Magistratura democratica

L’interpretazione creativa del giudice non è un ossimoro

di Antonio Lamorgese
Nella filosofia politica il concetto formale di democrazia, come modo di formazione del diritto (nel quale le leggi sono adottate dai destinatari attraverso i loro rappresentanti secondo il principio di maggioranza), è stato sostituito da un concetto sostanziale nel quale è imprescindibile la protezione dei diritti fondamentali attraverso la rigidità costituzionale e la garanzia della giurisdizione (R. Guastini, La grammatica dei diritti, in La vocazione civile del giurista, 2013, p. 57). In questa prospettiva la giurisprudenza costituisce un importante indicatore del tasso di democraticità di una nazione. Se un tempo i giudici potevano nascondersi dietro il testo formale della legge (della quale erano considerati soltanto una bocca), oggi più di ieri la loro attività interpretativa è spesso creativa e densa di opzioni valoriali che essi dovrebbero enunciare nelle sentenze. La responsabilità dei giudici è aumentata e con essa il bisogno di un più efficace controllo sociale.

1. L’espressione interpretazione creativa riferita all’attività decisoria del giudice potrebbe rappresentare un ossimoro:l’interpretazione nella misura in cui è chiamata a dare un senso alla norma di legge non potrebbe per definizione essere creativa, cioè dare vita ad un senso che non è nella norma, come testimoniato dall’art. 12 preleggi («nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dalla intenzione del legislatore») e dall’art. 1362 cc sulla interpretazione dei contratti, ma anche dall’art. 101, secondo comma, Cost. («i giudici sono soggetti soltanto alla legge»). Se così non fosse – si potrebbe sostenere – non sarebbe possibile distinguere tra legge e sentenza, tra la giustificazione che è a base della prima in funzione del perseguimento di determinati risultati e la giustificazione della sua applicazione in concreto da parte dei giudici. Si assume come decisivo l’argomento che le decisioni giurisdizionali devono essere sempre giustificate in ragione della loro conformità a un sistema di valori e di norme precostituito dal legislatore (al quale soltanto competono le scelte di fondo del vivere insieme di una comunità), essendo i giudici sforniti di una legittimazione popolare: è un precipitato dei principi di legalità e della separazione dei poteri.

Ma può veramente escludersi la “creatività” dell’interpretazione giudiziale?

Ove si aderisca alla concezione che la norma e/o la regola è quella che solo un’attività interpretativa dei testi di legge consente di “rinvenire” e/o di scoprire, ecco che il sintagma interpretazione creativa non dovrà più apparire come un ossimoro ma addirittura una cosa ovvia e naturale, senza bisogno di aderire alle teorie realiste del diritto[1].

La tesi secondo cui il giudice si limita a dichiarare un’entità preesistente o a svelare cosa dica il diritto o a concretizzarne il materiale nascosto, anche quando determini una nuova regola o norma, è una utile concessione al tranquillizzante modello di giudice come “bocca del legislatore” che è ormai superato. Il giudice non è un mero linguista. Il predicato di normatività appartiene non al testo, che ha solo un valore euristico per la ricerca della regola di decisione, ma al suo significato: «le norme sono non l’oggetto ma piuttosto il prodotto, il risultato dell’interpretazione»[2]. Il modo di esprimersi corrente secondo il quale l’oggetto dell’interpretazione sono le norme è, quindi, fuorviante.

Se è vero che più frequentemente il giudice dichiara (o applica) il diritto in casi in cui il significato del testo è chiaro ed esplicito (il cerchio più vicino al centro nella teoria dei cerchi concentrici di Barak[3]), spesso il linguaggio del legislatore non è chiaro e ne consegue una apparente incertezza che può essere superata mediante un processo interpretativo che conduce consapevolmente il giudice a scegliere l’unica soluzione legittima (è il cerchio intermedio); è quando ci si trova nella zona di penombra (soprattutto nei cd. casi difficili che ricadono nel cerchio più esterno), ove a causa della vaghezza o ambiguità del testo normativo diverse sono le soluzioni astrattamente possibili e legittime, che la teoria dichiarativa dell’attività giurisdizionale entra in crisi. In tali casi la discrezionalità – che significa facoltà di optare tra due o più possibili linee di azioni ciascuna legittima[4] – si rivela necessaria per stabilire quale sia la regola di diritto o quale il suo campo di applicazione: il potere nomofilattico, che è attribuito in primis agli organi legislativi e consiste nella creazione di norme giuridiche generali, è esercitato accessoriamente anche dal giudice ai fini della soluzione di una specifica controversia in giudizio[5].

È ovvio che il potere di fare le leggi spetta al Parlamento (art. 70 Cost.), ma è empiricamente falso affermare che il giudice non crei diritto[6].

Si è creduto per lungo tempo che i giudici non creassero il diritto, ma semplicemente lo scoprissero e lo esprimessero. La teoria affermava che ogni caso era disciplinato da una norma giuridica pertinente, esistente da qualche parte e scopribile in qualche modo. Tuttavia, è ormai riconosciuta la vera natura della nomofilachia che è attività creativa del diritto: è «un dato di fatto, non costituisce più una novità, né è necessario dilungarsi per spiegarlo»[7]. Si è anche sostenuto che, a volte, quando vi sia esercizio della discrezionalità del giudice (soprattutto nei casi difficili), la sentenza assume valore assimilabile a un atto legislativo in senso funzionale[8].

Le sentenze possono esprimere norme giuridiche generali che non si rivolgono solo alle parti e valgono per il futuro, in tal modo imponendosi nella società in modo direttamente proporzionale all’autorevolezza del giudice (specie di ultimo grado), tanto che qualora non le condivida il legislatore deve legiferare in senso contrario. Infatti nulla impedisce al legislatore di far valere la propria voluntas mediante una legge che sconfessi un orientamento giurisprudenziale[9], rispettando naturalmente i limiti costituzionali.

L’idea che l’unico significato possibile e legittimo del testo normativo sia quello letterale, che il giudice è chiamato a rivelare, si scontra a sua volta con un dato letterale: l’art. 12 delle preleggi «non privilegia in assoluto il criterio interpretativo letterale, poiché evidenzia, attraverso il riferimento “all’intenzione del legislatore” un essenziale riferimento alla coerenza della norma e del sistema; di conseguenza il dualismo, presente nell’art. 12, tra lettera “significato proprio delle parole secondo la connessione di esse” e spirito o ratio “intenzione del legislatore” va risolto con la svalutazione del primo criterio, rilevandosi inadeguata la stessa idea di interpretazione puramente letterale»[10] (e, si può aggiungere, al giudice è dato anche il grande potere di abrogare le leggi nei casi di incompatibilità con leggi precedenti, art. 15 delle preleggi).

Se è vero che la lettera del testo è il fattore dominante nell’interpretare le leggi, sarebbe un errore negare l’importante circostanza che il testo, anche se costituisce l’imprescindibile punto di partenza, non è di solito quello di arrivo e che la determinazione finale del significato della legge non è sempre uguale al significato dei vocaboli, delle locuzioni o degli enunciati contenuti nella legge[11]. E ciò non solo per l’inevitabile incapacità del linguaggio di prevedere tutti gli scenari possibili in un mondo sempre più complesso e variabile, ma anche perché qualunque testo normativo si innesta in uno o più sistemi di norme con le quali è destinato ad interagire in una convivenza che è spesso difficile.

È il caso dell’art. 37 cpc che pone una regola (sulla rilevabilità anche d’ufficio delle questioni di giurisdizione «in qualunque stato e grado del processo») che è stata interpretata come cedevole (e quindi inapplicabile) in presenza di controregole endoprocessuali, come il giudicato sulla giurisdizione, prima espresso e poi anche implicito[12]; di recente si è stabilito che all’attore, soccombente nel merito, non è consentito di interporre appello per denunciare il difetto di giurisdizione del giudice da lui prescelto[13].

Interpretare implica necessariamente un’attività creativa, come dimostra l’ermeneutica giuridica che adempie ad una funzione di mediazione tra il senso orginario (e/o la lettera) del testo e le domande che nel presente si pone chi ad esso si rivolga.

