Magistratura democratica

Spunti per una ricostruzione storica

di Alfredo Guardiano
In questo contributo, l’Autore ragiona sul diverso ruolo che la legge ha assunto nelle diverse epoche storiche e nei diversi modelli sociali.
Ci si sofferma poi, in particolare, sulle trasformazioni impresse al ruolo della legge dall’ordinamento fascista – prima – e da quello repubblicano – poi – al ruolo della legge all’interno del sistema delle fonti del diritto.
L’analisi considera anche l’impatto che la Costituzione repubblicana e la giurisprudenza costituzionale hanno avuto sull’attività giurisdizionale e, di riflesso, sul sistema delle fonti del diritto.
Non mancano poi, nella riflessione qui proposta, considerazioni sul rilievo che hanno storicamente assunto le matrici culturali dei protagonisti della giurisdizione nell’azione di adeguamento della legge alla Carta costituzionale e sulla sempre possibile tentazione del potere legislativo di circoscrivere – soprattutto in determinati ambiti – il perimetro di intervento della giurisdizione.

Se la storia delle istituzioni è (anche, ma non solo) storia dei rapporti istituzionali, cioè delle dinamiche, a volte aspramente conflittuali, che segnano la convivenza dei pubblici poteri all’interno degli ordinamenti statuali, la storia dei rapporti tra potere politico e potere giudiziario ne costituisce uno degli aspetti più significativi per la piena comprensione delle forze che, con diversi risultati, interagiscono all’interno del sistema politico.

L’intima connessione tra sistema politico e sistema giudiziario ha condotto la moderna scienza politica a considerare il secondo come uno dei sottosistemi attraverso i quali si articola il primo, quello, più precisamente, costituito da «un complesso di strutture, procedure e ruoli mediante il quale il sistema politico soddisfa uno dei bisogni essenziali per la sua sopravvivenza: l’aggiudicazione delle controversie sull’applicazione concreta delle norme riconosciute dalla società»[1].

Le vicende del sistema giudiziario appartengono, dunque, (non esaurendole, naturalmente) alle vicende del sistema politico, nella misura in cui il mondo del diritto, alla cui affermazione l’organizzazione del sistema giudiziario è istituzionalmente finalizzata, non può essere artificiosamente separato da quello della politica.

In uno dei suoi saggi più famosi, lo storico del diritto John M. Kelly, nel citare l’importante corrente culturale che, tra gli anni ‘70 e gli anni ‘80, aveva dato vita, negli Stati Uniti d’America, al «movimento critico di studi giuridici» o «scuola realistica», sottolinea come, per i seguaci di questa scuola, non era possibile separare il diritto e le decisioni giudiziarie dalla politica e dalle decisioni politiche, sul presupposto che «il diritto sia la politica sotto un’altra forma e che le sue pretese di un’obiettività che trascende le scelte politiche sono una mistificazione»[2].

Tali affermazioni, pur caratterizzate da particolari condizioni storiche (nel sistema americano il carattere politico delle sentenze delle giurisdizioni superiori viene esaltato dal valore vincolante dei precedenti giurisprudenziale e, quindi, dalla loro capacità di creare diritto) e da inevitabili giudizi di valore soggettivi, hanno un valore che trascende la storia dei rispettivi contesti storico-giuridici in cui sono state rese.

Esse, infatti, con radicale consapevolezza, squarciano il velo di una pretesa neutralità del diritto, imposta dalla duratura influenza della pandettistica e della cultura giuridica positivistica come una realtà oggettiva, quasi naturalistica, nel tentativo, più o meno consapevole, di fornire un adeguato armamentario teorico-pratico all’affermazione ed al mantenimento dei valori tipici del liberalismo ottocentesco, a partire dalla libertà e dalla uguaglianza formali dell’individuo e dal diritto di proprietà inteso innanzitutto come estensione della libertà personale, che andavano protetti contro le tumultuose vicende della storia, recintandoli nel campo sacrale del diritto, dal quale era bandita la politica.

Non è un caso che uno dei critici più acuti del liberalismo ottocentesco, Carl Schmitt, nel condurre il suo affondo contro le apparenti neutralizzazioni e spoliticizzazioni del pensiero liberale del secolo precedente, senta il bisogno di definire nei seguenti termini i rapporti tra diritto e politica: «Il diritto, sia privato, sia pubblico, ha in quanto tale – e nel modo più sicuro all’ombra di una grande capacità di decisione politica, come ad esempio in un sistema statale stabile – il suo proprio ambito relativamente autonomo. Esso, però, come ogni sfera della vita e del pensiero umano, può essere utilizzato sia in appoggio, sia in opposizione ad ogni altro tipo di sfera. Dal punto di vista del pensiero politico è ovvio e non è né illegale, né immorale prestare attenzione al significato politico di tali utilizzazioni del diritto o della morale e, soprattutto, rendere sempre più problematico l’impiego di espressioni come la “signoria” o la sovranità “del” diritto: chiedersi, cioè, in primo luogo se “diritto” indica qui le leggi positive e i metodi legislativi esistenti, che devono continuare ad avere valore; ed allora la signoria del diritto non significa altro che la legittimazione di un determinato status quo, al cui mantenimento naturalmente hanno interesse tutti coloro il cui potere politico ed utile economico si consolida in questo diritto.

In secondo luogo il richiamo al diritto potrebbe significare che viene contrapposto al diritto dello status quo un diritto naturale o razionale; in tal caso è ovvio per un politico che la “signoria” o la “sovranità” di questo tipo di diritto significa signoria e sovranità degli uomini che possono richiamarsi al diritto superiore e decidere quale sia il suo contenuto e in che modo e da chi esso debba venire applicato»[3].

L’analisi schmittiana assume un grande rilievo, si condivida o meno la sua tesi del predominio del «politico» su tutte le altre categorie della realtà, non solo per la sua capacità di smontare il “giocattolo” del tradizionale pensiero giuridico liberale, rivelandone i meccanismi di funzionamento ed i limiti (operazione, che, su presupposti diversi, ma con sorprendente somiglianza di effetti, ha compiuto la critica marxista del diritto borghese), ma anche per avere evidenziato che ogni riflessione sul diritto è, inevitabilmente, una riflessione sulla politica (ed, in ultima analisi, sul potere).

Ma cosa intendiamo, oggi, quando parliamo di “politica” o di “pensiero politico” e, soprattutto, perché insistere sulla dimensione politica del diritto, parlando di potere giudiziario?

Tra le tante nozioni di “politica”, particolarmente efficace, mi sembra quella proposta da Carlo Galli.

Il pensiero politico, sostiene Galli, è un «pensiero concreto, coinvolto attivamente nel mondo, sia come critica dell’esistente, cioè come de-costruzione, sia come costruzione, cioè come progetto di edificare un ordine “migliore”, ovvero rispondente a criteri di legittimità diversi da quelli dell’ordine presente»[4].

La politica, dunque, come una continua ed (apparentemente) inarrestabile produzione di valori, progetti, azioni, comportamenti concreti, alla quale partecipa una pluralità di protagonisti, in grado di agire su vari livelli, da quello superiore ed ufficiale dello Stato, nelle sue diverse articolazioni, a quello «rasente il suolo» delle miriadi di formazioni sociali dove si svolge la personalità dell’uomo (famiglia, scuola, partiti politici, organizzazioni religiose, sociali, sindacali, culturali, sportive; circoli amicali, impresa), dando vita, al tempo stesso, a regole di condotta (norme) che possono considerarsi giuridiche, concorrendo a formare il “diritto”, in presenza di due condizioni: 1) essere state poste sulla base di procedure decisionali predeterminate (di solito sulla base di un atto fondativo) dai destinatari delle norme stesse; 2) la capacità (rectius la forza) di chi le ha prodotte di assicurarne il rispetto nei confronti di eventuali trasgressori.

