Magistratura democratica

Dire il diritto che non viene dal sovrano

di Enrico Scoditti
Nell’ipotesi di diretta attuazione della Costituzione, per i casi non contemplati dalla legge, il diritto che il giudice applica non è il principio costituzionale astrattamente considerato, ma la norma di diritto risultante dal bilanciamento dei principi in relazione alle circostanze del caso concreto. Il diritto di cui si fa applicazione non è quindi posto dal legislatore, ma rinvenuto dal giudice quale regola del caso concreto. La sentenza che enuncia il relativo principio di diritto costituisce precedente vincolante per i casi riconducibili al medesimo principio perché solo nella pronuncia giudiziaria, e non altrove, si è manifestato il diritto. Laddove il diritto non venga dal sovrano (come anche nell’ipotesi di concretizzazione delle clausole generali) deve pertanto presumersi operante la regola dello stare decisis. Se invece il diritto da applicare corrisponde a quello legislativo, i margini di vincolatività del precedente sono fissati dal legislatore.

1. Il diritto che viene dal sovrano e il precedente giudiziario

La sottoposizione del diritto ad un sovrano, e la sua liberazione dal particolarismo medievale, corrispondono per Max Weber alla conquista di quella razionalità formale che sola consente alla moderna economia di funzionare. Alle esigenze di prevedibilità delle moderne relazioni economiche risponde una decisione giuridica che sia applicazione di una fattispecie generale e astratta al caso concreto, e non l’empirismo del precedente giudiziario del mondo anglosassone[1]. Il diritto è certo se posto da un sovrano, e applicato da un giudice mediante sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta, mentre perde la virtù della calcolabilità se affidato all’arte empirica dell’inferire un caso particolare da un altro caso particolare, senza passare attraverso l’astrazione della previsione astratta e generale. Al di là del pregiudizio weberiano nei confronti del basso grado di razionalità formale del diritto anglosassone, diritto legislativo e diritto giurisprudenziale si collocano subito all’interno delle grandi categorie che le scienze sociali pongono a base del Moderno.

Il diritto posto dal sovrano ha, sul piano del tipo ideale, il crisma dell’artificialità, e dunque dell’innovazione dell’ordine preesistente. All’interno della grande distinzione fra Kultur e Zivilisation, tradizione e modernità, il diritto legislativo è chiaramente sul secondo versante. La certezza del diritto è un attributo del principio di legalità perché il diritto del sovrano, e soprattutto del sovrano democratico del 1789, che porta a compimento il processo di dissoluzione dell’antico regime cetuale inaugurato dall’assolutismo monarchico, introduce il principio dell’autorità certa a fronte del particolarismo e della sovrapposizione di ordinamenti e giurisdizioni che caratterizzava il mondo giuridico medievale. «Soltanto per il fatto che diviene legge, ciò che è diritto ottiene non solamente la forma della sua universalità, sibbene la sua verace determinatezza»[2]. Grazie alla legge il diritto acquista la sua forma determinata, e questa forma è quella dell’universalità. Il precedente giudiziario, nel mondo giuridico dominato dal diritto posto dal sovrano democratico, è venuto acquisendo il ruolo di supporto determinante degli attributi del principio di legalità, l’eguaglianza e la certezza del diritto.

L’origine del diritto nell’atto del sovrano impedisce che il precedente acquisti una naturale efficacia vincolante. Il giudice, come recita l’art. 101 della Costituzione italiana, resta soggetto (solo) alla legge. La necessità però di salvaguardare eguaglianza e certezza impone la presenza di una Corte Suprema a garanzia dell’«uniforme interpretazione della legge» e dell’«unità del diritto nazionale», come recita l’art. 65 dell’ordinamento giudiziario. La funzione nomofilattica della Corte di cassazione trova qui la sua radice: nell’ineludibile vincolo alla legge del giudice e nella necessità allo stesso tempo che la legge, il diritto posto dal sovrano, trovi attuazione in modo certo ed eguale per tutti i cittadini. Il precedente è strumento di garanzia del principio di legalità. Si comprende così perché il giudice, soggetto soltanto alla legge, dal precedente può discostarsi. La vincolatività del precedente è debole, perché è cedevole rispetto alla legge. In un sistema legalistico la forza vincolante del precedente non può che derivare dal diritto positivo. Se il giudice è soggetto alla legge, solo quest’ultima può stabilire margini di vincolatività del precedente e può farlo in misura più o meno estesa, nel rispetto del principio previsto dall’art. 101 della Costituzione. È quanto accade con l’art. 374, comma 3, cpc che prevede che se la sezione semplice della Corte di cassazione ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime la decisione del ricorso. Al precedente enunciato dalle sezioni unite non è però vincolato il giudice di primo o secondo grado, il quale, motivando sul punto, può appellarsi alla legge contro il precedente e riaprire il circuito della nomofilachia. Sarà la Corte Suprema ad assicurare a questo punto l’“esatta osservanza” della legge. La disposizione di cui all’art. 374 è di carattere procedimentale. Non si può parlare di vincolo formale al precedente finché una disposizione legislativa non preveda la possibilità di impugnare la sentenza in quanto difforme dal precedente della Corte regolatrice[3].

Il precedente giudiziario del common law, in quanto relativo ad un diritto che non viene dal sovrano, è dotato di una vincolatività propria, ontologica, che non viene dal diritto positivo e che rinvia all’appartenenza del precedente al sistema delle fonti (quanto meno dopo il superamento della teoria classica di Blackstone della natura dichiarativa della giurisprudenza). La fenomenologia del precedente di common law resta estranea al principio di legalità. Si tratta perciò di una vincolatività forte (e tecniche quali quelle del distinguishing e dell’overruling presuppongono l’esistenza di quella vincolatività). Un diritto che non viene dal sovrano è, quanto meno sul piano del tipo ideale, dal lato della Kultur e non della Zivilisation. Il problema storico dello stare decisis (et non quieta movere)nel mondo anglosassone è la preservazione della tradizione, la protezione delle ancient common laws and customs of the realm. Tocqueville opponeva alla volontà di potenza della sovranità popolare ed alla nuova foga democratica post-rivoluzionaria il procedere con lentezza e la visione conservatrice del giudice anglosassone, garante della lex terrae.Il riferimento allo standard esistente è il primo canone del giudice di common law[4].  La forma di legge ha determinato la scissione di diritto e ethos collettivo, favorendo la sublimazione tecnica del ragionamento giuridico ammirata da Weber per la sua capacità di rendere prevedibile e calcolabile il diritto. Quella rottura di diritto e ethos collettivo non si è mai veramente consumata al di là della Manica. Naturalmente il giudice anglosassone non è più il vecchio magistrate protettore della old constitution non scritta. I celebri casi costituzionali della giurisprudenza della Corte Suprema degli Stati Uniti in materia di diritti civili vanno sicuramente ascritti alla Zivilisation e non alla Kultur. Il giudice è qui dal lato della modernizzazione e del mutamento sociale, e non da quello della tradizione. E tuttavia, anche nella forma più aggiornata di pensiero giuridico angloamericano, proclamatrice dei valori universalistici e egualitari, e cioè la teoria interpretativa del diritto di Ronald Dworkin, resta l’orientamento al passato. Per Dworkin è un modello di ragione, e non il mero rispetto della tradizione, che guida l’interprete, ma quel modello è depositato nella prassi giuridica della comunità, e compito del giudice è fornirne la migliore interpretazione. Nell’ambito di un’importante polemica filosofica di oltreoceano si è precisato che il vincolo al caso precedente non corrisponde ad un rapporto fra le individualità dei giudici, ma alla partecipazione ad una comune tradizione cui il giudice attuale ed il suo predecessore, con minore o maggiore successo, mirano ad essere fedeli[5].