Tale forma di insopprimibile creatività si configura come “discrezionalità”, seppure tale discrezionalità sia diversa da quella del legislatore che è autonoma nonché libera nei fini e nei contenuti (inoltre il legislatore non è soggetto ad alcun obbligo di neutralità e coerenza, a differenza del giudice). Lo dimostra il fatto che l’esistenza in molti ordinamenti di regole ermeneutiche che fissano i criteri di interpretazione delle norme giuridiche non è sufficiente ad eliminare la discrezionalità del giudice in ragione delle incertezze semantiche delle stesse regole interpretative[14].

Un fattore fondamentale della discrezionalità e creatività dell’attività giurisdizionale, quantomeno nei cd. casi difficili, deriva dal fatto che il giudice non deve limitarsi a svelare il significato originario della legge all’epoca della sua approvazione: «egli non può ignorare nuovi valori adducendo a giustificazione di tale atteggiamento la loro novità o il fatto che non siano ancora riconosciuti dall’ordinamento. Deve intraprendere un confronto razionale e ragionevole con quelli vecchi e, proprio come questi non vanno abbandonati perché datati, non va impedita l’introduzione di valori nuovi perché troppo recenti. Tuttavia, questi ultimi non andranno a sostituire quelli vecchi, qualora non siano saldamente radicati nella società e nella coscienza di almeno buona parte dell’opinione pubblica»[15]. In altri termini, ciò che conta non è l’original intent o la voluntas del legislatore storico, ma la ratio, il fine oggettivo che l’atto legislativo manifesta al momento della decisione[16].

 

2. L’ideologia positivista, propria del codice napoleonico, obbligava il giudice (definito “etre inanimè”) ad uno stretto rispetto del testo di legge, dovendo dare voce alla legge nel caso singolo. Oggi la contrapposizione, sul piano del dover essere, tra positivisti e antipositivisti è astratta, non rispecchia più la situazione concreta ed è di natura prevalentemente ideologica.

Sul piano dell’essere è incontestabile che anche per i positivisti: a) il metodo rigorosamente sillogistico (tipico dell’ideologia positivista)è stato più declamato che realmente applicato dai giudici; b)si può procedere per via induttiva a trovare la regola del caso concreto; c) si può fare ricorso all’analogia; d) il messaggio finale del modello positivista si risolve nel monito che il giudice deve agire nell’ambito della legittimità formale, ma non è in grado di indicare come e in quale direzione.

E, inversamente, anche per i fautori della componente creativa dell’interpretazione giudiziale, occorre tenere conto che la creatività, se non vuole tramutarsi in arbitrio, deve far ricorso a criteri pre-definiti di decisione, che diano la possibilità di controllarne i risultati sul piano, se non altro, della coerenza e nell’ottica della prevedibilità delle decisioni.

Non v’è dunque un’alternativa tra deduzione (da regole astratte) e creazione,ma necessità (sulla quale si tornerà più avanti) di rinvenire criteri concreti ed affidabili per controllare le decisioni dei giudici, all’interno di una visuale complessiva di cui i formanti, a partire dal testo di legge, sono i valori e i diritti fondamentali riconosciuti dall’ordinamento, il comune sentire (coscienza o consenso sociale), le consuetudini, la stessa tradizione giuridica (cd. dati extratestuali).

È ricorrente l’obiezione basata sul postulato che il giudice è soggetto soltanto alla legge (art. 101 Cost.) e ciò impedirebbe di attribuire all’interpretazione giurisprudenziale  il valore di fonte del diritto[17]. Tale postulato, tuttavia, non è contraddetto dal fatto che la giurisprudenza possa creare diritto in via accessoria e complementare rispetto alla missione principale del giudice che è quella di decidere singole controversie; è, in un certo senso, una creatività marginale che non contraddice il fatto che il giudice agisce sempre sotto l’ombrello (o, come si usa dire, negli interstizi o nelle pieghe) della legge allo scopo di rivelarne, attualizzarne il significato, adattarlo ai casi concreti.

 

3. Ma come conciliare la creatività interpretativa del giudice con il fatto che egli è sfornito di legittimazione popolare? È un quesito ricorrente[18], al quale è agevole rispondere nel senso che quella legittimazione proviene, formalmente, dal fatto che il giudice è deputato secondo le leggi della Repubblica a decidere «in nome del popolo», come direttamente prevede l’art. 101, primo comma, Cost. (è significativo che un’analoga previsione per la Corte costituzionale sia contenuta in una legge di rango inferiore: la n. 87 del 1953, art. 18, terzo comma); inoltre la legittimazione del giudice presuppone che ricorrano congiuntamente tre condizioni necessarie: l’essere la decisione il risultato finale di un procedimento nel quale siano state rispettate le garanzie processuali; l’essere la decisione fondata su un accertamento veritiero dei fatti controversi ed il risultato di una corretta interpretazione delle norme rilevanti nel caso concreto[19].

A queste condizioni può dirsi rispettato il principio che la sovranità popolare – che si manifesta anche nella giurisdizione – è esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione (art. 1, secondo comma, Cost.)[20].

 

4. È utile domandarsi se siano più dotati di capacità innovativa i sistemi di diritto non codificato o codificato.

Si sarebbe indotti a rispondere nel senso che sono più innovativi i primi, se non fosse per il fatto che nei sistemi non codificati il vincolo del precedente molto spesso rappresenta un elemento di conservazione (e anche di stabilità)ed è più difficile innovare dovendo giustificare le ragioni per cui non si rispetta il precedente con riferimento alle concrete situazioni di fatto messe a confronto, anzichè sorreggere l’innovazione sul terreno più semplice di una diversa interpretazione del testo di legge.

Nei sistemi codificati, ove l’interpretazione del giudice si appalesa libera, essendo essa vincolata al solo rispetto della legge, può funzionare da contrappeso la funzione nomofilattica di un giudice superiore (vd. Corte di Cassazione, art. 65 ord. giud.), ma resta il fatto che il mancato rispetto di quanto ritenuto dal giudice si risolve, in definitiva, in motivo di impugnazione.

Cosa accade nei due sistemi se l’interpretazione letterale (quando il testo sia dotato di un significato proprio e chiaro) conduca ad un risultato irragionevole o assurdo o chiaramente opposto allo scopo della legge?

Nell’ottica squisitamente positivista, lasciare che il significato testuale delle parole (cd. testualismo) sia accantonato sarebbe inaccettabile, giacché la determinazione di ciò che è assurdo dipenderebbe dalla valutazione dell’osservatore[21]. E tuttavia negli ordinamenti di common law vale la cd. regola aurea (golden rule) in base alla quale il significato testuale o ordinario del testo prevale a meno che non dia luogo a risultati assurdi o evidentemente contrasti con lo scopo o l’intenzione del legislatore[22].

Nei sistemi di civil law si perviene a conclusioni simili percorrendo strade diverse: quella più ortodossa è di sollecitare l’intervento della Corte costituzionale per espungere la disposizione che non sia possibile ricondurre a ragionevolezza perché non interpretabile in modo diverso da quello testuale[23], mediante pronunce additive (che annullino la disposizione là dove “non pone” o “omette” di disporre) o sostitutive (che la annullino là dove dispone la norma x anziché la norma y). Oppure, si persegue una soluzione in fact: ad esempio, se si tratta di disposizione sanzionatoria, pur riconoscendo la violazione, si applica al contravventore una sanzione minima.

