Magistratura democratica

Editoriale

di Renato Rordorf

Non è mai agevole percepire il significato e l’esatta portata dei grandi avvenimenti storici nel momento stesso in cui accadono. Ma mi pare difficile non avvertire l’impressione che quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi – l’imponente fenomeno migratorio in atto da Paesi mediorientali ed africani verso l’Europa – sia appunto un accadimento storico di straordinaria importanza, destinato a modificare in modo non passeggero la struttura delle società europee, e probabilmente – forse non nell’immediato, ma in tempi neppure lunghissimi – anche alcuni dei loro assetti giuridico-istituzionali. Si ripercuoterà non marginalmente su questi assetti il modo in cui sapranno fronteggiare il fenomeno l’Europa, nei singoli Stati sovrani da cui è composta, e soprattutto l’Unione europea, nella sua ancora incompleta configurazione di entità dotata anche di attributi di sovranità sovranazionale.

L’accoglienza di tante donne ed uomini, che la necessità e la speranza spingono verso le coste ed entro i confini dell’Europa, sta ponendo per ora all’opinione pubblica principalmente problemi umanitari, organizzativi e politici. Ma è evidente che esistono anche non semplici problemi d’inquadramento giuridico del fenomeno, e che sempre più verranno all’attenzione tra breve esigenze di tutela giuridica di soggetti in condizione di obiettiva debolezza. Il modo in cui l’Europa sembra si stia accingendo a dare risposta a questi interrogativi non lascia affatto tranquilli. Si ha l’impressione che la “crisi dei migranti”, sommandosi alla crisi economica ed alle note difficoltà del “caso Grecia”, stia producendo effetti destrutturanti sulle istituzioni europee, facendone emergere la fragilità a fronte del rinascente protagonismo degli (o di alcuni) Stati nazionali. Quei problemi, invece, richiederebbero una risposta auspicabilmente uniforme nell’intera area dell’Unione. Occorrerebbe sin d’ora che s’iniziassero a forgiare, o se del caso ad idoneamente rimodellare, gli opportuni strumenti giuridici: non ultimi quelli giurisdizionali in grado di assicurare una più efficace tutela ed una miglior protezione dei diritti primari ai soggetti più deboli coinvolti in questo impressionante fenomeno, esposti alternativamente al rischio di essere espulsi o di essere sottoposti a forme di pesante sfruttamento.

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Su questi tre grandi aree – migranti, istituzioni europee e tutela giurisdizionale – Questione giustizia si è spesso già soffermata e dovrà certo necessariamente tornare ancora in futuro. Ma in questo numero l’attenzione è soprattutto focalizzata su questioni che, a vario titolo, appartengono al tema della giurisdizione, visto soprattutto in ambito nazionale.

Sarebbe certamente temerario voler affrontare un tema simile in un breve spazio di pagine con pretese di completezza ed organicità. Mi pare però opportuno porre in evidenza come sia proprio la giurisdizione, con le sue innumerevoli sfaccettature e tutto il suo bagaglio di problematicità, a fare da sottofondo alle varie e diverse questioni sulle quali più specificamente si soffermano gli scritti qui di seguito riportati.

A nessuno certo sfugge come, in qualsiasi società che ambisca a definirsi civile, la giurisdizione sia davvero un punto nevralgico, che tocca l’essenza stessa del potere ed il modo in cui lo si concepisce. È essa stessa espressione della sovranità, ma è soggetta nel suo esercizio all’impero della legge. Il testo costituzionale lo esprime con assoluta chiarezza, laddove, nel primo comma dell’art. 101, stabilisce che la giustizia è amministrata in nome di quel popolo al quale l’art. 1 attribuisce la sovranità, sicché i giudici pronunciano le loro sentenze appunto in nome del popolo italiano (e non più in nome del re come una volta accadeva), ma poi, al secondo comma del medesimo articolo, subito aggiunge che, nell’amministrazione della giustizia e quindi nell’esercizio della sovranità loro in proposito delegata, quegli stessi giudici sono soggetti alla legge (e soltanto ad essa). Sovranità e soggezione all’impero della legge si presentano, dunque, come fossero due facce della medesima medaglia.