Se lo stare decisis è l’altra faccia di un diritto non posto dal sovrano, ma rinvenuto nella “catena narrativa” dei precedenti giudiziari per dirla con Dworkin[6], vi è da chiedersi quali riflessi vi siano sul precedente nella tradizione di civil law una volta che anche essa si apra ad un diritto che non viene dal sovrano. È il tema della diretta attuazione della Costituzione da parte dei giudici comuni per i casi non contemplati da una previsione legislativa (fermi i limiti della riserva di legge), ed in genere dell’interpretazione costituzionale. Come riconosce la giurisprudenza costituzionale, a fronte della carenza di una specifica disciplina legislativa spetta al giudice del caso concreto ricostruire la regola di giudizio attingendo direttamente ai principi costituzionali[7].

2. Costituzione e sovranità

Dire la Costituzione non è come dire il diritto che viene dal sovrano. La Costituzione non è meramente posta da una sovrano alla stessa stregua del diritto legislativo. Il punto di vista del positivismo giuridico è quello di una integrale artificialità del diritto, al punto che gli stessi principi costituzionali risultano «positivizzati ed imposti come condizioni di validità»[8] e le norme costituzionali rilevano «quali che siano i principi e i diritti in esse stipulati»[9]. L’indifferenza rispetto ai contenuti del principio di legalità, e la riduzione di quest’ultimo a mera tecnica di garanzia di quei contenuti, propugnate dal giuspositivismo, vengono trasferite dal diritto ordinario a quello costituzionale. La Costituzione, secondo questa lettura, è il risultato puro e semplice di un atto di posizione da parte di un’autorità sovrana.

Nella letteratura recente si va sempre più problematizzando il nesso fra Costituzione e sovranità. La Costituzione, è stato scritto, non si basa sull’esplosione di una volontà, su un potere, ma su una norma, il complesso di principi fondamentali che la compongono, e si realizza in modo processuale come attuazione di quei principi da parte della pluralità dei poteri che essa istituisce, in primo luogo legislatore e giudici[10]. Un potere costituente che dichiari i diritti fondamentali non può identificarsi nella posizione del diritto quale decisione sciolta da ogni contenuto o vincolo presupposto alla stessa stregua della decisione assoluta di Carl Schmitt. Quel potere, dichiarando i diritti fondamentali, è già diritto. Se il potere costituente è capace di diritto (come l’uomo di Agostino, capax Dei),vuol dire che non è solo potere o volontà, ma anche diritto. I principi costituzionali non hanno il crisma dell’artificialità che connota il diritto che viene dal sovrano perché costituente e costituito si appartengono reciprocamente. Non c’è un sovrano che preceda la costituzione: il sovrano è sia causa che effetto della Costituzione. Si tratta di un processo circolare, nel quale «il primo diventa anche l’ultimo, e l’ultimo anche il primo»[11]. Il potere costituente non è un nudo volere, ma è governato dai principi che il documento costituzionale enuncia e l’instaurazione di una Costituzione non è un mero fatto empirico di posizione ma è un processo animato da un criterio regolativo, che è il complesso di principi che si va ad enunciare. Il sovrano costituente non è un soggetto assoluto sciolto da vincoli. L’autore della Costituzione è parte di essa. In fondo, il processo costituente è un processo di auto-creazione costituzionale.

Assumere l’integrale artificialità dei principi costituzionali, quale risultato del mero fatto empirico della positivizzazione, vuol dire confinare quei principi nel regno dell’indifferenza contenutistica e del divenire, in base al quale le norme «sono emanate e abrogate, tratte dal nulla o ricacciate nel nulla»[12]. La lettura del costituzionalismo con le lenti del giuspositivismo schiude le porte al cosiddetto nichilismo giuridico. Dare avvio al processo costituente non è invece un «puro nulla, ma un nulla da cui deve uscire qualcosa. Dunque anche nel cominciamento è già contenuto l’essere»[13]. Le norme costituzionali non sono tratte dal nulla[14]. Le stesse norme ordinarie non vengono dal nulla. La prospettiva del nichilismo giuridico non coglie che in presenza di una Costituzione rigida la posizione legislativa non è nuda volontà e artificio perché il legislatore, cui per primo compete l’attività di bilanciamento, come ricorda il giudice delle leggi[15], quando pone una norma bilancia principi costituzionali.

Quando si applica il diritto costituzionale si dice dunque un diritto che non viene sic et simpliciter dal sovrano. La giurisdizione rispetto alle norme costituzionali ha un significato diverso da quella relativa alle norme ordinarie. Attuare la Costituzione vuol dire partecipare ad un processo di concretizzazione di principi con l’insieme dei poteri istituiti dalla Costituzione stessa. A differenza del diritto legislativo, che è una forma conchiusa e definita in attesa delle diverse puntualizzazioni interpretative, con la Costituzione la concretizzazione è la forma stessa del diritto. Il complesso di principi fondamentali è immanente non solo al fatto della sua posizione originaria, ma anche alla sua diuturna attuazione. Il diritto costituzionale coincide con la concretizzazione dei suoi principi e quella concretizzazione non è opera solo del sovrano democratico, ma anche dei giudici[16]. Per la parte in cui la concretizzazione dei principi costituzionali è opera dei giudici si tratta di un diritto che non viene dal sovrano. Dire un tale diritto è cosa diversa dal dire il diritto che viene dal sovrano. Nell’ottica della forma costituzionale del diritto il precedente giudiziario non può più essere concepito come in un comune sistema a dominanza legislativa. Per comprendere la portata del precedente è necessaria una lunga digressione sul diritto costituzionale, a partire da una delle teorie più influenti nell’odierno panorama giusfilosofico, quella di Luigi Ferrajoli.