 

5. Quali i maggiori “veicoli” del carattere innovativo della interpretazione giudiziale? Si indicheranno quelli più importanti:

a) Il diritto comunitario ha rivoluzionato il sistema delle fonti. È giurisprudenza ormai risalente della Corte di giustizia Ue che il giudice, nell’applicare il diritto nazionale, deve interpretare – e addirittura disapplicare – il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo delle direttive, onde conseguire il risultato (da raggiungere) contemplato dall’art. 189 (ora 249) del Trattato, sicché il giudice che interpreta il proprio diritto nazionale alla stregua delle direttive “crea” una regola di decisione orientata al risultato[24].

b) Analoga rivoluzione è dovuta, per il tramite dell’art. 117 Cost. e grazie all’opera della Corte costituzionale (a partire dalle fondamentali sentenze n. 348 e 349 del 2007), alla penetrazione della giurisprudenza Edu, cui si deve una importante forza propulsiva nel processo di modernizzazione del diritto nazionale, in verità non sempre favorito dalla giurisprudenza interna e talora osteggiato da una parte della dottrina[25].

c) Il principio di inveramento delle norme costituzionali nell’ordinamento (che producono un effetto cd. orizzontale), le quali forniscono concrete regole di decisione nei rapporti tra privati, con conseguenziale superamento della centralitàdella legislazione ordinaria e, in particolare, del codice civile.

d) Il concetto di “diritto vivente”[26] sintetizza il complesso problema della partecipazione del giudice alla formazione del diritto. Negli ordinamenti di civil law, che non conoscono il precedente, il diritto vivente ha solo una autorità istituzionale derivantegli dalla funzione di assicurare l’uniformità della interpretazione della legge, ma a partire dal 1981 l’espressione è penetrata nel gergo della Corte costituzionale[27], come sintesi verbale dell’orientamento secondo il quale la Corte costituzionale si astiene dall’interpretare le disposizioni di legge ed assume ad oggetto del giudizio di legittimità costituzionale il significato dato alla norma dal diritto vivente, posto che vi sia, derivante dalla giurisprudenza della Cassazione. E ciò potrebbe incidere, in via di fatto, sulla disponibilità della Corte costituzionale ad intervenire per sconfessare un diritto vivente che si basi su interpretazioni oggettivamente controverse (come nella vicenda della rettificazione del sesso nei registri dello stato civile in mancanza di adeguamento dei caratteri anatomici primari[28]).

e) I giudici sono tenuti preventivamente a fare ogni sforzo (senza limitarsi al dato letterale) per dare alla norma un significato conforme a Costituzione, a pena di inammissibilità della sollevata questione di legittimità costituzionale[29], e che quindi l’interpretazione delle norme costituzionali non è riservata al Giudice delle leggi, ma è attribuita direttamente a ciascun giudice in funzione applicativa. Ciò alimenta la creatività della giurisprudenza, impegnando i giudici in una complessa opera interpretativa mediante progressive contestualizzazioni rispetto al significato letterale (o apparente) della norma nella ricerca della migliore soluzione del caso concreto. Questo modo di procedere mette ulteriormente in crisi il modello positivista, essendo il dato testuale insufficiente per l’interpretazione delle disposizioni costituzionali (specie di quelle che enunciano diritti fondamentali), ma è coerente con l’essere il diritto disciplina razionale delle condotte umane.

f) Una certa tendenza della Corte costituzionale, specie in passato, ad eccedere nel giudizio di irrilevanza delle questioni di legittimità costituzionale, ha avuto l’effetto, segnalato in dottrina[30], di impedire l’accesso al giudizio costituzionale e di indurre i giudici comuni a sperimentare nuove tecniche interpretative, che è la premessa della creatività della giurisprudenza ordinaria, allo scopo di superare i dubbi di costituzionalità sollevati dalle parti o rilevabili d’ufficio.

g) Inoltre, l’uso talora eccessivo dell’argomento fondato sulla discrezionalità delle scelte del legislatore ha indotto la medesima Corte ad astenersi dal fare uso dell’armamentario a sua disposizione (costituito da un ampio ventaglio di sentenze manipolative) in presenza di lacune in leggi specifiche e nelle situazioni di “latitanza” (cd. omissioni) del legislatore in intere materie rilevanti per la tutela dei diritti costituzionali, con l’effetto di canalizzare le domande di tutela verso i giudici ordinari.

h) Ed ancora, sostanzialmente legislativo è l’effetto dell’interpretazione creativa operata dalla Corte costituzionale[31] in materie costituzionali (qual è quella relativa ai presupposti della giurisdizione amministrativa e ai suoi rapporti con quella ordinaria), laddove, ad esempio, ha ritenuto conforme a Costituzione il diritto vivente che attribuisce al giudice amministrativo le controversie nelle quali sia la pubblica amministrazione a ricorrere in giudizio contro l’amministrato, nonostante che gli artt. 113 e 103 Cost. attribuiscano a quel giudice la giurisdizione di legittimità ed esclusiva per la tutela degli interessi legittimi e «anche» dei diritti soggettivi dei privati «nei confronti della pubblica amministrazione».

Si presta ad un’analoga critica la giurisprudenza costituzionale che, per un verso, in nome della particolarità delle materie ex art. 103 Cost. nelle quali il giudice amministrativo potrebbe giudicare di diritti soggettivi, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che attribuivano alla sua giurisdizione esclusiva le controversie con la pubblica amministrazione vertenti su “blocchi di materie”[32]; per altro verso, tuttavia, ha avallato[33] l’illimitata espansione di quella giurisdizione all’unica (apparente) condizione che essa sia attuata non per blocchi di materie ma per singole materie, disinteressandosi del fatto che queste materie possano essere in numero illimitato e che si raggiunga un analogo (o ancor più accentuato) effetto di ammettere, in sostanza, la giurisdizione esclusiva su tutte le materie nelle quali la pubblica amministrazione eserciti (anche solo potenzialmente) poteri pubblicistici[34]. In altri termini, l’effetto finale è stato quello di avallare l’attribuzione al giudice amministrativo della giurisdizione esclusiva sui diritti soggettivi in qualunque materia nella quale la pubblica amministrazione eserciti (o possa esercitare) poteri pubblicistici, che è esattamente quanto non è consentito dall’art. 103 Cost.

In presenza di riserve di legge previste in Costituzione, gli organi giurisdizionali, non solo, non dovrebbero mai sostituirsi al legislatore, al quale soltanto spetta la creazione della norma di legge, ma nell’attività interpretativa dovrebbero ispirarsi a un rigido self restraint. Se il giudice delle leggi – che è pur sempre un organo giurisdizionale – può interpretare creativamente le disposizioni costituzionali, perché non può farlo il giudice comune con le norme di legge ordinarie?

Diverso è il caso in cui è la stessa legge (e non la Costituzione) a rinviare ad altra legge, come nel caso dell’art. 2059 cc che pone la regola della risarcibilità deldanno non patrimoniale «solo nei casi determinati dalla legge», ove la Cassazione[35] ha “creato” la regola della risarcibilità del danno non patrimoniale in ragione della «natura del valore inciso», di rilievo costituzionale, come ad esempio «l’interesse alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia».

i) La forza della interpretazione sistematica è un ulteriore fattoreche favorisce la creatività del giudice,essendovi piena consapevolezza cheil diritto, elevandosi a sistema, è dotato di propulsione normativa propria anche sul piano della produzione di regole (nel caso da ultimo esaminato, la forza del “sistema” si è fatta sentire: è dal sistema bipolare fondato sulla distinzione tra danno patrimoniale e non patrimoniale che si ricava la regola sulla risarcibilità di «pregiudizi diversi ed ulteriori» rispetto al danno morale soggettivo e a quello biologico). 

l) Ad individuare l’ambito normativo delle disposizioni di legge si può giungere anche attraverso la tecnica del “controllo delle conseguenze”, in funzione di un impiego dell’ermeneutica giuridica impostata sulla valutazione delle conseguenze sociali derivanti dalla scelta dell’una o dell’altra delle possibili ipotesi di soluzione del caso da decidere. Di tale tecnica è stato fatto uso dai giudici costituzionali per affermare la decorrenza degli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale (nella specie, delle norme sull’addizionale, cd. Robin Tax, all’imposta sul reddito delle società) dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione nella Gazzetta Ufficiale «al fine di evitare che l’impatto macroeconomico delle restituzioni dei versamenti tributari connesse alla pronuncia determini uno squilibrio del bilancio dello Stato di entità tale da implicare la necessità di una manovra finanziaria aggiuntiva, anche per non venir meno al rispetto dei parametri cui l’Italia si è obbligata in sede di Unione europea e internazionale»[36].