Nondimeno il continuo divenire del pensiero politico, trova un fondamentale momento di composizione proprio nella creazione delle regole giuridiche, che istituzionalizzano, rendendoli stabili (almeno sino a quando non verranno modificati dall’emergere di nuove esigenze), gli orientamenti politici che risultano dominanti o prevalenti nel contesto sociale.

A questa fondamentale opera di trasformazione del «politico» in «giuridico» o, se si vuole, della «politica» in «diritto», quanto meno a partire dall’affermazione nell’Europa continentale dello Stato borghese ottocentesco, ha provveduto e provvede (con una efficacia, a dire il vero, fortemente ridotta nel presente), la legge, in considerazione della sua capacità di rivolgersi coattivamente alla generalità dei consociati.

Ma ad essa contribuisce in maniera determinante (e con una efficacia inversamente proporzionale, nel tempo, rispetto alla legge), attraverso l’esercizio della funzione giurisdizionale, quindi con le sue decisioni, il giudice, anche in quei paesi, non facenti parte dell’area del common law,che non conoscono la giurisprudenza come fonte formale di produzione del diritto.

Se ciò è vero, può allora essere utile verificare quali siano stati i modelli teorici elaborati dall’ideologia dominante in un determinato momento storico sul ruolo del giudice quale interprete vincolante della legge, spesso prontamente recepiti attraverso la elaborazione di norme codicistiche che ne disciplinano il potere interpretativo, e, per converso, quale sia stata (nei casi in cui ciò è avvenuto) la «politica invisibile»[5] perseguita dalla magistratura, intesa come il complesso dei valori in concreto attuati nel diritto prodotto per via applicativo-interpretativa dal giudice.

Orbene, il rapporto tra legge ed interpretazione giurisprudenziale, nella prospettiva storica che si propone, può essere sintetizzato nei seguenti termini, al netto di inevitabili schematizzazioni: 1) si deve in gran parte alla cultura filosofico-giuridica francese ed italiana dell’illuminismo l’elaborazione ideologica della supremazia della legge positiva, che stava alla base della richiesta al Sovrano di porre mano ad una riforma del diritto comune fondata sulla creazione di codici, in un contesto in cui le critiche all’arbitrio dei giudici e le esigenze di certezza del diritto, rappresentavano le due facce di una stessa medaglia; 2) fu con la Rivoluzione francese e con la promulgazione del Code Napoléon che nacque il mito della onnipotenza della legge positiva e, contemporaneamente, si diede una disciplina organica, attraverso una serie di interventi legislativi, al potere interpretativo dei giudici; 3) in Francia, i giudici, nonostante gli inevitabili condizionamenti derivanti da un’adesione “fideistica” della cultura giuridica al Code Napoléon ed al predominio assoluto della legge su tutte le altre fonti di produzione del diritto, riuscirono ad elaborare, soprattutto nel settore del diritto privato, attraverso l’interpretazione giurisprudenziale, un’autonoma politica del diritto, che contribuì all’affermazione dello Stato borghese ed, allo stesso tempo, ne evidenziò i limiti; 4) in Italia, dove particolarmente acuta fu la critica all’onnipotenza della legge positiva e la valorizzazione del ruolo della giurisprudenza, con l’avvento della Costituzione repubblicana, è cambiato radicalmente il modo di intendere la funzione giurisdizionale e si è aperta la possibilità di collocare, anche da un punto di vista dommatico, la giurisprudenza nel sistema delle fonti di produzione del diritto.

Con particolare riferimento alla varietà e alla ricchezza di contributi ai quali pervennero insieme dottrina e giurisprudenza in Italia tra la fine del XIX secolo e la prima metà del XX secolo, non sembra arbitrario rinvenire un substrato ideologico comune in una matura consapevolezza: l’insufficienza della legge e, soprattutto, dei codici, a risolvere la complessità del mondo del diritto nel suo rapporto con la dimensione sociale, con l’evoluzione dei costumi, con lo sviluppo di nuove forme di organizzazione dell’economia e del lavoro, con la spinta sempre più pressante per il riconoscimento di nuovi diritti da parte dei ceti emergenti.

In questa fase, dunque, venne avvertita come imperativo la ricomposizione della frattura tra diritto e società, che una lettura del primato della legge positiva, incentrata sul predominio di un’unica classe, aveva creato e progressivamente allargato.

Ciò produsse due effetti di straordinaria importanza: da un lato entrò in crisi, l’idea stessa dell’onnipotenza del codice, che produsse la prassi dell’intervento legislativo di settore o specialistico per far fronte alla necessità di fornire un’adeguata disciplina alle nuove esigenze sociali non previste dalle norme di derivazione codicistica[6], destinata a trasformarsi in una delle principali cause di quel fenomeno, oggi universalmente noto con il termine di “decodificazione”, destinato a caratterizzare l’esperienza giuridica italiana del secondo dopoguerra.

Simmetricamente veniva rimesso in discussione l’intero sistema delle fonti di produzione del diritto fondato sul predominio assoluto della legge e si riconosceva, prima timidamente, poi con maggior convinzione, l’apporto della giurisprudenza nella creazione del diritto[7].

Questo percorso, da allora, non ha mai subito interruzioni, pur attraversando fasi storiche completamente diverse: dallo Stato autoritario fascista allo Stato democratico costituzionale del secondo dopoguerra[8].

Si tratta di una continuità solo apparentemente paradossale.

Lo Stato fascista, infatti, nasceva come risposta alla crisi della democrazia liberale e, quindi, nonostante la sua natura intimamente autoritaria, non poteva accettare passivamente l’idea che il mondo del diritto venisse per sempre racchiuso proprio nello strumento, la legge, attraverso il quale si era manifestata in forma esclusiva la politica del disprezzato parlamentarismo liberale, caratterizzata, comunque, da un pluralismo, sia pure limitato, nella rappresentanza degli interessi sociali, che il fascismo, con la sua pretesa di tutto comporre all’interno della dimensione statuale, non poteva tollerare.

Se non si intende bene il significato della natura totalitaria dello Stato fascista, non è possibile comprendere nemmeno come, pur mantenendo inalterato il suo ruolo di vertice nella scala gerarchica delle fonti di produzione del diritto, la legge positiva debba confrontarsi, con altre fonti, come previsto dalle «Disposizioni sulla legge in generale, approvate preliminarmente al codice civile con regio decreto 16 marzo 1942, n. 262».

La preminenza della legge viene assicurata, collocandola al vertice, della scala gerarchica delle fonti di produzione del diritto, in grado di prevalere su tutte le altre, perché dotata di maggiore forza[9].

Tuttavia essa ha perso la sua splendida solitudine, perché altre fonti concorrono, sia pure su piani sottostanti, alla produzione del diritto.

Ciò significa riconoscere che non esiste un solo ordinamento giuridico, quello prodotto dal legislatore, ma una pluralità di ordinamenti giuridici, frutto dell’esperienza storica e politica, tutti destinati a trovare il necessario momento di sintesi nell’ordinamento statuale e nell’ideologia che ne costituisce il soffio vitale[10].

