Magistratura democratica

Appunti sul principio di legalità amministrativa

di Dario Simeoli
Il presente scritto non vuole essere un contributo alla «teoria» del principio di legalità e neppure una riflessione storica sull’ideologia politica cui si deve il radicamento dello Stato di diritto. I rapidi e disorganici appunti che seguono sono dedicati alla «fenomenologia» frammentaria dei rapporti tra legge e amministrazione. Gli spunti raccolti rendono ragione del conclamato indebolimento strutturale della legge quale strumento di coordinamento e indirizzo degli apparati amministrativi funzionalmente diversificati e multiformi. L’evoluzione della tecnica, le politiche di liberalizzazione, le nuove istituzioni di regolazione, la perdita di centralità dello Stato rispetto alle istituzioni europee, hanno mutato in profondità la relazione tra autorità, società e diritto pubblico. Il principio di legalità appare oramai distante dall’archetipo secondo cui ogni manifestazione dei pubblici poteri deve trovare la sua base e il suo limite (formale e sostanziale) nella legge dello Stato. In importanti settori della vita economica e sociale, l’ordinamento predilige forme fluide di “indirizzamento” alla realizzazione di valori e principi, e non comandi rigidamente positivizzati.

1. Premessa

Nel corso della sua storia ‒ normativa e concettuale ‒ il principio di «legalità amministrativa» è stato differentemente interpretato, sfuggendo ad ogni tentativo di definizione unitaria. Lo stesso testo costituzionale ne reca indicazioni soltanto implicite, al contrario della legalità penale cui è riservata una dichiarazione espressa.

Il presente scritto non vuole essere un contributo alla «teoria» del principio di legalità e neppure una riflessione storica sull’ideologia politica cui si deve il radicamento dello Stato di diritto. I rapidi e disorganici appunti che seguono sono (assai più modestamente) dedicati alla «fenomenologia» frammentaria dei rapporti tra legge e amministrazione.

La rilevanza «pratica» del principio di legalità ‒ l’essere cioè regola di esercizio e, quindi, di validità dell’azione amministrativa ‒ conosce sfumature e declinazioni intermedie in corrispondenza dei diversi modelli regolativi dell’azione amministrativa. Ciò ne rende ancora più incerto il contenuto (se enunci la necessità di una norma, qualsivoglia sia la fonte, o se invece tale norma debba essere di ordine legislativo) e la struttura (se il rapporto tra legge e amministrazione si atteggi in termini di mera «compatibilità» o di «conformità»). L’intermediazione delle legge assume poi un significato diverso in corrispondenza della distinzione tra atti che costituiscono manifestazione di autonomia (quelli attraverso i quali la Pa esercita funzioni materialmente normative) e provvedimenti espressivi di discrezionalità.

2. Le fonti amministrative “atipiche”

La ricchezza morfologica delle fonti costituisce una componente della «specialità» del diritto amministrativo. Il quadro regolativo al quale i pubblici poteri devono sottostare è costituito da norme di valore e provenienza diversa. L’atipicità delle fonti del diritto amministrativo si manifesta, non solo nelle fonti «secondarie», ma anche nella congerie indefinita degli atti amministrativi dotati del carattere della generalità. Il tentativo di delineare un’autonoma categoria di atti amministrativi idonei a dettare precetti di natura sostanziale (e che fungono da parametri cui i provvedimenti individuali devono sottostare) ha palesato tutte le incertezze concettuali legate alla nozione di norma giuridica.

Possono dedicarsi alcuni accenni soltanto ad alcune figure paradigmatiche.

Una prima riflessione viene dedicata al potere delle autorità indipendenti di prescrivere regole generali e astratte, idonee a innovare l’ordinamento giuridico e a trovare applicazione in una serie indeterminata di fattispecie.

In seconda battuta, si prenderanno in considerazione i piani urbanistici “perequativi”, ricordando che proprio nella materia urbanistica è stata sperimentata la categoria dell’«effetto giuridico precettivo».

2.1. Autorità indipendenti, regolazione e autonomia privata

La relazione assolutamente atipica tra legge ed atti delle autorità indipendenti costituisce uno dei punti più problematici del dibattito sul principio di legalità.

Per quanto articolata in attività di diverso contenuto e valore giuridico, la «regolazione» dei mercati ha oramai guadagnato un assetto sempre più omogeneo di istituti, i quali raffigurano un modello distinto rispetto alle tradizionali tecniche di condizionamento dei rapporti economici privati. Tale tecnica di intervento pubblico si è manifestata in concomitanza con l’avvio di importanti processi di liberalizzazione in settori strategici per l’innanzi gestiti in regime di privativa dai pubblici poteri o da loro concessionari. Con l’erosione dei monopoli pubblici e la dismissione di imprese operanti in settori economici di interesse generale, la recessione delle condizioni di privilegio prima accordate all’operatore “delegato” dall’amministrazione (il quale esercitava l’attività riservata in nome proprio ma per conto della autorità concedente) è stata accompagnata dalla predisposizione di un sistema complesso di funzioni e poteri finalizzato a edificare condizioni di effettiva concorrenza tra gli operatori. Nel nostro ordinamento i compiti inerenti alla regolazione di un determinato settore economico sono stati sin dall’inizio affidati a corpi che, pur mantenendo natura amministrativa, sono caratterizzati da un grado di indipendenza prima sconosciuto nel panorama delle figure pubbliche. Tale dato di struttura è stato storicamente condizionato dal processo politico di riduzione della sfera pubblica (con abbandono dei compiti direttamente gestionali) nonché dalla necessità di proteggere l’attività pubblica dalla crescente pressione di interessi esogeni (soprattutto politici e finanziari).

Per quanto non sia agevole ricondurre a sistema il variegato regime dei poteri regolatori delle diverse autorità indipendenti, è comune rilevare come il legislatore, nel conferire loro competenze di carattere generale, si limiti sovente alla scarna individuazione degli obiettivi da perseguire e dei valori da tutelare, spesso affidandosi a nozioni tratte dalla letteratura economica. La “torsione” cui è sottoposto il paradigma di legalità, nella declinazione afferente sia alla gerarchia delle fonti, sia alla distribuzione soggettiva dei poteri fra i diversi organi pubblici, viene solitamente giustificata in ragione di due fattori estremamente critici che contrassegnato settori sensibili della vita sociale ed economica: l’estrema difficoltà per il legislatore di creare un sistema completo di prescrizioni in settori specialistici che richiedono una capacità di adattamento alle incessanti evoluzioni tecniche, del tutto incompatibile con l’attuale lentezza dei processi legislativi; il carattere già di per sé estremamente indefinito dei valori da tutelare non può che riflettersi inesorabilmente nella vaghezza delle norme attributive. In definitiva, poiché non è possibile, a causa del repentino invecchiamento delle regole, prefigurare una cornice regolatoria sufficientemente stabile ma solo generici programmi di scopo, il controllo fondato sul principio di legalità ha dovuto abbandonare ogni velleità di compiuta tipizzazione dell’attività e degli effetti, per incentrarsi sulla combinazione e raffronto tra lo scopo assegnato ed il risultato ottenuto.

Dall’ampia premessa occorre ora passare allo specifico contesto problematico dei rapporti tra potere di regolazione e contratto.

Gli atti di fonte secondaria adottati nell’esercizio della funzione regolatoria non solo condizionano (dall’esterno) lo svolgimento dell’autonomia privata (per via degli “incentivi” ingenerati dalla normativa di tipo condizionale e dagli atti di soft law)[1], ma giungono finanche a limitarne il campo elettivo di esplicazione, nella misura in cui: - dettano il procedimento di formazione del contratto e le modalità di informazione precontrattuale; - prescrivono forme ad substantiam[2] e requisiti di forma-contenuto (come con riguardo alle modalità di redazione delle clausole in funzione della loro intelligibilità)[3]; - integrano il contenuto del regolamento[4]; - impongono il compimento di negozi giuridici[5] o ne vietano la stipulazione[6]; - disciplinano il comportamento da tenersi nella fase esecutiva[7].

Orbene, la circostanza che regole, persino restrittive della libertà contrattuale, scaturiscano da atti di autorità amministrative ripropone in un contesto inedito (rispetto al fecondo dibattito intrapreso negli anni settanta del ventesimo secolo), il dubbio se tali fonti subprimarie possano disciplinare un campo costituzionalmente considerato riservato alla competenza esclusiva delle leggi o degli atti aventi forza di legge, così come prospettato dalla teoria della tutela costituzionale “indiretta” del contratto e della libertà contrattuale (in virtù della quale, come è noto, la libertà di fare contratti strumentali all’esercizio dell’iniziativa economica è costituzionalmente protetta nella stessa misura in cui riceve protezione l’iniziativa economica, ovvero nella stessa misura in cui è tutelata la proprietà dei beni negoziati: artt. 41, 3 comma; 42, 2 comma, Cost.).

Il discorso deve, a questo punto, essere organizzato in considerazione della (almeno) duplice graduazione del problema. In un primo importante novero di ipotesi (rinvenibile, ad esempio, nel contesto della disciplina dei contratti bancari, assicurativi e finanziari: cfr. art. 117, 8 comma, Tul.banc.; art. 6, 2 comma, e 23 Tuf), il punto critico di equilibrio tra esigenza di flessibilità conformativa e riserva di legge ha trovato una forma di “mediazione” nel meccanismo giuridico per cui la fonte amministrativa secondaria opera comunque su espressa delega del legislatore. In tale evenienza, l’azione del regolatore appare quantomeno avviata nel solco del principio di legalità, pacifico essendo (in giurisprudenza ed in dottrina) che la natura relativa della riserva di cui agli artt. 41 e 42 Cost., consente (sia pure a date condizioni) di accordare al potere amministrativo la prerogativa di incidere sui diritti di proprietà e di iniziativa economica (la necessaria intermediazione della legge è resa manifesta dal richiamo ad essa contenuto agli artt. 1339 cc e 1374 cc). Il problema è quello di stabilire se la delega possa compendiarsi nella sola attribuzione di competenza amministrativa, ovvero se a ciò debba accompagnarsi un corredo “minimo” di direttrici sostanziali riferite (quantomeno) agli scopi, all’oggetto ed ai presupposti. Quest’ultima soluzione parrebbe necessitata non solo perché l’inserzione automatica di clausole costituisce una restrizione assai significativa del diritto di libertà economica (art. 41 Cost.) di cui è espressione l’autonomia privata.

