Magistratura democratica

I giudici, il diritto del lavoro e l’interpretazione che cambia verso

di Anna Terzi
Dopo una stagione di intenso impegno interpretativo nel dare alle nuove norme del diritto del lavoro un carattere compiutamente autonomo e speciale, fondato sulla ideale adesione ai principi costituzionali dettati in materia, la magistratura del lavoro ha fortemente risentito del mutamento del clima complessivo, inclinando verso interpretazioni riduttive delle norme e dei diritti e dando vita ad una creatività regressiva rispetto alle precedenti tendenze. Da ultimo, pare ormai affermato un conformismo diffuso e sentito addirittura come doveroso da parte dei magistrati del lavoro.

1. I primi vent’anni successivi all’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori hanno rappresentato una stagione di giurisprudenza intensamente “creativa” nel nostro Paese. Il concorso di vari fattori sinergici ha determinato le condizioni per la costruzione del diritto del lavoro quale branca compiutamente autonoma e speciale del diritto dei contratti: l’emanazione di una legislazione di tutela forte del lavoratore che favoriva l’accesso alla giustizia, veicolato da organizzazioni sindacali molto attive e diffuse sul territorio; un movimento autorevole ed esteso nel Paese per l’emancipazione sociale delle classi non abbienti; un sistema industriale ad elevato impiego di manodopera che creava un ambiente fertile per il proselitismo sindacale e la coesione dei lavoratori su rivendicazioni di miglioramento delle condizioni di lavoro; la vocazione all’impegno professionale connesso alla elaborazione delle nuove norme sostanziali e processuali da parte della magistratura culturalmente sensibile a questi temi e con una piena adesione ideale verso l’attuazione dei valori costituzionali.

Queste condizioni hanno aperto la via alla definizione del contenuto del rapporto di lavoro subordinato alla luce dei valori espressi negli artt. 2, 3, 4, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41 della Costituzione.

Le poche disposizioni del codice avevano costituito oggetto di una elaborazione giurisprudenziale circoscritta, nell’impiego privato, alle questioni direttamente o indirettamente retributive. La mancanza di una tutela forte del vincolo contrattuale, essendo consentito il libero recesso con preavviso, era risultata comprensibilmente ostativa, per il timore di ritorsioni, a un accesso del lavoratore alla protezione giurisdizionale e con esso alla garanzia di effettività dei, peraltro scarni, diritti astrattamente riconosciuti al lavoratore dal codice civile del 1942 o quanto meno era risultata ostativa a interventi giudiziali sulla dinamica del rapporto di lavoro, venendo chiamato il giudice per lo più a pronunciarsi a rapporto cessato.

Lo snodo è stato l’entrata in vigore in successione di tre leggi con oggetti diversi ma tra loro complementari: la L n. 604/66 sulla disciplina del licenziamento individuale che introduce il recesso causale e motivato, lo Statuto dei lavoratori sui diritti e libertà sindacali che introduce con l’art. 18 la tutela reale del posto di lavoro nelle imprese con più di 15 dipendenti (5 per le imprese agricole) e la L n. 533 del 1973 che, con poche essenziali disposizioni, struttura uno strumento processuale elastico che consente interventi tempestivi e incisivi nelle controversie di lavoro[1]. La disciplina dei poteri datoriali è articolata in clausole generali la cui interpretazione è rimessa ai giudici e nel contempo vengono fortemente sostenuti l’attività sindacale, con disposizioni specifiche di protezione dei rappresentanti sindacali, di garanzia di spazi e tempi per lo svolgimento di attività di informazione e proselitismo, di tutela dei diritti individuali alla dignità personale sul luogo di lavoro[2], di manifestazione del pensiero e di partecipazione.

È indubbiamente la garanzia della stabilità del posto di lavoro a protezione da licenziamenti illegittimi introdotta con lo Statuto del 1970 che realizza il presupposto per la costruzione dei diritti attraverso l’accesso alla giurisdizione. La giurisprudenza pretorile è stata chiamata a definire le controversie a rapporto in corso, interpretando nuove norme o affrontando questioni prima mai prospettate, statuendo su quanto esigibile e dovuto nell’esecuzione del contratto attraverso una riconduzione dei contrapposti interessi ai valori espressi dalla Carta costituzionale. Ed è in questo che si è espressa la “creatività”: nell’interpretazione del più importante atto politico di un ordinamento, la Carta costituzionale, per stabilire una scala di valori tra quelli tutelati e trarre da essa i criteri di interpretazione per l’applicazione della legge ordinaria nel caso concreto. La definizione della scala di preminenza, con l’individuazione del punto dove un diritto costituzionale deve cedere ad altro diritto costituzionale, dove la libertà di iniziativa economica deve cedere alla tutela della dignità, libertà e sicurezza del lavoratore, implica necessariamente una selezione del significato attribuibile alla norma rispetto alla quale è difficile tracciare un confine tra una creatività davvero ancorata a principi superiori e una creatività che stabilisce quali sono i principi superiori.

È vero che qualsiasi interpretazione implica una “creazione” mediante l’attribuzione di uno solo dei significati tra i più possibili, anche quando quel significato sembri l’unico plausibile perché compendia in quel momento storico un sentire diffuso e indiscusso, coerente con la realtà economico sociale che la norma deve regolare, senza che si rappresentino conseguenze irrazionali o incongruenti (effetti questi che costituiscono una spinta all’indagine verso la ricerca di possibili interpretazioni diverse per una riconduzione a coerenza del sistema). L’interpretazione “costituzionalmente orientata” in una materia quasi vergine, come è stato per il diritto del lavoro dagli anni ’70 agli anni ’90, ha implicato però l’interazione di due fattori non ordinari che hanno esaltato la “creatività” intesa nel senso di creazione giurisprudenziale di una regola precedentemente non esistente: l’assenza di riferimenti consolidati che, esprimendo uno status quo che deve essere superato attraverso una analisi critica e uno sforzo motivazionale, sono elementi che frenano o rallentano il percorso innovativo e l’immediata enucleazione della regola da disposizioni che per loro natura hanno il significato e il contenuto di un progetto politico, la cui lettura non può che riflettere la sensibilità politica e culturale del giudice che li traspone nella legge ordinaria e nelle disposizioni di un codice civile scritto in epoca fascista e precostituzionale.

L’assenza di una precedente elaborazione giurisprudenziale, possibile remora a interpretazioni innovative, ha riguardato anche il nuovo rito per le cause di lavoro, anch’esso concepito dal legislatore, attraverso la sottrazione dei tempi processuali alla disponibilità delle parti (art. 415, 418 e 420 cpc) e attraverso l’attribuzione al giudice di poteri di acquisizione d’ufficio della prova (art. 421 cpc), quale strumento di realizzazione di parità sostanziale in un rapporto diseguale.