E qui si ritorna alla matrice ideologica del fascismo, compiutamente rivelata nella dottrina sociale dello stato corporativo, che entra a viva forza nella dimensione sociale, rifiutando la pretesa separazione tra diritto e politica dello stato liberale.

Nessuna contraddizione, dunque, tra autoritarismo e pluralità delle fonti di produzione del diritto: il fascismo non poteva consentire una società “aperta”, in cui trovassero spazio modelli politici ed economici alternativi, in concorrenza tra loro, ma, al tempo stesso, per sopravvivere e perpetuarsi, non poteva negare la sua vocazione sociale, non poteva, in altri termini, non prestare attenzione alle diverse “istituzioni” che producono diritto, solo che, invece di consentirne il libero spiegamento, doveva permearle con i suoi valori (sulla famiglia, il lavoro, la razza, la religione, l’organizzazione amministrativa e via discorrendo), in modo che non vi fosse alcuna cesura tra stato, diritto e società.

Con questi presupposti non vi era nessun motivo per intervenire sulle disposizioni di legge relative al potere interpretativo dei giudici, che rimasero sostanzialmente invariate rispetto alla previsione legislativa del 1865: era sufficiente garantire il controllo della magistratura, il che fu reso possibile attraverso una serie di interventi che stroncarono quasi sul nascere ogni tentazione di “politicizzazione” dell’ordine e ne designarono l’assetto in senso verticistico[11].

La caduta del fascismo non muta i termini della crisi dello strumento legislativo e non arresta l’opera di ripensamento critico del sistema delle fonti del diritto, che, anzi, si fa più penetrante.

L’entrata in vigore della Costituzione democratica di tipo rigido[12] determina la perdita della supremazia della legge nel sistema delle fonti di produzione del diritto, ma soprattutto, impone un’interpretazione “costituzionalmente” orientata, che incide direttamente sull’esercizio della funzione giurisdizionale e “riposiziona”, per così dire, il giudice nel nuovo ordinamento costituzionale.

I profondi cambiamenti sociali, l’evoluzione tecnologica, le incessanti trasformazioni economiche e produttive, la nascita di nuovi soggetti politici internazionali e sovranazionali, la dimensione “globale” delle issuespolitiche, economiche e sociali, rendono, all’improvviso, evidente l’insufficienza dei codici, in particolare del codice civile, a prevedere una disciplina di rapporti economico-sociali, divenuti ormai troppo complessi, perché frutto di mutamenti talmente veloci, da potere essere compresi e tradotti in regole di comportamento uniformi, solo all’esito dello stabilizzarsi di prassi applicative ed interpretative, recepite, in taluni casi, con gli strumenti della legislazione speciale[13].

Il pluralismo politico e sociale fatto proprio dalla Costituzione italiana in norme che hanno un valore giuridico e non di semplice testimonianza di opzioni politiche, trova corrispondenza in una cultura giuridica che ha compiuto una scelta, sembrerebbe irreversibile, nel riconoscere la realtà del pluralismo degli ordinamenti giuridici, che si traduce nella conseguente inevitabile ammissione della coesistenza di una pluralità di fonti di produzione normativa, con le quali la legge è costretta a confrontarsi, subendo limitazioni inconcepibili non solo per lo stato liberale, ma anche per il regime fascista[14].

Ciò avviene, è opportuno ribadirlo, in un contesto politico affatto diverso, dove l’organizzazione in senso gerarchico delle fonti di produzione del diritto, con in apicibusil testo costituzionale, non esclude, ed anzi presuppone, l’uguale dignità di ciascuna fonte e, quindi, dell’istituzione che la esprime, a svolgere la propria funzione, senza alcun limite che non sia quello della minore o maggiore forza innovativa e del rispetto dei limiti costituzionalmente imposti alla legittimità ed alla efficacia di ciascuna di esse.

Ben si comprende, dunque, come, in questa prospettiva, il quesito sull’appartenenza o meno dell’interpretazione giurisprudenziale della legge al sistema delle fonti del diritto, sia un problema da impostare in termini non formali, ma sostanziali, prendendo atto che il momento interpretativo rappresenta una fase non eliminabile del processo di formazione del significato della norma posta dal legislatore e, dunque, di produzione del diritto.[15]

Se, come affermato in numerose occasioni dal giudice delle leggi, l’intervento della Corte costituzionale presuppone l’impossibilità per il giudice a quo di individuare una norma conforme a Costituzione (il che si verifica solo in due ipotesi: quando la disposizione consente solo una interpretazione incostituzionale o impedisce l’individuazione di una regola costituzionale ovvero quando su di essa si è consolidato un diritto vivente incostituzionale), mentre nelle altre ipotesi, che rappresentano la maggior parte dei casi, la questione di legittimità costituzionale può essere decisa nell’ambito della giurisdizione comune, non sembra infondato ritenere che la giustizia costituzionale in Italia si sia ormai evoluta verso un particolare sistema diffuso, in cui la funzione della Corte costituzionale si indirizza con sempre maggior convinzione verso il controllo di costituzionalità del diritto vivente, riguardando più la corretta ed uniforme applicazione del diritto costituzionale, che l’annullamento delle leggi, rafforzandosi, per converso, il ruolo di garante dei diritti costituzionalmente garantiti del giudice comune (il giudice, dunque, come vero «custode della Costituzione»)[16].

Non può non rilevarsi, inoltre, come l’intero sistema di giustizia costituzionale delineato dagli interventi “creativi” della Corte costituzionale, sia incentrato sulla nozione di «diritto vivente», che, ove sviluppatosi in senso conforme a Costituzione, impedisce al giudice di investire la Corte della questione di legittimità costituzionale, dovendo egli attenersi alla consolidata interpretazione costituzionalmente adeguata, mentre legittima l’intervento del giudice delle leggi nel senso della pronuncia della illegittimità costituzionale, quando si ponga in contrasto con i precetti costituzionali.

Con tale espressione, notoriamente, in dottrina ed in giurisprudenza, si intende il diritto vigente quale risulta da consolidati orientamenti interpretativi, fatti propri sia dalla giurisprudenza di merito che, in modo particolare, dalla giurisprudenza di legittimità, ed, al suo interno, dalle decisioni delle Sezioni unite, anche se possono mutare i parametri per considerare sufficientemente consolidato un determinato “filone” interpretativo[17].

Se, dunque, come detto in precedenza, il vero oggetto del controllo di costituzionalità, esercitato con diversa efficacia, ma con apporti concorrenti dal giudice e dalla Corte costituzionale, è il «diritto vivente», non sembra azzardato sostenere che, soprattutto attraverso i consolidati orientamenti della Corte di cassazione, l’attività di interpretazione della legge svolta dai giudici è venuta a configurarsi come una vera e propria attività di creazione del diritto, consentendo di inquadrare la giurisprudenza tra le fonti di produzione[18].

Una simile conclusione, del resto, trova solide basi normative all’interno dell’ordinamento giuridico vigente, se solo si ponga lo sguardo appena oltre le apparenze.