Sennonché, in alcuni casi, manca addirittura una norma primaria attributiva di analoga delega. Ecco, dunque, come il problema della riserva di legge si “aggrava” in quello ancor più spinoso dell’ammissibilità di poteri amministrativi impliciti. Non è possibile qui soffermarsi a lungo sulla questione se, in capo agli organi preposti alla regolazione, si debbano riconoscere i soli poteri che gli sono espressamente attribuiti dalla legge o, invece, anche quelli non contemplati che siano strumentali al raggiungimento dei fini istituzionali assegnati. La linea interpretativa che ritiene di poter trasformare senza limiti l’enunciazione di scopi in poteri nuovi e innominati di incisione ab externo sul contratto deve essere fermamente respinta. L’art. 1372 cc, nell’attribuire “forza di legge” (con formula linguistica figurata ma espressiva del vincolo di soggezione delle parti) alla manifestazione di volontà sorretta da comune intenzione, esclude la possibilità di modificare “in via amministrativa” l’assetto di interessi stabilito dalle parti, salvo che tale potere non sia previsto dalla legge (art. 1374 cc) ovvero prefigurato nell’accordo stesso; in definitiva, essendo il potere di autoregolamentazione dei privati attribuito dalla legge, la “conformazione amministrativa” del contratto richiede un fondamento normativo avente pari rango nel sistema delle fonti[8]. Opinando diversamente, si pensi soltanto a quanto sarebbe incerta l’individuazione delle sanzioni civilistiche che dovrebbero ricollegarsi alla difformità dei contratti rispetto alle prescrizioni dettate da fonti amministrative non autorizzate.

2.2. Le linee guida Anac tra regolamenti e soft law

Nella nuova disciplina dei contratti pubblici introdotta dal d.lgs 18 aprile 2016, n. 50, il regolamento di esecuzione è stato sostituito da un inedito sistema di disposizioni attuative emanata dall’Anac. Interessa qui soffermarsi su due tipologie di atti.

Le linee guida non vincolanti sono direttive volte ad assistere le stazioni appaltanti nella fase di pianificazione e conduzione delle procedure di gara. Di tali strumenti di normazione flessibile non ne è affatto chiaro il valore giuridico: o si assume che siano del tutto privi di sanzione; oppure (come forse è preferibile) si ritiene che comportino quantomeno un specifico onere di motivazione allorché non si opti per il modello previsto (comply or explain). In quest’ultimo caso, non dovrebbero esserci dubbi sulla loro “impugnabilità”.

Le linee guida a carattere vincolante hanno un significato rilievo pratico[9], ma la loro qualificazione giuridica è del tutto incerta. Il Consiglio di Stato, valorizzando la natura del soggetto emanante, le ha ricondotte alla categoria degli atti di regolazione delle autorità indipendenti[10].

Appare assai improbabile la prospettata demarcazione tra potere “regolatorio” e “regolamentare”. Il processo di elaborazione e aggiustamento delle regole di governo del settore, in cui consiste la regolazione, consta di atti eterogenei sotto il profilo della forza e della efficacia normativa, potendo risultare anche da regolamenti, e non solo da atti amministrativi generali e individuali. Secondo un criterio ampiamente seguito in giurisprudenza, l’atto amministrativo generale si distinguerebbe dal regolamento per il fatto di essere indirizzato a un numero limitato e identificabile di destinatari, quantomeno a posteriori. A questa stregua, le linee guida in esame dovrebbero essere ricondotte nel novero delle fonti secondari atipiche[11], essendo dotate dei caratteri della generalità, astrattezza e novità.

Desta dubbi anche l’affermazione secondo cui l’Anac dovrebbe assimilarsi alle altre autorità di regolazione. Le “procedure di evidenza pubblica” sono strumenti di indirizzo e controllo amministrativo, con i quali si realizza un coordinamento fra attività di diritto privato della pubblica amministrazione e fini pubblici imputati all’amministrazione. La regolazione dei mercati, invece, non funge da canone di comportamento per l’amministrazione, bensì è volta a definire un quadro di regole e valori che devono essere tutelati dai soggetti che operano sul mercato”. È un tipo di azione pubblica che incide sull’economia senza comprimerne i meccanismi spontanei, sul presupposto che i fallimenti di mercato debbano, ove possibili, semplicemente “corretti”, combinando gli elementi positivi della competizione economica con il perseguimento delle istanze sociali.

Le precisazioni svolte sono di assoluto rilievo rispetto al tema della legalità.

La «funzione normativa» dell’Anac si svolge attraverso regolamenti “quasi indipendenti” o “per obiettivi”, in quanto autorizzati da una fonte legislativa, ma svincolati dalla predeterminazione legale del loro contenuto. Inoltre, l’ammissibilità di poteri di produzione normativa in capo a regolatori indipendenti – posti al di fuori del circuito politico rappresentativo e quindi in una condizione di irresponsabilità – è stata in passato giustificata sulla base di elementi non riproducibili in capo all’Anac: l’obbligo di attuare le direttive europee che prevedevano la necessità di regolatori sottratti all’indirizzo politico del Governo; il carattere settoriale e tecnico della regolazione; la specifica copertura costituzionale degli interessi tutelati.

2.3. Atti generali di pianificazione, perequazione e statuto della proprietà

Il fenomeno “perequativo” si articola in una varietà di modelli. In termini essenziali, la perequazione urbanistica opera mediante la distribuzione di coefficienti di edificabilità “virtuali” uniformi in capo a tutti i proprietari dei fondi che si trovino in una area dotata di caratteri omogenei. Si vuole, attraverso tale tecnica, scongiurare la discriminazione derivante dalla diversità di valore esistente tra terreni edificabili e terreni che, pur avendo le medesime caratteristiche, sono assoggettati a vincoli conformativi diversi in ragione di una scelta ampiamente discrezionale della pubblica amministrazione in ordine alla localizzazione effettiva delle volumetrie complessivamente consentite nella zona.

Il corollario principale del piano “perequativo” consiste nel fatto che la dotazione volumetrica viene scorporata dal suolo che l’ha generata, assumendo la forma del “diritto edificatorio”. Tale situazione giuridica soggettiva può essere oggetto di autonoma circolazione prima di “atterrare” su di un fondo-accipiente.

Possono avanzarsi diverse riserve legate al rispetto del principio di legalità. L’istituto non ha trovato ancora una disciplina organica a livello legislativo statale. È previsto soltanto da talune leggi regionali ‒ che, peraltro, neppure indicano la specifica strumentazione ‒ e da alcuni strumenti urbanistici generali.

Il complesso dibattito circa la natura dei diritti in esame (se beni immateriali, nuovi diritti reali tipici, diritti meramente obbligatori, interessi legittimi o aspettative reali) e del negozio giuridico mediante il quale si opera la cessione della potenzialità edificatoria non è arrivato a conclusioni definitive. Non può tuttavia dubitarsi del fatto che il modello perequativo, in difetto di uno statuto generale della proprietà fondiaria dato con legge statale, consente di perseguire effetti, che, in sostanza, realizzano una scissione tra diritto di proprietà e jus aedificandi (ribaltando le conclusioni della sentenza n. 5 del 1980 della Corte costituzionale). Soprattutto con riguardo ai diritti edificatori nascenti dai piani perequativi “compensativi” e “premiali” (dove il diritto edificatorio è creato dalla stessa amministrazione), lo jus aedificandi non appare un attributo “originario” della proprietà dei suoli. Il proprietario acquista dal piano ciò che non è contenuto nel suo entitlement. L’art. 42 Cost., ponendo una riserva di legge sullo statuto della proprietà, imporrebbe invece una precisa definizione normativa dei poteri “perequativi” dell’amministrazione.

L’art. 5 del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70, convertito con la legge 12 luglio 2011, n. 106, ha inserito all’art. 2643, comma 1, cc, il punto 2-bis (estendendo il regime di pubblicità immobiliare ai “contratti che trasferiscono, modificano o costituiscono i diritti edificatori comunque denominati, previsti da normative statali o regionali ovvero da strumenti di pianificazione territoriale”). La disposizione ha regolato la pubblicità della fattispecie, senza tuttavia disciplinare il fenomeno giuridico in sé, ovvero le tecniche pianificatorie che consentano lo scorporo delle volumetrie dalla proprietà dei fondi.

I piani perequativi appaiono, in definitiva, atti generali adottati praeter legem. Il principio di tipicità e nominatività degli strumenti urbanistici dovrebbe precludere all’amministrazione di adottare una figura di piano non corrispondente, per presupposti, competenze, oggetto, funzione ed effetti, a uno schema già prefigurato da una norma primaria dell’ordinamento. Neppure l’attuazione della perequazione con modelli consensuali sembra di per sé sufficiente a superare la necessità della intermediazione della previa legge regolatrice della potestà conformativa della proprietà (in tal senso, tuttavia, si è espressa la quarta sezione del Consiglio di Stato[12], in relazione ad un piano urbanistico che riconosceva al privato un indice di edificabilità che poteva essere incrementato dalla Pa, a fronte di oneri monetari).

3. La legalità “sospesa”: l’amministrazione straordinaria

L’amministrazione “straordinaria” è qui intesa in un senso circoscritto. In particolare, esulano dalla presente riflessione, sia le fattispecie normative che consentono una sospensione temporanea dell’ordine delle competenze, sia gli atti cd. necessitati, consistenti nell’esercizio in via di urgenza di poteri ordinari. 