3. In difesa del diritto per principi

La teoria e la prassi del diritto costituzionale degli ultimi decenni è contrassegnata dal tema del bilanciamento dei principi costituzionali. Il bilanciamento è un metodo ermeneutico mediante cui coordinare i principi concorrenti nel caso concreto. La prevalenza dell’un principio e la soccombenza dell’altro, anche in forme graduate, sono guidate dal canone della proporzionalità[17]. Viene in rilievo, a questo proposito, la distinzione fra principi e regole: mentre i primi concorrono ai fini della regolazione del caso, ragione per la quale cadono nel bilanciamento, le seconde, avendo la forma della regolamentazione di specifici presupposti di fatto, costituiscono disciplina esclusiva del caso, per cui l’applicazione di una regola esclude l’applicabilità delle altre[18]. L’alternativa è fra normatività condivisa e normatività esclusiva. Come afferma il giudice costituzionale, «tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre “sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro” (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona»[19]. La lettura del diritto costituzionale in termini di bilanciamento fra principi è stata radicalmente messa in discussione da Luigi Ferrajoli.

Il punto di partenza della teoria assiomatica del diritto di Ferrajoli è il carattere integralmente artificiale del diritto conseguente alla circostanza del suo essere posto, a partire dalle stesse norme sui diritti fondamentali contenute nella Costituzione. La declinazione assiomatica della teoria risiede nell’assunzione stipulativa di condizioni di validità cui le norme poste devono risultare coerenti pena la loro illegittimità. L’introduzione su basi stipulative del criterio di validità delle norme all’interno del sistema designa l’integrazione del positivismo giuridico con il paradigma costituzionalistico[20]. L’antica contrapposizione fra normativismo e realismo si ricompone all’interno di un sistema interamente formalizzato e artificiale su basi convenzionali, nell’ambito del quale l’invalidità della norma posta corrisponde all’ineffettività della norma costituzionale violata e le necessità logiche del sistema assiomatico (coerenza e completezza) implicano la restituzione di effettività alla norma superiore violata mediante la dichiarazione d’illegittimità della norma vigente ma invalida.

Le condizioni di validità, quali assiomi stipulativi di partenza di un sistema formalizzato, non sono suscettibili di bilanciamento. La caduta dei diritti fondamentali nel bilanciamento ha il significato della lesione del garantismo costituzionale, secondo una critica che fu anche di Habermas[21]. Per Ferrajoli bisogna distinguere fra principi direttivi, che sono norme non suscettibili di essere violate e che si limitano a prescrivere finalità per le politiche pubbliche, e principi regolativi, in pratica i diritti fondamentali, costituenti invero regole, le quali in quanto tali possono essere violate o applicate. Il fraintendimento del cosiddetto costituzionalismo principialista risiede per Ferrajoli nel fatto che si ritiene che siano i principi ad essere bilanciati, laddove invece sono le circostanze di fatto ad essere bilanciate secondo il modulo della ponderazione equitativa. Quando emerge il conflitto tra il diritto della libertà di stampa e di informazione e il diritto alla riservatezza e alla reputazione, ad esempio con riferimento personaggi della vita pubblica in occasione della loro candidatura a una carica pubblica di tipo elettivo, ciò che si pondera non sono le norme ma le caratteristiche del fatto: la natura e il grado di rilevanza pubblica della notizia rispetto al corretto esercizio della carica istituzionale, la natura della stessa carica e il tipo di funzioni ad essa affidate, il grado di incidenza che i fatti o le circostanze oggetto della notizia possono avere sul giudizio degli elettori. Più in generale l’argomentazione basata sull’equità, continua Ferrajoli, ha ad oggetto non il diritto applicabile, ma gli specifici connotati del fatto oggetto di giudizio che il giudice reputa rilevanti[22].

In che senso, si è chiesto un autore, si possono ponderare fatti? «I fatti acquistano rilevanza, e dunque “peso”, nel diritto come altrove, solo alla luce di qualche criterio normativo, come può essere una norma giuridica (regola o principio), una valutazione morale o equitativa, una stima economica, ecc.»[23]. La natura e il grado di rilevanza pubblica della notizia rispetto al corretto esercizio della carica istituzionale, il grado di incidenza che i fatti o le circostanze oggetto della notizia possono avere sul giudizio degli elettori, per tornare all’esempio di prima, sono valutati non quali nudi fatti ma per il significato che assumono sulla base di un criterio. Se riteniamo che le circostanze oggetto della notizia possano influenzare il giudizio degli elettori vuol dire che abbiamo già dato prevalenza al diritto di informazione su quello alla riservatezza. Naturalmente il maggior peso del diritto di informazione dipenderà dalle circostanze del caso (l’oggetto della notizia in questione), ma questo deriva dal fatto che l’importanza del principio non va valutata in astratto, ma in relazione alle circostanze. I principi vanno bilanciati in relazione alle caratteristiche del caso concreto.

Allo stesso modo circa l’argomentazione basata sull’equità in generale, la rilevanza che il giudice attribuisce agli specifici connotati del fatto dipende dalla regola di risoluzione del caso. I fatti sono valutati per il significato che assumono sulla base di un criterio. Caratteristica dell’equità è l’integrale congruenza del criterio ai fatti. Dalla esclusiva riconducibilità della regola al caso, quale tratto costitutivo dell’equità, discende l’impossibilità di ricondurre a quella regola altri casi. Nell’ipotesi di pronuncia secondo equità non si fa applicazione di norme di diritto, ma si dirime la controversia secondo equità, come dice l’art. 112 cpc. Il giudice non identifica una norma ma recepisce esclusivamente le circostanze fattuali desumendone a posteriori, secondo una logica perfettamente aderente alle circostanze del caso, la risoluzione della controversia. Dato che il giudice non applica norme di diritto, si comprende perché la decisione equitativa sia incensurabile per violazione di diritto ai sensi dell’art. 360 n. 3 cpc ed il ricorso per cassazione possa essere proposto solo per vizio motivazionale ai sensi dell’art. 360 n. 5 (salvo il controllo di coerenza ai principi informatori della materia nell’ipotesi di sentenza del giudice di pace). Nel caso invece del bilanciamento fra principi, come vedremo meglio più avanti, dalla decisione può essere indotta una regola cui possano essere ricondotti casi analoghi, quella che definiremo norma concreta di diritto. Benché la ponderazione dei principi concorrenti si svolga in relazione alle circostanze del caso, il giudice identifica una regola risultante dal bilanciamento, cui altri casi possono essere ricondotti, e l’affermazione del relativo principio di diritto è suscettibile di sindacato di legittimità ai sensi dell’art. 360 n. 3 cpc. Ma è tempo di tornare alla teoria assiomatizzata del diritto, per riprendere il titolo dell’opera di esordio di Ferrajoli[24].