L’avere costituzionalizzato il ruolo della Corte di cassazione quale supremo organo di garanzia dell’osservanza della legge[19] ed avere, allo stesso tempo, mantenuto il principio fissato dall’art. 65 dell’ordinamento giudiziario, che attribuisce alla Suprema corte il compito di assicurare l’unità del diritto oggettivo nazionale, significa riconoscere, anche sul piano formale, che il diritto oggettivo, una volta fissato dal legislatore, è solo quello che risulta dalla interpretazione consolidata della Corte di cassazione e, quindi, dai suoi precedenti, di fatto, vincolanti[20].

Se nel campo del diritto civile la crisi della legge, ed in particolare del codice, intesa come incapacità di comprendere e rappresentare adeguatamente il complesso divenire ed evolversi dei rapporti sociali, ha dominato in Italia ed, in generale, in Europa, il panorama culturale della seconda metà del Novecento, non si può dire lo stesso per il diritto penale.

Da un lato, a partire dagli anni ‘50 del secolo scorso, la legislazione speciale è intervenuta ad un ritmo incessante e sempre crescente, creando numerosissime nuove figure di reato[21], dall’altro, i codici penale e di procedura penale, pur avendo perduto terreno in forza della creazione di sotto-sistemi normativi organizzati per settori di materie, spesso attraverso la redazione di testi unici, hanno tendenzialmente mantenuto il loro valore fondante della disciplina di diritto penale sostanziale e processuale, nonostante i continui interventi di riforma, che, spesso, sono stati influenzati proprio dalla elaborazione della giurisprudenza, in un rapporto fecondo tra orientamenti giurisprudenziali e recezione legislativa.

Questa migliore capacità di “tenuta” della legge penale è dovuta, in larga parte, ad una maggiore “politicità” del diritto penale, sostanziale e processuale, in quanto espressione di una delle forme più tipiche della sovranità statale, il diritto di punire, che, inevitabilmente, non può fare a meno dello strumento legislativo per manifestarsi.

Nella legge e nel codice, infatti, trovano un momento di sintesi sia il comando imperativo dello Stato, che le esigenze (fondamentali in un ambito dove sono in gioco i supremi valori dell’individuo: la vita e la libertà personale), di certezza del diritto e di creazione di garanzie in grado di assicurare un processo in cui le ragioni della difesa e quelle dell’accusa abbiano la possibilità di svolgersi su di un piano di sostanziale parità.

L’intima connessione del diritto penale con l’essenza del patto che lega i consociati all’interno della loro principale forma di organizzazione politica, consente anche di comprendere come, una volta fissati, con la rivoluzione illuministica, i principi in grado di garantire la libertà dei singoli dalle illecite intrusioni dello Stato e dall’arbitrio dei giudici penali, tali principi siano sopravvissuti, immutati, sino ai nostri giorni[22].

Ciò vale in modo particolare per le disposizioni sulla interpretazione della legge penale cui fa riferimento l’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile del 1942[23], come quelle relative alla efficacia della legge penale contenute negli articoli 1[24] e 2[25] del codice penale approvato con Regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, che rappresentano capisaldi indiscutibili della cultura giuridica liberale, mantenute dal legislatore nel periodo fascista ed ancora vigenti nell’ordinamento democratico, proprio per il loro valore, in un certo senso, di «diritto naturale penale».

Nonostante gli stretti limiti entro i quali è stato storicamente costretto il potere interpretativo dei giudici in materia penale, l’esperienza italiana del dopoguerra si è trovata a fronteggiare un notevole attivismo della giurisprudenza, di legittimità e di merito, che, in questo settore, ha prodotto un’autonoma politica del diritto, spesso influenzando con le sue scelte la stessa politica legislativa.

Il peso sempre maggiore assunto dalla giurisprudenza penale è strettamente collegato, almeno nella fase iniziale, alla volontà di dare attuazione ai principi della Costituzione del 1948.

I principi costituzionali in materia penale, ripropongono, tendenzialmente, i tradizionali postulati del pensiero liberale[26], che, in parte, come si è detto, erano già contenuti nella parte generale del codice del 1930; tuttavia il loro inserimento nel testo di una Costituzione rigida come quella italiana ne ha profondamente modificato l’efficacia normativa, nel senso che, mentre in precedenza essi erano destinati a soccombere nel conflitto con le disposizioni del codice contenute nella parte speciale, quella a contenuto più marcatamente autoritario, in base al principio che la regola speciale prevale su quella generale, con l’entrata in vigore del testo costituzionale il rapporto si è esattamente ribaltato come avvertito dalla Corte costituzionale, che, quasi immediatamente, ha proceduto ad una sistematica opera di demolizione delle parti più illiberali del codice Rocco, adeguando, in generale la legislazione penale non solo ai principi di diritto costituzionale penale, ma al complesso dei diritti di libertà (come, ad esempio, il diritto di libera manifestazione del pensiero, il diritto di riunione e di associazione, il diritto di fede religiosa) e dei diritti sociali (come il diritto di sciopero o il diritto al lavoro) affermati in Costituzione[27].

L’intervento innovatore della Corte costituzionale non sarebbe stato possibile, tuttavia (anche in considerazione del particolare procedimento di accesso al giudizio di costituzionalità delle leggi, fondato sulla necessaria preventiva valutazione in ordine alla rilevanza della questione di legittimità costituzionale ed alla non manifesta infondatezza della stessa, riservata esclusivamente al giudice), se non si fosse affermato un forte movimento rinnovatore promosso dalla cultura giuridica e dalla parte più dinamica della magistratura italiana, concentrata, soprattutto, per ragioni anagrafiche, in quella di merito, attenta a dare immediata attuazione alla Costituzione, attraverso un’interpretazione di adeguamento della legislazione penale ai valori costituzionali, che aveva l’intenzione di supplire all’inerzia ed alle eventuali tendenze autoritarie del legislatore.[28]

In questo nuovo contesto, si imponeva una nuova figura di giudice ed un nuovo modello di giurisdizione.

Al giudice puro tecnico del diritto, incaricato di trovare la soluzione più corretta all’interno del sistema, si andava sostituendo, con sempre maggiore intensità, il giudice portatore di un’autonoma linea di politica del diritto, identificata nella immediata applicazione delle libertà e dei diritti costituzionali (o, come, iniziò a dirsi dei “beni” costituzionalmente protetti), che in breve tempo condusse ad una rielaborazione per via giurisprudenziale del diritto penale in materie di estrema importanza sociale, come l’ambiente, il territorio, il mondo del lavoro, le relazioni familiari, gli alimenti, in cui maggiormente veniva avvertita l’esigenza di apprestare nuove e più incisive forme di tutela contro le vecchie e nuove aggressioni ai beni oggetto della tutela costituzionale (come la salute, il lavoro, la famiglia, l’istruzione, la personalità dei singoli, ed il complesso dei rapporti economico-sociali)[29].

L’originalità dell’esperienza italiana è consistita proprio nella capacità di valorizzare in chiave costituzionale (di protezione, cioè, dei diritti e delle libertà costituzionali) la legislazione penale ricevuta dal regime fascista, trasformandola da strumento repressivo in uno dei tanti “luoghi” normativi in cui trova attuazione, nella nuova sistematica delle fonti di produzione del diritto e sempre per il mezzo del filtro rappresentato dalla interpretazione giurisprudenziale, la Costituzione democratica, cui si aggiunge oggi la variegata trama delle fonti di produzione europee e del dialogo tra le corti sovranazionali.

