Magistratura democratica

La riforma del lavoro del Governo Renzi ed il sistema di relazioni sindacali

di Andrea Lassandari

L’insieme delle disposizioni del Jobs act dà vita ad un disegno cui è sottesa una idea piuttosto precisa del ruolo da attribuire alle “parti sociali” ed alla autonomia collettiva, che per un verso vedrà ridimensionato il suo ruolo, per altro sarà piuttosto “utilizzata”, nelle fattispecie di rinvio ancora rimaste, all’interno di operazioni eminentemente connesse alla introduzione di deroghe in pejus. La stessa funzione derogatoria sembra in buona parte indebolita proprio dalle dosi già massicce di flessibilità assicurate direttamente dal legislatore: il quale comincia quindi a non lasciare più spazi, giuridici o comunque politico-sindacali, neanche per interventi in pejus. Ciò che rivela un disegno generale che punta alla marginalizzazione dell’autonomia collettiva: ed in particolare, alla riduzione dell’importanza del contratto collettivo nazionale.

1. L’Esecutivo Renzi ed i sindacati dei lavoratori: dall’indifferenza all’ostilità?

La serie di provvedimenti normativi sul lavoro proposti ed introdotti dall’Esecutivo Renzi, nota come Jobs act, individua una soluzione di continuità con il passato, anche per quel che concerne il rapporto con le organizzazioni sindacali ed in particolare con i sindacati dei lavoratori. Può dirsi che al momento ci si collochi in effetti agli antipodi, rispetto alle esperienze di cd “concertazione” caratterizzanti, pur con momenti di crisi anche molto acuta, grosso modo il ventennio finale del secolo scorso: restando da stabilire se il modello si caratterizzi per (ostentata) indifferenza o addirittura ostilità, come a chi scrive peraltro appare, nei confronti appunto dei sindacati dei lavoratori.

Il fatto che ciò però avvenga nel momento in cui al Governo siede come presidente del Consiglio il segretario del partito politico di gran lunga più importante, nell’area storicamente appartenente alla sinistra politica, rende la fase contemporanea del tutto inedita. Costringendo comunque tutti a confrontarsi con il dato di fatto che il sindacato dei lavoratori non ha più, al momento, in Italia (ma altrettanto è già accaduto pure in altri Paesi europei) - e potrebbe a lungo non avere - “governi amici”, secondo formula di grande successo, sempre nel secolo scorso.

Per il vero segnali di discontinuità rispetto alle prassi pregresse sono ben visibili fin dall’insediamento, nel 2001, dell’Esecutivo Berlusconi. Si fa riferimento al transito, forse più chiaro e significativo sul piano politico-sindacale che strettamente tecnico, dalla “concertazione” al “dialogo sociale”; inoltre alla dichiarata vicinanza con i punti di vista delle organizzazioni sindacali dei datori; ancora ai rinvii sistematicamente rivolti “a”, piuttosto che “ai”, sindacati rappresentativi. Con il palese intento, in quest’ultimo caso, di legittimare solo alcuni interlocutori, tra gli storici referenti sindacali: in particolare emarginando la Cgil. A sua volta peraltro dichiaratamente ostile.

Ma si trattava appunto di un Esecutivo appartenente alla destra politica: le reazioni e gli effetti non sembrando conseguentemente così anomali. D’altra parte l’Esecutivo Berlusconi non aveva affatto rinunciato ad una interlocuzione con le organizzazioni sindacali, come si diceva: l’esclusione della Cgil rappresentando una novità, certo assai considerevole, che forse aveva allora addirittura rafforzato l’interesse ad interagire con gli altri soggetti.

Si devono poi al cd “governo tecnico” di Monti ulteriori e forse anche più significative evoluzioni, nei rapporti con le organizzazioni sindacali. Perché solo in questa fase è smentita anche sul piano formale la prassi concertativa: così l’accordo sulla “produttività e competitività” del novembre 2012, nonostante il forte ruolo di promozione svolto dall’Esecutivo, non vede ad esempio la sottoscrizione formale di quest’ultimo. Contemporaneamente la “disparità di trattamento” tra organizzazioni sindacali viene pressoché eliminata: con un generalizzato ridimensionamento però del ruolo di tutti i soggetti.

Di nuovo poteva tuttavia sostenersi che l’Esecutivo fosse appunto presieduto da un esponente di formazione tecnica, non uso alle consuetudini e liturgie politico-sindacali; facesse inoltre riferimento in Parlamento ad una ampia quanto anomala coalizione, comprendente tutte le principali forze politiche. Anche se il profilo dominante questa esperienza istituzionale, legato all’emergenza economica, in altri momenti storici aveva al contrario condotto ad una forte integrazione proprio con le “parti sociali”: si pensi solo alle scelte fatte, ad inizio degli anni novanta, dal tecnico Ciampi.

L’Esecutivo Renzi comunque va nettamente oltre tutti questi precedenti. Oggi infatti, esclusa qualunque sede di formalizzazione di impegni con le organizzazioni sindacali e dei datori[2], vengono addirittura negati, stando almeno alla comunicazione ufficiale, momenti informali di confronto: nei pochissimi incontri fino ad oggi realizzati, gestiti peraltro in modo da sottolinearne, anche in termini simbolici, l’irrilevanza, l’Esecutivo si è in effetti limitato a fornire informazioni, tra l’altro a quel che pare molto generiche e parziali, sulle decisioni già prese.

Con tutta probabilità consultazioni informali sono però intervenute con le sole associazioni di rappresentanza dei datori di lavoro, a partire da Confindustria: ciò emergendo in modo facilmente verificabile, se si considera la notevole vicinanza nei contenuti tra un documento contenente proposte di modifica della disciplina sul mercato del lavoro nonché della contrattazione collettiva, reso pubblico da quest’ultima organizzazione nel maggio 2014, e lo stesso Jobs act. Oltre ovviamente al plauso generalizzato che le sole organizzazioni datoriali hanno riservato sempre al Jobs act.

Si deve poi tener conto di due interventi normativi, penalizzanti entrambi soprattutto le organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori.