Interessa, invece, spendere alcune considerazioni sulle cd. ordinanze libere[13], categoria che ha oramai guadagnato una ragguardevole estensione applicativa. Per fare fronte a situazioni non fronteggiabili attraverso procedimenti tipizzati, la legge conferisce a determinate autorità poteri a contenuto indeterminato, non prestabilito dalla legge ma rimesso alla valutazione discrezionale dell’organo amministrativo investito della gestione emergenziale. Nello specifico sottosistema della protezione civile, la fase operativa è preceduta da un procedimento che accerta e dichiara lo stato di emergenza. Nell’esercizio di tali poteri straordinari, le ordinanze possono derogare alla disciplina di fonte primaria.

Sono note e risalenti le discussioni relative alla compatibilità di queste fattispecie con il principio di legalità (in ragion di una così marcata de-tipizzazione) e con l’assetto delle fonti (in quanto si assiste alla sospensione della norma primaria ad opera di una fonte non pariordinata né superiore). La giustificazione di atti formalmente amministrativi, ma sostanzialmente creativi di uno “jus singulare”, ha imposto di aderire ad una nozione di legalità senza dubbio eccentrica rispetto alla sua declinazione originaria e più rigorosa.

La Corte costituzionale – con le sentenze: 2 luglio 1956, n. 8; 27 maggio 1961, n. 26; 14 aprile 1995, n. 127 – ha fissato le seguenti condizioni di “tolleranza”: efficacia limitata nel tempo; adeguata motivazione; rispetto dei principi dell’ordinamento giuridico; divieto di intervenire in materie coperte da riserva di legge assoluta (nelle materie soggette a riserva relativa occorre che la legge delimiti la discrezionalità dell’organo a cui il potere è stato attribuito).

L’analisi empirica rileva che tali condizioni non sono sovente osservate.

L’ampiezza temporale della gestione straordinaria rende sovente stabile l’emergenza e non rispetta il canone della contingibilità[14]. Il presupposto dell’imprevedibilità non è riscontrabile quando la legislazione considera, tra le circostanze che possono dare vita all’esercizio dei poteri di ordinanza, anche fatti di disfunzione amministrativa e di amministrazione complessa[15].

La deroga della fonte primaria coinvolge anche principi generali dell’ordinamento, segnatamente: la regola competitiva in materia di contratti pubblici (di ascendenza comunitaria); il concorso pubblico per l’accesso al pubblico impiego; i canoni del giusto procedimento; il principio per cui i poteri normativi, di pianificazione e programmazione sono rimessi all’organo assembleare.

4. L’autotutela decisoria

Il fondamento dell’autotutela amministrativa, cioè della possibilità di tutelarsi da sé, senza rivolgersi a un giudice, risiede nella particolare rilevanza dell’interesse di cui è portatrice la pubblica amministrazione. Come rilevato in dottrina (Mattarella), l’autotutela amministrativa ha storicamente nei confronti del principio di legalità un atteggiamento ambivalente: è strumento di affermazione della legge e, allo stesso tempo, di privilegio (consistente nel fatto di potere far valere retroattivamente l’illegittimità dei propri atti, sostituendosi al giudice) che deve essere limitato con la legalità.

Recenti riforme hanno inciso sui presupposti per l’esercizio del potere di autotutela decisoria.

L’art. 25, comma 1, lett. b-quater, del dl n. 133/2014, convertito nella legge n. 164/2014, ha modificato l’art. 21-nonies, escludendo la possibilità di procedere ad annullamento d’ufficio nei casi di provvedimenti già non annullabili dal giudice amministrativo nella ricorrenza dei requisiti di cui all’art. 21-octies, comma 2. L’art. 25, comma 1, lett. b-ter, del medesimo decreto ha dettato criteri più rigorosi per l’esercizio del potere di revoca, ex art. 21-quinquies, della legge n. 241/1990[16].

Anche la successiva legge n. 124 del 2015 opera nel segno di una tendenziale riduzione dei poteri discrezionali dell’amministrazione, al fine di garantir certezza e stabilità ai rapporti giuridici dei soggetti la cui azione risulta condizionata dalle decisioni amministrative, anche a scapito dell’interesse alla legittimità dell’attività amministrativa.

Il rafforzamento della tutela dell’affidamento si manifesta con la fissazione di un limite temporale dell’annullamento d’ufficio e nella ridefinizione dei rapporti fra autotutela e Scia (in particolare, con la più rigida perimetrazione dei poteri inibitori e conformativi attribuiti all’amministrazione destinataria della segnalazione).

I recenti svolgimenti normativi hanno una ben precisa valenza sistematica. Si assiste ad un deciso allontanamento dalla tradizionale ricostruzione dell’istituto fondata sull’immanenza ed inesauribilità del potere amministrativo e dall’idea che si tratti di una prerogativa a tutela del solo interesse pubblico che non può essere necessariamente tipizzata. Viene completato il disegno legislativo che nel 2005 aveva operato per una stretta tipizzazione della sola autotutela esecutiva.

5. Legalità e accordi amministrativi

È opportuna una breve riflessione anche sui rapporti tra il principio di legalità e gli accordi procedimentali e sostitutivi (disciplinati dall’art. 11 della legge 241/90), oramai ampiamente sperimentati nella pratica amministrativa. La dottrina e la giurisprudenza sono attestati nel senso che essi non hanno natura di contratti di diritto privato, bensì costituiscono una particolare espressione di potere pubblico “concordato”. Per questo motivo, anche quando si serve del modulo convenzionale, l’azione amministrativa non perde il suo tipico regime di legittimità, né i suoi parametri normativi. Sennonché, non è ancora chiaro quali scostamenti sono consentiti rispetto al modello legale dell’atto unilaterale, che si viene a sostituire.

Il problema è quello di capire se il principio di legalità debba applicarsi nello stesso modo con riguardo all’intero accordo. Ovvero, in alternativa, se sia possibile “isolare” quella parte di contenuto che, costituendo esercizio di autonomia privata, consente di modificare l’assetto di rapporti producibile dal singolo provvedimento amministrativo. Discernere tra esercizio atipico (e quindi illegittimo) del potere amministrativo e lecita espressione del potere di autoregolamentazione dei propri interessi, è assai arduo.

La dottrina che meglio ha approfondito la materia (Greco) esclude, sia che con l’accordo si possa derogare alle componenti procedimentali o sostanziali rigorosamente prefigurate dalla legge (che continuano a costituire parametri di legittimità dell’esercizio del potere anche nel caso di stipulazione di accordi in luogo degli atti unilaterali); sia che si possano introdurre deroghe al modello legale della fattispecie che comportino pregiudizio per i terzi o, comunque, vantaggi per l’altro contraente non previsti dal paradigma normativo. Caute aperture sono, invece, riservate alle clausole che derogano lo schema legale per consentire al privato di assumere gli oneri economici (e ogni altra obbligazione) che l’assetto desiderato dell’esercizio del potere amministrativo comporta.

6. La “fuga” nel diritto privato

Tradizionalmente, la ritenuta assenza di interferenza tra interesse privato ed interesse generale comportava che il diritto privato ed il diritto pubblico fossero studiati come sistemi organici funzionalmente differenziati. A partire dagli anni novanta del secolo scorso, tra le aree del diritto pubblico e del diritto privato, ha cominciato a profilarsi uno spazio di comune incidenza quanto a tecniche e finalità. La “confluenza” di diritto amministrativo e privato nella disciplina dell’attività amministrativa è divenuta oggi regola di diritto positivo, dando luogo ad una inedita interazione di fonti e strumentazioni giuridiche radicate in aree disciplinari da sempre concepite come “non comunicanti”, la cui ricomposizione vede ora la dicotomia “pubblico-privato” esplicarsi (non più all’esterno bensì) all’interno dei rispettivi sistemi giuridici.

L’art. 1, comma 1-bis della legge n. 241/1990, prevede che la pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato. La forza del provvedimento viene riservata soltanto a quanto è funzionalmente necessario. L’impiego del diritto amministrativo diviene la regola per i soli atti dell’amministrazione che limitano la sfera giuridica altrui, senza il consenso del destinatario dell’atto, mentre per gli atti che non sono imperativi, l’amministrazione agisce secondo il diritto privato.

In una prima fase applicativa è sembrato che l’impiego del diritto privato per compiti di amministrazione pubblica dovesse coincidere con un radicale arretramento della legalità amministrativa. La disciplina pubblicistica veniva rappresentata come un ostacolo alla celerità dell’azione amministrativa, la quale, per essere rapida ed efficace, avrebbe dovuto essere svincolata dall’impianto pubblicistico e assumere, invece, le connotazioni tipiche del diritto privato, le cui norme non regolano minuziosamente le modalità di svolgimento dell’azione stessa.

La “riduzione” della sfera del diritto pubblico è stata invece progressivamente accompagnata da misure (introdotte per effetto della resipiscenza del legislatore o, in via ermeneutica, dal giudice) volte a salvaguardare (pur nel contesto della privatizzazione di beni, funzioni o poteri amministrativi) talune garanzie pubblicistiche sostanziali e procedurali, attraverso tecniche alternative di controllo.

In alcuni casi, si è operata una vera e propria riqualificazione in senso pubblicistico di atti e organizzazioni formalmente privatistiche. Si pensi alla nozione sostanziale di organismo di diritto pubblico, che consente di trasfigurare atti di diritto privato in provvedimenti amministrativi, e alla disciplina “antielusiva” cui sono state progressivamente sottoposte le società pubbliche (ivi compreso il regime della responsabilità erariale)[17].

Un’altra direzione è stata quella di impiegare categorie e istituti del diritto privato in modo tale da ottenere risultati più o meno equivalenti a quelli che sarebbero assicurati dal regime pubblicistico (dilatazione della sanzione della nullità; impiego delle clausole generali del diritto civile per ottenere un risultato analogo alla funzionalizzazione pubblicistica[18]; contaminazione della disciplina contrattuale con regole proprie dell’azione amministrativa[19]).

In caso di “esternalizzazione” di funzioni pubbliche, la disciplina pubblicistica deve subire i necessari adattamenti in conseguenza della sua estensione a soggetti (non solo formalmente ma anche) sostanzialmente privati. Ai sensi dell’art. 1, comma 1-ter della l 7 agosto 1990, n. 241 «i soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative assicurano il rispetto dei criteri e dei principi di cui al comma 1, con un livello di garanzia non inferiore a quello cui sono tenute le pubbliche amministrazioni in forza della presente legge». Anche sul piano processuale, l’art. 7, comma 2, d.lgs 2 luglio 2010, n. 104 (Codice del processo amministrativo), prevede che, «per pubbliche amministrazioni, ai fini del presente codice, si intendono anche i soggetti ad esse equiparati o comunque tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo».