4. La concretezza del diritto costituzionale

L’illegittimità costituzionale di una norma è per Ferrajoli non solo un vizio giuridico, ma anche un vizio logico. Se il principio regolativo che funge da condizione di validità della norma corrisponde all’assunzione stipulativa di partenza del sistema, la sua violazione integra non solo un’illegittimità, ma anche un’incoerenza logica. Kelsen, secondo Ferrajoli, non coglie l’applicabilità della logica al diritto, perché resta al piano della corrispondenza dell’atto giuridico alle forme previste per la sua produzione. Bisogna invece acquistare anche il punto di vista del significato normativo. Su quest’ultimo piano emerge la contraddizione logica fra il significato della norma posta e quello della condizione sostanziale di validità[25].

L’identificazione dell’illegittimità costituzionale con un vizio di coerenza logica del sistema presuppone la preesistenza del parametro di costituzionalità rispetto al singolo caso. Quest’ultimo è rappresentato dalla classe di fatti, previsti in forma astratta e generale dalla norma, rispetto ai quali vanno ponderati i principi costituzionali. Identificato mediante la ponderazione il parametro, si valuta la legittimità della norma alla stregua di tale parametro. Una volta che si concluda nel senso che il bilanciamento riguarda i principi, e non le circostanze di fatto, non è però possibile ipotizzare la preesistenza dei parametri di costituzionalità, rispetto ai quali la norma sia logicamente coerente o meno, perché la regola costituzionale, risultante dal bilanciamento, insorge con il caso. Il parametro è dato infatti non da principi regolativi che fungono da regole presupposte, rispetto alle quali stabilire le inferenze logiche di coerenza o meno, ma da una regola derivante dalla ponderazione di principi che può essere effettuata solo all’esito dell’insorgenza del caso. Come afferma sempre il giudice costituzionale, il punto di equilibrio fra i principi è “dinamico e non prefissato in anticipo”[26]. L’ordine dei principi non è astratto e formale ma in costante ed incessante adeguamento alla materia viva del mondo dei fatti. Non c’è inferenzialismo logico se la regola insorge con il caso[27]. Il posto della logica nel diritto è in fondo là dove Weber lo localizzava, e cioè nell’operazione di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta. Emerge così la particolare concretezza del diritto costituzionale.

Ha scritto Roberto Bin che «i principi costituzionali non sono richiamati nella loro astrattezza per essere applicati direttamente a un rapporto sociale; essi fungono piuttosto come schema giustificativo di una nuova norma di cui si propone l’introduzione… I “fatti” catalizzano i principi, li fanno scendere dal piano dell’enunciazione incondizionata di un favor a quello di fattispecie regolativa del bilanciamento tra interessi diversi: innumerevoli fattispecie quanti sono i “fatti”, per ognuno dei quali va fissato il punto di equilibrio tra interessi concorrenti»[28]. Il complesso dei principi fondamentali è privo di gerarchie e priorità. Rispetto al caso il principio astratto manca di forza precettiva. Il parametro di legittimità della norma risiede non nella lista dei principi una volta per tutte ed in via preventiva, ma nella graduazione che si manifesta nel caso concreto. La regola di legittimità fa la sua apparizione in relazione alle circostanze che volta a volta si presentano, e all’esito dell’operazione di bilanciamento fra i principi concorrenti. Non è il principio in quanto tale il parametro di validità, perché, anche se preferito rispetto all’altro soccombente, lo è sempre entro una regola che stabilisce l’ordine di preferenza rispetto al caso concreto, graduando eventualmente le condizioni di applicazione a seconda se si tratti del principio prevalente o di quello recessivo. Il compito dei principi è allora quello di generare regole in occasione del presentarsi del fatto. Le regole che risultano dal concorso dei principi non sono regole ermeneutiche[29], ma fattispecie normative vere e proprie[30]. Il bilanciamento è infatti la tecnica interpretativa di identificazione della regola che costituisce il parametro di costituzionalità. La norma è illegittima non per diretta violazione dell’astratto principio o della forma logica del bilanciamento, ma per violazione della norma risultante dal bilanciamento in concreto dei principi. Emerge in tal modo una moltiplicazione illimitata di regole di costituzionalità, tante quanti sono i fatti che si prospettano. Quali regole, esse hanno la forma della fattispecie, e cioè di apprezzamento di fatti. Tali fattispecie di ordine costituzionale costituiscono il parametro di legittimità della norma, che quei fatti in via generale e astratta abbia valutato, oppure, se ci spostiamo dal piano della giurisprudenza costituzionale a quello della giurisprudenza comune, rappresentano la regola del caso concreto, risolto mediante un diretto appello alla forza giusgenerativa dei principi costituzionali in mancanza di una fattispecie legislativa. Quelle regole possono essere definite norme concrete di diritto. Si tratta di norme senza disposizione, in quanto identificate solo in via interpretativa, e non risultanti da un enunciato linguistico posto.

Dunque i principi non sono regole, ma generano regole all’insorgere del fatto. La figura del principio regolativo introdotta da Ferrajoli non è, in realtà, compatibile con la struttura a gradi dell’ordinamento giuridico concepita da Kelsen. La correzione in senso costituzionalistico del normativismo kelseniano, che si deve a Ferrajoli, è caratterizzata dall’inserimento fra le norme sulla produzione di norme anche di quelle sulle condizioni di legittimità sostanziale. Il principio non può però costituire una regola alla stessa stregua della norma fondamentale di Kelsen stante il carattere costitutivamente formale di quest’ultima. La norma fondamentale, quale nozione della dottrina pura del diritto e non istituto di un particolare ordinamento giuridico, determina i modi di produzione della norma e non il suo contenuto[31]. Una norma fondamentale sostantivamente integrata, già sul piano della forma logica e non su quello del singolo ordinamento positivo, non è coerente alla condizione logico-trascendentale del sistema in senso kantiano, cui Kelsen rinvia. Nella sua essenza la norma fondamentale è meramente strumentale, in quanto il suo compito è quello di dare avvio al sistema produttivo di norme. Nella parte della Critica della ragion pura dedicata alla dialettica trascendentale Kant definisce così il principio regolativo: «un principio della maggiore possibile continuazione ed estensione della esperienza; un principio, per cui nessun limite empirico può valere come limite assoluto; quindi un principio della ragione, che, come regola, postula ciò che da noi deve farsi nel regresso, e non anticipa ciò che nell’oggetto è dato in sé innanzi a ogni regresso»[32]. La condizione di validità, intesa in senso logico-trascendentale, non può che essere formale, in quanto ogni contenuto sostantivo ne minerebbe la funzione regolativa. Nell’ottica della norma fondamentale il primum movens è necessariamente procedurale. I principi, in quanto plurali, hanno irrimediabilmente carattere sostantivo e dunque volta a volta acquistano il ruolo di limite empirico, direbbe Kant, incompatibile con il criterio di validità. Quale parametro di legittimità delle norme ordinarie i principi non possono agire nella forma di regola che dà avvio al sistema à la Kelsen. Essi operano solo all’interno di concrete regole di bilanciamento. Non possiamo, in conclusione, leggere con le lenti della norma fondamentale i principi costituzionali.