Con il d.lgs n. 23/2015, ai sensi dell’art. 9, co. 2, le organizzazioni di tendenza sono per la prima volta equiparate a tutti gli altri datori di lavoro, nella regolamentazione del licenziamento. Non ne derivano significativi effetti concreti negativi per le prime, considerato che il nuovo regime operante nelle unità produttive ed imprese più grandi, già soggette all’art. 18, l. n. 300/1970, concernente gli assunti dopo il 6 marzo 2015, risulta piuttosto vicino a quello fino ad oggi previsto, ai sensi ora della l. n. 604/1966, per i piccoli datori e per le organizzazioni di tendenza: anche quanto agli importi delle indennità da corrispondere a titolo sanzionatorio[3]. Nello stesso tempo le organizzazioni di cui si parla comprendono ovviamente molteplici soggetti, andando ben oltre i sindacati.

Sul piano mediatico il provvedimento è stato però presentato come rivolto proprio od innanzitutto alle organizzazioni sindacali dei lavoratori: con l’obiettivo di eliminare una storica distinzione, per il vero con solide radici e giustificazioni nel sistema costituzionale[4], presentata tuttavia come contraddittorio “privilegio”. Contestandosi in buona sostanza ai sindacati di pretendere di far applicare ad altri datori ciò che non valeva per loro.

I principali sindacati dei lavoratori sono stati però significativamente penalizzati soprattutto dalle misure volte a ridurre il finanziamento pubblico degli enti di patronato, i più importanti dei quali costituiscono espressione dei primi. In un momento di grande debolezza sindacale come l’attuale il provvedimento risulta assai incisivo, qualunque cosa si pensi del ruolo di questi enti, comunque tutt’altro che inutili a parere di chi scrive. Sembrando in grado di rappresentare meglio di altri, anche perché non si è al corrente di precedenti storici, lo stato delle relazioni qui analizzato.

All’interno del descritto complessivo approccio, ulteriori e specifici riscontri sono visibili e formalizzati all’interno del Jobs act: a questi sarà dedicata ora attenzione.

2. Il “coinvolgimento delle parti sociali” nel Jobs Act

I testi legislativi già vigenti mostrano in effetti, in armonia con le osservazioni avanzate, un piccolo gruppo di norme dove si prevede un’esplicita interazione con le organizzazioni sindacali o con la contrattazione collettiva. Se ne presenta l’elenco, dedicando di seguito sommaria attenzione anche a previsioni ritenute significative, tuttavia non ancora approvate.

2.1. segue: poche fattispecie normative e limitatissimi casi di rinvio formale al contratto collettivo nella disciplina vigente

Il primo dei provvedimenti è costituito dal dl n. 34/2014, convertito con l. n. 78, cd “decreto Poletti”: in tal caso le disposizioni che mostrano una connessione con le organizzazioni sindacali sono state introdotte pressoché tutte in sede di conversione[5].

Ebbene qui si coinvolge allora l’autonomia collettiva, all’interno delle fondamentali modificazioni riguardanti il contratto a termine, solo stabilendo che la prima possa disporre «un limite percentuale od un termine più favorevole» (alle imprese) di quello legale, fissato al 31 dicembre 2014, per quel che concerne l’adeguamento al vincolo del venti per cento tra assunti a tempo determinato ed indeterminato (art. 2 bis).

Il contratto collettivo è inoltre più volte nominato, a proposito dell’apprendistato (art. 2). In particolare consentendo ad esso di «individuare limiti diversi da quelli» legali, vincolanti l’«assunzione di nuovi apprendisti» alla prosecuzione di una percentuale dei rapporti di apprendistato in essere:«esclusivamente» però per i datori con più di cinquanta dipendenti; facendone «salva l’autonomia», quanto alla disciplina della retribuzione nell’«apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale»; permettendo infine di «prevedere specifiche modalità di utilizzo» sempre della figura ora menzionata di apprendistato, «anche a tempo determinato, per lo svolgimento di attività stagionali», nelle «regioni e province autonome ... che abbiano definito un sistema di alternanza scuola-lavoro». A proposito dell’apprendistato professionalizzante si stabilisce invece che le regioni, comunicando alle imprese «le modalità di svolgimento dell’offerta formativa pubblica», si avvalgano “anche dei datori di lavoro e delle loro associazioni che si siano dichiarate disponibili”.

L’art. 5 del dl n. 34, nel recare modifiche alla disciplina dei contratti di solidarietà e soprattutto nel finanziare (momentaneamente) i medesimi, coinvolge d’altra per definizione l’autonomia collettiva.

La legge delega n. 183/2014, se si considera l’amplissima area di temi ed istituti investiti[6], risulta d'altra parte ancora più avara di indicazioni[7]. Ecco allora che tra i «principi e criteri direttivi» sono indicati, quanto agli strumenti di tutela del reddito «in costanza di rapporto», la necessità di esaurire le «possibilità contrattuali di riduzione dell’orario», anche destinando risorse «a favore dei contratti di solidarietà», prima di accedere alla cassa integrazione guadagni (co. 2, lettera a, numero 3); ancora la «revisione dell’ambito di applicazione e delle regole di finanziamento dei contratti di solidarietà» (co. 2, lettera a, numero 8).

A proposito invece degli interventi concernenti la «politica attiva del lavoro», vengono stabiliti un «coinvolgimento delle parti sociali nella definizione delle linee di indirizzo generali» della costituenda agenzia nazionale per l’occupazione (co. 4, lettera d) nonché la «valorizzazione della bilateralità», con «riordino della disciplina vigente in materia» e definizione di «un sistema di monitoraggio e controllo sui risultati dei servizi di welfare erogati» (co. 4, lettera o).

In relazione ancora allo «scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro … nonché riordinare i contratti di lavoro vigenti», si dispone che «la contrattazione collettiva … possa individuare ulteriori ipotesi» di «revisione della disciplina delle mansioni», rispetto a quelle già previste (co. 7, lettera e). È inoltre qui regolamentata l’introduzione, «eventualmente anche in via sperimentale, del compenso orario minimo»: specificando che ciò debba avvenire «nei settori non regolati da contratti collettivi» e «previa consultazione delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale» (co. 7, lettera g).