È ancora estremamente incerta la portata che, in tali casi, possono assumere i principali istituti di garanzia previsti dalla legge sul procedimento (divieto di aggravio del procedimento, motivazione, figura del responsabile del procedimento, istituti partecipativi, preavviso di rigetto). In un caso recente, la Corte costituzionale ha affermato che l’esternalizzazione della funzione di certificazione comporta l’estensione dell’ambito applicativo dei principi pubblicistici di imparzialità e buon andamento anche ai privati conferitari e ciò, a sua volta, determina e giustifica una limitazione all’autonomia dei privati, che vedono conformata dalla legge la propria struttura organizzativa (sentenza n. 94 del 2013[20]).

7. Legalità e organizzazione

L’iniziale disconoscimento del rilievo intersoggettivo del potere organizzativo implicava la sua sottrazione al principio di legalità. La successiva giuridicizzazione ha comportato per lunghissimo tempo (fra la fine del secolo XIX e l’inizio del secolo XX) l’inclusione dell’organizzazione entro la disciplina provvedimentale. A seguito della privatizzazione e contrattualizzazione del lavoro pubblico, la riserva di legge di cui all’art. 97 Cost. è stata interpretata nel senso di non implicare una riserva di atti a regime pubblicistico. L’imparzialità ed il buon andamento possono essere assicurati anche senza il ricorso ad un sistema “analitico”, imperniato cioè sulla conformità del singolo atto alla legge.

Le principali fonti primarie dell’organizzazione statale (il d.lgs n. 300/1999 e il d.lgs n. 165/2001) tratteggiano l’apparato strumentale solo in termini di principi generali, senza scendere al di sotto degli uffici di vertice, per quanto anche quelli sotto ordinati (divisioni e sezioni) emanino atti a sicura rilevanza esterna. La restante gran parte della organizzazione (anche degli uffici i cui effetti si riverberano all’esterno) sono retti da fonti secondarie e da atti non normativi.

A dispetto della tradizionale lettura dell’art. 97 Cost. (secondo cui sarebbe riservato alla legge la disciplina degli uffici di maggiore rilevanza, competenti ad esprimere all’esterno la volontà dell’ente), le fonti del potere di organizzazione sono articolate su più livelli: atti normativi (leggi, regolamenti), atti non normativi (provvedimenti amministrativi) e, finanche, atti negoziali (atti di gestione del datore pubblico). La recessività del concetto classico di competenza, intesa come predeterminazione normativa certa e stabile della regola di distribuzione dei compiti, delle aree di intervento e dei poteri degli organi, si giustifica per il fatto che la sua fissazione con atto normativo è avvertita come ostacolo allo svolgimento delle attività piuttosto che come garanzia di legalità. Degradazione delle fonti (tre ordini decrescenti di fonti pubblicistiche) e marcata delegificazione (distribuzione dei compiti tramite atti privatistici) rispondono all’esigenza di una organizzazione più flessibile e dinamica.

L’art. 2, comma 1, d.lgs n. 165/2001, rimettendo alle disposizione di legge (peraltro limitatamente alla definizione di principi generali) soltanto le linee fondamentali di organizzazione degli uffici di maggior rilevanza, aveva collocato il discrimine tra ordinamento pubblicistico e privatistico non più in corrispondenza della (peraltro, già difficoltosa) demarcazione tra organizzazione degli uffici e gestione del rapporto ma sul crinale più sottile che distingue l’organizzazione degli uffici esterni (macro) da quella degli uffici interni (micro).  La riforma del 2009 (d.lgs n. 150/2009) ha fatto registrare una marcata inversione di tendenza: la legge sottrae nuovamente spazio alla contrattazione collettiva per affidare un ruolo crescente alle fonti unilaterali nella disciplina del rapporto di lavoro. Questa “ricentralizzazione” normativa propende verso un modello di lavoro pubblico sottoposto (nei suoi aspetti più qualificanti) ad una disciplina di settore inderogabile dall’autonomia privata. Il contingentamento degli spazi operativi della disciplina contrattuale del rapporto di lavoro si manifesta in molteplici disposizioni. Il legislatore “rilegifica” una serie di materie per sottrarle alla contrattazione collettiva: si tratta non soltanto degli istituti di confine tra lavoro ed organizzazione (come i principi generali sulla valutazione), ma anche taluni contenuti propri della relazione intersoggettiva (sanzioni disciplinari, premialità, anticipazione dei benefici economici nel caso di ritardi nel rinnovo, progressione in carriera). La ridefinizione dei confini tra materie riservate alla legge, alle fonti unilaterali pubblicistiche e alla contrattazione collettiva, trova fondamento nell’intenzione di scongiurare quelle forme ambigue di cogestione sindacale (si pensi alle progressioni interne) che erano state consentite, specie a livello decentrato, dalla cronica debolezza del datore pubblico.

La regolazione per via legislativa del rapporto di lavoro non coincide, tuttavia, con la ri-pubblicizzazione del regime giuridico. La riserva di disciplina legislativa esprime, piuttosto, la volontà di incidere sulle modalità di esercizio del potere privatistico del datore di lavoro, nella direzione della “unilaterializzazione” degli istituti, tanto sul piano normativo, quanto su quello gestionale, ma muovendosi pur sempre nel sistema di diritto privato. Viene meno il precedente parallelismo tra area “privatizzata” e area “contrattualizzata” del rapporto di lavoro pubblico, in base al quale, per l’appunto, la contrattazione collettiva doveva svolgersi su tutte le materie privatizzate relative al rapporto di lavoro e alle relazioni sindacali.

L’erosione dei caratteri della specialità pubblicistica e la propensione dell’ordinamento alla libertà formale al fine di incrementare efficienza e standard qualitativi (esigenza quest’ultima ritenuta oggi prevalente sulla predeterminazione imparziale delle regole organizzative), impone di verificare quali siano le ricadute effettive dell’utilizzo del diritto privato all’interno dell’organizzazione degli uffici e del personale.

Secondo una prima impostazione, sia l’organizzazione “alta” (in regime di diritto pubblico), sia l’organizzazione “bassa” (in regime di diritto privato) sarebbero vincolate nel fine alla soddisfazione del pubblico interesse. Cambierebbe radicalmente, però il modo in cui l’ordinamento monitora e garantisce il conseguimento del fine pubblico. Nel caso del potere organizzativo in regime di diritto pubblico, lo strumento sarebbe la “funzionalizzazione” del potere (espressione che indica una attività che l’ordinamento considera giuridicamente rilevanti in tutti i passaggi e singoli atti). Nel caso del potere organizzativo in regime di diritto privato, invece, l’ordinamento non appresta alcuna “funzionalizzazione”, cioè non prevede né la rilevanza giuridica di ogni singolo atto né un controllo analitico. A tutela della “finalizzazione” all’interesse generale sarebbe sufficiente, nel caso del potere organizzativo in regime privatistico, un controllo sintetico e riferito al solo risultato complessivo dell’attività o di singole fasi intermedie dell’attività.

Altra impostazione sostiene, invece, la necessità dell’assoggettamento anche degli atti privatistici di organizzazione e gestione a vincoli funzionali, i quali vengono in considerazione, non solo in termini di responsabilità, ma anche di validità dell’atto. La Corte di cassazione, pur confermando la natura privatistica degli atti di conferimento e revoca degli incarichi dirigenziali e la conseguente inapplicabilità delle norme della l. n. 241/1990, ha ritenuto che l’obbligo del datore di lavoro di esercitare i suoi poteri secondo correttezza e buona fede richieda comunque una «procedimentalizzazione» dell’esercizio del potere di conferimento degli incarichi, «obbligando a valutazioni anche comparative, a consentire forme adeguate di partecipazione ai processi decisionali, ad esternare le ragioni giustificatrici delle scelte»[21]. Anche la Corte Costituzionale, riferendosi alla fase anteriore alla scadenza dell’incarico, ha affermato la necessità che alcune garanzie minime, in ordine all’esercizio del potere di conferimento e revoca degli incarichi dirigenziali, siano rispettate indipendentemente dalla qualificazione, di diritto pubblico o privato, degli atti che sono espressione di tale potere (Corte cost. n. 103 del 2007).

8. Principio di legalità e pluralismo autonomistico: i regolamenti comunali

Lo studio del potere regolamentare dei Comuni rende evidente il legame eccentrico tra la legge e il principio autonomia politico-istituzionale locale.

In epoca pre-costituzionale, l’amministrazione locale è stata fatta oggetto di una disciplina pervasiva da parte della legge. Gli enti locali, anche quando politicamente rappresentativi, si consideravano come enti preposti alla cura di finalità e funzioni statali (autarchici). Il disegno tracciato dagli artt. 5 e 128 della Costituzione è rimasto privo di attuazione per molti anni. Soltanto a partire dagli anni novanta del secolo scorso[22], sono stati progressivamente rimossi i vincoli impropri apposti all’autonomia locale, restituendole i dovuti spazi normativi. La riforma del 2001 ha costituzionalizzato tanto la potestà statutaria degli enti locali (art. 114, comma secondo), quanto la loro potestà regolamentare «in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite» (art. 117, comma sesto).

I regolamenti organizzativi si pongono oggi in un rapporto di “competenza” con la legge[23].

Anche i regolamenti di polizia urbana, di igiene, edilizi ed urbanistici, di uso dei beni demaniali, di regolazione delle attività economiche in ambito comunale, non si connotano per un rapporto di specificazione della legge, in quanto si spingono a regolare situazioni e rapporti caratterizzati dall’assenza di una previa disciplina legislativa. In quanto “conformativi” dell’iniziativa economica e del diritto di proprietà, dovrebbero a rigore essere armonizzaticon le riserve di legge di cui agli artt. 41, comma secondo, e 42, comma secondo, Cost.).