Ma il rapporto tra la funzione di chi pone la legge e quella di chi è chiamato ad interpretarla e ad applicarla è, per sua stessa natura, un rapporto problematico e per certi aspetti instabile. Lo è sempre stato, ben al di là di quanto la polemica giornalistica quotidiana lo lasci intendere quando indulge nel rappresentare il conflitto ora più ora meno acceso tra “i giudici” e “la politica”. È noto l’aneddoto di Napoleone il quale, all’indomani dell’emanazione del Code civil, sarebbe rimasto sgomento alla notizia che erano subito cominciati a fiorire commentari ed interpretazioni varie, ed avrebbe esclamato: «mon code est perdu!».

Nessuno oggi, certo, coltiva più l’illusione che i testi normativi siano sempre suscettibili di un’applicazione meccanica ed automatica, dalla quale esuli ogni possibile margine di valutazione interpretativa. Non è mai stato così nella storia, e tanto meno può esserlo in un’epoca, come la nostra, nella quale il progressivo ampliamento dell’area di intervento normativo si accompagna al moltiplicarsi delle fonti del diritto, in ambito nazionale e sovranazionale, riducendo di conseguenza sempre più il grado di organicità e d’intrinseca coerenza dell’ordinamento giuridico. In queste condizioni si richiede necessariamente all’interprete un maggiore sforzo d’integrazione ed armonizzazione sistematica delle disposizioni da applicare, che esalta la funzione del cosiddetto diritto vivente in una misura forse mai prima così marcata.

Ora, che l’ampliamento degli spazi interpretativi possa rendere meno prevedibili le decisioni (in un recente saggio Natalino Irti ha parlato di «diritto incalcolabile») e quindi possa riflettersi negativamente sul grado di certezza del diritto – che non è un valore assoluto, ma che resta un obiettivo tendenzialmente da perseguire, non foss’altro per le sue evidenti ricadute sul fondamentale principio di eguaglianza di fronte alla legge – appare difficilmente contestabile. Ed altrettanto incontestabile è che, almeno fin quando restino invariate le caratteristiche basilari del nostro sistema giuridico di civil law, imperniato sul diritto scritto di fonte legislativa, il solo richiamo all’autorità dei precedenti giurisprudenziali dei quali il cd diritto vivente si alimenta non sempre è in grado di garantire sufficientemente la prevedibilità delle future decisioni; tanto meno, poi, quando l’organo giurisdizionale cui è primariamente affidato il compito di assicurare l’uniformità degli orientamenti interpretativi – la Corte di cassazione – è chiamato ad emettere ogni anno un tal numero di pronunce, su questioni di ogni tipo e di ogni valore, ed è perciò composto da un numero così elevato di magistrati, da far sì che quasi inevitabilmente si manifestino contrasti e contraddizioni al suo interno, rendendo di conseguenza talvolta problematica l’individuazione di linee giurisprudenziali coerenti e durevoli nel tempo.

È questa una delle ragioni (forse non la sola) per cui in molti ambienti, anche istituzionalmente qualificati, sembra oggi avvertirsi una crescente diffidenza nei confronti di quello che viene spesso percepito come un eccesso di discrezionalità interpretativa ed applicativa delle regole da parte del giudice chiamato a farle rispettare. Ne è scaturita una tendenza normativa, soprattutto evidente nel diritto dell’impresa, che mira a limitare l’intervento del giudice, considerato alla stregua di un rischio imponderabile e quindi di ostacolo allo sviluppo positivo dell’attività imprenditoriale. V’è di ciò traccia evidente nelle riforme del diritto societario e del diritto fallimentare, che si sono susseguite nel primo decennio del secolo, ma lo si avverte bene anche nella recente riforma del diritto del lavoro, in cui ha giocato un ruolo non certo secondario la preoccupazione di ridurre le possibilità di reintegro ope iudicis del lavoratore ingiustamente licenziato in favore di forme di tutela pecuniaria con effetti più facilmente calcolabili per il datore di lavoro.