Ciò non sarebbe stato possibile, naturalmente, senza un profondo mutamento dell’assetto costituzionale della magistratura, che ne garantiva l’assoluta indipendenza ed autonomia dagli altri poteri dello Stato[30]ed, al tempo stesso, attraverso l’affermazione del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112, Cost.), le forniva lo strumento più adeguato per attuare, nel campo della tutela penale, il principio di eguaglianza in senso formale e sostanziale contenuto nell’art. 3 della Costituzione.

Perseguire un’autonoma politica del diritto in materia penale, implica, tuttavia, un pericolo costante: oltrepassare i limiti del principio di legalità, per sostituirsi al legislatore, attraverso una indebita estensione, per via interpretativa, delle norme penali a fattispecie concrete sfuggite alla previsione legislativa.

Un rischio particolarmente forte nei periodi in cui la gravità dell’attacco criminale fa nascere, quasi come una sorta di riflesso condizionato, anche all’interno della magistratura, la tendenza a privilegiare risposte ispirate alla logica dell’emergenza, che può compromettere il delicato equilibrio della separazione dei poteri, generando politiche e prassi, non solo giurisprudenziali, in contrasto con la lettera e lo spirito dei principi costituzionali.

Bisogna, tuttavia, prendere atto che, pur non potendosi oltrepassare per via interpretativa i limiti fissati in Costituzione all’intervento dello Stato in materia penale, tuttavia, nel momento in cui è mutata la teoria e la prassi dell’interpretazione giurisprudenziale della legge positiva, modificandosi lo stesso sistema delle fonti di produzione del diritto, non più separabile dal momento interpretativo, che tende ad oltrepassare il mero significato logico-giuridico della legge, per recuperare la dimensione sociale del diritto, sarebbe espressione di un “candore “ eccessivo (e per questo sospetto) ritenere che tutto questo non debba valere anche per il giudice penale, in ossequio ad un rispetto formalistico del principio di legalità.

Spetterà al potere legislativo intervenire per ovviare alle eventuali incertezze interpretative della giurisprudenza con norme chiare e precise, rifuggendo dalla tentazione di sottrarre alla giurisdizione la possibilità di intervenire in relazione a determinati settori o fattispecie concrete, magari in nome di “superiori” interessi economici (come accaduto nel caso dell’Ilva di Taranto[31]) od etici dello Stato; alla Corte costituzionale dichiarare la eventuale illegittimità di quelle interpretazioni consolidate in «diritto vivente», che concretizzino un vulnus dei principi costituzionali; alla giurisdizione esercitare con la necessaria ponderazione ed equilibrio il proprio potere, evitando pericolosi sconfinamenti, perché, come notava Gadamer, se è vero che «il compito dell’interpretazione è la concretizzazione della legge al caso particolare, cioè l’applicazione, così verificandosi un perfezionamento creativo della legge, che è riservato al giudice», occorre sempre rammentare che egli è pur sempre «sottomesso alla legge esattamente come ogni altro membro della comunità giuridica»[32].

[1] V. la voce Sistema giudiziario, curata da A. Marradi, in Dizionario di politica, a cura di N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Torino, 1992, p. 1021.

[2] V. John M. Kelly, Storia del pensiero giuridico occidentale, Bologna, 1996, pp. 535 ss., traduzione italiana di A short History of Western Legal Theory, Oxford, 1992. Una interessante ricostruzione critica del movimento dei critical legal studies è contenuta in G. Minda, Teorie postmoderne del diritto, Bologna, 2001, pp. 177 ss., traduzione italiana di Postmodern Legal Movements. Law and Jurisprudence at Century’s End, New York and London, 1995.

[3] V. Carl Schmitt, Il concetto di politico, Munchen-Leipzig, 1932, nella traduzione italiana contenuta in Le categorie del “Politico”, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Bologna, 2001, p. 153.

[4] V. C. Galli, Manuale di storia del pensiero politico, Bologna, 2001, p. 13.

[5] Questa espressione rende con notevole efficacia, il contributo che la magistratura fornisce, attraverso l’interpretazione giurisprudenziale del diritto, all’affermazione concreta dei più diversi valori sociali e culturali e, quindi, di politiche proprie, non meno efficaci di quelle «visibili» perseguite dagli organi formalmente titoli del poter politico e non necessariamente coincidenti con queste ultime.

[6] Sull’importanza di questa legislazione speciale per la cultura giuridica italiana del tempo, si rimanda a P. Grossi, La scienza del diritto privato - Una Rivista-progetto nella Firenze di fine secolo-1893/896, Milano, 1988.

[7] Rappresentava bene questa fase di cambiamento Francesco Carnelutti, quando, nella «Introduzione» ai suoi studi in tema di infortuni sul lavoro del 1913 scriveva: «sotto la pressione imponente dei bisogni sociali, norme costituite da leggi nuove, norme proclamate per ingegnose vie, da singolari organi pseudo-legislativi, norme formulate con lavorio cauto dalla giurisprudenza ordinaria, con lavorio più audace dalla giurisprudenza probivirale, norme imposte con mezzi di coazione diversi dalla coazione giuridica, da contratti e da arbitrati collettivi, son venute in compagnia forte a colmare la gran lacuna del codice»; cfr. F. Carnelutti, Infortuni sul lavoro (Studi), vol. I, Introduzione, Roma, 1913, p. XII. Su questi temi, per i doverosi approfondimenti, si rimanda alla fondamentale opera di P. Grossi Scienza giuridica italiana, un profilo storico, 1860-1950, già citata. L’autore ricorda, tra l’altro, come, nel secolo XIX, i giudici abbiano contribuito in maniera decisiva, attraverso l’interpretazione giurisprudenziale, ad adeguare il diritto ai mutamenti sociali, svolgendo un ruolo creativo, fortemente criticato da uno dei più noti civilisti italiani dei primi del Novecento, Nicola Coviello, come un «abuso di potere», mentre sarà ancora la giurisprudenza agli inizi del XX secolo, attraverso l’azione di magistrati come Raffaele Majetti, traduttore delle sentenze del bon juge Magnaud e delle opere di Joseph Kohler, Oronzo Quarta e Lodovico Mortara, per citare i più noti, a consentire all’ordinamento giuridico (sono parole di Grossi) di mantenere «il suo contatto con la società in tumultuoso progresso».

[8] Crisi del tradizionale sistema delle fonti del diritto imperniato sul primato della legge positiva e necessità di ripensarne l’interpretazione partendo dal superamento del mito della sua completezza, costituiscono i tratti salienti della riflessione di una parte non minoritaria della cultura giuridica italiana coeva o contemporanea al Fascismo, sin dal noto saggio del 1921 di G. Del Vecchio, Sui principî generali del diritto, in Studi sul diritto, vol. I, Milano, 1958, in cui si proponeva una lettura innovativa dell’art. 3 del codice civile del 1865, nel senso che il ricorso ai principi generali del diritto come strumento ermeneutico per colmare le lacune dell’ordinamento positivo, andava inteso come riferito ai principi di diritto naturale e non a quelli ricavabili dal complesso delle disposizioni del diritto positivo vigente, per giungere alla notevole opera del 1928 di Max Ascoli, L’interpretazione delle leggi-Saggio di filosofia del diritto, Milano, 1991, il quale ritorna su di un tema già affrontato da Giuseppe Maggiore in uno scritto del 1914, dall’eloquente titolo L’interpretazione delle leggi come atto creativo. Sul significato storico del modo con cui la dottrina italiana intese affrontare la “crisi” della legge nel ventennio intercorso tra le due guerre mondiali, cfr. P. Grossi, Scienza giuridica italiana, un profilo storico, 1860-1950, op. cit., pp. 134-155.