9. Il principio di legalità nell’amministrazione per risultati

La formula “amministrazione per risultati” (o “legalità di risultato”) descrive un modello di azione pubblica rilevante nella sua unità teleologica, in contrapposizione alla amministrazione “per atti”, scissa in una serie di atti puntuali ed episodici.

Il cambio di paradigma può farsi risalire a due sopravvenienze normative.

Il principio di separazione tra amministrazione e politica, codificato dalle riforme sul pubblico impiego degli anni novanta, ha reso necessario ricomporre la scissione fra attività di indirizzo politico e attività di gestione, attraverso la predisposizione di un nuovo sistemi di controlli. Nella responsabilità dirigenziale, il “risultato” ispira la valutazione dell’attività complessiva del dirigente pubblico, attraverso l’impiego di criteri diversi da quelli che si utilizzano per valutare la legittimità del singolo atto amministrativo. Nel nuovo regime dei controlli “di” e “sulla” gestione, viene superata la tradizionale identificazione tra amministrazione legale ed amministrazione efficiente. L’attività, tuttavia, assume rilevanza giuridica secondo parametri diversi dalla legittimità: la liceità, l’opportunità, l’efficienza, l’efficacia, l’economicità.

Un altro ambito in cui la “legalità di risultato” sembra fare premio sulla legalità “formale” riguarda la teoria del provvedimento amministrativo, il regime della cui validità si vorrebbe riconfigurare attraverso l’introduzione del “risultato” tra i parametri di qualificazione giuridica. Il principale punto di emersione nel diritto positivo è contenuto nella legge sul procedimento amministrativo n. 241 del 1990. L’art. 21-octies, comma 2, esclude, a date condizioni, l’annullabilità di provvedimenti privi di “vizi sostanziali”, anche se affetti, non da tutti, ma soltanto da alcuni “vizi formali”, attinenti al procedimento e alla forma degli atti. Sulla interpretazione della norma si sono manifestate incertezze di vario tipo, principalmente: se le norme di cui si parla debbano essere considerate di natura sostanziale o piuttosto di natura processuale e se l’esclusione della annullabilità del provvedimento implichi la sua qualificazione come legittimo.

Il fondamento di tale disposizione è stato correttamente identificato (Sorace) nei principi di ragionevolezza e proporzionalità che sarebbero violati se non si conservassero provvedimenti che, pur divergenti rispetto al diritto positivo, non avrebbe potuto essere legittimamente diversi. I paventati dubbi di costituzionalità non appaiono fondati: il terzo comma dell’art. 113 Cost., rimettendo alla legge di prevedere in quali casi e con quali effetti gli organi giurisdizionali possano annullare gli atti delle pubbliche amministrazioni, può essere interpretato anche come riconoscimento della non indefettibilità costituzionale della vanificazione di tutti gli atti illegittimi.

10. Il principio di legalità nel campo delle sanzioni amministrative

La dottrina e la giurisprudenza hanno codificato, nell’ambito delle misure amministrative ad effetti limitativi della sfera giuridica, una netta cesura (non solo tipologica ma finanche) sistematica tra sanzione “in senso stretto” e sanzione “in senso lato”, assegnando alle due categorie di sanzioni un diversificato apparato di garanzie sostanziali, procedimentali e giurisdizionali. a sanzione in senso stretto, ovvero la sanzione pecuniaria disciplinata dalla legge n. 689 del 1981, costituisce reazione dell’ordinamento alla violazione di un precetto cui è estranea qualunque finalità ripristinatoria o risarcitoria ed è inflitta nell’esercizio di un potere equivalente a quello del giudice penale. A questa stregua, la commisurazione della misura afflittiva avviene attraverso un potere «ontologicamente diverso dalla discrezionalità amministrativa che presuppone una ponderazione di interessi», atteso che «l’ampio margine di apprezzamento lasciato dalla legge all’amministrazione» dovrebbe essere «esclusivamente utilizzato per adeguare la sanzione alla gravità della violazione commessa ed alle condizioni soggettive dell’autore, restando escluso ogni giudizio di valore sugli interessi amministrativi tutelati dalla norma sanzionatoria» (Cass., sez. I, 14 novembre 1992, n. 12240 e Cass., sez. I, 15 dicembre 1992, n. 13246). Sul piano delle situazione giuridiche soggettive, tale discrezionalità “giudiziale” (esercitata cioè sulla base di criteri diversi, che prescindono dalla valutazione di qualsiasi interesse pubblico) fronteggia posizioni di diritto soggettivo alla “integrità patrimoniale”. Sotto altro profilo, la sanzione in “senso stretto” è irrogata tramite un procedimento assai più rispettoso del contraddittorio di quello generale previsto dalla legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), è garantita dai principi di legalità, personalità e colpevolezza (per quanto mutuati dalla legislazione ordinaria e non dalla Costituzione), è suscettibile di integrale riesame giudiziale (senza, cioè, alcun limite di “merito” amministrativo). Sull’altro versante, le residue sanzioni (“senso lato”) non ricomprese nella species appena delineata, alle quali si riconducono tradizionalmente le “sanzioni ripristinatorie” ed interdittive (ove non meramente accessorie alle sanzioni amministrative in senso stretto, altrimenti rientrando nella disciplina di cui all’art. 20, legge n. 689 del 1981), costituiscono una manifestazione tipica di potere amministrativo autoritativo, in relazione al quale il cittadino versa in una posizione di interesse legittimo, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo. A tali sanzioni “altre” si applicano i principi dell’attività amministrativa tradizionale (dettate dalla legge generale sul procedimento amministrativo), pure quando esse abbiamo carattere marcatamente punitivo.

La nozione di sanzione amministrativa (di per sé considerata, a prescindere quindi dall’individuazione dell’ambito di applicazione della legge n. 689 del 1981) è tornata negli ultimi anni al centro delle riflessioni degli interpreti. La riemersione della esigenza definitoria, in particolare, è riconducibile al progressivo consolidamento della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale ha imposto un radicale ripensamento delle garanzie connesse al principio di legalità e delle tutele procedimentali e giurisdizionali.

Il punto di partenza dell’indirizzo giurisprudenziale dei giudici di Strasburgo è che la Convenzione consente agli Stati di stabilire essi stessi il discrimine tra sanzione penale e misure afflittive non aventi natura penale. Poiché, però, dalla attribuzione del carattere penale ad una misura sanzionatoria discende l’applicabilità delle disposizioni di cui agli artt. 6, III paragrafo, e 7 della Convenzione, sull’inquadramento interno all’ordinamento giuridico delle sanzioni come penali o non penali hanno giurisdizione i giudici di Strasburgo. La nozione “sostanziale” enucleata dalla Corte di Strasburgo comporta l’applicazione di garanzie molto significative (il diritto al giusto processo in materia civile e penale, di cui all’art. 6; l’applicazione del principio nulla poena sine lege, di cui all’art. 7, e del principio ne bis in idem, ai sensi dell’art. 4, par. 1, del Protocollo n. 7) anche per l’emanazione di provvedimenti sfavorevoli che, pur senza essere qualificabili come sanzioni amministrative secondo i canoni tradizionali, incidono negativamente sulla sfera del destinatario. Mentre tali garanzie si considerano limitate, nell’ordinamento interno, al solo ambito di applicazione della legge n. 689 del 1981. Torna così ad essere controversa soprattutto la natura dei provvedimenti sfavorevoli a carattere non pecuniario, tra cui le misure interdittive, ovvero quelle che comportano la perdita dei requisiti necessari per svolgere una certa attività o per mantenere un certo status.

A questo punto, occorre passare velocemente in rassegna gli snodi principali della giurisprudenza Cedu sui limiti relativi agli effetti retroattivi delle sanzioni ai sensi dell’art. 7 Cedu, la cui applicabilità presuppone l’utilizzo di autonomi criteri di qualificazione elaborati dalla stessa giurisprudenza europea per la definizione di materia penale, accusa penale, reato e pena. Sin dal 1976, la Corte di Strasburgo ha enunciato tre criteri o figure sintomatiche della sanzione penale (i cosiddetti criteri Engel):

  • la qualificazione dell’illecito operata dal diritto nazionale;
  • la natura della sanzione, alla luce della sua funzione punitiva-deterrente;
  • la severità, ovvero la gravità del sacrificio imposto.

 

Per la Corte è sufficiente che ricorra anche una sola di tali circostanze, perché la sanzione vada qualificata come “penale”[24]. La qualificazione formale che una data sanzione riceva nell’ordinamento di appartenenza non riveste valore determinante, bastando che la sanzione sia penale per natura ovvero dotata di una relativa severità. La qualificazione formale interna, invece, assume valore vincolante, ai fini convenzionali, soltanto in senso «estensivo», per affermare cioè l’applicabilità dell’art. 6 Cedu, anche nelle ipotesi in cui non siano integrati gli altri due requisiti sostanziali affermati dai giudici di Strasburgo.

Il criterio formale deve essere integrato sia alla luce dell’esame della natura dell’infrazione, da compiersi avendo riguardo all’interesse tutelato dall’ordinamento (che deve essere di carattere generale) nonché allo scopo perseguito dal legislatore (il quale deve avere una finalità di deterrenza generale o speciale); sia dalla valutazione della gravità della sanzione (che deve incidere in modo rilevante su diritti fondamentali). Come ribadito da ultimo nella sentenza Grande Stevens (§ 94), «questi criteri sono peraltro alternativi e non cumulativi».