Infine per quel che concerne «la revisione e l’aggiornamento delle misure volte a tutelare la maternità e le forme di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro», è prevista l’«incentivazione di accordi collettivi volti a favorire la flessibilità dell’orario lavorativo e dell’impiego dei premi di produttività» (co. 9, lettera d); sono stabilite possibilità di «cessione fra lavoratori dipendenti dello stesso datore di lavoro di tutti o parte dei giorni di riposo aggiuntivi spettanti in base al contratto collettivo nazionale» (co. 9, lettera e); si parla di «integrazione dell’offerta di servizi per le cure parentali forniti dalle aziende e dai fondi o enti bilaterali nel sistema pubblico-privato dei servizi alla persona in coordinamento con gli enti locali» (co. 9, lettera f).

Il successivo d.lgs n. 22/2015, di attuazione della legge delega n. 183/2014, concernente disposizioni di riordino della normativa sugli ammortizzatori sociali «in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori», non contiene per parte sua alcuna norma, in cui solo si nominino le organizzazioni sindacali od i contratti collettivi.

Mentre altrettanto dovrebbe essere detto anche a proposito del d.lgs n. 23/2015, sempre di attuazione della legge delega n. 183/2014, sul «contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti», se si eccettua quanto già precisato a proposito delle organizzazioni di tendenza. Tuttavia risulta interessante in questo caso segnalare un rinvio indiretto e nascosto, per così dire, connesso alla individuazione del parametro di riferimento per le indennità dovute dal datore, composte da un numero variabile di «mensilità», in caso di licenziamento invalido od inefficace.

Si menziona infatti ora «l’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto». Ebbene la nozione di “retribuzione annua”, rilevante appunto per il calcolo del trattamento di fine rapporto, individuata ai sensi dell’art. 2120 cc, risulta estremamente ampia: ma può essere modificata, plausibilmente solo in senso peggiorativo per i lavoratori, considerata la normale grande estensione, da «diversa previsione dei contratti collettivi».

Il corpus normativo già piuttosto considerevole entrato in vigore mostra in effetti al momento solamente queste disposizioni, ove emerge una interazione, talora anche molto vaga, con le organizzazioni sindacali e l’autonomia collettiva, se non si va errati.

Limitando d’altra parte l’attenzione alle previsioni di rinvio in senso proprio al contratto collettivo, con devoluzione cioè ad esso di funzioni regolative, anche secondo le peculiari modalità individuate ai sensi della legge delega n. 183/2014, co. 7, lettera g, quanto al «compenso orario minimo», le fattispecie si riducono ancora, sembrando possibile individuarne solo sei. Una delle quali appunto “clandestina”, rinvenibile attraverso il richiamo implicito dell’art. 2120 cc

In tali casi emerge una direttrice prevalente, anche se non esclusiva, per quel che concerne la selezione dei soggetti legittimati a stipulare il contratto collettivo, individuati per lo più nei «sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale». Ciò avviene ai sensi delle due norme ritenibili significative sull’apprendistato, contenute nel dl n. 34/2014 (art. 2). Inoltre delle due sole ipotesi emergenti ora nell’intera legge delega n. 183/2014, concentrate entrambe nel co. 7: con una ulteriore specificazione, visibile esclusivamente nella lettera e (a proposito della “revisione della disciplina delle mansioni”), dove si parla di «organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale a livello interconfederale o di categoria».

Tuttavia non c’è alcuna precisazione sul sindacato contraente nelle «disposizioni transitorie sul contratto a termine» sopra riportate (art. 2 bis, dl n. 34/2014); tantomeno secondo la previsione piuttosto risalente dell’art. 2120 cc

Analizzando poi il livello di contrattazione coinvolto, si rinvia una sola volta al contratto nazionale: nel dl n. 34/2014, in una delle ipotesi concernenti l’apprendistato. In tutte le altre invece ora l’assenza di qualunque criterio selettivo (art. 2 e 2 bis, dl n. 34/2014; co. 7, lettera g, legge delega n. 183/2014; art. 2120 cc) ora una specifica puntualizzazione (co. 7, lettera e, legge delega n. 183/2014) estendono la possibilità di intervento pure alla «contrattazione collettiva … aziendale ovvero di secondo livello», ai sensi della norma da ultimo citata.

Infine quasi tutti i casi di rinvio risultano funzionali ad introdurre deroghe in pejus rispetto alla legge: così accade innanzitutto in applicazione del co. 7, lettera e, della legge delega n. 183/2014, a proposito delle mansioni; anche però ai sensi dell’art. 2120 cc; infine in due norme del dl n. 34/2014, concernenti rispettivamente il contratto a termine e l’apprendistato.

L’ipotesi ulteriore, contenuta nel dl ora citato, sempre concernente il contratto di apprendistato, se non consente deroghe in peggio individua limitazioni rispetto alla funzione storica svolta dal contratto collettivo: impedendo cioè di incrementare i vincoli per i datori (introducibili solo se questi hanno più di cinquanta dipendenti).

Alla norma sul “compenso orario minimo”, nevralgica per gli impatti sul sistema di contrattazione collettiva, sarà invece dedicata ora specifica attenzione.

2.2. segue: la previsione sul “compenso orario minimo”

Tra i “principi e criteri direttivi” connessi al vasto e generico «scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro … nonché riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo», nel co. 1, lettera g, della legge delega n. 183/2014, viene individuato pure il seguente: «introduzione, eventualmente anche in via sperimentale, del compenso orario minimo, applicabile ai rapporti di lavoro subordinato nonché, fino al loro superamento, ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, previa consultazione delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale».

Le connessioni tra salario minimo fissato dalla legge e contrattazione collettiva sono palesi e tutt’altro che semplici da gestire, per quest’ultima. Sottrarre infatti alla dinamica contrattuale – ed in particolare al contratto nazionale di categoria – la funzione di determinazione della retribuzione certa e minima, può ulteriormente rafforzare la già assai avanzata tendenza in atto, che conduce verso la cd “aziendalizzazione”: ovverosia l’individuazione dell’impresa come sede prevalente ed in prospettiva pressoché esclusiva di contrattazione collettiva, oltre che di manifestazione delle prerogative come dei poteri unilaterali del datore[8].