Indubbiamente, il diritto sindacale è stato un campo in cui i pretori si sono cimentati e in cui sono stati chiamati a interventi molto incisivi, che si inserivano nelle lotte sindacali in corso: l’opera di regolazione dei conflitti ha avuto una ineludibile colorazione politica. Il diritto di assemblea e soprattutto il diritto di sciopero hanno dato materia di riflessione, valutazione e definizione dei confini tra lecito esercizio e ingiustificato abuso del diritto. Lo Statuto dei lavoratori è stata però una solida cornice, con previsioni anche di dettaglio, di inequivoco sostegno all’azione sindacale in un momento storico di grande fermento culturale e di lotta sociale, rispetto al quale la costruzione giurisprudenziale ha trovato nella stessa legge ordinaria i riferimenti fondamentali.

Molto più intensa è stata l’elaborazione giurisprudenziale della disciplina del rapporto di lavoro.

Il controllo sulla legittimità degli atti datoriali, attraverso azioni individuali, sistematicamente promosso se non addirittura provocato da organizzazioni sindacali dotate di propri uffici legali specializzati nella materia del lavoro, porta la giurisprudenza a definire il contenuto degli obblighi del lavoratore di diligenza, di ubbidienza e di fedeltà in una prospettiva strettamente finalistica rispetto all’interesse oggettivo di corretta esecuzione della prestazione, con esclusione e superamento di quel concetto di subordinazione precedentemente inteso e vissuto come vero e proprio assoggettamento personale al datore di lavoro (e ai suoi preposti nell’esercizio del potere gerarchico). Nell’opzione tra possibili diverse interpretazioni viene scelta quella che si ritiene conforme ai principi costituzionali, a loro volta definiti nel contenuto attribuendo prevalenza a una lettura dei rapporti economici nel rispetto dei diritti fondamentali e della pari dignità sociale sanciti dagli artt. 2 e 3 della Costituzione. L’art. 41 della Carta viene declinato come parametro di riferimento e limite a poteri di supremazia che non siano correlati alla realizzazione di uno scopo, inerente alla attività di impresa, socialmente apprezzabile e si traducano quindi in non necessarie limitazioni della libertà e dignità del lavoratore, essendo l’azienda un luogo di relazioni sociali all’interno del quale il lavoratore svolge la sua personalità.

È così stabilito che non è insubordinazione la reazione alla condotta offensiva del datore o del capo, che non è insubordinazione il rifiuto di prestazioni lesive di interessi superiori, che non vi è violazione degli obblighi di correttezza nell’esercizio del diritto di critica rispetto alla attività datoriale o all’organizzazione del lavoro in azienda, che la diligenza nella esecuzione della prestazione deve essere valutata nel contesto dei tempi e dei modi della prestazione medesima, che il rifiuto dello straordinario è legittimo se vi sono esigenze personali apprezzabili del lavoratore, che sono estranee al vincolo fiduciario vicende personali anche di rilevanza penale non incidenti sulla corretta esecuzione della prestazione lavorativa[3]. La specialità e l’autonomia del diritto del lavoro trovano inoltre espressione in deroghe o interpretazioni in difformità al diritto comune dei contratti, come in materia dell’onere della prova della diligenza nella esecuzione della prestazione, che diviene onere della prova a carico del datore di lavoro della scarsa diligenza rispetto a quella ordinariamente esigibile[4].

Attraverso la casistica, dovendo calare nel caso in giudizio una regola che ripete la propria validità dall’equo bilanciamento di interessi contrapposti e di visioni ideali spesso antitetiche dei rapporti economici e dei limiti di preminenza dell’interesse dell’impresa, vengono individuati i principi di riferimento e definiti i criteri di valutazione delle condotte delle parti nel corso di un rapporto contrattuale che si caratterizza per due peculiarità: lo svolgimento quotidiano che assorbe un terzo del tempo di vita di ogni giorno e implica rapporti interpersonali continuativi; la supremazia di una parte rispetto all’altra sia sul piano economico, sia sul piano giuridico, essendo la prestazione a cui è tenuto il lavoratore determinata, secondo le mutevoli esigenze aziendali, nel contenuto, nel tempo e nel modo dall’esercizio del potere direttivo del datore di lavoro, titolare altresì del potere disciplinare per sanzionare l’inesatto adempimento della prestazione e degli obblighi accessori.

È questo l’ambito elettivo della giurisprudenza che si occupa delle sanzioni e del licenziamento per giusta causa e giustificato motivo soggettivo, che costruisce un percorso di accertamento della responsabilità con norme procedurali che vanno oltre la formulazione letterale dell’art. 7 dello Statuto, definendo l’interesse tutelato ed enucleando rispetto allo stesso obblighi complementari la cui violazione determina l’illegittimità della sanzione: la specificità della contestazione, la tempestività della contestazione, la tempestività della irrogazione della sanzione, l’immutabilità della contestazione. La sussistenza di un interesse reale e non strumentale a sanzionare la condotta viene verificato non solo in base alla esistenza dell’infrazione disciplinare, quale sarebbe letteralmente consentito dall’art. 2106 cc, ma anche in base all’oggettiva rilevanza della condotta, all’effettiva esistenza e incisione del bene protetto e all’atteggiamento antecedente e successivo complessivamente tenuto dal datore di lavoro[5]. Vengono stabilite le modalità per garantire un effettivo esercizio del diritto di difesa da parte del lavoratore e viene chiarito che l’art. 7 si applica anche al licenziamento disciplinare[6].

Si tratta di arresti giurisprudenziali che costituiscono ormai diritto vivente e che mantengono la loro validità e vitalità nonostante gli interventi legislativi che dal 2012 in avanti hanno smantellato l’impianto normativo di garanzia della stabilità del rapporto di lavoro.

In una analoga prospettiva di costruzione di un sistema coerente di principi e norme e di definizione dei poteri del datore di lavoro attorno a parametri di oggettiva sussistenza e oggettiva rilevanza dei presupposti per il loro esercizio[7] si è mossa la giurisprudenza sul controllo della legittimità del recesso per motivi oggettivi attinenti alla organizzazione e alla gestione economica dell’impresa e alla sussistenza delle ragioni tecnico produttive per il trasferimento. Il controllo sugli atti datoriali in questi ambiti è costruito rigorosamente come controllo di legittimità e non di merito, essendo circoscritto al nesso logico tra le ragioni addotte (e provate) e la scelta effettuata. Non viene sindacata l’opportunità della scelta ma la correlazione logica con l’atto che incide sul rapporto.