 

6. Il discorso critico sulla creatività dell’interpretazione dei giudici, talora vista come fattore di inquinamento dei principi democratici di rappresentanza e divisione dei poteri, si rivela impregnato di ideologismo e non si confronta con i caratteri propri della legislazione, di cui oggi si evoca la crisi, ma alla quale da sempre si addebita la produzione di norme affette da indeterminatezza linguistica, vaghe o generiche (e quindi di ardua comprensione), ambigue (perché suscettibili di interpretazioni diverse e talora contrastanti), al punto che, oggi più che ieri, sono messe fuori gioco le regole ermeneutiche classiche[37], obbligando i giudici a sperimentare nuove tecniche interpretative nel tentativo di dare senso alle norme; spesso è lo stesso legislatore ad evitare, talora opportunamente, la formulazione di regole precise e a rimettere al giudice la concretizzazione del precetto definito con formule generali o elastiche (“tempo o durata ragionevole”, “prudenza”, “diligenza”, “interesse del minore”, ecc.), con l’effetto di esaltare il potere di apprezzamento (o margine di manovra) dell’interprete; spesso le norme (come quelle di derivazione comunitaria) sono formulate minuziosamente con periodi molto lunghi e farraginosi per il tentativo velleitario di disciplinare ogni dettaglio delle possibili fattispecie in esse ricomprese, con l’effetto di aumentare la frequenza dell’intervento giudiziale.

Tuttavia, non si deve dimenticare che è lo stesso legislatore a stabilire che «se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato» (art. 12, secondo comma, preleggi).

Si dimostra in tal modo l’estraneità all’ordinamento di statuizioni di “non liquet”, essendo il giudice chiamato a dare risposte, anche ricorrendo alla più tradizionale delle tecniche a disposizione dei giuristi, qual è l’analogia, e ai principi generali dell’ordinamento (uguaglianza, ragionevolezza, libertà, proporzionalità ecc.).

Nella retorica sulla necessità di attendere il legislatore (magari per decenni) e sull’esortazione ai giudici di non invadere campi che si assume riservati ad un altro potere, in realtà, è insita una precisa e occulta opzione valoriale, che si traduce nell’auspicio di astensione del giudice nei casi difficili. In quest’ottica il silenzio del legislatore in determinate materie sensibili è inteso come una forma implicita di legislazione negativa che, in quanto tale, impedirebbe ai giudici di intervenire (con un garbato invito ai cittadini che invochino la tutela di nuovi diritti a rassegnarsi...[38]).

E non si deve pensare che tale impostazione sia fedele all’ideologia positivista: infatti, il Code Civil Napoleon puniva il giudice che rifiutasse di giudicare con il pretesto del silenzio, dell’insufficienza o dell’oscurità della legge[39].

 

7. A dover essere bandita è, in realtà, la stessa nozione di “lacuna” normativa, se intesa come un’implicita autorizzazione a non decidere o, come talora accade, un invito al giudice a rivolgersi alla Corte costituzionale, ove si individua una sede che si assume più affidabile o rassicurante o più legittimata a fare le scelte che si assume proprie del legislatore.

La “lacuna” è soprattutto una nozione assiologica, che sta ad indicare la situazione in cui ad essere controversa è la capacità della norma di includere o di escludere casi che non sembrano coperti dalla giustificazione sottesa apparentemente alla norma stessa: se si vuole sostenere che la norma è inapplicabile al singolo caso si dovrà dimostrare che essa è sovrainclusiva, altrimenti si dovrà dimostrare che è sottoinclusiva, in entrambi i casi in via interpretativa (sempre che non sia necessario investire il giudice costituzionale).

Ad esempio, se si sostiene l’applicabilità della norma sulla riduzione della penale manifestamente eccessiva alla caparra confirmatoria eccessiva[40], si dovrebbe dimostrare che la norma (art. 1385, secondo comma, cc) è sottoinclusiva, essendo riferita solo apparentemente alla clausola penale, mentre dovrebbe essere applicabile in via di interpretazione estensiva anche alla caparra confirmatoria; analogamente, se si ritiene illegittima l’introduzione di un registratore portatile da parte di un consigliere comunale, al fine di registrare una seduta consiliare, si dovrebbe dimostrare che il regolamento comunale che pone il relativo divieto è sottoinclusivo perché, pur vietando espressamente l’introduzione dei soli apparecchi di riproduzione “audiovisiva”, si riferisce anche agli apparecchi di registrazione[41]; e ancora, se si sostiene l’adottabilità del figlio minore del partner, invocando l’applicazione di una norma prima mai applicata in presenza di relazioni tra persone dello stesso sesso, si dovrebbe dimostrare l’inclusività della suddetta fattispecie nella norma sull’adozione in casi particolari (art. 44, comma 1, lett. d, della legge n. 183 del 1984)[42]; e ancora, se una norma vietasse l’aborto tout court, se ne potrebbe sostenere la sovrainclusività, in quanto escluderebbe irragionevolmente la possibilità di abortire nei casi in cui vi sia un pericolo per la salute della donna, ecc.

Nella pratica si parla erroneamente di lacuna o silenzio del legislatore, talora – come si è detto – allo scopo di giustificare o supportare decisioni di rigetto di istanze di tutela di nuovi diritti, non ancora riconosciuti dall’ordinamento formale, in situazioni in cui semplicemente non vi sono precedenti giurisprudenziali pertinenti.

E ancor meno giustificato è il richiamo alla categoria della lacuna o del silenzio legislativo in tema di delibazione di atti o di sentenze straniere che riconoscano diritti o istituti giuridici elaborati in ordinamenti stranieri e non tutelati né riconosciuti dall’ordinamento nazionale, essendo il controllo spettante al giudice italiano limitato a verificarne la compatibilità con l’ordine pubblico internazionale nella restrittiva accezione offerta dalla Cassazione[43].

 

8. Codesta riflessione, tuttavia, non vuole esporsi al rilievo di essere espressione di un relativismo neutrale e indifferente a scelte e valori (tale da riprodurre un modello di “diritto libero”). Occorre tenere conto dei seguenti passaggi:

a) l’interpretazione giudiziale nell’applicazione delle leggi non può sottrarsi all’esigenza che essa sia, nei limiti del possibile, razionalmente prevedibile: la prevedibilità delle decisioni[44] è una componente essenziale di qualsiasi ordinamento ed è destinata ad esprimersi attraverso la censura della “violazione di norme di diritto” (ove la decisione fosse al di là di ogni prevedibilità si esporrebbe al sospetto di aver violato la legge).

b) essa dev’essere supportata da una logica argomentativa esauriente, tale appunto da renderla persuasiva (di qui l’obbligo di motivazione dei provvedimenti).

È comunque avvertita l’esigenza, pur ritenendo superato l’ancoraggio positivistico dell’applicazione della legge, che siano posti limiti e paletti alla carica innovativa che reca con sé, per definizione, ogni attività di carattere ermeneutico che non voglia rinunciare alla sua funzione di attribuzione di senso e significato agli enunciati di diritto.

Esistono a questo proposito, si potrebbe dire, garanzie e/o sistemi “propri” di governo e normalizzazione delle decisioni giudiziarie che sono intrinseci e, si direbbe, quasi connaturali ad esse e tali appunto da essere compatibili con l’indipendenza e l’autonomia della magistratura non solo dal punto di vista della sua collocazione istituzionale ma anche (dei contenuti) delle sue decisioni.

È questo il sistema delle impugnazioni, cioè della emendabilità delle decisioni, ma emendabilità delle decisioni non può non voler dire che interpretazione a mezzo di interpretazione.

Il che significa, in un ordinamento fondato sul principio di legalità (obbedienza del giudice alla legge) ma anche sull’indipendenza e autonomia dei giudici (art. 101 Cost.), che non v’è altro sistema possibile di controllo della legalità se non sul terreno della emendabilità delle decisioni in ragione di un diverso apprezzamento dei fatti (quando possibile) e di un diverso criterio di ermeneutica

Interpretazione a mezzo di interpretazione è lo snodo irrinunciabile di un controllo delle decisioni giudiziarie che rifiuti ogni modello autoritativo di intervento dall’esterno.

Altre tecniche, da definirsi improprie, sono quelle extraprocessuali che, guardando al comportamento del magistrato (e non alla interpretazione da esso effettuata), lo valutano in chiave di illiceità (disciplinare o di responsabilità civile) in presenza di interpretazioni abnormi e/o frutto di negligenza inescusabile, ma questo argomento esorbita dalle finalità del presente scritto.