Tuttavia nel complesso dibattito sul salario minimo non mancano opinioni che valorizzano invece l’istituto, pensando di ovviare in tal modo alle difficoltà sempre maggiori mostrate proprio dal contratto nazionale di categoria, nel garantire importi accettabili ai lavoratori; nonché di assicurare una qualche protezione a chi non beneficia di alcuna norma o clausola collettiva vincolante, concernente la remunerazione, in particolare tra i prestatori non subordinati[9].

Risulta comunque ovviamente decisiva l’analisi della specifica regolamentazione. Non apparendo affatto peregrino il rischio che la medesima non risolva alcuno dei problemi ora segnalati: avendo piuttosto l’unico effetto di assestare il colpo decisivo al contratto nazionale di categoria, come si diceva[10].

Ebbene la norma della legge delega n. 183/2014 forse si confronta proprio con quest’ultima problematica, attraverso una formulazione che può apparire volta ad evitare impatti negativi sull’assetto esistente della contrattazione collettiva[11]: si hanno però molti dubbi sulla buona riuscita (come sulla reale intenzione).

La previsione secondo cui il “compenso orario minimo” deve operare «nei settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale» sembra in effetti escludere la possibilità per qualunque datore di transitare dal regime contrattuale a quello legale del salario, per così dire, semplicemente lasciando la propria organizzazione datoriale di rappresentanza o smettendo di applicare i contratti collettivi in particolare nazionali (anche se la norma non si rivolge esclusivamente ad essi!). D’altra parte non si vede al momento quali siano, per quel che riguarda il lavoro subordinato, “i settori non regolati” dai più di quattrocento contratti nazionali esistenti.

Tuttavia lo scenario contemporaneo è in forte e continuo movimento. Rivelandosi proprio in questo momento, attraverso dichiarazioni ma anche comportamenti quanto mai espliciti, l’intenzione delle organizzazioni dei datori di non procedere al rinnovo dei contratti nazionali.

Ebbene in tal caso le clausole di ultrattività normalmente presenti nei contratti nazionali garantirebbero la permanente vigenza della disciplina, sia normativa che obbligatoria, anche dopo la scadenza. Ma se intervenisse in seguito un recesso unilaterale, da parte delle organizzazioni datoriali, rispetto a clausole nel frattempo divenute a tempo indeterminato, si porrebbero questioni giuridiche assai delicate sul rilievo e l’efficacia della parte normativa: mentre le clausole obbligatorie molto probabilmente cesserebbero di operare.

Ci si potrebbe però in quel caso appunto chiedere, tornando alla norma commentata, se il “settore”, costituente l’ambito di applicazione del contratto collettivo scaduto, risulti ancora “regolato” o meno da quest’ultimo. La risposta negativa legittimando l’introduzione del “compenso orario minimo”.

Se poi in qualche caso e/o dopo qualche tempo alcuni contratti nazionali fossero sottoscritti – e se la regolamentazione ovvero la sua interpretazione, come plausibile, consentissero la convivenza tra previsioni legali e collettive sul salario - merita chiedersi se la storica giurisprudenza sull’art. 36, volta a garantire l’efficacia generale della parte retributiva del contratto nazionale e quindi a promuovere l’applicazione dell’intero contratto, resterebbe presente, a fronte ad es. della individuazione di un “compenso orario minimo” con importi inferiori[12].

La disposizione contenuta nella legge delega, lungi dall’evitare interferenze negative con la contrattazione, in particolare nazionale, potrebbe allora essere ritenuta perfettamente armonica rispetto ad una precisa e tutt’altro che rassicurante strategia in atto.

Ma la medesima appare anche del tutto inidonea a risolvere i problemi di cui si diceva. Perché gli importi individuati, di cui già si ipotizzano quantificazioni, saranno con tutta probabilità meno elevati di quelli oggi presenti nei contratti collettivi nazionali. Ciò comportando rischi di trascinamento verso il basso pure del salario regolato dai contratti collettivi eventualmente sottoscritti: sempre immaginando una convivenza tra clausole contrattuali e norme sul salario.

Mentre l’esigenza di protezione a beneficio di lavoratori esterni ai «settori … regolati da contratti collettivi», in particolare nell’area non subordinata, non è certo soddisfatta dalla norma commentata: che infatti menziona i soli «rapporti di collaborazione coordinata e continuativa» ma «fino al loro superamento». Il punto è che tale superamento potrebbe essere ritenuto realizzato a breve, secondo lo “schema” di un ulteriore decreto legislativo di attuazione della legge delega n. 183/2014, «recante il testo organico delle tipologie contrattuali»[13]: ciò quindi potendo virtualmente eliminare qualunque applicazione tra i lavoratori non dipendenti.

Né va dimenticato che le complesse modalità attraverso cui il superamento stesso viene appunto, a quel che pare, effettuato - il quale conduce ad un problematico transito dalle collaborazioni “ricondotte a progetto” alle collaborazioni non “organizzate dal committente”, restando “salvo quanto disposto” dall’art. 409 cpc – una cosa sicuramente producono: proprio l’eliminazione del compenso minimo legale, fissato attraverso rinvio ai contratti collettivi, già operante a beneficio dei collaboratori a progetto!

Non è allora realisticamente immaginabile, a ben vedere, alcun avanzamento, a beneficio dei lavoratori, subordinati e non, rispetto alla storica giurisprudenza già formatasi in applicazione dell’art. 36 della Costituzione. In carenza invece di un rafforzamento legale dei contratti collettivi, in particolare nazionali, può ben essere sottolineato come l’introduzione di un “compenso orario minimo” rischi seriamente di risultare esiziale per i medesimi.

2.3. Le disposizioni più significative concernenti «il testo organico delle tipologie contrattuali»

Merita infine dare conto molto brevemente almeno delle norme in corso di approvazione, contenute nello “schema” di decreto legislativo «recante il testo organico delle tipologie contrattuali» diverse dal rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno ed indeterminato, poco sopra nominato: senza procedere ora ad una analisi puntuale, impossibile per ragioni di spazio e forse pure inopportuna, a proposito appunto di testi non ancora vigenti[14].

Ecco allora che nella disciplina sul contratto a termine assumono rilievo centrale le possibilità attribuite ai “contratti collettivi, anche aziendali”, di derogare agli unici due limiti legali rimasti: concernenti rispettivamente la durata massima di trentasei mesi e la percentuale del venti per cento tra assunti a tempo determinato ed indeterminato.