Il fenomeno delle norme su norme riguarda le regole, e non i principi. Se liberiamo la gerarchia delle fonti dalla norma fondamentale di Kelsen, quale presupposto logico-trascendentale di natura puramente formale, realizziamo che le regole su norme hanno carattere astratto e generale, laddove integrano le condizioni formali di validità, ossia le forme e le procedure, ma hanno anche carattere concreto, laddove si tratta delle condizioni sostanziali di validità, e cioè del parametro di legittimità risultante dal bilanciamento in concreto dei principi. La nozione di norma fondamentale non consente dunque di vedere in tutta la sua estensione il fenomeno delle norme su norme.

5. Norma concreta di diritto e stare decisis

Il caso da disciplinare mediante i principi costituzionali conosce diversi livelli di intensità: si va dall’astrattezza e generalità che ricorre nel giudizio di costituzionalità quando viene in rilievo la specifica classe di eventi contemplata dalla norma oggetto di scrutinio costituzionale, alla concretezza che contraddistingue la controversia innanzi al giudice comune per la tutela di un diritto non disciplinato dalla legge ordinaria. Il diritto rilevante, in entrambi i casi, corrisponde non ai principi oggetto di bilanciamento ma alla norma, relativa alle circostanze, in cui sfocia il bilanciamento medesimo ed in base alla quale viene sindacata la legittimità costituzionale della norma ordinaria o decisa la controversia relativa ad un caso non previsto dalla legge. Del resto anche il legislatore quando pone una norma bilancia principi, ed il diritto, in tal caso, corrisponde ovviamente alla norma legislativa, non ai principi dalla cui ponderazione risulta quella norma. Allo stesso modo, il diritto corrisponde alla norma concreta, e non ai principi costituzionali, quando il giudice comune, chiamato al bilanciamento dei principi costituzionali di fronte ad un hard case non disciplinato dalla legge, dichiara la regola del caso concreto. La norma di diritto, la cui violazione o falsa applicazione è denunciabile con il ricorso per cassazione (art. 360, comma 1, n. 3 cpc), è data dalla norma concreta di diritto, e non dagli astratti principi costituzionali (nella vasta categoria di “norme di diritto”, di cui parla il numero 3 dell’art. 360, ben possono essere incluse le norme concrete di diritto in discorso).

Si viene così dispiegando nella casistica giudiziale un ordinamento concreto di norme generato dai principi costituzionali. Trattasi di norme prive di disposizione perché risultanti solo dalla pronuncia giudiziale. Le norme concrete di diritto non sono poste dal sovrano, ma riconosciute dal giudice mediante il metodo ermeneutico del bilanciamento. Interpretare non è qui puntualizzare la norma posta in via astratta e generale mediante l’attività logico-sillogistica, ma rinvenire (invenire, trovare, direbbe Paolo Grossi[33]) nell’ambito dell’ordinamento la norma del caso concreto mediante il bilanciamento dei principi. Rinvenire il diritto attraverso il bilanciamento non vuol dire decidere sulla base del valore “tirannico” del singolo giudice[34]. C’è una realtà esterna rispetto all’interprete ed è data dall’ideale bilanciamento dei principi scritti in Costituzione rispetto alle circostanze del caso concreto. Il bilanciamento ideale costituisce l’idea-limite che funge da criterio regolativo dell’interpretazione. Il giudice orienta la propria attività ermeneutica sulla base del perseguimento della forma ideale di bilanciamento che, stante il fatto empirico del concorso di principi e caso, dobbiamo presumere esistente, sia pure sub specie di puro ideale[35].

Le norme concrete di diritto sono pur sempre norme a fattispecie, solo che mentre quelle astratte e generali contemplano una classe di eventi o azioni, quelle concrete contemplano un’azione individuale. Dal caso concreto, proprio perché mancante di una corrispondente previsione legislativa, si estrae un principio di diritto, corrispondente alla norma concreta, che è suscettibile di generalizzazione ai casi assistiti dai medesimi requisiti fattuali. Il meccanismo operante è però quello della riconduzione e non della sussunzione. Quest’ultima presuppone una fattispecie generale e astratta, definita da una serie di elementi determinati e tutti necessari, nella quale riportare un caso concreto attraverso la selezione degli elementi corrispondenti all’ipotesi astratta. È necessario che tutti gli elementi della fattispecie astratta siano presenti in quella concreta, che è così dedotta dalla prima. Nel caso della norma concreta il procedimento logico non è deduttivo, ma induttivo. In essa la fattispecie ha carattere concreto perché consta di un complesso di elementi non tutti necessari come per la fattispecie astratta. Non è richiesto che tutti gli elementi della fattispecie concreta siano rinvenibili nel nuovo caso. Il rapporto non è fra universale e particolare, ma fra particolare e particolare. Ai fini dell’ulteriore applicazione della norma risultante dal caso si procede mediante il raffronto fra casi concreti, riconducendo il nuovo caso al primo sulla base degli elementi in comune fra i due casi e che hanno rilevanza ai fini del precetto normativo. Trattandosi non di sussunzione, ma di riconduzione, la corrispondenza fra i casi potrà essere più o meno intensa[36]. Stante le diverse graduazioni di somiglianza che possono ricorrere, il rapporto fra i casi va regolato secondo le raffinate tecniche del distinguishing e del limiting elaborate dal giudice anglosassone. Si procede attraverso accostamenti per successive approssimazioni, secondo la logica incrementale e cumulativa del diritto casistico[37].

L’enunciazione del principio di diritto resta pur sempre formalmente interpretazione e non atto normativo. Il suo termine di riferimento è però non la norma a fattispecie astratta e generale, la quale è suscettibile di uno spettro più o meno ampio di interpretazioni, bensì una norma concreta, la cui interpretazione non è svincolabile dalle circostanze del caso singolo contemplato dalla norma medesima. L’enunciato del principio di diritto corrisponde non ad una delle possibili puntualizzazioni interpretative della norma, bensì direttamente alla norma, ma non nel senso che quell’enunciato abbia efficacia normativa sul piano del sistema delle fonti. L’efficacia normativa è sempre quella della norma (concreta), non del principio di diritto che la enuncia. La norma concreta non è suscettibile di puntualizzazioni interpretative in relazione ai casi perché è già essa, quale norma individuale, una puntualizzazione normativa. Non c’è una disposizione che trapassi in norma, ma direttamente la norma, la quale si manifesta esclusivamente in sede interpretativa. Quale norma senza disposizione la norma individuale si manifesta infatti solo nel principio di diritto enunciato dalla sentenza. La vis normativa non coincide con quest’ultima, ma la sentenza, nella misura in cui il diritto è solo del caso, esprime la norma. In definitiva, il principio di diritto non è attuativo, ma ostensivo della norma.