 

9. La formula che si è proposta, interpretazione per mezzo di interpretazione, potrebbe apparire meramente procedurale o autoreferenziale, perché non in grado di garantire un controllo anche esterno, cioè di fornire, agli stessi giudici (in particolare a quelli chiamati a pronunciarsi in sede di impugnazione) e al popolo in nome del quale la giustizia è amministratata (art. 101, primo comma, Cost.), parametri sufficientemente concreti per comprendere e giudicare il risultato o il prodotto dell’interpretazione.

Ci si limiterà a dare, nulla più, che qualche indicazione di metodo.

a) Se ammettiamo la discrezionalità (seppure nella limitata e peculiare accezione di cui si è detto) e una certa creatività dell’interpretazione giudiziale, il giudice è chiamato a fare delicate opzioni valoriali, essendo chiamato a scegliere (cioè a decidere) tra valori diversi che talora si contrappongono o contraddicono reciprocamente. Ma questi valori sono molto spesso nascosti, sotterranei; i giudici non si sentono a proprio agio quando devono maneggiare un materiale che ritengono pericoloso ed estraneo alla loro cultura o formazione di giuristi; per questo molte volte sono restii ad enunciarli chiaramente e preferiscono brandire il testo delle norme come un’arma che consente loro di salvaguardare ciò in cui ritengono che sia custodita l’essenza del proprio ruolo e la fonte della propria legittimazione, cioè il carattere a-valoriale dell’attività giurisdizionale come presunto attributo della propria indipendenza.

Tuttavia, è stato efficacemente evidenziato che «il giudice non può svolgere adeguatamente la sua funzione se non identifica [i valori] con precisione, non ne valuta gli effetti e non ne stabilisce un ordine di priorità»[45]. Se il dato testuale si presta a diverse opzioni valoriali (ciò è la norma nei c.d. casi difficili e non solo), è ovvio che l’esclusivo riferimento ad esso non basta a giustificare la decisione. Solo il giudice che abbia consapevolezza dei valori in campo, che li espliciti con chiarezza e renda conto della sua scelta in motivazione, è in grado di salvaguardare l’autorevolezza del proprio ruolo; solo così la sua decisione potrà apparire trasparente e non abitraria, evitando il rischio che appaia come espressione di una deprecabile “giustizia del caso singolo”[46] nella quale le vere rationes decidendi restano occulte; solo così la discrezionalità potrà dirsi esercitata dal giudice in modo coerente e razionale, salvaguardando la coesione dell’ordinamento che si nutre di valori e principi fondamentali garantiti dalla giurisprudenza.

Si potrebbe dire che la creatività dell’interpretazione del giudice è accettabile sino a quando rimanga saldo il nesso di continuità (non con uno specifico indirizzo giurisprudenziale ma) con i valori fondamentali dell’ordinamento.

b) Un ulteriore aspetto che viene in rilievo a proposito del controllo esterno sulle decisioni dei giudici riguarda il controverso profilo del consenso sociale: il giudice deve tenere conto del grado di approvazione espresso dalla società nei confronti dell’una o dell’altra opzione valoriale in campo?

Si potrebbe chiudere il discorso evidenziando le difficoltà pratiche in cui si troverebbe un giudice che volesse effettuare una simile indagine[47]: come conoscere gli orientamenti della società su questa o quella opzione valoriale?

Tale impostazione è troppo radicale e non considera che una interpretazione giudiziaria che sia in contraddizione con i valori sociali dominanti, non solo, mina la indispensabile fiducia che l’opinione pubblica deve avere nell’imparzialità del potere giudiziario, ma non considera che le decisioni dei giudici sono criticabili: «È l’opinione pubblica, in fondo, a rendere effettive le sentenze; una giurisprudenza non dura se non incontra consenso[48]». Se la loro attività è criticabile ex post dalla collettività, non v’è ragione di ritenere che i giudici debbano ignorare gli orientamenti presenti nella società, essendo invece auspicabile che si astengano dal farsi paladini di nuovi valori non emersi nella società o troppo controversi. Se le decisioni dei giudici (o alcune di esse) hanno forza normativa è perché sono accolte come tali non solo dalle parti, ma anche dalla «comunità giuridica e dal contesto sociale»[49].

Se il giudice non è semplice bocca del legislatore, ma partecipa oggi più di ieri alla creazione del diritto, aumenta il bisogno di un controllo sociale sul suo operato[50]. Tale controllo diffuso è possibile se le rationes delle decisioni non rimangano occulte nelle pieghe del tecnicismo testuale ma siano palesate dai giudici mediante l’enunciazione delle opzioni valoriali compiute.

c) Infine, sviluppando quanto si è detto poc’anzi, un metodo per rendere più oggettivo il controllo esterno sulle decisioni dei giudici è di valutarle sempre in stretta relazione ai casi concreti: se il significato dei principi e valori in conflitto «non è determinabile in astratto,ma solo in concreto, e solo in concreto se ne può intendere la portata»[51], è con riferimento al contenuto e agli effetti concreti delle singole decisioni che dovrebbe essere apprezzato il consenso o l’approvazione sociale.

Il contrasto sui valori ovvero sulla determinazione della loro importanza in via comparativa è alimentata da un approccio teorico che pretenda di dare ai problemi risposte valide in astratto e una volta per tutte, mentre esso è destinato a sciogliersi o a ridursi se si ha riguardo ai concreti casi della vita che vengono portati nelle aule di giustizia e alle risposte date dai giudici in concreto. Non è questa una prospettiva più efficace e tollerabile (anche perché rispettosa del diritto delle persone all’autodeterminazione) per valutare la giustizia delle decisioni che implicano delicate scelte valoriali?

 

10. Si è detto (al par. 9, p.a) della necessità che nelle decisioni che implichino opzioni valoriali (e ciò non accade solo nei c.d. casi difficili) il giudice sia sincero, cioè si sforzi di enucleare quali sono i valori in campo e quale sia la sua scelta. È una prospettiva fruttuosa che rende più trasparente l’attività giurisdizionale nell’interesse della collettività e degli stessi giudici (soprattutto in sede di impugnazione).

Quando le norme si prestano a diverse interpretazioni plausibili e legittime e, come talora accade, la scelta dipende da opzioni valoriali, è auspicabile che tali opzioni non vengano bandite dall’argomentazione giuridica, ma siano manifestate (soprattutto, dai giudici di ultimo grado) ed entrino a pieno titolo nel dibattito giuridico. Si cercherà con qualche esempio e in modo molto sommario di dimostrare come scelte valoriali occulte possano celarsi in decisioni su questioni dense di tecnicismo giuridico, che l’interprete dovrebbe sforzarsi di enucleare.

a) In materia espropriativa, prima delle sentenze della Corte costituzionale n. 348 e 349 del 2007 e 181 del 2011 (e del successivo adeguamento legislativo), i criteri di determinazione delle indennità di esproprio – molto penalizzanti per i privati proprietari dei beni espropriati – erano diversi a seconda che si trattasse di beni edificabili e non edificabili e/o agricoli (si escludeva l’esistenza di un tertium genus di beni e anche la possibilità di riconoscere la c.d. edificabilità di fatto); sicché la previa qualificazione urbanistica dei beni costituiva un passaggio necessario per la corretta quantificazione delle indennità secondo i diversi criteri legali previsti per le due categorie di beni (e, di conseguenza, l’erronea valutazione urbanistica da parte dei giudici era censurabile per cassazione come “violazione di legge” perché direttamente incidente sull’applicazione di quei criteri legali).

Oggi il quadro è mutato, essendo applicabile il criterio del valore di mercato per tutti i beni, edificabili e non (con una limitata eccezione che qui non rileva).

In tale nuovo contesto può ancora ritenersi essenziale la previa qualificazione urbanistica dell’area espropriata come un insopprimibile presupposto legale per la determinazione del valore di mercato, ora che è venuto meno il sistema binario o bipolare di stima dell’indennità in base alla natura dell’area? Può ancora ritenersi che l’eronea qualificazione urbanistica renda viziata per violazione di legge, censurabile ex art. 360 n. 3 cpc, la determinazione di tale valore operata dal giudice di merito?