[9] Il mantenimento da parte delle legge di una posizione dominante nel sistema delle fonti di produzione del diritto, rappresenta, peraltro, sotto il profilo formale, uno degli aspetti più evidenti di continuità tra lo Stato fascista e lo Stato liberale. Del resto tutti i più importanti interventi sulla organizzazione in senso fascista dello Stato vennero realizzati attraverso lo strumento legislativo, senza che venissero apportate formali modifiche alla costituzione vigente. Sui rapporti tra legislazione fascista e Statuto albertino, v. la voce Statuto albertino, a cura di G. Melis, in Dizionario del fascismo, vol. 2, Torino, 2003, pp. 696-700.

[10] Secondo l’insegnamento di Santi Romano, autore tra il 1917 ed il 1918 del notissimo L’ordinamento giuridico, in qualche modo anticipato dalla prolusione pisana all’anno accademico 1909-1910 su Lo Stato moderno e la sua crisi. Non a caso il Romano, nel 1928, venne prescelto da Mussolini per presiedere il Consiglio di Stato, all’interno di un disegno più ampio di rafforzamento dell’azione statale e dell’esecutivo nel quale al Consiglio di Stato venne attribuito il compito di supremo organo di consulenza giuridica, in funzione di superiorità rispetto a tutti i ministeri, sancita, dal trasferimento, nello stesso anno, delle competenze sul Consiglio stesso dal ministero degli Interni alla presidenza del Consiglio dei ministri.

[11] Per una sintetica visione d’insieme dei principali interventi del fascismo nei confronti del potere giudiziario, v., da ultimo, la voce Magistratura, in Dizionario del fascismo, op. cit., pp. 74-77. L’organizzazione in senso gerarchico della magistratura, consacrata nella nuova disciplina dell’ordinamento giudiziario contenuta nel Rd 30 gennaio 1941, n. 12, si rifletteva, inevitabilmente anche sul piano della interpretazione della legge positiva, soggetta al vigile controllo della Corte di cassazione. L’art. 65, nello stabilire, a differenza di quanto previsto nel passato, che vi fosse una sola Corte di cassazione, con sede in Roma, con giurisdizione su tutto il territorio soggetto alla sovranità dello stato, le attribuiva il compito di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge e l’unità del diritto oggettivo nazionale. Per un approfondito studio sui rapporti tra magistratura e fascismo, con particolare riferimento al ruolo svolto dalla Corte di cassazione nell’elaborare, attraverso le proprie decisioni, un’autonoma politica del diritto, in sostanziale sintonia con i valori dominanti nella società del periodo fascista, v. Orazio Abbamonte, La politica invisibile: Corte di cassazione e magistratura durante il fascismo, Milano, 2003.

[12] La “rigidità” del testo costituzionale non è espressamente sancita in Costituzione, ma si ricava da una serie di disposizioni costituzionali: l’articolo 138, che prevede una procedura aggravata per la revisione della Costituzione e l’approvazione delle leggi costituzionali, e gli articoli da 134 a 137 che hanno introdotto il controllo di costituzionalità sulle leggi ordinarie.

[13] Si deve a Natalino Irti la prima approfondita analisi della crisi dell’idea e della funzione stessa del  codice nello Stato contemporaneo nel suo notissimo saggio, L’età della decodificazione, Milano, 1979. Su questo tema, si veda, da ultimo anche il contributo di P. Cappellini, I Codici, in Lo Stato Moderno in Europa, Istituzioni e Diritto, a cura di M. Fioravanti, pp. 102-127, Roma-Bari 2002 e, con uno sguardo rivolto al futuro, P. Grossi, Il Codice oggi: qualche considerazione dello storico del diritto, in Mitologie giuridiche della modernità, Milano, 2001, pp. 116-124.

[14] Una sintesi efficace del dibattito interno alla cultura giuridica italiana sul nuovo sistema delle fonti di produzione del diritto, è contenuto nel saggio di Alessandro Pizzorusso, intitolato significativamente Pluralismo delle fonti interne e formazione di un sistema di fonti sovranazionali, in Storia d’Italia, Annali 14, Legge Diritto Giustizia, Torino, 1998, pp. 1128-1154. L’autore evidenzia come il panorama delle fonti di produzione del diritto si sia enormemente allargato con l’entrata in vigore della Costituzione e con l’affermarsi di un pluralismo territoriale ed istituzionale, finendo con estendersi ad una serie di fenomeni del tutto nuovi: dalle fonti internazionali, comunitarie e straniere, alle sentenze della Corte Costituzionale dichiarative della incostituzionalità delle leggi; dagli atti dotati di efficacia normativa degli enti territoriali o delle formazioni sociali che hanno natura di enti pubblici o privati, ai quali l’ordinamento dello Stato rinvia, all’interpretazione giurisprudenziale; dagli atti normativi del governo al risultato positivo del referendum abrogativo previsto dall’art. 75 della Costituzione.

[15] Questo tema ha appassionato e continua ad appassionare la dottrina giuridica italiana ed europea: v. per una riflessione d’insieme, ricca di riferimenti alle esperienze di civil law e di common law, G. Alpa, L’arte di giudicare, Roma-Bari, 1996 e, soprattutto per la completezza delle indicazioni bibliografiche, C. Guarnieri - P. Pederzoli, La Magistratura nelle democrazie contemporanee, Roma-Bari, 2002. Di particolare interesse, perché colgono con sensibilità l’impasse in cui si rischia di cadere quando ci si pone con atteggiamento formalistico di fronte al rapporto tra attività giurisprudenziale e fonti del diritto, sono le osservazioni svolte da Maryse Deguergue, nella voce Jurisprudence del Dictionnaire de la culture juridique, op. cit., p. 887. L’autrice, infatti, dopo avere smontato le tradizionali critiche alla possibilità di configurare la giurisprudenza come fonte del diritto, fondate sulla mancanza, nei paesi di civil law, dell’efficacia vincolante del precedente giudiziario e sulla possibilità per gli orientamenti giurisprudenziali costanti di essere modificati con una legge, finisce con l’ammettere che si tratta di un problema oggettivamente insolubile, strettamente connesso alla nozione che si privilegia di fonte del diritto: se ad essa si attribuisce un significato monolitico e centralizzato, la giurisprudenza non potrà essere considerata tale, se, invece, se ne accetta un significato frammentato e diversificato (si potrebbe meglio dire pluralistico), la giurisprudenza rientrerà a pieno titolo tra le fonti del diritto.

[16] In questo senso, v. la raccolta dei diversi contributi contenuti in E. Malfatti, R. Romboli ed E. Rossi (a cura di), Il giudizio sulle leggi e la sua «diffusione», Torino, 2000.