Il vincolo che a questo punto deriva dalla pronuncia giudiziale non è meramente persuasivo, ma normativo. Il precedente giudiziario è giuridicamente vincolante perché solo in esso fa la sua apparizione la norma, ma ciò che in realtà vincola non è il principio di diritto, ossia la sentenza, bensì la norma concreta che vi appare. L’efficacia vincolante del precedente giudiziario va così identificata in quella della norma cui viene imputato il principio di diritto[38]. Il giudice è soggetto a quella norma, alla stregua di qualsiasi vincolo di diritto, non solo nel processo in cui ne è invocata per la prima volta l’applicazione, ma anche nei successivi in cui ne è domandata l’applicazione in presenza dei medesimi requisiti fattuali rilevanti una volta che la Corte regolatrice abbia enunciato il relativo principio di diritto. L’efficacia vincolante del precedente giudiziario non è, come si è detto, un attributo della sentenza come tale, ma è l’efficacia normativa del diritto concreto che in quella sentenza si è manifestato a rendere vincolante il precedente. Solo nella pronuncia giudiziaria, e non altrove, si è infatti manifestato il diritto.La giurisdizione è sempre dichiarativa, non costitutiva, del diritto. Costituisce però precedente vincolante perché il diritto che dichiara corrisponde ad una norma senza disposizione. Una volta che quella norma concreta sia stata enunciata, gli altri giudici, alla stessa stregua del giudice che l’ha enunciata, vi sono vincolati per quei casi che hanno in comune i requisiti fattuali rilevanti. Il principio dello stare decisis è pienamente operante, quale effetto proprio della soggezione del giudice al diritto (vincolante non è insomma il precedente come tale, ma il diritto che solo in quel precedente si è manifestato).

Diversamente da ciò che accade quando si fa applicazione del diritto posto dal sovrano, i margini di vincolatività del precedente non sono fissati dalla legge, ma sono dettati dalla natura propria del fenomeno giuridico. L’efficacia di precedente vincolante è originaria, e non derivata da una previsione legislativa. È la configurabilità di una norma concreta di diritto che impone il principio dello stare decisis,tant’è che il ricorso per cassazione dovrebbe essere proposto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cpc non per inottemperanza al precedente (il quale in un sistema di civil law non è fonte del diritto in senso tecnico), ma per violazione della norma concreta di diritto. Se la legge interviene a disciplinare il caso, prima affidato al bilanciamento in concreto dei principi, il giudice non dovrà più naturalmente fare applicazione della norma enunciata nel precedente, ma dovrà rispettare il disposto legislativo (come del resto accade nel rapporto fra common law e statute law). Come abbiamo dimostrato in altra sede, anche la concretizzazione delle clausole generali è connotata dall’identificazione di norme concrete di diritto: la legge fissa con la norma elastica l’ideale di norma cui appellarsi per l’individuazione della norma concreta di diritto; quest’ultima rende poi vincolante il precedente che la enuncia[39]. La significativa diffusione della giurisprudenza sulle cosiddette norme elastiche, rispetto a quella ben più limitata e residuale sui casi non previsti dal legislatore, fa sì che siano proprio le clausole generali il terreno di elezione della regola dello stare decisis.Più in generale, un diritto non posto dall’autorità legislativa, ma dichiarato dal giudice nel caso concreto, apre al tema dello stare decisis.

Se la pronuncia non è meramente equitativa, una norma di diritto, sia pure concreta (nella forma del bilanciamento in concreto dei principi costituzionali o della concretizzazione di clausola generale), ha trovato applicazione. Essa troverà ancora applicazione sulla base del meccanismo non della sussunzione, che presuppone l’integrale corrispondenza della fattispecie concreta a quella astratta, ma, come abbiamo detto, della riconduzione, che presuppone la corrispondenza (più o meno intensa) fra due fattispecie (entrambe) concrete solo per gli elementi rilevanti ai fini del precetto normativo.

Conclusione

Quel che abbiamo inteso dimostrare è che laddove il diritto non viene dal sovrano deve presumersi operante la regola dello stare decisis. Gli scenari che si aprono a questo punto sono molteplici. Nella misura in cui il bilanciamento in concreto dei principi corrisponde ad una norma, non si pone un problema di vincolatività del precedente anche nell’ambito della giurisprudenza costituzionale? Se una norma prevede, rispetto a determinate circostanze di fatto già oggetto di disciplina normativa, ulteriori effetti giuridici, lo scrutinio di costituzionalità della norma che prevede questi effetti ulteriori non risulta vincolato a quello che ha per ipotesi riguardato l’altra norma che disciplina i medesimi fatti, sia pure a fini diversi e con diverse conseguenze giuridiche? E, in un caso del genere, lo stare decisis non opera anche laddove si tratti d’interpretazione conforme a Costituzione? In entrambi i casi il parametro costituzionale è fornito dalla regola risultante dal bilanciamento dei principi relativo alle circostanze di fatto disciplinate, a diverse effetti, dalle due norme, oggetto di sindacato di costituzionalità o di interpretazione adeguatrice. Ma c’è un altro aspetto che va evidenziato.

È possibile ipotizzare che i fenomeni sempre più spinti di pluralizzazione delle fonti spingano nella direzione dello stare decisis anche per ciò che concerne il diritto che viene dal sovrano, stavolta per volontà del legislatore, coerentemente ad un sistema di civil law. Il precedente della Corte regolatrice ha acquistato una relativa visibilità sul piano dell’ordinamento processuale civile. A parte la norma di cui all’art. 374, comma 3, cpc vanno richiamati l’art. 360 bis, sull’inammissibilità del ricorso per cassazione quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte di cassazione, e l’art. 363 sul principio di diritto nell’interesse della legge. Possiamo attenderci un’evoluzione ulteriore della disciplina processuale in tale direzione (unitamente al rafforzamento delle misure a garanzia della funzione nomofilattica della Corte di cassazione, che è il correlato necessario della vincolatività del precedente). La proliferazione della legislazione speciale (per la quale già più di trenta anni or sono si parlò di decodificazione), la moltiplicazione delle fonti ed il principio di interpretazione conforme, non solo alla Costituzione ma anche al diritto della Cedu e a quello dell’Ue, hanno di gran lunga relativizzato l’antico primato della forma-codice (e del pensiero dogmatico che ne rappresentava la spina dorsale). La codificazione si affermò sul continente europeo nel XIX secolo assolvendo ad esigenze di sistematicità, certezza e prevedibilità. A quelle esigenze ha corrisposto al di là della Manica la regola dello stare decisis, anch’essa impostasi nel XIX secolo[40]. In un’opera risalente sul diritto giurisprudenziale si osservò che negli ordinamenti continentali la certezza del diritto è meglio garantita, rispetto al regime del precedente giudiziale, da «un codice organico, inteso a regolare integralmente una materia attraverso anticipate formulazioni generali»[41]. Il tempo di quel codice “organico” sembra che non possa più tornare. Oggi che la forma-codice ha perso il suo primato è lecito immaginare che alla calcolabilità e prevedibilità del diritto possa provvedere quello strumento, il precedente giudiziario, cui all’inizio del secolo scorso mai Max Weber avrebbe affidato un simile compito.