Indubbiamente lo spartiacque è meno chiaro nel momento applicativo rispetto a come enunciato nelle sentenze, poiché il vaglio della consequenzialità tra scelta gestionale e atto datoriale applicato a una situazione concreta non può tradursi in un semplice sillogismo la cui correttezza è verificabile attraverso consolidati canoni di logica astratta. Un esempio significativo della labilità del confine si è avuto in materia di trasferimento, per il quale parte della giurisprudenza di merito riteneva compreso nel controllo[8], sempre sotto il profilo della congruenza logica tra ragione aziendale e atto datoriale, anche la scelta del lavoratore da trasferire tra più lavoratori aventi la medesima professionalità, per escludere atti arbitrari o diretti a mettere in difficoltà dipendenti non graditi per i quali il trasferimento per ragioni personali o familiari fosse particolarmente gravoso. La giurisprudenza di legittimità ha invece ritenuto insindacabile questa scelta[9]. Ed è abbastanza evidente che la scelta del lavoratore da trasferire non è atto datoriale per il quale si possa automaticamente escludere che sia valutabile una congruenza logica rispetto alla esigenza aziendale che si vuole soddisfare.

Nonostante i margini di opinabilità e per quanto non si possa escludere che vi siano state delle pronunce di merito anomale, la giurisprudenza di legittimità ha però tratteggiato nel corso del tempo, con precisione, sul piano teorico, gli ambiti di discrezionalità dell’attività imprenditoriale che non possono essere scalfiti[10] e disposizioni quali gli artt. 27, 69 d.lgs n 276/03 o l’art. 30 L n. 183/10, compendio delle recriminazioni sugli esorbitanti poteri e sconfinamenti dei giudici del lavoro,[11] non hanno introdotto alcun reale nuovo vincolo normativo, rimanendo compresa nell’accertamento del “solo” presupposto di legittimità la valutazione di congruenza logica tra esigenza aziendale rappresentata e atto datoriale adottato.

Si tratta di disposizioni che hanno avuto e hanno il significato e lo scopo di una pressione culturale, espressione di un clima politico ormai mutato sotto la spinta ideologica dei movimenti di pensiero che sostengono la prevalenza della ragione economica sulla ragione politica quale necessità imposta dal mercato e che si sono sempre più affermati a partire dalla fine degli anni ’80. Un clima politico che orami all’inizio del 2000 ha permeato l’orientamento di buona parte della giurisprudenza del lavoro.

 

2. Non è semplice ripercorre il cammino che ha portato progressivamente i giudici del lavoro a restringere gli ambiti di accertamento e sindacato delle forme contrattuali e delle condotte delle parti e a interpretazioni riduttive delle norme e dei diritti e, in definitiva, a una creatività regressiva rispetto ai precedenti arresti. Le condizioni sinergiche che avevano favorito la stagione di intensa costruzione giurisprudenziale espansiva del diritto del lavoro sono rapidamente venute meno e se ne sono create altre di segno opposto, per un mutamento della concezione del proprio ruolo da garante di una parità sostanziale a garante di una parità formale delle parti e per un adagiarsi in un rassicurante conformismo giurisprudenziale, piuttosto indifferente alle reali dinamiche economiche e sociali che si esprimono nelle nuove tipologie contrattuali, ma funzionale a rendimenti quantitativamente elevati in termini di definizione dei procedimenti assegnati.

Era prevedibile, in una prospettiva storica, che la legislazione di tutela dei diritti dei lavoratori e l’elaborazione giurisprudenziale che ne è seguita – in sintonia con l’assunzione del lavoro a valore fondativo della Costituzione repubblicana (art. 4 secondo comma), titolo di legittimazione alla effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese – determinassero una reazione ideologica avversa, di insofferenza al controllo prima sindacale e poi giudiziario. E la reazione si è espressa sia nella elusione delle discipline legali e contrattuali, sia nella divulgazione di un pensiero strutturato di contestazione della utilità sociale di qualsiasi forma di vincolo contrattuale alla libertà di impresa nella gestione della forza lavoro e dei relativi costi. La reazione ha coinvolto tutti i paesi dell’Europa occidentale, ma in modo particolare quelli dell’Europa continentale e meridionale, che nel corso degli anni ’60 e ’70 avevano introdotto legislazioni limitative dei licenziamenti e dell’accesso a forme di lavoro temporanee, sotto la pressione di lotte sociali promosse dai sindacati con il sostegno dei partiti di sinistra e in modo particolare paesi come l’Italia nei quali, a differenza dei paesi del Nord Europa, affermazioni come la responsabilità sociale dell’impresa, la solidarietà sociale quale presupposto per il benessere collettivo, la tutela del valore reale del salario quale condizione di realizzazione della pari dignità sociale non erano il risultato di una crescita culturale della società nel suo insieme e di una idea condivisa di organizzazione sociale, ma erano stati il vessillo di una sola parte nel duro scontro politico e sindacale di quegli anni.

Il susseguirsi di due crisi economiche, nel 1973 (crisi petrolifera) e nei primi anni ’80, durante la fase espansiva e di affermazione dei movimenti progressisti per l’emancipazione dei soggetti deboli e per la pari dignità sociale ha favorito la diffusione della critica ai nuovi modelli di società, sostenuta dalle dottrine neoliberiste della scuola di Chicago di Milton Friedman, che predicava l’ottimizzazione dei risultati economici di macrosistema attraverso la riduzione ai minimi dei vincoli all’impresa e attraverso la privatizzazione di tutti i beni e servizi. Il sistema industriale intanto è andato trasformandosi con l’introduzione massiccia di nuove tecnologie, con l’affidamento all’esterno delle attività accessorie e con la modificazione degli schemi di produzione: il modello del just in time implica la massima elasticità della offerta per adattarsi alla domanda, senza accumulo di scorte e dunque, si predica, una organizzazione del lavoro con elevato grado di flessibilità. Diretto derivato da queste teorie è stata l’affermazione della correlazione tra tutele nel rapporto di lavoro e basso livello di occupazione, tesi per dimostrare la quale l’Ocse all’inizio egli anni ’90 ha intrapreso studi su tutti i sistemi dell’economie ad alta industrializzazione (Employment protection legislation index/Epl). Dopo vent’anni di ricerche, sul periodo 1990- 2013, l’affermazione del 1994 «Un mercato del lavoro flessibile è fondamentale per garantire che le politiche economiche favoriscano la creazione di nuovi posti di lavoro»[12], si è tramutata in «La maggior parte degli studi empirici che analizzano gli effetti a medio-lungo termine delle riforme di flessibilizzazione del lavoro, suggeriscono che esse hanno un impatto nullo o limitato sui livelli di occupazione nel lungo periodo»[13].

Gli stessi studi e ricerche hanno invece dimostrato che la riduzione delle tutele e la flessibilizzazione del mercato del lavoro, che sulla spinta ideologica di un pensiero teorico indimostrato si sono frattanto attuate nei paesi occidentali, hanno determinato una deflazione dei salari e una redistribuzione del reddito nazionale a favore delle rendite e dei profitti[14].