[17] Un’attenta analisi del tema, corredata da ampi riferimenti storiografici, si rinviene in L. Mengoni, Il diritto vivente come categoria ermeneutica, in Ermeneutica e dogmatica giuridica, pp. 141-163, Milano, 1996. Preme rilevare che oggi il «diritto vivente» viene utilizzato dalla giurisprudenza di legittimità come vero e proprio criterio ermeneutico, soprattutto in quei settori, come il diritto del lavoro, in cui maggiore è l’influenza di valori extragiuridici nella interpretazione della legge positiva, che vengono presi in attenta considerazione, allo scopo di adeguare il contenuto della norma alla dimensione sociale in cui è destinata ad operare. Di valore paradigmatico, in tale senso, risulta una decisione della Sezione lavoro della Cassazione civile del 13 aprile 1999, la n. 3645 (Russo c. Banco di Sicilia, in Foro. It., 1999, I, 3558, con nota di M. Fabiani), di cui si ritiene opportuno riportare per intero la massima: «I giudizi di valore compiuti ai fini della qualificazione di un comportamento ai sensi di norme “elastiche” che indichino solo parametri generali presuppongono da parte del giudice un’attività di integrazione giuridica della norma, a cui viene data concretezza ai fini del suo adeguamento ad un determinato contesto storico-sociale. Ne consegue la censurabilità in Cassazione di tali giudizi quando gli stessi si pongano in contrasto con i principi dell’ordinamento (espressi dalla giurisdizione di legittimità) e quegli standard “valutativi” esistenti nella realtà sociale-riassumibili nella nozione di civiltà del lavoro, riguardo alla disciplina del lavoro subordinato- che concorrono con detti principi a comporre il diritto vivente. In tale quadro, deve ritenersi che ricorra il vizio di falsa applicazione della legge, denunciabile in cassazione, nel caso in cui il giudice di merito, nel valutare la gravità del comportamento del lavoratore licenziato, a causa di episodi limitati di uso di sostanze stupefacenti, disattenda il principio che impone la valutazione della concreta incidenza dell’inadempimento sulla funzionalità del rapporto e il diffuso standard valutativo (sorretto dal principio costituzionale sul diritto al lavoro e dalla legislazione sulle tossicodipendenze), secondo cui l’opportunità di un reinserimento nel mondo del lavoro del soggetto che abbia saputo rompere con una pregressa esperienza negativa in materia di uso di stupefacenti va adeguatamente considerata e privilegiata rispetto a generiche considerazioni negative sulla personalità di un lavoratore che abbia fatto uso di stupefacenti e sulla pubblicità sfavorevole derivante da episodi del genere per il datore di lavoro».

[18] Proprio la natura della Costituzione italiana come “processo”, piuttosto che come atto, pone in primo piano il momento dell’attuazione costituzionale (che si realizza, anche, ma non esclusivamente, per mezzo della funzione giurisdizionale), determinando un profondo cambiamento nel sistema, organizzato gerarchicamente, delle fonti di produzione del diritto, attraverso una rivalutazione del processo interpretativo-applicativo, che fa dell’integrazione tra norme, pur collocate su piani diversi, il proprio tratto tipico, come rilevato da Antonio Ruggeri, in Idee sulla Costituzione, tra teoria delle fonti e teoria dell’interpretazione, testo non pubblicato di un seminario svolto al Dottorato di ricerca in Diritto ed economia, presso l’Università Federico II di Napoli, il 9 dicembre 2004.

[19] Secondo l’art. 111 della Costituzione, che, sul punto, non è stato modificato dalla riforma costituzionale sul “giusto processo”, “contro le sentenze  e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso il ricorso in Cassazione per violazione di legge.

[20] Si segnala, al riguardo, una interessante sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione civile del 4 luglio 2003, n. 10615, in Dir. e Giust. 2003, f. 29, 98, in cui si parla espressamente di un vero e proprio dovere di fedeltà ai propri precedenti da parte della Corte stessa, «sul quale si fonda, per larga parte, l’assolvimento della funzione di assicurare l’esatta osservanza, l’uniforme interpretazione della legge e l’unità del diritto oggettivo nazionale, assegnatale dall’art. 65 dell’Ordinamento giudiziario e dall’art. 111 della Costituzione».

[21] Non vi è in pratica nessun settore della vita sociale, economica, amministrativa che non sia stato interessato dall’intervento del legislatore penale, secondo una prospettiva di inarrestabile estensione dell’ambito del penalmente  rilevante, come può facilmente rilevarsi attraverso la consultazione delle sempre più diffuse raccolte di leggi penali speciali, che recuperano l’antica funzione meramente compilatoria dei codici (si veda, ad esempio, l’imponente edizione del 2016 del Codice Repertorio delle Leggi Penali Speciali della casa editrice La Tribuna di Piacenza).

[22] «Le leggi penali ... non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati».

[23] «Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite».

[24] Comma 1: «Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato»; comma 2: «Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali».

[25] Si tratta, in particolare, del principio di stretta legalità e di irretroattività della legge penale (art. 25, co. 2); del divieto di estradizione per i reati politici (art. 26, co. 2); del carattere personale della responsabilità penale (art. 27, co. 1); dell’abolizione della pena di morte, salvo che nei casi previsti dalla leggi militari di guerra (art. 27, co. 4), mentre, del tutto innovativo è il principio sulla funzione della pena, sancito nell’art. 27, co. 3, secondo il quale «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al principio di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato», che eserciterà una profonda influenza sugli interventi legislativi in tema di ordinamento penitenziario, a partire dalla riforma del 1975.

[26] L’opera di adeguamento ai nuovi valori costituzionali della Corte, iniziò con la nota sentenza n. 3/1956, in materia di responsabilità per i reati commessi con il mezzo della stampa, che determinò la modifica legislativa realizzata con la L 4 marzo 1958, n. 127 e proseguì con una serie, quasi ininterrotta di sentenze che, in un arco di oltre trent’anni, hanno profondamente mutato il sistema del diritto penale sostanziale nel nostro paese. Si pensi, in particolare, alle sentenze: n. 42/1965, sul concorso di persone nel reato; n. 29/1960, n. 46/1958, n. 84/1969, n. 290/1974, n. 222/1975, n. 165/1983, in tema di diritto di sciopero e di serrata per finalità contrattuali, nel settore dell’industria e del pubblico impiego; n. 65/1970, n. 23/1974 e n. 108/1974 sui delitti di apologia, istigazione all’odio di classe e di istigazione a disobbedire alle leggi; n. 87/1966 in tema di delitti di propaganda e di apologia sovversiva e antinazionale, n. 193/1985, che ha dichiarato illegittimi i delitti di illecita costituzione e di illecita partecipazione ad associazioni aventi carattere internazionale, alla quale va aggiunta la sentenza n. 243/2001, che ha dichiarato illegittimo il delitto di costituzione e partecipazione ad associazioni antinazionali; n. 142/1973, a proposito di associazione sovversiva; n. 147/1969 e n. 49/1971, che hanno dichiarato, rispettivamente, illegittimi i delitti di adulterio e di concubinato ed il  delitto di incitamento; n. 27/1975 in materia di aborto; n. 139/1982, n. 249/1983, 1102/88, attraverso le quali la Corte ha eliminato il concetto della pericolosità sociale presunta dall’ambito dalla legislazione penale; n. 364/1988, che ha dichiarato la illegittimità dell’art. 5, cp, nella parte in cui non escludeva dalla inescusabilità dell’ignoranza della legge penale, l’ignoranza inevitabile; n. 299/1992 che ha inciso, riducendolo, sul potere discrezionale del giudice nella determinazione della pena in concreto da applicare, affermando che non risponde al principio di legalità fissato nell’art. 25, co. 2 della Costituzione, ogni norma penale che stabilisca, per un determinato reato, il minimo della pena irrogabile e non anche il massimo o che preveda un eccessivo divario fra il minimo ed il massimo della pena. Per una compiuta sintesi della evoluzione del sistema penale italiano, v. C.F. Grosso, Storia e ideologia del diritto penale dall’illuminismo ai giorni nostri, in Giustizia penale e poteri dello Stato, Milano, 2002, pp. 143-205, nonché M. Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano (1860-1990), in Storia d’Italia, Annali 14, Legge Diritto Giustizia, Torino, 1998, pp. 487-551.