A queste domande la prevalente giurisprudenza di legittimità offre tuttora risposta positiva[52], facendo leva sulla lettera del superstite terzo comma dell’art. 5 bis dl. n. 333 del 1992, conv. dalla legge n. 359/1992, secondo il quale «Per la valutazione delle edificabilità delle aree, si devono considerare le possibilità legali ed effettive di edificazione esistenti al momento dell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio».

Non si vuole contestare che l’interpretazione corrente sia compatibile con l’argomento letterale menzionato, ma non v’è dubbio che essa non sia l’unica possibile, essendovi buone ragioni per ritenere ammissibile (e preferibile) un’interpretazione diversa. Queste ragioni si possono così riassumere:

  • l’oggetto dell’indennità di esproprio è la perdita della proprietà di un bene, unitariamente inteso, non già di una facoltà o di un attributo (lo jus edificandi) di esso, come invece avviene nel diverso caso dell’indennizzabilità per la reiterazione dei vincoli espropriativi; e analogamente, lo scopo del giudizio non è (o non dovrebbe essere più) quello di fare la radiografia urbanistica dei beni espropriati;
  • non è chiaro quale rilievo abbia la classificazione urbanistica di un’area (edificabile o non edificabile[53]) che debba essere stimata comunque in base al suo valore di mercato: se si  intende dire che il valore dipende da tutte le caratteristiche concrete del bene, e quindi anche dall’accertamento della sua edificabilità legale, si dice una cosa ovvia, ma ciò non è sufficiente a trasformare un eventuale errore di fatto nella concreta quantificazione del valore di mercato in un errore di diritto censurabile per violazione di legge (tanto più che tale errore di diritto non necessariamente sarebbe decisivo sul risultato finale della quantificazione dell’indennizzo);
  • secondo una risalente ma condivisibile giurisprudenza, il valore del bene è desumibile dai dati economici concreti «a prescindere dalla sua condizione giuridica»[54] e, comunque, la condizione urbanistica «avendo influenzato il prezzo di mercato delle aree omogenee ha già riverberato i propri effetti sul valore dell’area da stimare ed il suo nuovo calcolo darebbe vita ad una duplicazione del tutto illogica e inammissibile»[55]; «la qualificazione dell’area come edificabile o non, condotta sulla base dei relativi criteri legali, non assume rilevanza diretta, poiché quel che rileva, invece, è l’identificazione dell’effettivo valore venale di quell’area»[56];
  • come osservato dalla Corte costituzionale[57], «tale punto di riferimento [il valore di mercato] non può variare secondo la natura del bene, perché in tal modo verrebbe meno l’ancoraggio al dato della realtà postulato come necessario per pervenire alla determinazione di una giusta indennità. Con ciò non si vuol negare che le aree edificabili e quelle agricole o non edificabili abbiano carattere non omogeneo. Si vuol dire che, pure in presenza di tale carattere, anche per i suoli agricoli o non edificabili sussiste l’esigenza che l’indennità si ponga “in rapporto ragionevole con il valore del bene”». E tale rapporto ragionevole, che consiste oggi nel riferimento al valore di mercato, viene evidentemente compromesso se un dato astratto (qual è la classificazione urbanistica) viene a prevalere su un dato di realtà (il valore di mercato), ferma l’irrilevanza del surplus di valore connesso ai beni abusivi.

 

Quale messaggio si può ricavare in termini di valori impliciti o sotterranei che ispirano la giurisprudenza nella vicenda che si è descritta? Spetta all’interprete ricavarli, non essendo esplicitati apertamente nelle sentenze.

La risposta da dare è probabilmente nell’ancoraggio della giurisprudenza a una certa interpretazione dell’art. 42, secondo comma, Cost. sulla cd. “funzione sociale” della proprietà, formula che è stata utilizzata per molto tempo per consentire ai pubblici poteri di acquisire i beni privati (anche all’esito di procedimenti illegittimi) senza dover corrispondere il giusto prezzo. Oggi questa impostazione, che riemerge implicitamentenelle rationes decidendi delle sentenze, non è più sostenibile, anche grazie alla giurisprudenza Edu, essendosi compreso che altro è il significato di quella formula costituzionale. È come se i giudici non condividessero fino in fondo l’ancoraggio normativo dell’indennizzo al valore di mercato e cercassero in qualche modo di bilanciarne gli effetti mediante l’enucleazione di un nuovo criterio, anomalo e astratto, il «valore di mercato legale», di nuovo potenzialmente penalizzante per i privati.

 

b) Un altro esempio riguarda il diritto di accesso ai documenti amministrativi.

Un giornalista aveva fatto istanza di accesso ed estrazione in copia dei contratti derivati in titoli sottoscritti dal Ministero dell’economia e delle finanze, avendo necessità di acquisirli ai fini dell’esercizio del diritto di cronaca (art. 21 Cost.), tenuto conto anche di una inchiesta parlamentare in corso. La risposta del Consiglio di Stato[58] è stata negativa in base alle seguenti ragioni: il diritto d’accesso agli  atti amministrativi, in base alla legge n. 241, non è connotato da caratteri di assolutezza e soggiace, oltre che ai limiti di cui all’art. 24 della legge n. 241 del 1990, alla rigorosa disamina della posizione legittimante del richiedente, il quale deve dimostrare un proprio e personale interesse (non di terzi, non della collettività indifferenziata) a conoscere gli atti e i documenti richiesti; secondo il Consiglio di Stato, il diritto di cronaca è presupposto fattuale del diritto ad esser informati, ma non è di per sé solo la posizione che legittima il privato all’accesso ai sensi della legge n. 241; altrimenti, si finirebbe per introdurre una sorta di inammissibile azione popolare sulla trasparenza dell’azione amministrativa che la normativa sull’accesso non conosce.

Questa interpretazione restrittiva del diritto di accesso, che è in linea con la giurisprudenza amministrativa[59], è compatibile con le disposizioni della citata legge n. 241 del 1990 in base alle quali «non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni» (art. 24, comma 3); «la richiesta di accesso ai documenti deve essere motivata» (art. 25, comma 2); sono “interessati” all’accesso coloro «che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso» (art. 22, comma 1, lett. b).

Tuttavia, da questa interpretazione - venendo al discorso sui valori - traspare una visione paternalistica e di difesa corporativa degli organi dello Stato, nella misura in cui conferisce al giudice il potere di attribuire (o non attribuire) un diritto che è riconosciuto dalla legge in applicazione di un precetto costituzionale (l’art. 97 sul buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione).

A questa visione se ne può contrapporre un’altra,ugualmente compatibile con il testo delle disposizioni menzionate, fondata sul principio-valore secondo cui «l’accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza» (art. 22, comma 2, della legge del 1990).

Si dimostra l’importanza che il giudice, all’esito di una valutazione comparativa dei valori in campo, espliciti quello prescelto.

 

c) Nell’ambito del diritto privato, la filiazione è materia densa di problematiche interpretative aventi implicazioni valoriali.

La questione che si pone è la seguente: premesso che il termine di un anno per la proposizione della domanda di disconoscimento della paternità decorre dalla scoperta dell’adulterio[60], è possibile fare coincidere tale scoperta con il momento del conseguimento della certezza negativa della paternità biologica (cioè con l’effettuazione del test ematologico)? Nulla questio nei casi di sicura scoperta dell’adulterio (inteso come vera e propria relazione o incontro, comunque sessuale, idoneo a determinare il concepimento del figlio che si vuole disconoscere) in epoca precedente al raggiungimento della certezza negativa della paternità biologica; ma nei casi in cui vi sia incertezza su tale scoperta (e sulla data della stessa), è possibile fare decorrere il termine dalla data di effettuazione del test ematologico tramite il quale si ha conoscenza certa della verità biologica?

La giurisprudenza di legittimità è in senso contrario[61]: fa leva sulla lettera dell’art. 244, secondo comma, cc che fa decorrere il termine dalla scoperta dell’adulterio, sicché chi agisce in giudizio è tenuto a provare tale circostanza, ai fini della prova della tempestività dell’azione, a prescindere dal fatto, che si assume di nessun rilievo, del raggiungimento della certezza negativa della paternità biologica, nemmeno come elemento presuntivo (della conoscenza dell’adulterio) idoneo a determinare un’inversione dell’onere della prova a carico di chi si oppone all’azione di disconoscimento.