Non entro qui nel merito dei problemi suscitati da questa riforma, dei quali si occupano gli scritti a ciò espressamente dedicati in questo numero della Rivista, ma in termini generali vorrei brevemente osservare che l’idea di favorire la prevedibilità degli effetti giuridici ed economici dell’applicazione (o disapplicazione) di determinate norme, riducendo gli spazi d’intervento (o di discrezionalità nell’intervento) del giudice, appare in se stessa alquanto discutibile. Lo è se s’immagina che, irrigidendo il sistema in una gabbia di disposizioni sempre più rigide, minute e specifiche, se ne riducano i margini d’incertezza applicativa, senza accorgersi come invece, in un contesto di scarsa sistematicità dell’ordinamento quale quello cui già prima alludevo, ciò rischia sovente di costituire un rimedio peggiore del male: perché la realtà in cui le disposizioni normative sono destinate a calarsi è sempre molto più varia e complessa di come il più avveduto dei legislatori riesca mai a prefigurarla. Ma discutibile mi sembra, soprattutto, il fatto stesso che la tutela dei diritti di alcuni – e la maggiore ampiezza dell’intervento giurisdizionale attraverso cui quella tutela dovrebbe esser garantita – sia concepita come un fattore di ostacolo allo sviluppo economico generale; uno sviluppo che resta assai ipotetico e del quale, comunque, non tutti potranno beneficiare, o quanto meno non nella stessa misura.

Credo che la strada verso la maggiore prevedibilità delle decisioni giudiziarie e verso una maggior certezza del diritto non debba né possa passare attraverso la riduzione delle garanzie giurisdizionali, ma sia tutt’altra. In estrema sintesi, quasi a mo’ di slogan, mi verrebbe da dire che non di ridurre l’area dell’intervento giurisdizionale c’è bisogno, tanto meno in un momento in cui il già ricordato fenomeno immigratorio aumenta il numero dei soggetti deboli, quanto piuttosto di migliorarne la qualità.

Che a migliorare la qualità dell’esercizio giurisdizionale possa servire la recente riforma delle regole che disciplinano la responsabilità civile dei magistrati mi pare francamente assai dubbio. Ho già accennato alle mie perplessità in proposito nell’editoriale di apertura del primo numero di quest’anno, preannunciando che Questione giustizia se ne sarebbe occupata più approfonditamente, ed all’argomento sono infatti dedicati diversi scritti del presente numero. Non mi pare qui necessario aggiungere altro, se non ribadire la preoccupazione che, a prescindere dall’effettiva portata di questa o quella norma e della corretta risposta da dare ai problemi tecnico-giuridici che la relativa interpretazione comporta, possa generarsi, nell’operare quotidiano dei magistrati, un atteggiamento per così dire “difensivo” (rispetto al rischio d’incorrere in responsabilità), che li spinga a privilegiare soluzioni di tipo formale, burocratizzando il proprio ruolo e perciò rinunciando alla ricerca di quei valori di giustizia insiti nell’ordinamento che, senza uno sforzo interpretativo ed applicativo mai del tutto privo di rischi, è talvolta difficile portare alla luce e rendere operanti nel decidere dei casi concreti della vita.

È anche lecito chiedersi – e perciò un altro gruppo di scritti contenuti nella pagine seguenti si soffermano specificamente su questo delicato tema – quanto giovi alla qualità della risposta giurisdizionale, ed alle esigenze di certezza del diritto e prevedibilità delle decisioni di cui si diceva, l’attuale assetto della giurisdizione nel nostro ordinamento, ed in particolare la sua ripartizione tra giurisdizione ordinaria, amministrativa e contabile (un discorso a parte meriterebbe la giurisdizione tributaria, ed in futuro credo che questa Rivista dovrà occuparsene). Il progressivo e si direbbe quasi inarrestabile ampliamento dell’area della giurisdizione amministrativa – mentre si va smarrendo la nettezza della stessa fondamentale distinzione tra diritto pubblico e diritto privato, giacché sempre più spesso funzioni tipicamente pubbliche sono svolte da soggetti privati ed altrettanto spesso la pubblica amministrazione persegue i propri obiettivi istituzionali operando secondo schemi tipicamente privatistici – ha non soltanto reso assai più complessa ed incerta che in passato l’individuazione del plesso giurisdizionale al quale determinate controversie appartengono, ma ha anche in molti ambiti sovrapposto le attribuzioni del giudice amministrativo a quelle del giudice ordinario. Può accadere che su identiche o analoghe questioni di diritto siano talvolta chiamati a pronunciarsi plessi giurisdizionali diversi e che perciò si formino orientamenti giurisprudenziali differenti, poiché, com’è noto, solo le decisioni del giudice ordinario ma non anche quelle del giudice amministrativo sono soggette all’opera di tendenziale uniformazione della giurisprudenza svolta dalla Corte di cassazione. Si è già sottolineata prima l’importanza che, nell’attuale contesto storico, ha oggi assunto il diritto vivente, ma certo non giova che vi sia una pluralità di diritti viventi paralleli tra loro non comunicanti.