Altrettanto va detto per la somministrazione di lavoro a tempo indeterminato, dove però emerge uno dei pochissimi riferimenti rivolti esclusivamente ai “contratti collettivi nazionali”: nel caso della somministrazione a termine, istituto oggi quasi del tutto lasciato alla autonomia individuale, si prevede invece che i medesimi contratti collettivi possano introdurre “limiti quantitativi” (nel rispetto però di vincoli legali).

A proposito del lavoro intermittente viene riproposto l’assetto della legislazione vigente, anche quanto ai “casi di ricorso”: tuttavia - fermi l’intervento del decreto ministeriale, “in mancanza” di previsioni collettive; inoltre e soprattutto il fatto che la stipulazione con persone di determinate età è consentita “in ogni caso” - il pregresso rinvio al “contratto collettivo nazionale”, ai sensi dell’art. 40, d.lgs n. 276/2003, diviene ora al “contratto collettivo”.

Nella regolamentazione sul lavoro a tempo parziale si permette d’altra parte al datore, in carenza di disciplina del “contratto collettivo”, sia di «richiedere al lavoratore prestazioni di lavoro supplementari», in misura (rilevante) e con oneri economici già prefissati; sia di pattuire in sede individuale, «avanti alle commissioni di certificazione di cui all’articolo 76» del d.lgs n. 276/2003, clausole flessibili nonché elastiche.

Il contratto di apprendistato, la cui vigente disciplina costituisce frutto di un accordo con le principali organizzazioni sindacali e dei datori, continua invece a mostrare un ruolo rilevante esercitato da parte della contrattazione collettiva, anche nazionale, nella regolamentazione. Tuttavia le annunciate previsioni sulle figure, fino ad oggi assai poco utilizzate, dell’«apprendistato per la qualifica, il diploma e la specializzazione professionale» e dell’«apprendistato di alta formazione e ricerca», evidenziano pure in questo caso una riduzione del ruolo svolto dalle menzionate organizzazioni.

Rimasto infine del tutto assente l’intervento dell’autonomia collettiva, a proposito del lavoro accessorio, sono sempre “accordi collettivi” a poter introdurre significative clausole in deroga, rispetto alla normativa concernente le nuove «collaborazioni organizzate dal committente».

3. La gestione unilaterale dell’impresa assicurata per legge e la marginalità del contratto collettivo (soprattutto) nazionale

In effetti il disegno cui dà vita l’insieme delle disposizioni del Jobs act, comprese quelle note ma non ancora approvate, pare esprimere una idea piuttosto precisa del ruolo da attribuire alle “parti sociali” ed alla autonomia collettiva.

Si tratta di una impostazione volta per un verso a ridimensionare ulteriormente il ruolo di quest’ultima; sotto altro profilo invece ad “utilizzarla”, nelle fattispecie di rinvio ancora rimaste, all’interno di operazioni eminentemente connesse alla introduzione di deroghe in pejus. In tale ultimo caso normalmente senza selezionare il livello di contrattazione coinvolto: e quindi legittimando senz’altro il contratto aziendale o di secondo livello, secondo un indirizzo oggi del tutto radicato.

Il punto è però che la stessa funzione derogatoria sembra in buona parte indebolita proprio dalle dosi già massicce di flessibilità assicurate direttamente dal legislatore: il quale comincia quindi a non lasciare più spazi, giuridici o comunque politico-sindacali, neanche per interventi in pejus. In tal modo tornandosi, per una via in buona misura ora invece ignota, alla considerazione iniziale sulla marginalità dell’autonomia collettiva: che appare forse l’aspetto centrale da considerare.

Questi rilievi, formulati alla luce delle disposizioni analizzate, risultano d’altra parte rafforzati, ove si tenga conto dei caratteri della nuova disciplina.

Si colloca in effetti esattamente nei canoni ora precisati la regolamentazione sulla «revisione della disciplina delle mansioni», cui pure dà attuazione lo “schema” di decreto in precedenza citato: secondo quest’ultimo infatti “contratti collettivi, anche aziendali” sono legittimati a prevedere possibilità di adibizione a “mansioni appartenenti al livello inferiore”, già peraltro del tutto notevoli in virtù del disposto legale. Mentre l’ipotizzata “revisione della disciplina dei controlli a distanza”, che la legge delega n. 183/2014 stabilisce avvenga senza coinvolgimento sindacale (co. 7, lettera f), potrebbe ridurre od anche eliminare il ruolo fino ad oggi riconosciuto agli accordi collettivi sottoscritti dalle Rsa[15].

La stessa abrogazione delle causali nel contratto a tempo determinato e nella somministrazione di lavoro nonché l’eliminazione dell’ipotesi di violazione dei codici disciplinari, quale presupposto per l’applicazione della reintegrazione, a fronte di licenziamento ingiustificato, nel “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti”, per citare ulteriori disposizioni di centrale importanza, incidono d’altra parte negativamente sul ruolo svolto dalla autonomia collettiva[16].

Il contratto collettivo, sempre più lasciato a sé stesso dal Legislatore e dall’Esecutivo, torna pertanto ad essere protagonista nel solo sistema di relazioni industriali. Come forse accaduto, all’interno della storia repubblicana, esclusivamente negli anni cinquanta del secolo scorso: prima che sorgessero e si sviluppassero le “partecipazioni statali” nonché gli specifici connessi sistemi di contrattazione collettiva e relazioni industriali, così importanti per le complessive dinamiche successive. Ma nel contesto contemporaneo, come già è stato detto a proposito dei difficili rinnovi dei contratti nazionali e si tornerà a precisare, è proprio il sistema di relazioni industriali a mostrare evidentissimi elementi di difficoltà e cedimento.

Il Jobs Act comunque realizza il proprio disegno non solo abrogando od introducendo ma anche conservando le disposizioni: ed in effetti la permanente vigenza dell’art. 8, dl n. 138/2011, convertito con l. n. 148, appare tutt’altro che casuale. Pur facendosi riferimento ad un provvedimento, distanziato oramai di quasi un lustro, con logica ed ispirazione probabilmente non identiche.