[1] M. Weber, Economia e società, III, Milano, 1980, p. 17 e p. 196.

[2] G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello Stato in compendio con le Aggiunte di Eduard Gans, Roma-Bari, 2010, p. 170.

[3] Come proposto da F. Galgano, Stare decisis e no della giurisprudenza italiana, in Contratto e impresa, 2004, p. 12.

[4] M.A. Eisenberg, La natura del common law, Milano, 2010, passim. Contrappone la concezione legislativa e creazionistica del diritto a quella giudiziale ed evoluzionistica M. Barberis, Contro il creazionismo giuridico. Il precedente giudiziale fra storia e teoria, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 2015, vol. 44, pp. 67 ss.

[5] R. Brandom, Some Pragmatist Themes in Hegel’s Idealism: Negotiation and Administration in Hegel’s Account of the Structure and Content of Conceptual Norms, in European Journal of Philosophy, VII, 1999, pp. 179 ss. e J. McDowell, Comment on Robert Brandom’s “Some Pragmatist Themes in Hegel’s Idealism”, ibidem, pp. 192 ss.

[6] R. Dworkin, L’impero del diritto, Milano, 1989, 215 ss.

[7] Corte cost. 5 febbraio 1998, n. 11, Il Foro italiano, 1998, I, 996 e 26 settembre 1998, n. 347, ibidem, 3042. Nega la possibilità dell’applicazione diretta delle norme costituzionali nei rapporti privati C. Castronovo, Eclissi del diritto civile, Milano, 2015, pp. 37 ss, mentre l’ammette con riferimento alla materia contrattuale, sia pure nei limiti delle norme in forma di regola e non di principio, G. D’Amico, Applicazione diretta dei principi costituzionali e integrazione del contratto, in Giustizia civile, 2015,pp. 262 ss., mentre l’ammette, in mancanza di una regolamentazione legislativa specifica, G. D’Amico, Problemi (e limiti) dell’applicazione diretta dei principi costituzionali nei rapporti di diritto privato (in particolare nei rapporti contrattuali), in Giust. civ., 2016, pp.443 ss.

[8] L. Ferrajoli, La logica del diritto. Dieci aporie nell’opera di Hans Kelsen, Roma-Bari, 2016, p. 190.

[9] Ibidem.

[10] M. Fioravanti, Il legislatore e i giudici di fronte alla Costituzione, in Quaderni costituzionali, 2016, pp. 16 ss. Il potere costituente non è un fatto empirico separabile da ciò che crea, ma è un atto che è parte della sua stessa creazione: «esso, creando, si è modificato, è condizionato da ciò che ha costituito» (B. de Giovanni, Elogio della sovranità politica, Napoli, 2015, p. 206). Scrive Paolo Grossi: «la Costituzione preesiste alle istituzioni del potere; essa, infatti, esiste prima di essere scritta, fatto originario della comunità radicato negli strati più profondi di essa, che trova nei centotrentanove articoli unicamente una manifestazione» (P. Grossi, Ritorno al diritto, Roma-Bari, 2015, p. 31).

[11] G.W.F. Hegel, Scienza della logica, I, Bari, 1977, p. 70.

[12] N. Irti, Nichilismo giuridico, Roma-Bari, 2004, p. 34.

[13] G.W.F. Hegel, Scienza della logica, I, cit., p. 73.

[14] Ravvisa un’incompatibilità fra positivismo giuridico, quale riduzione del diritto alla volontà del sovrano, e costituzionalismo proprio sul terreno del garantismo, già N. Matteucci, Positivismo giuridico e costituzionalismo, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1963, pp. 985 ss.

[15] Corte cost. 4 dicembre 2009, n. 317, Il Foro italiano, 2010, I, p. 359.

[16] «La costituzione del pluralismo contemporaneo si può dire positiva in quanto ricreata continuamente dal concorso di molteplici volontà che, nel convergere verso di essa e secondo i modi di questa convergenza, la ridefiniscono continuamente nella sua portata storico-concreta» (G. Zagrebelsky, Storia e costituzione, in G. Zagrebelsky, P. P. Portinaro, J. Luther (a cura di) Il futuro della costituzione, Torino, 1996, p. 75).

[17] R. Alexy, Constitutional Rights, Democracy, and Representation, in Rivista di  filosofia del diritto, 2015, pp. 23 ss.

[18] La letteratura in argomento è vastissima, sufficiente è richiamare i fondamentali contributi di R. Dworkin, I diritti presi sul serio, Bologna, 1982 e R. Alexy, Teoria dei diritti fondamentali, Bologna, 2012.

[19] Corte cost. 9 maggio 2013, n. 85, Il Foro italiano, 2014, I, p. 451.

[20] Il programma teorico di Luigi Ferrajoli (da ultimo si veda La logica del diritto. Dieci aporie nell’opera di Hans Kelsen, cit.) porta a compimento la concezione pragmatico-convenzionalistica del giuspositivismo di Uberto Scarpelli, il cui manifesto è contenuto in Cos’è il positivismo giuridico, Milano, 1965; significativa è l’evoluzione del pensiero di Scarpelli nella direzione di un diritto per principi, come testimoniato dai suoi scritti più tardi, Dalla legge al codice, dal codice ai principi, in Rivista di filosofia, 1987, pp. 3 ss. e Il positivismo giuridico rivisitato, idem, 1989, pp. 461 ss. (in argomento rinviamo a E. Scoditti, La filosofia del diritto del Novecento e il giuspositivismo di Uberto Scarpelli, in Democrazia e diritto, 2011, n. 1-2, pp. 357 ss.).

[21] J. Habermas, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Milano, 1996, pp. 235 ss. e pp. 302 ss.; ma si può risalire alla polemica con il costituzionalismo per valori di Rudolf Smend contenuta in E. Forsthoff, Stato di diritto in trasformazione, Milano, 1973, pp. 197 ss.

[22] L. Ferrajoli, La democrazia attraverso i diritti, Roma-Bari, 2013, 95 ss. (e già Costituzionalismo principialista e costituzionalismo garantista, in Giurisprudenza costituzionale, 2010, pp. 2771 ss.); Id., Contro la giurisprudenza creativa, in questo numero di Questione Giustizia.

[23] G. Pino, Principi, ponderazione, e la separazione tra diritto e morale. Sul neocostituzionalismo e i suoi critici, in Giurisprudenza costituzionale, 2011, p. 987.