In tal modo quale valore è tutelato in via preferenziale? Certamente quello della stabilità dello status legale e della famiglia matrimoniale (cd. favor legitimitatis).

Così impostata la questione, quella offerta dalla Cassazione appare come un’interpretazione coerente con l’art. 30, quarto comma, Cost. che rimanda alla legge di stabilire le norme e i limiti per la ricerca della verità.

Tale interpretazione, tuttavia, non è l’unica possibile se si considera che il favor legitimitatis è tutelato dalla legge mediante la stessa previsione di un termine per la proposizione dell’azione di disconoscimento da parte del padre legale[62]. Ed è ovvio che se si fissa la decorrenza di tale termine da una data in cui potenzialmente la persona non è in condizione di esercitare l’azione di disconoscimento o se, comunque, si pongono ostacoli all’esercizio della stessa (ponendo a suo carico l’onere di fornire prove diaboliche della tempestività dell’azione), il favor legitimitatis finisce per ricevere una tutela doppia rispetto a quella che sarebbe consentita.

L’indagine relativa all’adulterio torna indirettamente ad assumere carattere preliminare rispetto a quella sulla sussistenza o meno del rapporto procreativo, che è quanto la Corte costituzionale ha stigmatizzato. Infatti, secondo la Consulta, «Il subordinare – sulla base del diritto vivente in precedenza richiamato – l’accesso alle prove tecniche, che, da sole, consentono di affermare se il figlio è nato o meno da colui che è considerato il padre legittimo, alla previa prova dell’adulterio è, da una parte, irragionevole, attesa l’irrilevanza di quest’ultima prova al fine dell’accoglimento, nel merito, della domanda proposta; e, dall’altra, si risolve in un sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione garantito dall’art. 24 della Costituzione. E ciò per giunta in relazione ad azioni volte alla tutela di diritti fondamentali attinenti allo status e alla identità biologica (sentenza n. 50 del 2006)»[63]. La conseguenza è il sacrificio del principio del favor veritatis[64].

Un’ultima notazione riguarda il citato art. 30, quarto comma, Cost. che rimanda alla legge di stabilire le norme e i limiti per la ricerca della paternità. Esso – al pari del terzo comma che tutela i figli nati fuori del matrimonio nei limiti della «[compatibilità] con i diritti della famiglia legittima» – è ritenuto ormai superato. Secondo la dottrina la predetta norma costituzionale rappresentava l’esito di un bilanciamento tra i diritti e gli interessi dei genitori con quelli dei figli e con l’esigenza di tutela dell’istituzione familiare: oggi, però, la giurisprudenza europea e il legislatore, quando si occupano della filiazione, non fanno più un bilanciamento a tre, ma soltanto a due (genitori-figli), essendo ormai quasi scomparso quello che è considerato un “terzo incomodo”, cioè la tutela della famiglia quale involucro formale[65].

La persona che invochi il riconoscimento della verità (cd. favor veritatis) si limita a far valere un principio basilare: non si può fingere in materia di fatti, come invece si può in materia di diritto (circa facta non potest fingi sicut circa iura). La legge, ostacolando l’esercizio dell’azione di disconoscimento della paternità, si arroga iure imperii il potere di mutare la verità dei fatti (facendo apparire come esistente una filiazione naturale che non c’è), in contrasto con le consolidate massime secondo cui «non si può cambiare la verità di fatto» (veritas facti non potest mutari), o «l’autorità delle leggi non può abolire la verità naturale» (auctoritas legum non potest veritatem naturalem tollere)[66]. All’obiezione secondo cui ciò già accade nella filiazione adottiva si può replicare che in tale forma di filiazione la legge si limita a modificare il diritto (fictio legis) per uno scopo solidaristico, creando un rapporto legale di filiazione, ma non si arroga il potere di creare una filiazione naturale inesistente.

Non è forse questo un esempio di come decisioni apparentemente tecniche, nella specie in ordine alla decorrenza di un termine per la proposizone di un’azione, possano nascondere opzioni valoriali di massimo rilievo?

[1] Secondo queste teorie l’argomentazione in iure serve a giustificare ex post decisioni prese sulla base di diverse e concrete ragioni di fatto.

[2] R. Guastini, La sintassi del diritto, 2014, p. 442.

[3] A. Barak, La discrezionalità del giudice, 1995, p. 52.

[4] A.Witkon, Some Reflections on Judicial Law Making, in Israel Law Review, 1967, 480, ha osservato che «è sempre facile decidere tra ciò che è legittimo e ciò che non lo è; la difficoltà inizia quando si deve scegliere tra due tipi di risposta legittima».

[5] A. Barak, cit., pp. 91 ss.

[6] L. Bigliazzi Geri, L’interpretazione, 1994, p. 120.

[7] A. Witkon, cit., p. 475; non potrebbero essere più chiare le parole di L. Radcliffe, Not in Feather Beds, 1968: «oggi si riconosce ampiamente non vi è mai stata controversia più sterile sulla creazione del diritto da parte del giudice. Ovvio che il giudice legifera. Come potrebbe evitarlo? Il processo legislativo e giudiziario sono rispettivamente due fonti complementari di creazione del diritto».

[8] K. Diplock, The Courts as Legislators (Holdsworth Club, Presidential Adress), 1965; secondo H. Klinghoffer, Administrative Law, 1957, la creazione di norme generali è creazione del diritto in senso funzionale «senza distinzione relativamente all’organo che le crea».

[9] Come evidenziato da Corte cost., ord. n. 334/2008, quando ha dichiarato inammissibile il conflitto di attribuzione sollevato dalla Camera dei deputati contro la sentenza della Cass., sez. I, n. 21748/2007, sul caso Englaro.

[10] Cons. di Stato, sez. V, 13 dicembre 2012, n. 6392.

[11] F. Schauer, Il ragionamento giuridico, 2014 (ed. it.), p. 20.

[12] Cass., sez. un., n. 24883/2008.

[13] Cass., sez. un., n. 21260/2016.

[14] Si è sostenuto che anche se ci fosse una regola di portata universale che prevedesse che, nei casi in cui le regole ermeneutiche lasciassero spazio alla discrezionalità, sarebbe valida solo l’interpretazione che negasse ogni potere discrezionale del giudice, la discrezionalità non potrebbe comunque venir meno.

[15] A. Barak, cit., p. 159.

[16] G. Pino, I diritti fondamentali nel prisma dell’interpretazione giuridica, in La vocazione civile del giurista cit., pp. 25 ss., si sofferma criticamente sulla teoria dell’interpretazione originalista delle norme costituzionali.

[17] G. Giacobbe, La giurisprudenza come fonte del diritto?, in Iustitia, 2015, pp. 313 ss.; v. Cass., sez. un., n. 15144/2011.

[18] Lo pone anche A. Nappi, Il sindacato di legittimità nei giudizi civili e penali di cassazione, 2011, pp. 6 ss., il quale riconosce la funzione creativa della giurisprudenza e considera indiscusso che l’applicazione del diritto richiede scelte di valore non integralmente predeterminabili.

[19] M. Taruffo, Legalità e giustificazione della creazione giudiziaria del diritto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, pp. 11 ss.

[20] Secondo A. Barak, cit., p. 99, «chiunque abbia promulgato una data norma, con quello stesso atto, implicitamente, ha autorizzato il giudice ad interpretarla ed a determinarne il campo di applicazione. Chiunque inoltre abbia autorizzato il giudice a decidere la controversia, implicitamente l’ha legittimato a stabilire la norma secondo cui decidere il caso, nonché il campo di applicazione di essa. La promulgazione di una legge, quindi, corrisponde ad un conferimento di discrezionalità al giudice perché egli possa interpretarla».

[21] In senso critico su tale impostazione è F. Schauer, cit., pp. 216 ss.

