità, nonché sulla capacità di reinserirsi socialmente in caso di rimpatrio preservando le inalienabili condizioni di dignità umana. Nella specie, la richiedente, orfana, già abusata dal marito della donna che la cresceva e costretta all’aborto, dopo la fuga e il matrimonio, perduto il bambino dato alla luce durante l’incarcerazione in Libia, temeva di rientrare nel Paese di origine, avendo appreso che il marito era un rapinatore ricercato;

• Cass., sez. I, 19 dicembre 2022, n. 37048. In quel caso è stata cassata la decisione che aveva escluso la richiesta necessità della rinnovazione dell’audizione (che in sede amministrativa non era stata estesa, deliberatamente, al racconto delle torture patite in Libia, ritenute erroneamente irrilevanti sul presupposto della presunta retroattività del dl n. 113/2018), negando in radice ogni rilevanza, nella prospettiva della protezione umanitaria, alle sofferenze patite dal richiedente asilo durante il soggiorno in Libia. Si è ritenuto invece che non fosse consentito al tribunale escludere apoditticamente l’incidenza di tali sofferenze sulla condizione di vulnerabilità senza aver dato previamente sfogo all’incombente istruttorio e averne verificato natura, consistenza e asseriti postumi.

 

5.2. Traumi e conseguenze

L’orientamento prevalente sopra riassunto attribuisce quindi rilievo ai traumi conseguenti alle violenze e ai maltrattamenti subiti nel Paese di transito, ai fini del riconoscimento di una protezione complementare di diritto nazionale ai soggetti vulnerabili e dell’esclusione del rimpatrio nel Paese di origine (e non, certamente, nel Paese di transito ove le violenze sono perpetrate), se e in quanto i traumi psicofisici in tal modo subiti dal richiedente asilo e le loro perduranti conseguenze, anche in connessione con le sue attuali condizioni di vita in Italia, possano provocare una intollerabile lesione dei suoi diritti fondamentali.

Non sono sufficienti, tuttavia, le violenze subite nel Paese di transito, accertate nel rispetto delle regole generali dell’onere probatorio attenuato e della cooperazione istruttoria, ma occorrono conseguenze psicofisiche accertate e sufficientemente gravi per indurre vulnerabilità nella prospettiva disegnata dall’art. 19, comma 2, d.lgs n. 251/2007, che chiede di tener conto della condizione delle persone che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale. 

Profilo, questo, al cui riguardo il richiedente non è affrancato né dall’onere di allegazione, né da quello della prova. 

In tal senso, Cass., sez. I, 28 dicembre 2021, n.41786, secondo cui, in tema di protezione complementare di diritto nazionale, di protezione umanitaria in regime transitorio o di protezione speciale introdotta dal dl 21 ottobre 2020, n. 130, convertito con modificazioni dalla legge n. 173 del 18 dicembre 2020, sul giudice del procedimento incombe il dovere di cooperazione istruttoria, che attiene alla prova dei fatti e non alla loro allegazione, previsto in tema di esame delle domande di protezione internazionale ai sensi dell’art. 4 direttiva CE del 13 dicembre 2011, n. 95, dell’art. 3 d.lgs 19 novembre 2007, n. 251, dell’art. 8 d.lgs 28 gennaio 2008, n. 25, e degli artt. 35-bis, comma 9, e 27, comma 1-bis dello stesso d.lgs n. 25/2008, limitatamente alle circostanze concernenti la situazione sociale, economica o politica del Paese di provenienza del richiedente e non, quindi, relativamente alle circostanze attinenti all’integrazione sociale, culturale, lavorativa e familiare del richiedente asilo in Italia.

Ciò non significa, però, che a fronte di una corretta allegazione e della prova degli elementi di fatto idonei a giustificare una verifica tecnica non esplorativa, il giudice non possa avvalersi di certificazioni provenienti da professionisti abilitati o della prova presuntiva ex artt. 2727 e 2729 cc, o non possa disporre una consulenza tecnica percipiente, fonte oggettiva di prova, affidando al consulente anche il compito di accertare i fatti per cui siano necessarie specifiche cognizioni tecniche (Cass., sez. unite, 4 novembre 1996, n. 9522).

 

5.3. Le vittime di tortura

Gli stessi criteri dovrebbero valere anche per le persone che hanno subito tortura nei Paesi di transito.

Recentemente la Cassazione ha affermato che la valutazione di credibilità delle dichiarazioni del ricorrente che ha subito traumi fisici o psichici da tortura dev’essere condotta sulla base dei criteri indicati dal Protocollo di Istanbul e, in particolare, la certificazione medico-legale dev’essere considerata congiuntamente alle dichiarazioni rese dal richiedente in sede di verbalizzazione delle domande e durante l’audizione, nonché alle informazioni sul Paese di origine e agli altri documenti o testimonianze portati all’attenzione dell’organismo accertante (Cass., sez. I, 15 dicembre 2022, n. 36790).