 

3. Nel corso dell’ultimo ventennio si è contemporaneamente realizzato un graduale mutamento nella magistratura del lavoro, esito peraltro di fattori del tutto ordinari quali la progressione di carriera, il ricambio generazionale, la mobilità sul territorio. Un mutamento che però ha implicato, soprattutto nel primo grado di giudizio, la sostituzione di giudici votati professionalmente ad occuparsi di una materia del tutto peculiare come è il diritto del lavoro, favorendo l’ingresso della vicenda umana e degli interessi concreti nelle aule di giustizia, con giudici con minor sensibilità per gli aspetti politico-sociali-economici di questo contenzioso e più propensi ad indulgere in “tecnicismi” e speculazioni astratte, forse talvolta più funzionali a preservare la propria organizzazione di lavoro e di vita, a scoraggiare l’accesso alla giustizia, che non a soddisfare l’esigenza delle parti di interventi tempestivi e risolutori[15]. E il ricambio generazionale è fattore importante non solo per una diversa sensibilità dovuta al diverso contesto storico di formazione culturale e professionale, ma anche perché il meccanismo processuale è tale per cui se il primo grado di giudizio non è svolto facendo entrare nella materia che costituisce la base della decisione la vicenda concreta del rapporto i gradi successivi restano vincolati a un ambito ristretto di cognizione, senza poter trarre dalle peculiarità della singola controversia impulsi per una rivisitazione critica di principi che si ritengono consolidati e la cui applicazione potrebbe non portare a risultati conformi allo spirito delle norme, in particolare quelle costituzionali.

Il mutamento del clima politico, la diffusione quale pensiero comune della correlazione delle tutele accordate al lavoratore con il calo dell’occupazione, il convincimento che la globalizzazione deve necessariamente abbassare i salari e la qualità della vita dei lavoratori salariati, unitamente al ricambio generazionale, hanno avuto una ricaduta sulla giurisprudenza. Le stesse disposizioni che nel ventennio precedente avevano segnato l’affermazione del diritto del lavoro come diritto diseguale a protezione della parte debole del rapporto non sono più sentite come sufficienti per arginare l’erosione dei diritti. Emblematica è la vicenda dei cosiddetti contratti co.co.co, contratti nei quali l’attività lavorativa viene definita come non subordinata e portata fuori dall’applicazione dei contratti collettivi.

I rapporti di «collaborazione coordinata e continuativa» sono menzionati per la prima volta nell’art. 2 della L n. 741/59 e successivamente nell’art. 409 terzo comma cpc e negli artt. 5 del dPR 633/72, 49 dPR 597/73 e 49 dPR 917/86 ai fini fiscali. Si tratta di disposizioni che non hanno quale finalità quella della creazione di un nuovo contratto tipico, intermedio tra lavoro autonomo e lavoro subordinato, ma quella della tutela di lavoratori autonomi, professionisti ed anche si sostiene, quanto alla applicazione dell’art. 409 cpc, piccoli imprenditori che, per essere sostanzialmente fidelizzati a una azienda si vengono a trovare in una situazione di dipendenza economica equiparabile sul piano delle esigenze di tutela a quella dei lavoratori subordinati[16].

Questa forma contrattuale viene invece prescelta dalla seconda metà degli anni ’80 in poi per eludere le tutele del rapporto di lavoro subordinato, a tempo determinato o indeterminato. La flessibilità è garantita dalla apposizione di un termine, con possibilità di rinnovo, e/o dalla facoltà di recesso anticipato con preavviso e il costo è sistematicamente inferiore a quello del lavoro subordinato, sia in termini di retribuzione, sia per la mancanza di ogni forma di assicurazione previdenziale. Solo con la L n. 335 del 1995 verrà introdotta una gestione autonoma per queste forme di attività parasubordinata, ma fino al 2004 con aliquote basse e comunque sempre più convenienti rispetto al costo del lavoro subordinato.

I giudici del lavoro vengono investiti della questione della natura elusiva di questi contratti e richiesti di accertare la natura subordinata dei rapporti di lavoro sottostanti. Dopo pronunce difformi e contrastanti della giurisprudenza di merito, i giudici del lavoro di legittimità anziché mettersi nella prospettiva adottata nel passato, con orientamento consolidato, della individuazione dell’interesse che con il contratto si vuole realizzare e della funzione che in concreto svolge nella organizzazione della attività aziendale, a prescindere dalle singole clausole contrattuali[17], al fine di riconoscere le tutele del lavoro subordinato indipendentemente dal nomen iuris del singolo contratto[18], reiterano affermazioni tanto apodittiche quanto indimostrate («ogni attività umana economicamente rilevante può essere svolta sia in forma autonoma che subordinata»)[19] e si perdono in una analitica individuazione di indizi significativi che deporrebbero per l’una o per l’altro tipo di contratto (orario, luogo di lavoro, modo di retribuzione e così via)[20], addossando al lavoratore l’onere della prova e dibattendosi nella confutazione o conferma della «volontà espressa dalle parti», fino a giungere alla tautologica statuizione che ha natura subordinata il rapporto di lavoro che implica l’esercizio del potere disciplinare, con la singolare conseguenza che di tale indice non può esservi prova se il lavoratore è bravo e diligente o se il datore di lavoro recede dal contratto co.co.co con preavviso e senza motivazione (così impedendo di verificare se si sia trattato di un recesso disciplinare quale reazione a una condotta del collaboratore).

Questo sforzo ricostruttivo/interpretativo della «volontà delle parti» e del loro comportamento successivo conforme o difforme dalla volontà dichiarata è completamente indifferente alla evidenza della funzione elusiva delle tutele e di dumping salariale che le forme contrattuali co.co.co assolvono sul mercato del lavoro e alla stessa finalità originaria della emersione normativa di queste figure di collaboratori, diretta ad estendere tutele e non a circoscriverle.

Per apprezzare pienamente la creatività regressiva di questi arresti è sufficiente por mente alla costruzione dogmatica condivisa dell’art. 36 della Costituzione, quale è stata adottata per il lavoro subordinato e all’applicazione che non ne è seguita invece rispetto alle collaborazioni coordinate e continuative.