L’aspetto particolarmente rilevante, ai nostri fini, è che il concetto di sanzione penale rilevante ai fini Cedu non sembra comportare alcuna incompatibilità funzionale tra l’infliggere una punizione a fini retributivi e di deterrenza e la cura dell’interesse pubblico. All’interno della sanzione ben possono coesistere finalità afflittive-dissuasive e (contemporaneamente) di ripristino della lesione subita dall’interesse pubblico. Proprio a fronte degli argomenti difensivi che miravano a sostenere la natura sostanzialmente amministrativa delle sanzioni in quanto dirette alla tutela dell’interesse pubblico e non a imporre una afflizione, la Corte di Strasburgo ha replicato più volte che la specifica preordinazione dei provvedimenti sanzionatori a tutelare un dato interesse pubblico non è affatto incompatibile con un carattere penalistico-punitivo[25]. A questa stregua, la giurisprudenza della Corte europea ha qualificato in termini penalistici e ritenuto in contrasto con l’art. 7 della Convenzione, attesa la loro indubbia gravità e nonostante il carattere ripristinatorio: la confisca per equivalente[26], la confisca per lottizzazione abusiva prevista dalla legislazione urbanistica[27]; il provvedimento amministrativo di annullamento di punti della patente, in conseguenza di illeciti stradali[28]; l’ordine di demolizione di un immobile abusivo[29]; il procedimento di “lustrazione” previsto in Polonia, comportante interdizione dall’accesso a pubblici uffici[30]; le sanzioni interdittive e pecuniarie irrogate in Francia dalla Commissione bancaria[31].

La giurisprudenza Cedu, sopra sinteticamente riportata, ha indotto i giudici nazionali a irrigidire il proprio controllo sul rispetto del principio di irretroattività. La sentenza della Corte costituzionale n. 196 del 2010, muovendo dal riconoscimento della natura sanzionatoria della confisca del veicolo utilizzato dal conducente responsabile del reato di guida in stato di ebbrezza, ha ritenuto contrastante con l’art. 7 Cedu l’applicabilità retroattiva della misura, facendo proprio il descritto approccio “sostanzialistico” al tema delle sanzioni e della loro retroattività[32]. La Corte, in particolare, ha affermato che dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo formatasi sull’interpretazione degli artt. 6 e 7 della Cedu, si ricava «il principio secondo il quale tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto». Detto principio è peraltro desumibile anche dall’art. 25, secondo comma, Cost., «il quale – data l’ampiezza della sua formulazione («Nessuno può essere punito [...]») – può essere interpretato nel senso che ogni intervento sanzionatorio, il quale non abbia prevalentemente la funzione di prevenzione criminale (e quindi non sia riconducibile in senso stretto a vere e proprie misure di sicurezza), è applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti già vigente al momento della commissione del fatto sanzionato»[33]. L’estensione dell’ambito di applicazione dell’art. 25 Cost. è stata operata, sulla scorta delle medesime argomentazioni, anche dalla sentenza della Corte n. 104 del 2014 (in tema di sanzioni amministrative pecuniarie per violazioni della disciplina sul commercio) e dalla successiva sentenza n. 276 del 2016 (in tema di incandidabilità)[34].

11. Legalità e diritto sovranazionale

Il ridimensionamento del principio di legalità, inteso come soggezione dell’amministrazione alla legge dello Stato, è correlato anche al venir meno della “insularità” del diritto amministrativo. Il primato della legge formale dello Stato è contraddetto dal fatto che la legge dello Stato è subordinata al rispetto del diritto europeo e può essere disapplicata, in caso di contrasto, dalle stesse amministrazioni. Le autorità amministrative degli Stati membri dell’Unione europea sono soggette agli indirizzi politici e alla giurisdizione dei competenti organi sovranazionali.

Il diritto sovranazionale opera, tuttavia, anche nella direzione del rafforzamento del principio di legalità, come insegna la vicenda dell’occupazione acquisitiva, la quale (con due sentenze della Corte Edu del 30 maggio 2000) è stata ritenuta in contrasto con il principio di legalità (per la fonte giurisprudenziale della regola) e con i connessi principi della chiarezza, intelligibilità e prevedibilità della regola di diritto.

12. L’estremo confine della legalità: l’atto politico

Una recente sentenza della Corte costituzionale suggerisce di dedicare alcune righe anche alla discussa categoria dell’atto politico. La giurisprudenza amministrativa è giunta ad approdi tendenzialmente stabili, che hanno ridimensionato la rilevanza della categoria ai soli “rapporti internazionali e agli “atti costituzionali”, ingrossando (in direzione inversamente proporzionale) la nozione degli atti di alta amministrazione. L’esegesi restrittiva dell’art. 7 cpa – fondata sull’art. 113 Cost., il quale riferisce la garanzia giurisdizionale agli “atti della pubblica amministrazione”, e non già agli atti amministrativi “in senso stretto” – è stata ulteriormente rafforzata dal principio di effettività della tutela (art. 1 cpa e art. 6 Cedu).

Quanto ai criteri identificativi dell’atto politico, la giurisprudenza talvolta sembra ispirarsi alla tesi del “movente”: in particolare, quando afferma che deve trattarsi di atto emanato dal governo nell’esercizio di un potere politico riguardante «la costituzione, la salvaguardia o il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione».

Altre volte pare ispirarsi alla teoria “negativa”, ovvero all’idea che gli atti politici non presentano delle peculiarità intrinseche, ma semplicemente sono atti rispetto ai quali non è possibile il sindacato giurisdizionale, in quanti liberi nella scelta dei fini, mentre gli atti amministrativi, anche quando sono espressione di ampia discrezionalità, sono comunque legati ai fini posti dalla legge: la nozione di atto politico trova quindi il proprio limite nella predeterminazione normativa della fattispecie[35].

La recente sentenza n. 52 del 2016 risolve favore del Governo la questione se la richiesta (nella specie, avanzata dalla Unione degli Atei e degli Agnostici  Razionalisti) di avviare le trattative per l’intesa ex art. 8, comma terzo, Cost., costituisca o meno una “pretesa” giustiziabile.

Contraddicendo le sezioni unite della Corte di cassazione (sent. 16305 del 2013), la Corte afferma che «anche [nel]l’individuazione, in concreto, dell’interlocutore […] hanno peso decisivo delicati apprezzamenti di opportunità». Tale statuizione, che finisce per subordinare un diritto fondamentale della minoranza all’insindacabile apprezzamento della maggioranza di governo, suscita alcune riserve per la dilatazione del politicamente riservato che ne consegue. La qualificazione giuridica dell’istante in termini di confessione religiosa non appare diversa dalla comune attività interpretativa che il giudice deve impiegare in presenza di una fattispecie normativa che contempli tra i suoi elementi un concetto giuridicamente indeterminato.

La Corte avverte che, in futuro, potrebbe giungersi a diverse conclusioni «se il legislatore decidesse, nella sua discrezionalità, di introdurre una compiuta regolazione del procedimento di stipulazione delle intese, recante parametri oggettivi, idonei a guidare il Governo nella scelta dell’interlocutore». Può, tuttavia, replicarsi che a delimitare la discrezionalità del Governo stavano già le norme che disciplinano il giusto procedimento amministrativo.

La sentenza afferma che «un’autonoma pretesa giustiziabile all’avvio delle trattative non è configurabile proprio alla luce della non configurabilità di una pretesa soggettiva alla conclusione positiva di esse». Sennonché, nel regimo di diritto amministrativo, la legalità procedimentale deve essere osservata (forse con maggiore fondamento) anche quando l’istanza avanzata dal cittadino non sia a “risultato garantito”.

Conclusioni

Gli spunti raccolti rendono ragione del conclamato indebolimento strutturale della legge quale strumento di coordinamento e indirizzo degli apparati amministrativi funzionalmente diversificati e multiformi. L’evoluzione della tecnica, le politiche di liberalizzazione, le nuove istituzioni di regolazione, la perdita di centralità dello Stato rispetto alle istituzioni europee, hanno mutato in profondità la relazione tra autorità, società e diritto pubblico. Il principio di legalità appare oramai distante dall’archetipo secondo cui ogni manifestazione dei pubblici poteri deve trovare la sua base e il suo limite (formale e sostanziale) nella legge dello Stato. In importanti settori della vita economica e sociale, l’ordinamento predilige forme fluide di “indirizzamento” alla realizzazione di valori e principi, e non comandi rigidamente positivizzati.

Esiste un rapporto di intima connessione e, allo stesso tempo, di perenne contraddizione tra il concetto di legalità e quello di discrezionalità amministrativa. Nella prima metà del diciannovesimo secolo, la «discrezionalità» ancora designava gli atti dell’amministrazione del tutto sottratti al sindacato giurisdizionale. L’affermazione del principio di legalità ha supportato l’edificazione dogmatica del potere amministrativo e delle sue garanzie, attraverso la prefissione normativa dei suoi limiti. Nel contesto di tale costruzione, gli ineliminabili spazi di valutazione discrezionale dell’amministrazione hanno trovato giustificazione nella declinazione politico-rappresentativa della sovranità (la quale promana nei pubblici poteri attraverso la rappresentanza politica e la legittimazione democratica dell’autorità). Tale modello entra in crisi nel momento in cui alle autorità amministrative è sempre più spesso conferito il potere di partecipare al processo di articolazione e di progressiva concretizzazione del precetto astratto, mediante attività normativa e di programmazione.

Tradizionalmente si afferma che, (almeno) nei settori di attività che la costituzione riserva alla legge, il principio di legalità risulta rafforzato in senso “sostanziale” (nel senso di postulare sia il fondamento legislativo dei poteri conferiti all’amministrazione, sia l’apposizione di limiti contenutistici alla sua azione). Ciò in quanto la riserva di legge, nel regolare i rapporti fra le fonti, restringe la discrezionalità della pubblica amministrazione nell’esecuzione della legge. Sennonché, l’analisi rivela come, anche in tali settori, le nuovi «sedi tecniche» di regolazione esercitano poteri (normativi e autoritativi) fondati su previsioni spesso generiche ovvero implicite[36].

Secondo una tesi[37], il principio di legalità starebbe lentamente lasciando il posto ad un più duttile principio di necessaria predeterminazione normativa dell’attività amministrativa, alla cui stregua l’adozione di misure concrete deve essere preceduta dalla formulazione di criteri generali ed astratti. La “legalità” sarebbe soddisfatta anche da fonti subprimarie, in quanto comprensiva di tutto ciò che la concreta attività amministrativa deve rispettare. Così riconfigurato, il principio di legalità non troverebbe più fondamento nell’esigenza democratica di assoggettare l’amministrazione pubblica all’indirizzo politico delle assemblee politiche rappresentative, bensì avrebbe esclusivamente la funzione di garantire l’imparzialità dell’azione concreta delle amministrazioni pubbliche, sottoponendola a regole generali ed astratte preventivamente stabilite ed universalmente conoscibili.