Ebbene questa constatazione - unita al ruolo preferenziale che sembra senz’altro confermato al contratto aziendale e di secondo livello, da parte delle norme vigenti od in corso di approvazione; oltre che ai preconizzati effetti dipendenti dal “compenso orario minimo” legale – induce a ritenere intanto o soprattutto perseguito l’obiettivo di ridurre l’importanza del contratto collettivo nazionale. Non sembrando però affatto esclusa la possibilità e prospettiva di un significativo ridimensionamento della autonomia collettiva in generale.

4. Una legge di sostegno del sistema sindacale?

Se quanto detto è corretto, appare allora estremamente improbabile immaginare un intervento dell’Esecutivo e del Legislatore volto a sostenere l’autonomia collettiva, risolvendo in particolare le numerose questioni problematiche che da ultimo riguardano quasi tutte le sue espressioni.

Con il nuovo secolo, per individuare uno schematico ma chiaro termine di riferimento temporale, può dirsi in effetti che gli equilibri già costituiti nel diritto sindacale italiano del periodo repubblicano siano pressoché tutti venuti meno. I principali elementi perturbatori sembrando dati dal chiaro evolvere dei rapporti di forza, nel sistema di relazioni industriali, a vantaggio delle imprese: a propria volta comunque impegnate in una serrata competizione operante virtualmente nell’intero mercato mondiale; dal progressivo indebolimento di tutte le organizzazioni di rappresentanza, sindacali e datoriali: con rapporti tra di esse, anche interni ai rispettivi “campi”, sempre più difficili; dallo stesso mutare infine dei caratteri dell’intervento pubblico, a sua volta manifestamente restio a sostenere l’autonomia collettiva ed a promuovere la tutela dei lavoratori.

In carenza di una legge in effetti solo la sostanziale condivisione, tra tutti i protagonisti ora citati, di alcuni rilevanti aspetti di fondo concernenti il sistema sindacale, aveva consentito a quest’ultimo di svilupparsi, apparendo ai più nel complesso adeguato. Minoritario invece risultava, in sede sindacale, politica e parlamentare, il punto di vista convinto, già più di trenta anni addietro, dell’opportunità di un intervento normativo[17].

Scomparso però tale comune sentire, si è assistito ad uno sfaldamento quanto mai rapido del sistema.

Anche se non va dimenticato come in altri ordinamenti, ad esempio lo spagnolo, il francese ed il tedesco stesso, l’esistenza di una regolamentazione legale non abbia certo impedito dinamiche tutto sommato simili: dovendosi però in tali casi transitare per interventi legali, in Italia indubbiamente non necessari. Ciò si dice anche per ribadire lo scetticismo sulla plausibilità di un intervento nazionale di sostegno della autonomia collettiva.

Merita comunque dedicare brevi cenni pure a tale, pur improbabile, ipotesi: la quale è da ultimo tornata protagonista quantomeno nel dibattito dottrinale[18]. Ambito in cui sono emerse pure diverse specifiche proposte e testi di riforma.

4.1. Segue: le grandi questioni aperte

Tra le principali questioni irrisolte, (anche) sul piano giuridico, concernenti il sistema sindacale, può essere fatto riferimento alla regolamentazione dell’organismo di rappresentanza dei lavoratori in azienda: a proposito sia della Rsa che della Rsu. In effetti la disciplina legale sulla costituzione delle Rsa, come trasformata dopo il referendum del 1995 e soprattutto applicata, secondo stretta interpretazione letterale, dalla Fiat (poi Fca), ha evidenziato il dato paradossale, quantomeno in relazione alla configurazione originale del testo, che pure organizzazioni incontestabilmente rappresentative possano all’occorrenza essere escluse dal novero dei diritti e benefici sindacali connessi. Ciò dipendendo, come noto, dalla sottoscrizione o meno di contratti collettivi: profilo a sua volta ovviamente condizionabile dai datori come dalle loro associazioni di rappresentanza.

La più recente delle sentenze della Corte costituzionale concernente l’art. 19, l. n. 300/1970, la n. 231 del 2013, cercando di porre rimedio a parte di tali incongruenze, ha d’altra parte valorizzato, attraverso una sentenza “additiva”, pure la partecipazione alle trattative, al fine di individuare appunto il sindacato nel cui ambito risulta possibile costituire le Rsa[19]. Ma l’integrazione così realizzata non appare certo risolutiva: posto che la selezione dei partecipanti alle trattative - su cui pure la Corte cerca di intervenire, attraverso però alcuni controversi obiter dicta - ma soprattutto e sicuramente la decisione di aprire le medesime restano sempre fortemente condizionabili dalla parte datoriale.

Anche a proposito delle Rsu, che secondo l’accordo regolatore sottoscritto dalle principali organizzazioni sindacali e datoriali dovrebbe operare nelle aziende in alternativa alle Rsa, non mancano d’altra parte problemi. Legati intanto alla ridotta vincolatività dell’obbligo di istituzione, concernente appunto le sole imprese aderenti alle associazioni stipulanti. Inoltre al fatto, sul fronte ora della rappresentanza dei lavoratori, che la recente modificazione della disciplina collettiva, contenuta nel «testo unico sulla rappresentanza» del gennaio 2014, cui si deve pure l’opportuna eliminazione della cd “clausola del terzo”, vincola la partecipazione alla competizione elettorale e la stessa presentazione di liste alla accettazione di tutte le clausole del medesimo, alcune delle quali oggetto di serrata polemica. Cosicché risulta certo che parte, pur minoritaria, delle organizzazioni, non potrà partecipare alle elezioni.

Si rischia allora di perdere uno strumento generale di verifica del consenso di cui godono, tra i lavoratori, le diverse associazioni sindacali: ciò potendo rendere tra l’altro più difficile la costituzione delle stesse Rsu, visto che resta fermo il vincolo della partecipazione alle elezioni di almeno il cinquanta per cento dei lavoratori.

Mentre i sindacati non partecipanti alla competizione elettorale potrebbero provare a costituire la Rsa, se rappresentativi anche solo in azienda, secondo possibili interpretazioni della citata sentenza della Corte costituzionale n. 231 del 2013: a questo punto però in aggiunta alla Rsu dei tre sindacati confederali storici! L’ipotesi, pur priva al momento di riscontro concreto, è ben in grado di illustrare le incoerenze esistenti, a proposito tra l’altro di uno dei pochi aspetti del sistema sindacale normato dalla legge e dal contratto collettivo.