La nostra Costituzione ha accolto una nozione di remunerazione della prestazione di lavoro non come prezzo di mercato, ma come retribuzione sufficiente ossia adeguata ad assicurare un tenore di vita dignitoso[21]. Nonostante il riferimento all’«esistenza libera e dignitosa per sé e per la propria famiglia» non potesse essere un criterio applicativo di reale consistenza e nonostante quindi l’art. 36 fosse disposizione più facilmente collocabile fra quelle di natura programmatica, la giurisprudenza, anche di seguito all’intervento legislativo operato con la L n. 741/59 che ha reso obbligatori i minimi salariali stabiliti dai contratti e dagli accordi collettivi, già dagli anni ’60 ha attribuito alla disposizione efficacia immediatamente precettiva[22] e l’ha utilizzata per estendere, sia pure indirettamente, assumendole come parametri orientativi di liquidazione, le retribuzioni minime sindacali anche ai rapporti di lavoro intercorrenti con datori di lavoro non vincolati alla applicazione del contratto collettivo perché non aderenti alle associazioni firmatarie. Si è trattato di un procedere creativo, come sostenuto da parte della dottrina, non essendovi una piana consequenzialità logica nei vari passaggi, dall’attribuire efficacia immediatamente precettiva all’art. 36, all’individuare i parametri di liquidazione della giusta retribuzione in quella sindacale, al bypassare l’art. 39 Cost. estendendo tendenzialmente anche se non integralmente l’efficacia obbligatoria del contratto collettivo (e non solo ai minimi tabellari, ma in ragione della incidenza immediata sulla remunerazione, anche ad altri istituti)[23]. Si è trattato in ogni caso di un procedere che ha portato a una posizione consolidata, recepita dalle prassi contrattuali e dalle difese legali in giudizio, a cui è stato aggiunto quale corollario quello della ammissibilità della liquidazione anche d’ufficio sulla base dei minimi salariali dei contratti collettivi della giusta retribuzione quando fosse comunque stata dedotta una violazione dell’art. 36 cost.[24].

Ci si può chiedere quindi cosa abbia trattenuto la giurisprudenza nelle cause promosse dai lavoratori co.co.co in cui venivano chieste differenze retributive ex art. 36 cost., dal desumere dai contratti collettivi il valore della giusta retribuzione una volta affermato da un lato che ogni attività umana economicamente rilevante può essere svolta sia in forma autonoma che subordinata e una volta riscontrata dall’altro l’identità qualitativa/quantitativa della prestazione quanto a oggetto e durata ancorché svolta con un contratto co.co.co anziché subordinato. La risposta pare obbligata: una lettura dell’art. 36 cost., in assenza di qualsiasi limitazione espressa o di ratio, come norma rivolta alla sola tutela del lavoro subordinato e non di quello parasubordinato[25]. Una lettura regressiva, di una giurisprudenza ormai restia a interpretazioni costituzionalmente orientate di tutela del lavoro svolto in posizione di dipendenza economica e sensibile invece alle esigenze di un mercato che si afferma imprigionato dalle troppe tutele.

Il paradosso è che lo scopo elusivo di queste forme contrattuali, con una pesante incidenza sulla mancanza di copertura assicurativa per il futuro trattamento pensionistico, ha portato lo stesso legislatore, sebbene sempre più liberista, a intervenire con disposizioni repressive. Un primo intervento si è avuto con il d.lgs n. 276/03, che, pur introducendo o avallando la proliferazione di tipologie contrattuali destinate a dare rilievo normativo alle massime esigenze di flessibilità nell’impiego della forza lavoro, ha fatto divieto di stipulare per il futuro contratti co.co.co. (artt. da 61 a 69-bis e art. 86), consentendo nell’ambito delle collaborazioni continuative solo il contratto a progetto, sanzionando l’abuso di questo tipo di contratti con la conversione del rapporto in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e imponendo in astratto una giusta retribuzione con riferimento ai compensi dei lavoratori autonomi (art. 63)[26]. Successivamente, di fronte all’abuso del contrato a progetto[27], si è introdotta una disciplina più restrittiva e la giusta retribuzione è stata individuata nei minimi tabellari dei contratti collettivi (art. 1 commi 23-25 L n. 92/12 cd legge Fornero) e infine con il decreto legislativo n. 81/15 (denominato volgarmente Jobs act) è stata abrogata la disciplina del contratto a progetto (art. 52), è stato abrogato l’art. 2549 codice civile nella parte in cui consentiva che nell’associazione in partecipazione (nuova forma elusiva) l’apporto dell’associato potesse essere costituito da una prestazione di lavoro ed è stata nuovamente prevista la possibilità di contratti di collaborazione coordinata e continuativa. Si è però stabilito a questo proposito che «A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro»[28]. Si è quindi alla fine dato rilievo a due dei fattori che evidenziano un collegamento funzionale particolarmente intenso della prestazione di lavoro con l’attività aziendale e l’insussistenza di un interesse contrattuale apprezzabilmente diverso (causa concreta del negozio) da quello soddisfatto con il rapporto di lavoro subordinato per estenderne la disciplina. In sostanza, si è pervenuti in via normativa a un risultato che avrebbe potuto essere realizzato vent’anni prima dalla giurisprudenza percorrendo il proprio stesso precedente argomentare sulla distinzione tra rapporto di lavoro subordinato e autonomo, o che avrebbe potuto essere raggiunto quanto meno sul piano delle garanzie retributive (se non di quelle assicurative volendo mantenere l’autonomia dei co.co.co) attraverso l’interpretazione a e applicazione dell’art. 36 Cost. secondo la via che era stata seguita per la liquidazione della giusta retribuzione in base ai contratti collettivi di lavoro nei rapporti intercorrenti con datori di lavoro non aderenti ad alcuna associazione di categoria.

 

4. La vicenda delle collaborazioni dimostra una sorta di impotenza della giurisprudenza dopo gli anni ’90 a intervenire efficacemente per sanzionare l’elusione delle tutele a danno del lavoro dipendente, ovvero di quei lavoratori in situazione di dipendenza economica che scambiano sul mercato la propria opera con un salario, comunque si voglia denominare l’emolumento percepito (partecipazione agli utili, provvigione, compenso) e qualsiasi sia la forma contrattuale studiata per sottrarsi agli obblighi retributivi e contributivi dell’impresa secondo la contrattazione collettiva (anche i minimali contributivi sono parametrati dalla legge in base alle retribuzioni tabellari previste dai contratti collettivi). È un’area questa dell’elusione che si è sempre più incrementata attraendo forme di collaborazione di diverse tipologie, compresi i contratti formativi o stage e le prestazioni occasionali che occasionali non sono ma godono in questa forma di agevolazioni fiscali e contributive e che molto spesso coinvolgono nel dumping retributivo anche il lavoro professionale.

Nonostante ciò, rimane diffuso nel sentire comune il convincimento della necessità di aggiustamenti per evitare che “troppe” tutele siano di ostacolo al mercato, nella cui capacità di soddisfare gli interessi di tutti si crede fideisticamente. Questa impostazione traspare, anche se non esplicitata, in sentenze che affrontano la questione degli ambiti di discrezionalità non sindacabile delle scelte imprenditoriali, che tendono a portare fuori dal controllo giudiziario il presupposto di legittimità del licenziamento per esigenze aziendali[29] e traspare nel persistente atteggiamento della giurisprudenza di autorestringimento degli spazi interpretativi che consentirebbero di riportare a una coerenza di sistema rispetto ai principi costituzionali anche le più deboli tutele introdotte negli anni 2000.

Un esempio è dato dalla disciplina del licenziamento disciplinare introdotto con la L n. 92/2012[30].