Nota bibliografica

Sul principio di legalità amministrativa

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Sull’attività amministrativa di diritto privato

Marzuoli, Principio di legalità e attività di diritto privato della pubblica amministrazione, Milano, 1982; Sorace, Diritto delle amministrazioni pubbliche, Bologna, 2014; Piazza, La disciplina dell’attività amministrativa di soggetti privati tra autonomia organizzativa e garanzie degli amministrati, in Dir. Amm., 2015, p. 541.

Sulla legalità di «risultato» dell’azione amministrativa

Iannotta, La considerazione del risultato nel giudizio amministrativo: dall’interesse legittimo al buon diritto, in Dir. proc. amm., 1988, pp. 299 ss.; Id., Previsione e realizzazione del risultato nella pubblica amministrazione, in Dir. amm., 1999, pp. 57 ss.; Spasiano, Spunti di riflessione in ordine al rapporto tra organizzazione pubblica e principio di legalità: la "regola del caso", ivi, 2000, pp. 131 ss.; Immordino e Police (a cura di), Principio di legalità e amministrazione di risultati (Atti del Convegno di Palermo, 27-28 febbraio 2003), Torino, 2004.

Sui rapporti tra regolazione e autonomia privata

Merusi, in L’autonomia privata e le autorità indipendenti, a cura di Gitti, Bologna, 2006, p. 45; Simeoli, Contratto e potere regolatorio (rapporti tra), (voce) inDigesto delle discipline privatistiche, 2014.

Sull’autotutela

Mattarella, Autotutela amministrativa e principio di legalità, in Il principio di legalità nel diritto amministrativo che cambia, Atti del LIII Convegno di Studi di Scienza dell’amministrazione, Milano, 2008, pp. 305-306; Macchia, Sui poteri di autotutela: una riforma in senso giustiziale, in Giorn. dir. amm., 2015, pp. 634 ss.; Francario, Autotutela amministrativa e principio di legalità (nota a margine dell’art. 6 della l. 7 agosto 2015, n. 124), in Federalismi, n. 20 del 2015.

Sugli accordi amministrativi

Greco, Accordi amministrativi tra provvedimento e contratto, Torino, 2003; Greco, Accordi amministrativi e principio di legalità, in Convegno di studi di scienza dell’amministrazione, Principio di legalità nel diritto amministrativo che cambia, Milano, 2008, pp. 429-446.

Su autonomie locali e principio di legalità

Pastori, Principio di legalità e autonomie locali, in Convegno di studi di scienza dell’amministrazione, Principio di legalità nel diritto amministrativo che cambia, Milano, 2008, pp. 267-286; Travi, Giurisprudenza amministrativa e principio di legalità, in Dir. Pubbl., 1995, p. 121; Romano, Regolamenti dei Comuni, in Digesto discipline pubblicistiche, 2015.

Sul rapporto fra l’amministrazione nazionale e l’ordinamento europeo

A. Romano, Amministrazione, principio di legalità e ordinamenti giuridici, in Dir. amm., 1999, p. 137 ss.

Su organizzazione e lavoro pubblico

Cerbo, Il potere di organizzazione della pubblica amministrazione fra legalità e autonomia, in Convegno di studi di scienza dell’amministrazione, Principio di legalità nel diritto amministrativo che cambia, Milano, 2008, pp. 507-540; Cerbo, Potere organizzativo e modello imprenditoriale nella pubblica amministrazione, Padova, 2007; Pioggia, Giudice e funzione amministrativa, Padova, 2004; Sgroi, Dalla contrattualizzazione dell’impiego all’organizzazione privatistica dei pubblici uffici, Torino, 2006.

Sull’atto politico

Tropea, Genealogia, comparazione e decostruzione di un problema ancora aperto: l’atto politico,  Dir. amm., 3, 2012, pp. 329 ss.; Ruggeri, Confessioni religiose e intese tra iurisdictio e gubernaculum, ovverosia l’abnorme dilatazione dell’area delle decisioni politiche non giustiziabili (a prima lettura di Corte cost. n. 52 del 2016, in Federalismi.it,n. 7/2016.

Sulle sanzioni amministrative

Cerbo, Le sanzioni amministrative, in AA.VV. (a cura di Cassese), Trattato di diritto amministrativo, Parte speciale, vol. I, Milano, 2003, II ed., pp. 585 ss.; Zanobini, Le sanzioni amministrative, Torino, 1924, 51 ss.; Cfr. Benvenuti, Le sanzioni amministrative come mezzo dell’azione amministrativa, in AA.VV. (a cura di U. Pototschnig), Le sanzioni amministrative, Atti del XXVI Convegno di scienza dell’amministrazione (Varenna 1980), Milano, 1982, 33 ss.; Paliero-Travi, La sanzione amministrativa, Milano, 1988, p. 311; M.A. Sandulli, Le sanzioni amministrative pecuniarie, Napoli, 1983; Travi - Enrico Paliero, Voce Sanzioni amministrative, in Enc. dir., vol. XLI, Milano, 1989, pp. 345 ss.; Goisis, Discrezionalità ed autoritatività nelle sanzioni amministrative pecuniarie, tra tradizionali preoccupazioni di sistema e nuove prospettive di diritto europeo, in Rivista dir. comunitario, 2013, pp. 79 ss. Allena, Art. 6 Cedu. Procedimento e processo amministrativo, Napoli, 2012; Goisis, Un’analisi critica delle tutele procedimentali e giurisdizionali attraverso la potestà sanzionatoria delle Pubblica Amministrazione, alla luce dei principi dell’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. Il caso delle sanzioni per pratiche commerciali scorrette, in Dir. proc. amm., 2013, 669 ss.; Goisis, Nuove prospettive per il principio di legalità in materia sanzionatoria-amministrativa: gli obblighi discendenti dall’art. 7 Cedu, in Foro amm.-Tar, 2013, pp. 1228 ss.

Sui diritti edificatori

Trapani, I diritti edificatori, in Riv. notariato, 4, 2012, p. 775; Graziosi, Figure poliforme di perequazione urbanistica e principio di legalità, in Rivista giur. edil., 2007, II, p. 150; Bartolini, I diritti edificatori in funzione premiale; Sabbato, La perequazione urbanistica, in www.giustizia-amministrativa.it; Boscolo, La perequazione da semplificare, in Riv. giur. urb., 2012, p. 50, nota 16.

Sull’amministrazione dell’emergenza

Marzuoli, Il diritto amministrativo dell’emergenza: fonti e poteri, in Annuario Aipda, Il diritto amministrativo dell’emergenza, Milano, 2005, pp. 5 ss.; Cavallo Perin, Il diritto amministrativo e l’emergenza derivante da cause e fattori esterni all’amministrazione, in Annuario Aipda, Il diritto amministrativo dell’emergenza, cit., pp. 31 ss.; Fioritto, L’amministrazione dell’emergenza tra autorità e garanzie, Bologna, 2008; Cerulli Irelli, Principio di legalità e poteri straordinari dell’amministrazione, in Dir. pubb., 2007, pp. 345 ss.; Ferrara, Potere di ordinanza fra necessità e legalità: la «storia infinita» delle tutele ambientali extra ordinem, in Foro amm.-Tar, 2007, pp. 2910 ss.; Giannini, Potere di ordinanza e atti necessitati, in Scritti, Milano, II, 2002, pp. 949 ss.; Morbidelli, Delle ordinanze libere a natura normativa, in Dir. Amm., 2016, pp. 33 ss.

Sulle fonti amministrative

Sorrentino, Le fonti del diritto amministrativo, in Santaniello (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, XXXV, Padova, 2004, pp. 262-263; Padula, Considerazioni in tema di fonti statali secondarie atipiche, in diritto pubblico 1-2/2010; Deodato, Linee giuda dell’Anac: una nuova fonte del diritto?, in Giust. amm., 2016; Mazzamuto, L’atipicità delle fonti nel diritto amministrativo, in Dir. amm., 4, 2015, p. 683.

[1] Quali lettere di intenti o pareri non vincolanti secondo l’efficace tassonomia suggerita da M.R. Maugeri, Effetto conformativo delle decisioni delle autorità indipendenti nei rapporti tra privati, in Studi in onore di Antonino Cataudella, Milano,2013, pp. 1309 ss..

[2] Cfr. l’art. 117, 2° co., Tul. banc. in materia di contratti bancari («Il Cicr può prevedere che, per motivate ragioni tecniche, particolari contratti possano essere stipulati in altra forma»); nonché l’art. 121 bis del Tul. banc..

[3] Cfr. l’art. 125 bis, 1° co., Tul.banc., secondo cui: «I contratti di credito (…) contengono in modo chiaro e conciso le informazioni e le condizioni stabilite dalla Banca d’Italia, in conformità alle deliberazioni del Cicr».

[4] Cfr. ancora l’art. 117, 8° co., Tul.banc. («La Banca d’Italia può prescrivere che determinati contratti, individuati attraverso una particolare denominazione o sulla base di specifici criteri qualificativi, abbiano un contenuto tipico determinato. I contratti difformi sono nulli. Resta ferma la responsabilità della banca o dell’intermediario finanziario per la violazione delle prescrizioni della Banca d’Italia»). Viene in rilievo anche il potere del’Isvap di definire il contenuto necessario di alcune clausole contrattuali, ad esempio in relazione alle tariffe dei rami vita (cfr. regolamento n. 21 del 28-3-2008). In tema di comunicazioni elettroniche, cfr. l’art. 57, 1° co., d.lgs 1-8-2003 n. 259: «L’Autorità adotta, ove opportuno, misure specifiche per garantire che gli utenti finali disabili fruiscano di un accesso, ad un prezzo accessibile, ai servizi telefonici accessibili al pubblico, compresi i servizi di emergenza ed i servizi relativi agli elenchi, che sia equivalente a quello degli altri utenti finali».