[22] F. Schauer, cit., p. 219, ritiene che in tali casi l’interpretazione letterale sia “defettibile”. L’A. (cit., p. 206) fa l’esempio della norma, di chiara formulazione, che vieta di dormire nelle stazioni ferroviarie e che tuttavia risulta inapplicabile all’uomo d’affari che, avendo perso un treno ed essendo stanco, si sia appisolato in una stazione ferroviaria, evento estraneo allo scopo della norma che è quella di contrastare il vagabondaggio.

[23] È il caso delle disposizioni di immediata comprensione e, quindi, applicazione, come quella che vieta di superare una certa velocità o di parcheggiare in un determinato luogo o che stabilisce un certo termine o particolari formalità per compiere un’attività ecc.

[24] A. Di Majo, Diritto dell’Unione europea e tutele nazionali. La responsabilità civile degli Stati, in Europa e diritto privato, 2014, p. 311.

[25] C. Salvi, Capitalismo e diritto civile, 2015.

[26] V. le riflessioni di L. Mengoni, Diritto vivente, in Jus, 1988, pp. 14 ss.

[27] V. Corte cost. n. 11/1981.

[28] V. Cass., sez. I, n. 15138/2015 e Corte cost. n. 221/2015.

[29] V. Corte cost. n. 356/1996: «In linea di principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali».

[30] S. Cassese, Dentro la Corte. Diario di un giudice costituzionale, 2015.

[31] V. Corte cost. n. 179/2016 in un caso in cui un comune aveva chiesto la condanna del privato al pagamento di somme dovute per l’assegnazione di suoli edificatori in base ad una convenzione urbanistica.

[32] V. Corte cost. n. 204/2004.

[33] A partire da Corte cost. n. 191/2006.

[34] V. il lunghissimo e non esaustivo elenco delle materie indicate nell’art. 133 cpa.

[35] A partire dalle sentenze n. 8827 e 8828 del 2003 della III sez. civ. della Cassazione.

[36] V. Corte cost. n. 10/2015.

[37] È il caso della regola «inclusio unius, exclusio alterius»(le omissioni devono essere interpretate come esclusione) nella vicenda, esaminata da Cass., sez. III, n. 7775/2014, del diritto di recesso dei risparmiatori per l’offerta fuori sede dei servizi di investimento.

[38] Come disse S. Mancini durante l’approvazione della legge n. 2848 del 1865, all. E, rivolgendosi al cittadino amministrato che lamenti la lesione dei propri interessi da parte della pubblica amministrazione: «che vi si rassegni…».

[39] R. Bin, A discrezione del giudice, 2013, p. 57, ha osservato che molte delle regole che apparentemente sono dirette a disciplinare l’interpretazione (come l’art. 12 preleggi) sono in effetti rivolte a costringere i giudici ad emettere comunque una decisione. Lo stesso A. (cit., 95) invita a non sovrapporre la rule of politics alla rule of law, nel senso che, mentre il parlamento si occupa del riconoscimento di un diritto in generale, i giudici hanno a che fare con gli interessi di una singola persona così come essi si presentano in un caso specifico, al quale sono tenuti a dare risposte avendone le competenze (come è avvenuto nel caso Englaro).

[40] In senso negativo v. Corte cost. n. 248/2013  e, sull’art. 1384 c.c., Cass., sez. III, n. 14776/2014.

[41] In senso negativo v. Cass., sez. I, n. 5128/2001.

[42] V. Cass. n. 12962/2016.

[43] V. Cass. n. 19599/2016 in tema di riconoscimento di atto straniero attestante la nascita di un figlio da due donne.

[44] È stato sostenuto da R. Bin, cit., p. 32, che molte interpretazioni diverse della stessa disposizione, per esempio quelle che emergono attraverso l’incessante battaglia tra precedenti, revirement giurisprudenziali e così via, non sarebbero un difetto, ma un’opportunità che stimolerebbe non confusione ma profondità e, alla fine, risultati migliori.

[45] A. Barak, cit., p. 146.

[46] Tale indirizzo, sostenuto da taluni orientamenti di teoria del diritto, è criticato da M. Taruffo, cit., il quale ha evidenziato l’esistenza di orientamenti giurisprudenziali ispirati alla preminente o esclusiva considerazione di determinati fattori: il sesso (la feminist jurisprudence), la razza, la religione, le condizioni economiche e sociali delle parti ecc.

[47] In senso critico sulla possibilità per il giudice di fare appello alla coscienza sociale come strategia interpretativa per chiarire il significato di concetti generici, indeterminati e valutativi contenuti nella normativa costituzionale in tema di diritti fondamentali, G. Pino, cit., pp. 28 ss.

[48] In tal senso R. Bin, cit., p. 98, secondo il quale: «È la critica a testare rationes e argomenti usati dai giudici per giustificare ognuna delle loro decisioni. È la critica ad ammonire i giudici a non oltrepassare la sottile linea che ne delimita la funzione e a basare le loro decisioni su specifiche regole di diritto. È la critica che può correggere il comportamento delle corti che discettano dei diritti senza avere un collegamento preciso con casi e fatti specifici».

[49] M. Taruffo, cit. Secondo A. Barak, cit., p. 208, i giudici dovrebbero «ricercare soluzioni in linea con il consenso sociale, o per lo meno non in contraddizione con esso».

[50] G. Zaccaria, La giurisprudenza come fonte del diritto, 2007.

[51] G. Pino, cit., 34; G. Zagrebelsky, Il diritto mite, 1992, p. 149.

[52] Secondo Cass., sez. I, n. 22992/2014: «… operazione preliminare necessaria, nella determinazione dell’indennizzo espropriativo, è l’accertamento della natura del fondo espropriato, ai fini dell’adozione del corretto criterio di determinazione indennitaria, se edificabile o meno (anche a seguito delle recenti dichiarazioni di incostituzionalità, è rimasto in vigore dl. 11 luglio 1992, n. 333, art. 5 bis, comma 3 conv. in L. 8agosto 1992, n. 359, che pone la summa divisio tra suoli edificabili e non edificabili), verificandosi in primo luogo se sussista l’edificabilità legale, configurabile secondo la disciplina contenuta negli strumenti urbanistici».

[53] A tal fine non pare che si possa dare rilievo al fatto che nel capo VI del TU sugli espropri (d.lgs n. 327 del 2001) vi sia una sezione (la III) dedicata alle aree edificabili o edificate e un’altra sezione (la IV) alle aree non edificabili, essendo comune nelle due tipologie il criterio di stima (valore di mercato).

[54] Cass., sez. I, n. 1589/1980, n. 2392/1990.

[55] Cass., sez. I, n. 7145/1993.

[56] Cass., sez. I, n. 5451/1993, n. 8075/1998, n. 7967/1999.

[57] Sentenza n. 181/2011.

[58] Cons. di Stato, sez. IV, 12 agosto 2016, n. 3631.

[59] V., ad esempio, Cons. di Stato, sez. VI, 19 gennaio 2012, n. 201, secondo cui il giudice può ravvisare motivi ostativi all’accesso diversi da quelli opposti dall’Amministrazione.

[60] Corte cost. n. 134/1985 ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 244 cc nella parte in cui non disponeva, per il caso previsto dall’art. 235 n. 3 cc (in tema di adulterio della moglie nel periodo del concepimento e prova della esclusione della paternità), che il termine di un anno dell’azione di disconoscimento decorresse dal giorno in cui il marito sia venuto a conoscenza dell’adulterio della moglie (la norma faceva decorrere il termine dalla nascita o dalla scoperta della nascita).

[61] V., tra le altre, Cass., sez. I, n. 25263/2008.

[62] L’azione è imprescrittibile riguardo al figlio.

[63] V. Corte cost. n. 266/2006.

[64] Sul crescente rilievo del favor veritatis v., tra le altre, Corte cost. n. 7/2012 e Cass., sez. I, n. 19599/2016.

[65] E. Lamarque, Relazione di sintesi del gruppo di lavoro su Famiglia e filiazione, Convegno annuale dell’Associazione “Gruppo di Pisa”, giugno 2013, in www.gruppodipisa.it/wp-content/uploads/2013/12/Lamarque-Catania.pdf.

[66] Secondo Y. Thomas, Fictio legis, 2016, p. 114, la natura come sostrato normativo dei comportamenti umani è tornata ad essere un criterio dominante a livello giuridico e ideologico.