A differenza del licenziamento per esigenze aziendali, il licenziamento per motivi soggettivi non coinvolge alcun aspetto di discrezionalità imprenditoriale nelle decisioni sull’impiego della manodopera e sul rapporto ottimale costo/utile d’impresa. Non vi è quindi alcuna «esigenza di mercato» da soddisfare: il posto di lavoro non viene soppresso ma solo coperto con altro lavoratore che prenderà il posto di quello licenziato. Ciò che è in gioco nel licenziamento disciplinare è unicamente la correlazione del recesso con una mancanza apprezzabile rispetto all’interesse del datore di lavoro alla corretta esecuzione della prestazione. Un uso distorto del potere disciplinare in senso punitivo/ritorsivo senza proporzione tra mancanza e interesse tutelato reintroduce una concezione della subordinazione quale assoggettamento della persona del lavoratore al datore di lavoro, sicuramente lesiva della sua dignità in violazione dell’art. 41 della Costituzione, come più volte affermato dalla giurisprudenza degli anni ’70 e ‘80.

Con la legge n. 92/12 il sindacato del giudice circa la proporzionalità tra mancanza e sanzione è stato disciplinato con un più stringente riferimento alla disciplina delle sanzioni disciplinari dei contratti collettivi, che secondo la formulazione letterale della norma può funzionare in due modi: o quale criterio di mera riconduzione della condotta contestata negli illeciti espressamente previsti o di pari gravità, con possibilità di valutazione della gravità per analogia e possibilità di reintegrazione qualora si ritenga applicabile una sanzione conservativa, oppure quale esautoramento completo sotto questo profilo, con la conseguenza che la reintegrazione non può essere disposta se il contratto collettivo non contempla espressamente la condotta contestata fra quelle per le quali è prevista la sanzione conservativa, con palese disparità di trattamento per gli illeciti disciplinari di pari o minor gravità non espressamente previsti. Questa seconda opzione interpretativa implica quindi una irrazionalità evidente essendo fatto trattamento diverso a situazioni uguali o trattamento uguale a situazioni diverse in contrasto con l’art. 3 Cost.

La giurisprudenza si è divisa tra i giudici che hanno adottato una interpretazione costituzionalmente orientata e i giudici che hanno adottato l’interpretazione restrittiva, senza però che questi ultimi si siano mai posti un problema di illegittimità costituzionale. È una situazione di stallo che potrebbe essere spiegata con l’attesa di un arresto autorevole da parte del giudice di legittimità[31], sulla base del quale, qualora non condiviso, i fautori della prima tesi interpretativa potrebbero sollevare l’eccezione di illegittimità costituzionale.

 

5. Non pare peraltro che lo stesso giudice delle leggi riesca a sottrarsi ai condizionamenti del clima complessivo, le cui posizioni sono di grande cautela quando le decisioni possono avere ricadute politiche o finanziarie di ostacolo a una azione governativa che si dichiara volta alla ripresa dell’economia del Paese in fase di grave stagnazione dopo il crollo finanziario del 2007/2008.

Questo atteggiamento potrebbe spiegare la decisione nel procedimento all’esito del quale, dopo la rimessione della questione alla Corte di giustizia Eu e la statuizione di non conformità della normativa interna alla direttiva 1999/70/Ce, è stata ritenuta l’illegittimità costituzionale delle disposizioni legislative che hanno consentito per decenni la reiterazione di assunzioni a termine nella scuola (personale insegnante e amministrativo). Con questa sentenza[32] la Corte ha ritenuto di non limitarsi alla questione di illegittimità costituzionale che le era stata rimessa, ma altresì di dare una risposta «alla questione della necessità o meno del riconoscimento del diritto al risarcimento in capo ai soggetti che abbiano subito un danno a seguito dell’inadempimento dello Stato italiano», qualificandosi come giudice nazionale della controversia. Ha quindi affermato che con il decreto legislativo n. 107/15 sulla «buona scuola» si è soddisfatto alla condizione indicata dalla Corte europea per la quale «quando si è verificato un ricorso abusivo a una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato, si deve poter applicare una misura che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori al fine di sanzionare debitamente tale abuso e cancellare le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione», essendosi previsto per il futuro «un termine effettivo di durata dei contratti a tempo determinato, il cui rispetto è garantito dal risarcimento del danno», una cadenza triennale per i concorsi e la possibilità di immissione in ruolo per i docenti precari attraverso «un accesso privilegiato al pubblico impiego fino al totale scorrimento delle graduatorie ad esaurimento secondo quanto previsto dal comma 109 dell’art. 1 della legge n. 107 del 2015, permettendo loro di ottenere la stabilizzazione grazie o a meri automatismi (le graduatorie) ovvero a selezioni blande (concorsi riservati)».

A questa decisione si è uniformata la Corte di cassazione[33], ritenendosi evidentemente vincolata ed escludendo fosse necessario rimettere nuovamente alla Corte di giustizia. Non è questa la sede per entrare nel merito di queste sentenze[34], la cui impostazione argomentativa di appoggio all’azione di Governo in materia di precariato scolastico è esplicita, quello che è singolare, sicuramente nuovo e preoccupante è stato l’inoltro dal Primo presidente della Corte di cassazione del comunicato stampa con cui veniva data notizia delle sentenze della Corte «allo scopo di portare a conoscenza dei giudici di merito in via prioritaria gli indirizzi adottati in proposito dalla Corte di cassazione». Ora, poiché non si può pensare che il Primo presidente presupponga che decisioni così rilevanti e attese passino inosservate ai giudici di merito, e tanto meno che ciò possa avvenire con gli strumenti informatici e i collegamenti agli archivi di giurisprudenza oggi disponibili, il senso di quel messaggio non può che essere un chiaro invito a uniformarsi acriticamente al decisum. E la riflessione che si impone è che se una simile iniziativa è stata presa senza timore che venisse indicata come impropria è perché si fa affidamento su un conformismo diffuso e sentito addirittura come doveroso da buona parte della magistratura del lavoro.

[1] Dall’inizio degli anni ’60 si sono susseguite numerose leggi di tutela del lavoro e dei lavoratori: la L n. 1369/60 divieto di interposizione nel collocamento della manodopera, la L n. 230/62 sul contratto a termine, L n. 7/63 divieto di licenziamento per causa di matrimonio, dPR n. 1224/65 tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, L n. 604/66 sui licenziamenti individuali, L n. 153/69 riforma sistema pensionistico Brodolini, L n. 300/70 Statuto dei lavoratori, L n. 1204/71 tutela delle lavoratrici madri, ma l’architrave del sistema è stata costruita con il passaggio dal recesso acausale al recesso causale e con il diritto, di immediata realizzazione processuale, alla reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo, che consentivano l’esercizio di tutti gli altri diritti senza eccessivo timore di atti ritorsivi. Sulla reintegrazione nel posto di lavoro quale “garanzia di spazi di libertà” (Kohn Freund) Giacomo De Tommaso in Riv. Giur. Lav. 1979, I, p. 343.