[5] Cfr. M. Angelone, Autorita indipendenti e etero regolamentazione del contratto, Napoli, 2012, 162 ss. il quale fa l’esempio, nel settore delle telecomunicazioni, della “interconnessione” e del “roaming”.

[6] Cfr. l’art. 39 del regolamento Consob n. 16190/2007.

[7] Cfr. gli artt. 11 ss. del Codice di condotta commerciale per la vendita di energia elettrica e di gas naturale, approvato dall’Aeeg con deliberazione ARG/com 104/10; la definizione, ad opera dell’Isvap, del contenuto della nota informativa e di specifiche regole di comportamento nell’esecuzione del contratto (Titolo XIII del d.lgs 7-9-2005, n. 209); l’art. 122 Tuf che commina la nullità dei patti parasociali che non siano stati assoggettati agli obblighi di comunicazione, pubblicazione e deposito secondo “le modalità ed i contenuti” stabiliti dalla Consob con apposito regolamento (cfr. delibere 24-11-1998, n. 11715 e 14-5-1999, n. 11971).

[8] Un esempio dell’attualità della tematica è data dall’ordinanza del Consiglio di Stato (n. 5277 del 2016), che ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 dell’art. 1 del decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 3 (Misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti), convertito con modificazioni in legge 24 marzo 2015, n. 33, nella parte in cui prevede che, disposta dall’assemblea della banca popolare la trasformazione in società per azioni secondo quanto previsto dal nuovo testo dell’art. 29, comma 2-ter, del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, il diritto al rimborso delle azioni al socio che a fronte di tale trasformazione eserciti il recesso possa essere dalla Banca d’Italia limitato (anche con la possibilità, quindi, di escluderlo tout court), e non, invece, soltanto differito entro limiti temporali predeterminati dalla legge e con previsione legale di un interesse corrispettivo. Il contrasto è stato sollevato con riguardo agli articoli 41, 42 e 117, comma 1, Cost., in relazione all’articolo 1 del Protocollo Addizionale n. 1 alla Cedu e con riguardo agli artt. 1, 3, 95, 97, 23 e 42 Cost..

[9] Ad esempio, riguardano: i sistemi di qualificazione degli esecutori di lavori pubblici, art. 83, comma 2; la disciplina degli organismi di attestazione, art. 84, comma 2; i requisiti di qualificazione del contraente generale, art. 197, comma 4.

[10] Parere 1 aprile 2016, n. 855.

[11] Ammesse dalla giurisprudenza costituzionale anche dopo la legge cost. n. 3 del 2001, che ha introdotto l’art. 117, comma sesto, Cost..

[12] Consiglio di Stato, sentenza n. 4546 del 2010.

[13] Art. 2 Rd 18 giugno 1931, n. 773; art. 54, comma 2, Tuel 2000; art. 5, l n. 225 del 1992.

[14] Di recente, l’articolo 10, comma 1, lettera b) del dl 14 agosto 2013, n. 93, ha previsto che lo stato di emergenza non può superare 180 giorni prorogabili per altri 180 giorni.

[15] I cd. “grandi eventi” sono stati abrogati dall’art. 40-bis comma 1°, del dl 24 gennaio 2012, n. 1.

[16] A seguito della novella la revoca può essere disposta per: - sopravvenuti motivi di pubblico interesse; mutamento della situazione di fatto, non prevedibile al momento dell’adozione del provvedimento; - nuova valutazione dell’interesse pubblico originario, salvo che per i provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici.

[17] Un esempio recente è dato anche dalla recente sentenza della Corte costituzionale n. 269 del 2016, la quale ha dichiarato fondate le censure mosse all’art. 1, comma 1, della legge reg. Calabria n. 12 del 2005 per violazione dell’art. 97 Cost. La Corte ha ritenuto di applicare la giurisprudenza relativa all’incompatibilità con l’art. 97 Cost. (dettato per i pubblici uffici) di disposizioni di legge che prevedano meccanismi di decadenza automatica dalla carica, pur trattandosi nella specie del presidente del consiglio di amministrazione di una società per azioni in house.

[18] Cfr. G. Sigismondi, Eccesso di potere e clausole generali, Napoli, 2012, specie pp. 253 ss..

[19] Sul tema, tra gli altri: Mattarella, in Pubblico e privato nell’organizzazione e nell’azione amministrativa, a cura di Falcon-Marchetti, Padova, 2013; G. Napolitano, L’esercizio privato di attività amministrative, in La disciplina generale dell’azione amministrativa, a cura di Cerulli Irelli, Napoli, 2006, pp. 89 ss. Nella letteratura straniera, quanto al problema dei limiti del conferimento di funzioni pubbliche ai privati: v. J.B. Auby, Contracting Out and ‘Public Values’: A Theoretical and Comparative Approach, in s. Rose-ackerman & p. L. Lbvdseth (a cura di), Comparative Administrative Law, Cheltenham UK, 2010, 514.

[20] Si trattava dell’art. 40, comma 3, del d.lgs 163/2006, il quale prevedeva l’esclusività dell’oggetto sociale delle Soa, con i conseguenti divieti per uno stesso soggetto di svolgere contemporaneamente attività di organismo di certificazione e di organismo di attestazione e per un organismo di certificazione di detenere partecipazioni azionarie in una Soa.

[21] (Cass., sez. lav., 14 aprile 2008, n. 9814. In senso conforme la giurisprudenza successiva: da ultimo Cass., sez. VI., 12 ottobre 2010, n. 21088, che precisa che non è sufficiente, ai fini della legittimità del provvedimento di conferimento dell’incarico, il mero «accertamento delle attitudine e delle capacità professionali» del dirigente prescelto, perché ciò «non realizza alcuna effettiva comparazione fra gli aspiranti».).

[22] A partire dalla legge n. 142 del 1990 trasfusa nel Tu n. 267 del 2000.

[23] Cfr. la sentenza della Corte Cost. n. 246 del 2006.

[24] Corte eur. dir. uomo, sentenza 8 giugno 1976, caso n. 5100/71, Engel v. Olanda, in tema di sanzioni detentive disciplinari militari. I principi ivi enunciati sono stati confermati da plurime sentenze successive: cfr. sentenza 26 marzo 1982, Adojf c. Austria, par. 30; sentenza 9 febbraio 1995, Welch c. Regno Unito, par. 27; sentenza 25 agosto 1987, Lutz c. Germania, par. 54; sentenza 21 febbraio 1984, Öztürk c. Germania, par. 50; 22 febbraio 1996, Putz v. Austria, par. 31; 21 ottobre 1997, Pierre-Bloch c. Francia, par. 54; sentenza 24 settembre 1997, Garyfallou AEBE c. Grecia, par. 32.

[25] Cfr. Corte eur. dir. uomo, sentenza 27 settembre 2011, cit; Corte eur. dir. uomo, sentenza, 4 marzo 2014, cit.; Corte eur. dir. uomo, decisione, 30 maggio 2006, caso n. 38184/03, Matyjec v. Polland; Corte eur. dir. uomo, sentenza 9 ottobre 2003, casi nn. 39665/98 e 40086/98, Ezeh v United Kingdom. Nella causa n. 307-A/1995, Welch contro Regno Unito, cit., si legge che: «Indeed the aims of prevention and reparation are consistent with a punitive purpose and may be seen as constituent elements of the very notion of punishment».

[26] Corte eur. dir. uomo, sentenza 14 gennaio 2014, caso n. 32042/11, Muslija v. Bosnia Herzegovina.

[27] Corte eur. dir. uomo, sentenza 30 agosto 2007, caso n. 75909/01, Sud Fondi e altri c. Italia. Sempre in tema di confisca “urbanistica”, cfr. Varvara c. Italia del 29 ottobre 2013.

[28] Corte eur. dir. uomo, sentenza 23 Settembre 1998, caso n. 68/1997/852/1059, Malige v. France.

[29] Corte eur. dir. uomo, 27 novembre 2007, caso n. 21861/03, Hamer v. Belgium, par. 59-60. In termini opposti il tradizionale orientamento italiano: Cass., sez. un., 15 dicembre 2000, n. 1264; Cons. Stato, sez. IV, 20 luglio 2011, n. 4403.

[30] Corte eur. dir. uomo, sentenza, 30 maggio 2006, caso n. 38184/03, Migyjek c. Polonia.

[31] Corte eur. dir. uomo, sentenza, sentenza 11 giugno 2009, Dubus SA c. Francia.

[32] Corte cost., 4 giugno 2010, n. 196, in Giur. cost., 2010, 2323 ss., con commento di A. Travi, Corte europea dei diritti dell’uomo e Corte costituzionale: alla ricerca di una nozione comune di ‘sanzione’.

[33] La Corte costituzionale aveva già riconosciuto l’illegittimità della retroattività di norme sanzionatorie di natura amministrativa emanate a seguito di depenalizzazione, con sentenza n. 78 del 1967.

[34] La sentenza n. 193 del 2016 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione, nella parte in cui non prevede l’applicazione della legge successiva più favorevole agli autori degli illeciti amministrativi.

[35] Cfr. la sentenza della Corte Costituzionale n. 81 del 2012, in tema di nomina degli assessori da parte del Presidente della Giunta: «quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto. Nella misura in cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate».

[36] Per alcuni esempi recenti, si leggano la delibera Agcom n. 680/13/CONS del 12 dicembre 2013, recante l’approvazione del «Regolamento in materia di tutela del diritto d’autore sulle reti  di comunicazione elettronica e procedure attuative ai sensi del decreto-legislativo 9 aprile 2003, n. 70»; la delibera Aeeg 7 Luglio 2016 369/2016/R/EEL, Riforma dei vigenti meccanismi di mercato per la tutela di prezzo dei clienti domestici e delle piccole imprese nel settore dell’energia elettrica. istituzione della tutela simile al mercato libero. ulteriori obblighi per le imprese di distribuzione dell’energia elettrica e del gas naturale.

[37] F.G. Scoca, Attività amministrativa, in Enc. Dir., Agg. VI, pp. 75 ss.