Portando invece l’attenzione su profili mai o poco regolati, comunque solo in sede collettiva oltre che giurisprudenziale, si propongono sempre più di frequente e/o con modalità inedite vicende da sempre irrisolte. Resta in tal modo più che mai aperto il problema della verifica della rappresentatività delle organizzazioni sindacali: sia nei confronti del Legislatore ed Esecutivo, per quel che concerne la selezione tra di esse nelle diverse possibili sedi (prassi comunque in fase di chiara riduzione, come si diceva); sia e forse oggi soprattutto all’interno della dialettica collettiva, nell’obiettivo di giungere alla stipulazione di contratti, da parte di soggetti radicati tra le parti rappresentate.

Allo stesso modo ci si continua a confrontare, specie a fronte di divisione pressoché sistematica, almeno in taluni ambiti, tra le principali organizzazioni dei lavoratori, con i ben noti problemi di efficacia del contratto collettivo, sia aziendale che nazionale di categoria. Tenendo presente che in quest’ultimo caso, accanto al fenomeno da sempre esistente, ed anzi in probabile incremento, del rifiuto di applicazione da parte del datore, il quale si manifesta sempre più anche con la fuoriuscita dalle associazioni, si assiste a molteplici destabilizzanti novità: dalla compresenza di contratti nazionali di categoria, sottoscritti da diverse organizzazioni sindacali e datoriali, con ambiti applicativi in parte o in tutto sovrapposti; all’esistenza di un solo contratto nazionale, non sottoscritto però da organizzazioni di grande o addirittura prevalente rappresentatività.

4.2. Alcune possibili direttrici di soluzione

A ben guardare nella fase contemporanea il problema principale, di carattere giuridico ma prima ancora politico-sindacale, sembra comunque concernere proprio il contratto collettivo nazionale: da tempo messo in discussione e delegittimato, nel sistema di relazioni industriali come nell’indirizzo politico; oggi però a forte rischio di vero e proprio “accantonamento” e superamento, se troveranno conferma le contemporanee dichiarazioni ostili ai rinnovi, da parte delle organizzazioni datoriali. Per cui si ritiene che una ipotetica legislazione volta a sostenere il sistema di relazioni sindacali dovrebbe innanzitutto concentrarsi proprio su di esso.

Al di là però della plausibilità politica dell’ipotesi, un intervento della legge concernente il contratto nazionale, se non si limita ad individuare misure tradizionali di sostegno indiretto, certamente utili ma forse oggi non più sufficienti, risulta estremamente difficoltoso pure sul piano tecnico-giuridico.

In effetti la regolamentazione legale di soggetti, procedimento di sottoscrizione nonché della efficacia del contratto nazionale appare impedita dall’art. 39 della Costituzione: salvo non si abroghino, come pure a suo tempo ipotizzato e proposto, tutti i commi successivi al primo. Ovvero ed al contrario non si dia all’articolo attuazione in senso pieno e proprio.

Non si è d’altra parte convinti del fatto che introdurre una normativa vincolante esclusivamente i datori, come emerge in alcuni disegni di legge depositati in Parlamento nonché di origine dottrinale, consenta di ovviare al problema di legittimità.

Mentre immaginare di valorizzare le clausole dei contratti nazionali di categoria, rinviando in particolare ad essi, nell’individuare per legge un “salario equo”, ai sensi dell’art. 36 della Costituzione, non è a sua volta scevro di problemi: questa volta fondamentalmente legati al sistema di relazioni industriali. Infatti oggi occorrerebbe immaginare, se sono più di quattrocento i contratti nazionali di categoria esistenti, più di quattrocento “salari equi” fissati per legge!

A proposito delle forme di rappresentanza dei lavoratori in azienda, altro aspetto al momento assai controverso, la legge dovrebbe d’altra parte intervenire, eliminando qualunque ruolo di accreditamento del datore. In proposito si pone però anche la questione della opportunità di convivenza tra due organismi, Rsa e Rsu, i quali sono simili, realizzando entrambi una sintesi tra punto di vista dei lavoratori e dei sindacati, ma nel contempo estremamente diversi. Infatti la sintesi in oggetto avviene con modalità che rivelano concezioni ben distinte della rappresentanza e democrazia sindacale.

L’ipotetica soluzione legale della convivenza in alternativa tra i medesimi appare allora quella più semplice e plausibile, in sede politica, perché su di essa è emerso il consenso delle quattro importanti organizzazioni sottoscrittrici del «testo unico sulla rappresentanza». Non però la più convincente, sembrando invece preferibile sceglierne uno: a parere di chi scrive la Rsu, se si vuole permettere ai lavoratori di esprimersi adeguatamente.

Potrebbe invece avere senso far riferimento a due organismi, a quel punto molto meglio differenziate rispetto agli interessi di cui si fanno interpreti, all’interno di uno scenario del tutto innovativo ed assai più complesso, qui certamente non analizzabile, volto ad introdurre pure in Italia il cd “doppio canale” di rappresentanza.

Le verifiche di rappresentatività, secondo il modello di nuovo individuato nel “testo unico sulla rappresentanza”, sembrano a propria volta richiedere un supporto legale, per poter concretamente operare: come pare confermato dalla stasi pressoché totale, dal gennaio 2014 ad oggi, concernente l’elemento cardine su cui regge l’intero accordo.

Infine le questioni concernenti l’efficacia del contratto aziendale sono forse le più antiche ed analizzate: anche con numerosi contributi dottrinali, i quali non hanno tuttavia consentito di giungere ad acquisizioni convincenti per la giurisprudenza[20]. In materia peraltro c’è anche stato un intervento, come noto, da parte del pur contestatissimo art. 8, dl n. 138/2011, convertito con l. n. 148.

Questo precedente - e forse più ancora l’esistenza di un punto di vista rilevante soprattutto in dottrina, che tende ad escludere o ridurre il rilievo “preclusivo” dell’art. 39 della Costituzione in materia – potrebbero comunque rendere tecnicamente meno difficile intervenire con legge. Ipotesi anche politicamente meno complessa, posto che l’approccio delle organizzazioni datoriali dovrebbe essere diverso da quello visibile a proposito del contratto nazionale.