[2] La tutela della libertà e dignità dei lavoratore sono l’oggetto dei primi sei articoli dello Statuto che sanciscono la libertà di manifestazione del pensiero sul luogo di lavoro e vietano controlli sulla attività lavorativa e sulla persona del lavoratore non strettamente necessari allo svolgimento della attività aziendale e previo accordo sulle modalità con le organizzazioni sindacali. L’art. 4, in particolare, vietava controlli a distanza e vietava l’uso dei cd controlli preterintenzionali, occasionati da sistemi autorizzati e installati per altri fini aziendali leciti. La disposizione è stata recentemente modificata con l’art. 23 del d.lgs n. 151/15 che pare consentire l’uso indiscriminato di informazioni “intercettate” da tali sistemi anche a fini di verifica dei livelli di rendimento e disciplinari: «Le informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2 sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli».

[3] Tribunale Genova 29.11.81, in Riv. Giur. Lav., 1981, II, p. 99, Cass. n. 3721/86, Giust. Civ. 1986, I, p. 2089, Pretura Milano 6.8.87 Lavoro 80, 1987, p. 964, Pretura Parma 18.2.87, ivi, 1987, p. 819, Pretura Milano 18.8.87, ivi, 1987, p. 1087, Pretura Milano 24.8.87, ivi 1987, p. 1089, Cass. 2346/87, Cass. 8123/92

[4] Cass. n. 3432/79, in Riv. Giur. Lav., 1980, II, p. 369, Tribunale Milano 10.10.87, in Lavoro 80, 1988, p. 166

[5] Cass. n. 2144/74 , Cass. n. 5744/77, Riv. Giur. Lav. 1978, II, p. 515, Cass. n. 5320/78, in Giustizia Civile, 1979, I, p. 479, Pretura Milano, 14.12.87, Lavoro 80 1988, p. 508, Pretura Milano 16.3.88, Lavoro 80, 1988, p. 700, Pretura Milano 29.3.88, ivi, p. 701, Pretura Milano 5.12.88 in Foro It., 1989, I, p. 563, Tribunale Milano 14.2.90 in Lavoro 80 1990, p. 359, Tribunale Napoli 20.1.90, Lavoro 80, 1990, p. 527.

[6] Pretura Parma 23.10.76, in Riv. Giur. Lav. 1977, II, p. 57, Cass. n. 553/76, n. 1632/76, n. 3455/76, n. 307/77, Corte Cost. n. 204/82, n. 427/89.

[7] Pretura Napoli 24.2.83, in Riv. It. Dir. Lav. 1983, p. 653, Pretura Roma 6.10.87,in Lavoro 80, 1988, p. 497.

[8] Pretura Milano, 18.3.74, in Riv. Giur. Lav. 1974, p. 409, Pretura Milano 25.2.86, in Lavoro 80, 1986, p. 872, Pretura S. Vito al Tagliamento, 29.1.87, ivi, 1988, p. 164, Pretura Roma 21.12.87, ivi, 1988, p. 157, Tribunale Firenze 13.3.85, in Riv. It. Dir. Lav., 1985, p. 426.

[9] Cass. n. 331/79, in Orient. Giurisp. Lav. 1979, 524, Cass. n. 2490/84, in Giust. Civ., 1985, I, p. 139.

[10] Cass. 6450/84, Cass. 4286/85, Cass. 12554/98 e la controprova della corretta applicazione dell’art. 41 cost. senza sconfinamenti in ambiti di discrezionalità imprenditoriale che potessero comprimere indebitamente il diritto di impresa è data dalla giurisprudenza in materia di licenziamenti collettivi, che ha continuato, così come antecedentemente al 1970, a indicare i limiti del sindacato giudiziale alla correttezza della procedura sindacale di contrattazione e verifica dei presupposti della riduzione del personale (prevista dagli accordi interconfederali del 1950, del 1965 e poi dalla L n. 223/91), alla verifica della correlazione del singolo licenziamento con il presupposto della riduzione del personale e alla applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare secondo i principi di correttezza e buona fede.

[11] art. 30: «1. In tutti i casi nei quali le disposizioni di legge … contengano clausole generali… il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro... 3. Nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei contratti individuali di lavoro… Nel definire le conseguenze da riconnettere al licenziamento ai sensi dell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, il giudice tiene egualmente conto di elementi e di parametri fissati dai predetti contratti e comunque considera le dimensioni e le condizioni dell’attività esercitata dal datore di lavoro, la situazione del mercato del lavoro locale, l’anzianità e le condizioni del lavoratore, nonché il comportamento delle parti anche prima del licenziamento».

[12] Ocse/Oecd Jobs Study, 1994, p. 28, Relazione prof. Emiliano Brancaccio, Scuola Superiore Magistratura, Scandicci 26.10.16.

[13] Oecd Employment Outlook, 2016, p. 126, Relazione prof. Emiliano Brancaccio, Scuola Superiore Magistratura, Scandicci 26.10.16.

[14] Relazione prof. Emiliano Brancaccio, Scuola Superiore Magistratura, Scandicci 26.10.16 e gli studi degli autori citati nella bibliografia.

[15] Significativo e del tutto esplicativo sotto questo profilo è stato il contrasto giurisprudenziale sulla ammissibilità del ricorso d’urgenza ex art. 700 cpc in caso di licenziamento, procedimento che veniva introdotto per scavalcare i tempi lunghi della fissazione della causa di merito in certi uffici giudiziari. Per buona parte dei giudici del lavoro il ricorso non sarebbe stato ammissibile in quanto il danno sofferto dal lavoratore sarebbe stato un danno meramente patrimoniale, che sarebbe stato riparato, qualora fosse stata accolta la domanda, con l’integrale risarcimento ex art. 18 L n. 300/70, con il risultato che nel 2012 per dare soddisfazione a una esigenza di assoluta celerità condivisa da entrambe le parti del processo e non solo dal lavoratore è stato introdotto il cd. rito Fornero che ha imposto ai giudici tempi ridotti di trattazione, strutturando il procedimento in due fasi di cui la prima concepita come una sorta di fase cautelare a cognizione sommaria e imponendo ai capi degli uffici una sorveglianza speciale sul rispetto dei termini (art. 1 comma 66 L n. 92/12).