[27] Per un approfondimento di questo periodo di particolare vivacità del diritto penale in Italia, v. C.F. Grosso, Le grandi correnti del pensiero penalistico italiano, in Storia d’Italia, Annali 12. La criminalità, Torino, 1997.
Scriveva lucidamente Franco Bricola, forse il più consapevole interprete del nuovo corso culturale, nell’evidenziare i tratti comuni tra l’ideologia portante del Programma del corso di diritto criminale di Francesco Carrara e la nuova esigenza di raccordo tra Costituzione e legislazione penale: «L’aggancio del “diritto” come oggetto giuridico del reato deontologicamente inteso è conseguenza logica di una pretesa e richiesta concordanza della legge penale positiva al diritto naturale che proclama il riconoscimento anche da parte del potere costituito dei diritti fondamentali dell’individuo e della comunità e costituisce un freno all’arbitrio del legislatore. È la stessa esigenza che sta oggi al fondo del tentativo di rintracciare nella Carta costituzionale i beni e gli interessi suscettibili di tutela penale … . La tesi che circoscrive l’oggettività giuridica del reato ai beni costituzionalmente protetti è oggetto di vivaci polemiche nella scienza penalistica contemporanea; resta, comunque, l’esigenza di limitare il potere del legislatore penale, non solo nelle scelte tecniche di formulazione delle fattispecie e nella gerarchia delle funzioni della pena, bensì anche negli oggetti di tutela»: v. Introduzione a F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale, in Franco Bricola, Politica criminale e scienza del diritto penale, Bologna, 1997, pp. 297-298. La compiuta esposizione del pensiero di Bricola sulla dimensione costituzionale del diritto penale, è contenuta nel suo Teoria generale del reato, in Novissimo digesto italiano, vol. XIX, Torino, 1973, p. 17.

[28] A partire dagli anni ‘60, l’ordine giudiziario è attraversato da profondi spinte innovative, che impongono, parallelamente agli sviluppi della dottrina penalistica, un nuovo modo di concepire la giurisdizione. Come ricorda uno dei protagonisti di maggiore spicco di quella stagione culturale, il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli (tra i fondatori della corrente di sinistra dei giudici, Magistratura democratica), al vecchio giuspositivismo dogmatico e formalistico, rifiutato in nome di una maggiore attenzione alla dimensione dell’effettività del diritto ed all’apporto che altri settori della scienza, quali l’antropologia e la sociologia, potevano fornire per la esatta comprensione dei fenomeni giuridici e delle scelte giurisprudenziali, si sostituì un giuspositivismo critico (il corsivo è dello stesso Ferrajoli), fatto proprio dalla magistratura italiana nella sua parte più progressista, costruito su tre pilastri fondamentali: la consapevolezza della “finzione” del preteso carattere meramente tecnico e neutro della giurisdizione; la consapevolezza del valore precettivo delle disposizioni costituzionali, innanzi alle quali la legislazione penale in contrasto con esse era destinata a soccombere; la necessità di procedere per via interpretativa, in sede cioè di applicazione della legge, all’attuazione della Costituzione, in condizioni di assoluta indipendenza: v. Luigi Ferrajoli, Per una storia delle idee di Magistratura Democratica, in Giudici e democrazia. La magistratura progressista nel mutamento istituzionale, Milano, 1994, pp. 55-79. Un’attenta analisi dell’evoluzione della magistratura italiana dal dopoguerra ai primi anni ‘70, con particolare attenzione alla nascita delle correnti dell’associazionismo giudiziario, si rinviene in Romano Canosa - Pietro Federico, La magistratura italiana dal 1945 ad oggi, Bologna, 1974. Sul nuovo orientamento culturale dei giudici italiani, esercitarono una notevole influenza anche le teorie neomarxiste che proponevano un «uso alternativo del diritto», riconoscendo al giurista, ed in primo luogo al giudice, un’ampia libertà interpretativa per «sopperire, rimediare o correggere» i presupposti classisti del diritto di produzione legislativa, considerato, in quest’ottica, tipica espressione del potere politico borghese: v. P. Barcellona (a cura di ), L’uso alternativo del diritto, 2 volumi, Roma-Bari, 1973 ed il contributo di D. Zolo, Cittadinanza democratica e giurisdizione, nel già citato Giudici e democrazia. La magistratura progressista nel mutamento istituzionale, pp. 81-82.

[29] Uno studio della storia e delle principali tematiche della magistratura italiana, attento alle implicazioni di natura costituzionale, è quello svolto da Vladimiro Zagrebelsky, nel suo La magistratura ordinaria dalla Costituzione a oggi, in Storia d’Italia, Annali 14, Legge Diritto Giustizia, op. cit., pp. 713-790. Si veda anche l’ormai classico saggio di A. Pizzorusso, L’organizzazione della giustizia in Italia. La Magistratura nel sistema politico e istituzionale, prima edizione, Torino, 1982. Sulla collocazione della magistratura all’interno del sistema costituzionale, v. F. Bonifacio, G. Giacobbe, La Magistratura, Art. 104-107, Tomo II, Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, Bologna, 1986, nonché V. Denti, G. Neppi Modona, G. Berti, P. Corso, La Magistratura, Art. 111-113, Tomo II, Commentario della Costituzione, op. cit., Bologna 1987. Con particolare riferimento ai progetti di riforma costituzionale della magistratura oggetto di dibattito nella Commissione bicamerale istituita con la legge costituzionale n. 1 del 1997, v. Lorenzo Chieffi, La Magistratura, origine del modello costituzionale e prospettive di riforma, Napoli 1998. Con la Legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, intitolata «Inserimento dei principi del giusto processo nell’art. 111 della Costituzione» è stato esplicitamente costituzionalizzato un modello di processo (e, quindi, di esercizio della giurisdizione), fondato sulla formazione della prova nel contraddittorio tra le parti. V., per gli effetti della riforma costituzionale sul processo penale e sul processo civile, rispettivamente, Cristiana Valentini, Il recepimento dei principi del giusto processo nella nuova formulazione dell’art. 111 Cost.. e nelle disposizioni di attuazione, in Cass. pen., 2002, 4, 2225 e Nicolò Trocker, Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il “giusto processo” in materia civile: profili generali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, 2, 381.

[30] Cfr. F. Grassi, Il caso Ilva: ancora un conflitto tra legislatore e giudici, in RQDA n. 2/2015, pp. 147 ss.; M. Massa, Il diritto del disastro. Appunti sul caso Ilva, in Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/13;  Roberto Bin, Giurisdizione o amministrazione, chi deve prevenire i reati ambientali? Nota alla sentenza Ilva, in www.robertobin.it/ARTICOLI/NotaIlva.pdf.

[31] V. H.G. Gadamer, Verità e metodo, nella traduzione italiana a cura di Gianni Vattimo, Milano, 1972, p. 382.