[24] L. Ferrajoli, La teoria assiomatizzata del diritto, Milano, 1970.

[25] L. Ferrajoli, La logica del diritto. Dieci aporie nell’opera di Hans Kelsen, cit., pp. 144 ss.

[26] Corte cost. 9 maggio 2013, n. 85, cit.

[27] Non condivisibile è anche l’affermazione di Ferrajoli secondo cui le sentenze sono gli unici atti in cui la validità giuridica dipende dalla verità delle loro motivazioni (L. Ferrajoli, Contro la giurisprudenza creativa, cit., e Id., La logica del diritto. Dieci aporie nell’opera di Hans Kelsen, cit., p. 151). Il parametro di validità della sentenza è riposto nel controllo di legittimità cui è deputata la Corte di cassazione. Il giudizio circa la verità dei fatti controversi non può costituire il parametro di validità perché esso ha ad oggetto il rapporto sostanziale controverso e non la sentenza (sul rapporto controverso). Con l’appello è il rapporto controverso che continua ad essere oggetto di esame, tant’è che la sentenza di secondo grado ha il carattere di rimedio sostitutivo di quella di primo grado. Il punto di vista della validità non è quello della verità dei fatti, ma quello del rispetto delle regole. È questa la differenza fra il gravame, o rimedio sostitutivo, e l’impugnazione dell’atto/sentenza. Se oggetto del giudizio è la sentenza, non è il merito del rapporto controverso che rileva, ma le condizioni di validità della sentenza medesima. Se prestiamo attenzione alla norma di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, cpc constatiamo che, con riferimento alle ragioni di fatto della decisione, il parametro di validità corrisponde al rispetto di una procedura di formazione della decisione (non omettere l’esame dei fatti controversi e decisivi per il giudizio), e dunque a un criterio di razionalità puramente formale, di cui la motivazione dà conto. Non si tratta di un controllo di verità o falsità (che piegherebbe il controllo di legittimità a rimedio sostitutivo), ma di un controllo di razionalità, che mira a sottoporre la motivazione ad un test di universalizzabilità.

[28] R. Bin, Il fatto nel diritto costituzionale, in Rivista AIC, 2015, n. 3, p. 12.

[29] L. Mengoni, Ermeneutica e dogmatica giuridica, Milano, 1996, p. 125.

[30] R. Bin, Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Milano, 1992, p. 41. Muovendo dal carattere di norma giuridica della regola di bilanciamento si accede ad una concezione di norma fondamentale del sistema normativo plurale e contestuale ai casi specifici (sul punto rinviamo a E. Scoditti, Corti e carte dei diritti: il diritto come potenzialità, in Rivista di filosofia del diritto, 2013, pp. 379 ss.).

[31] H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, Torino, 1975, pp. 226 ss.A proposito della giurisdizione costituzionale Kelsen distingue fra costituzione in senso stretto, quale complesso di norme che regolano la formazione delle leggi, e costituzione in senso lato, comprensiva del catalogo dei diritti fondamentali, risultante dall’estensione nel singolo sistema di diritto positivo della “forma costituzionale” a norme che disciplinano il contenuto delle leggi, e che dunque non rientrano nella costituzione in senso stretto (H. Kelsen, La giustizia costituzionale, Milano, 1981, pp. 132 ss.). L’ambito originario della nozione di costituzione, risultante dalla teoria della struttura gerarchica del diritto, attiene quindi alle regole di procedura. Emerge qui la differenza fra normativismo kelseniano e positivismo giuridico stricto sensu: mentre per il primo la norma fondamentale, come si dirà subito nel testo, è il presupposto logico-trascendentale del sistema, per il secondo è un fatto empirico, e cioè il fatto che i giudici la usino quale criterio per riconoscere il diritto valido (H.L. A., Il concetto di diritto, Torino, 2002, pp. 291 ss.).

[32] I. Kant, Critica della ragion pura, Bari, 1977, p. 413.

[33] P. Grossi, Ritorno al diritto, cit., pp. 84 ss.

[34] N. Irti, Un diritto incalcolabile, in Riv. dir. civ., 2015, pp. 16 ss.

[35] Per alcuni riferimenti su tale prospettiva di realismo trascendentale, J. R. Searle, La costruzione della realtà sociale, Milano, 1996, 199 ss. e M. Cacciari, Labirinto filosofico, Milano, 2014, 305 e 318 ss.

[36] La distinzione fra sussunzione e riconduzione è adottata da G. De Nova, Il tipo contrattuale, Padova, 1974, p. 121 a proposito dell’elaborazione dei tipi contrattuali.

[37] Secondo N. Irti, Per un dialogo sulla calcolabilità giuridica, in Riv. dir. proc., 2016, p. 919 anche nel decidere secondo precedenti opera il giudizio sussuntivo perché «il giudice, estraendo la norma dalle sentenze già emesse, delinea di necessità una fattispecie, cioè sale dal caso deciso ad uno schema tipico entro cui riconduce il nuovo fatto sottoposto alla sua cognizione». Nell’ipotesi dello stare decisis il rapporto è fra concreto e concreto e non opera il giudizio sussuntivo: se è vero che ricorre l’applicazione di una norma di diritto (altrimenti si avrebbe la decisione secondo equità), è pur vero che la norma ha carattere concreto, è relativa alle circostanze del caso; ne discende che il caso successivo non può essere sussunto in una norma avente carattere concreto, ma solo ricondotto ad essa, in forma più o meno intensa.

[38] A Pizzorusso, Delle fonti del diritto, Bologna, 2011, p. 728.

[39] E. Scoditti, Concretizzare ideali di norma. Su clausole generali, giudizio di cassazione e stare decisis, in Giustizia civile, 2015, pp. 685 ss.. Altro luogo di emersione della vincolatività del precedente è quello del diritto basato non sulla fattispecie legale(ubi ius ibi remedium) ma sul rimedio (ubi remedium ibi ius), di cui è significativa manifestazione la materia dello squilibrio contrattuale: un contratto non equo e gravemente sbilanciato in danno di una parte è valido dal punto di vista della fattispecie, ma alla sua domanda di adempimento potrebbe essere opposto un rimedio quale l’exceptio doli generalis e la relativa pronuncia giudiziaria sarebbe vincolante per i casi riconducibili al precedente perché lì, e non altrove, si è manifestato il diritto del caso (E. Scoditti, Lo squilibrio contrattuale dalla fattispecie all’autoregolamento, in Il Foro italiano, 2016, I, pp. 2505 e Id., Il contratto fra legalità e ragionevolezza, id., 2015, V, p. 417).

[40] L. Antoniolli Deflorian, Il precedente giudiziario come fonte di diritto: l’esperienza inglese, in Rivista di diritto civile, 1993, I, p. 136 e pp. 142 ss.

[41] L. Lombardi, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1967, p. 584.