[16] Art. 1 L n. 741/59 «Il Governo è delegato ad emanare norme giuridiche, aventi forza di legge, al fine di assicurare minimi inderogabili di trattamento economico e normativo nei confronti di tutti gli appartenenti ad una medesima categoria. Nella emanazione delle norme il Governo dovrà uniformarsi a tutte le clausole dei singoli accordi economici e contratti collettivi, anche intercategoriali, stipulati dalle associazioni sindacali anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge». Art. 2 «Le norme di cui all’art. 1 dovranno essere emanate per tutte le categorie per le quali risultino stipulati accordi economici e contratti collettivi riguardanti una o più categorie per la disciplina dei rapporti di lavoro, dei rapporti di associazione agraria, di affitto a coltivatore diretto e dei rapporti di collaborazione che si concretino in prestazione d’opera continuativa e coordinata». Le due disposizioni fanno evidentemente anche se implicitamente riferimento, sia pure senza menzionarli, solo agli agenti e rappresentanti di commercio, uniche categorie per le quali erano stipulati accordi collettivi, agenti e rappresentanti poi menzionati nell’art. 409 cpc separatamente rispetto ai collaboratori coordinati e continuativi.

[17] Cass. 183/74, in Riv. Dir. Lav., IV, p. 94, Pretura Milano, 14.4.76, in Riv. Giud. Lav., 1977, p. 236, Cass. 1825/76, in Riv. Dir. Lav., 1977, p. 483, Cass. SU n. 1885/76 ivi p. 490.

[18] La giurisprudenza in materia di contratti atipici è del resto consolidata nel senso che la disciplina applicabile va individuata in base alla «causa concreta, la quale definisce lo scopo pratico del negozio, la sintesi, cioè, degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare, quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione». «Infatti, la causa, “ancora iscritta nell’orbita della dimensione funzionale dell’atto”, non può essere che “funzione individuale del singolo, specifico contratto posto in essere, a prescindere dal relativo stereotipo astratto, seguendo un iter evolutivo del concetto di funzione economico-sociale del negozio che, muovendo dalla cristallizzazione normativa dei vari tipi contrattuali, si volga al fine a cogliere l’uso che di ciascuno di essi hanno inteso compiere i contraenti adottando quella determinata, specifica (a suo modo unica) convenzione negoziale” (in tali espressi sensi, con argomentazioni approfondite e convincenti, si esprime Cass. 8 maggio 2006 n. 10490, ripresa tra le altre da Cass. 12 novembre 2009 n. 23941)… la causa concreta costituisce del resto uno degli elementi essenziali del negozio, alla cui stregua va valutata la conformità alla legge dell’attività negoziale effettivamente posta in essere, in riscontro della liceità (ai sensi dell’art. 1343 cc) e, per i contratti atipici, della meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti ai sensi dell’art. 1322 cpv cc (Cass. 19 febbraio 2000 n. 1898)… sul punto, i controlli insiti nell’ordinamento positivo relativi all’esplicazione dell’autonomia negoziale, riferiti alla meritevolezza di tutela degli interessi regolati convenzionalmente ed alla liceità della causa, devono essere in ogni caso parametrati ai superiori valori costituzionali previsti a garanzia degli specifici interessi perseguiti (Cass. 19 giugno 2009 n. 14343): in tal senso dovendosi ormai intendere la nozione di “ordinamento giuridico”, cui fa riferimento la norma generale sul riconoscimento dell’autonomia negoziale ai privati, attesa l’interazione, sulle previgenti norme codicistiche, delle superiori e successive norme di rango costituzionale e sovranazionale comunque applicabili quali principi informatori o fondanti dell’ordinamento stesso» (per tutte Cass. 7557/11).

[19] Cass. n. 6701/83, n. 5705/85, n. 1502/92, n. 13858/99, n. 5710/98, n. 8028/03, n. 5508/04, n. 6224/04, n. 8804/94, n. 11711/98, n. 4036/00, n. 7310/02, n. 7171/03.

[20] Un esempio di sentenze di questo tipo è la sentenza sui “moto fattorini”, Tribunale Napoli, 11.12.89 in Lavoro 80, 1990, p. 290.

[21] Opzione di natura politica che sta a significare che viene posto un limite all’espansione del profitto a danno del monte salari.

[22] Per una trattazione esaustiva: Luisa Riva Sanseverino, Lavoro in Commentario al codice civile a cura di A. Scialoja e G. Branca.

[23] In via giurisprudenziale si è ritenuto di temperare l’estensione con riduzioni percentuali dei minimi tabellari, posizione questa diretta a realizzare una sorta di equità ma a sua volta discutibile in assenza di un reale parametro capace di esprimere la “sufficienza” costituzionalmente garantita. Ed infatti, Cass. 2245/06: «Quando però la retribuzione sia prevista da un contratto collettivo, il Giudice è tenuto ad usare tale discrezionalità con la massima prudenza, e comunque con adeguata motivazione, giacché difficilmente è in grado di apprezzare le esigenze economiche e politiche sottese all’assetto degli interessi concordato dalle parti sociali». Sui presupposti per operare una riduzione Cass. 17250/04, Cass. 3184/00.

[24] Cass. 12227/05, Cass. n. 1393/85.

[25] Cass. 15069/03.

[26] Art. 63:«Il compenso corrisposto ai collaboratori a progetto deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro eseguito, e deve tenere conto dei compensi normalmente corrisposti per analoghe prestazioni di lavoro autonomo nel luogo di esecuzione del rapporto».

[27] Art. 1 comma 25: «Il compenso corrisposto ai collaboratori a progetto deve essere proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro eseguito e, in relazione a ciò nonché alla particolare natura della prestazione e del contratto che la regola, non può essere inferiore ai minimi stabiliti in modo specifico per ciascun settore di attività, eventualmente articolati per i relativi profili professionali tipici e in ogni caso sulla base dei minimi salariali applicati nel settore medesimo alle mansioni equiparabili svolte dai lavoratori subordinati, dai contratti collettivi».

[28] Salvo alcune eccezioni e salvo che non intervengano specifici accordi collettivi per queste categorie di lavoratori.

[29] Carla Ponterio, La valutazione del giudice e il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in Questione Giustizia on line, www.questionegiustizia.it/articolo/la-valutazione-del-giudice-e-il-licenziamento-per-giustificato-motivo-oggettivo_20-09-2016.php.

[30] La questione è stata risolta in radice dal d.lgs n. 23/15 che ha riportato ogni questione attinente alla valutazione di difetto di proporzionalità tra illecito e sanzione a una tutela meramente indennitaria.

[31] Non è sicuramente un precedente autorevole Cass. n. 23669/14 che contiene un obiter dictum non solo non necessario ma anche contrastante con il contenuto della decisione.

[32] Corte cost. 187/16.

[33] Sentenze dalla n. 22552 alla n. 22558 del 2016.

[34] Non è chiara la distinzione tra sanatoria dell’inadempimento nell’ambito di una procedura di infrazione e conseguenze per violazione della direttiva nel rapporto giuridico diretto con i destinatari della direttiva e vi è inoltre un’intrinseca contraddizione tra la risarcibilità del danno per tardiva trasposizione di una direttiva e la negazione della risarcibilità del danno per violazione di una direttiva.