Ovviamente, per chi è stato torturato nel Paese di origine valgono le regole generali per il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria se il ritorno in patria lo espone al rischio di subire altre vessazioni dello stesso genere.

Diverso è il caso di chi sia stato torturato nel Paese di transito e abbia allegato e dimostrato tale circostanza. Sembra da escludere che, in tal caso, possa essere riconosciuta al richiedente asilo una delle protezioni maggiori se in caso di rimpatrio non corre il rischio di subire quegli inumani trattamenti che gli sono stati praticati, del resto, in un altro Paese.

Resta aperta – a fortiori rispetto al caso delle semplici violenze – la strada della protezione complementare di diritto nazionale per i soggetti vulnerabili, da condursi secondo le regole del bilanciamento comparativo, eventualmente nella forma cd. “attenuata”.

In tale ambito, possono assumere rilievo i percorsi riabilitativi eventualmente avviati ai sensi dell’art. 14 della Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, firmata a New York il 10 dicembre 1984, ratificata dall’Italia con legge 3 novembre 1988, n. 498, che impegna gli Stati aderenti a garantire, nel loro sistema giuridico, alla vittima di un atto di tortura «il diritto di ottenere riparazione e di essere equamente risarcito ed in maniera adeguata, inclusi i mezzi necessari alla sua riabilitazione più completa possibile», che – secondo l’interpretazione che ne è stata data – vincola ad assicurare la riabilitazione delle persone che sono state torturate in altro Paese terzo.

Al predetto impegno è stata data attuazione con il d.lgs 21 febbraio 2014, n. 18, che ha aggiunto all’art. 27 d.lgs n. 25/2008, il comma 1-bis, secondo cui «Il Ministero della salute adotta linee guida per la programmazione degli interventi di assistenza e riabilitazione nonché per il trattamento dei disturbi psichici dei titolari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale, compresi eventuali programmi di formazione e aggiornamento specifici rivolti al personale sanitario da realizzarsi nell’ambito delle risorse finanziarie disponibili a legislazione vigente».

Emergono alcuni interrogativi per i quali, allo stato, non vi sono risposte puntuali da parte della giurisprudenza di legittimità.

In primo luogo, se i predetti percorsi riabilitativi possano valere anche per soggetti che non siano titolari dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria e che, nondimeno, abbiano subito torture e accusino disturbi conseguenti. 

Le linee-guida approvate dal Ministero della sanità, del 22 marzo 2017, alla luce della natura dichiarativa del procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale, affermano che la dizione letterale facente riferimento ai «titolari» di protezione può indurre in errore, facendo ritenere che il campo di azione previsto dalla legge sia circoscritto solo a coloro che hanno completato con esito positivo l’iter amministrativo o giurisdizionale di riconoscimento della protezione, mentre le misure in questione valgono per tutti i richiedenti asilo a partire dalla presentazione della domanda.

In secondo luogo, vi è da chiedersi se la concreta intrapresa di un siffatto percorso, o anche solo l’avvio di un processo integrativo non compiuto a cui sia possibile ascrivere una valenza lato sensu riabilitativa, pur in difetto di un effettivo radicamento concretante un profilo di per sé tutelabile di vita privata e/o familiare, possa essere positivamente valutato nell’ambito del giudizio di comparazione attenuata.

In terzo luogo, ci si interroga se si possa prescindere per il riconoscimento della protezione complementare al soggetto vittima di tortura, portatrice di postumi, ma non integrato in alcun modo, anche da quel minimo di radicamento territoriale che si esprime nell’avvio di un percorso riabilitativo in Italia.

 

5.4. La tutela dei vulnerabili in sede di espulsione

La condizione di soggetto vulnerabile indotta dalle violenze subite nel Paese di transito può essere fatta valere anche in via di eccezione, ossia come strumento difensivo per opporsi a un provvedimento di espulsione.

Il comma 2-bis dell’art. 19 d.lgs 25 luglio 1998, n. 286, e s.m.i., dispone infatti che il respingimento o l’esecuzione dell’espulsione di persone affette da disabilità, degli anziani, dei minori, dei componenti di famiglie monoparentali con figli minori, nonché dei minori, ovvero delle vittime di gravi violenze psicologiche, fisiche o sessuali debbono essere effettuate con modalità compatibili con le singole situazioni personali, debitamente accertate.

La norma, che impone la considerazione delle situazioni di vulnerabilità e la loro salvaguardia mirata, non è tuttavia congegnata in termini di divieto assoluto di espulsione, a differenza delle ipotesi considerate nei commi 1 e 1.1 dell’art. 19, che configurano un vero e proprio divieto (Cass., sez. I, 8 luglio 2022, n. 21716; sez. I, 11 dicembre 2019, n. 32331; sez. I, 17 febbraio 2020, n. 3875).