L’efficacia generale è prospettabile, in presenza di rappresentatività verificata dei soggetti stipulanti. Sembrando però ora opportuno prevedere, con qualche differenza rispetto a quel che stabilisce di nuovo il «testo unico sulla rappresentanza», due soggetti distinti, nel procedimento che conduce alla sottoscrizione: senz’altro l’organismo di rappresentanza dei lavoratori; anche però l’organizzazione sindacale territoriale, chiamata a garantire la complessiva coerenza del sistema.

Infine chi scrive ha sempre ritenuto opportuno e corretto che gli stessi lavoratori si esprimano sull’accordo: riscontro che il “testo unico sulla rappresentanza” prevede sempre per il contratto nazionale ma non, contraddittoriamente, per l’aziendale.

4.3. segue: la libertà sindacale senza articolo 18 e la necessità di seri ripensamenti

A ben riflettere però l’entrata in vigore del Jobs act sembra richiedere un ripensamento delle tecniche e modalità, se non proprio dell’approccio, di un eventuale intervento legislativo: il cui impianto risulta condizionato, pressoché secondo tutte le ipotesi di cui si discute, dalla regolamentazione operante nel pubblico impiego, poi confluita nel “testo unico sulla rappresentanza”.

Cosa è cambiato ce lo continua ad indicare in modo chiaro lo Statuto dei lavoratori: il cui titolo secondo, dedicato alla “libertà sindacale” di tutti i lavoratori, si conclude con l’art. 18. In tal modo sancendosi che l’obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro, a fronte di licenziamenti invalidi ed inefficaci, sia strettamente connesso alla libertà sindacale: altrimenti a rischio di forti limitazioni, da parte del potere unilaterale dell’imprenditore.

Per altro verso, posto che l’art. 18, l. n. 300/1970, ha sempre garantito una forte protezione solamente ai dipendenti delle imprese ed unità produttive più grandi, nello Statuto dei lavoratori si assume tuttavia pure che la libertà sindacale di tutti sia sostenuta da un presidio concernente una percentuale (rilevante) di prestatori. Ma non appunto tutti.

In totale controtendenza con i noti sviluppi del dibattito, oramai a sua volta ventennale, sulla contrapposizione tra lavoratori cd insiders ed outsiders. Ma con una inferenza del tutto plausibile, anche secondo acquisizioni di semplice senso comune: infatti risulta piuttosto evidente che l’art. 18 costruisca in realtà uno standard regolatore di carattere generale, operante sull’intero mercato; e che l’indebolimento o l’eliminazione di questo si rifletta negativamente, esattamente al contrario di quanto da tempo prospettato, pure sui dipendenti delle piccole imprese e sugli stessi prestatori cd “atipici”[21].

Dopo l’attribuzione al lavoratore della «facoltà di chiedere» al datore una significativa indennità, «in sostituzione della reintegrazione», avvenuta con la legge n. 108/1990, si può forse accogliere una modificazione dell’indicazione statutaria: in particolare precisando come - se non proprio la reintegrazione almeno - una adeguata sanzione, a fronte di licenziamenti invalidi ed inefficaci, sia strettamente connessa alla libertà sindacale.

Tuttavia gli interventi già realizzati dalla l. n. 92/2012 hanno fortemente indebolito il ruolo dell’ordine di reintegrazione. Mentre le previsioni del Jobs Act, contenute nel d.lgs n. 23/2015, sono andate ben oltre, quasi eliminando le sanzioni, ora costituite da indennità economiche di importo modestissimo, se non irrisorio[22].

In questo nuovo contesto, dove si è appunto realizzato un fortissimo rafforzamento dei poteri unilaterali dell’imprenditore, avente il proprio fulcro nella recuperata libertà di licenziare, più di una acquisizione storica ed anche convinzione, concernente pure i possibili contenuti di un intervento legale, deve essere allora adeguatamente vagliata.

Basti pensare ad esempio all’opportunità di attribuire rilievo al punto di vista espresso dai lavoratori, intendendolo come giuridicamente rilevante per la validità ed efficacia del contratto collettivo aziendale od anche nazionale nonché ovviamente decisivo sul piano politico-sindacale. Ebbene oggi non ci si può permettere di trascurare le possibilità enormemente più elevate che i datori realisticamente hanno di condizionare le opinioni e soprattutto espressioni dei lavoratori.

Mentre in un contesto di lavoro con tali caratteristiche occorre pure chiedersi fino a che punto il fondamento di verifica della rappresentatività possa continuare a consistere nella raccolta delle cd “deleghe” sindacali nonché nel riscontro elettorale, al momento della costituzione o del rinnovo delle Rsu. In futuro in effetti può essere ragionevolmente immaginato che molti lavoratori esitino a provvedere al pagamento della quota associativa tramite il datore: preferendo eventualmente iscriversi presso le sedi sindacali (se sono motivati). Allo stesso modo l’obiettivo del raggiungimento del cinquanta per cento dei partecipanti al voto, cui viene condizionata la costituzione delle Rsu (e lo stesso utilizzo del dato, sempre a fini di verifica della rappresentatività), può diventare molto meno semplice da raggiungere, ove il datore lo contrasti.

Si tratta solo di riflessioni iniziali, evidentemente tutte da approfondire: ma non pare oggi possibile prescinderne.

[1] L’articolo costituisce approfondimento ed elaborazione della relazione dal titolo “Jobs Act e sistema di relazioni sindacali”, tenuta a Roma, il 19 febbraio 2015, in occasione del seminario “Il Jobs Act. Quale progetto per il diritto del lavoro?”, organizzato dalle riviste Diritti, lavori, mercati, Lavoro e diritto nonché Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, presso la Sala del Refettorio della Camera dei Deputati.

[2] C. Romeo, Il dilemma delle tutele nel nuovo diritto del lavoro: i campi esclusi dalla riforma del Jobs act, relazione al convegno su «Jobs act: il diritto del lavoro tra tutele crescenti e nuove regole sui licenziamenti», tenutosi il 6 marzo 2015 presso l’Università degli studi di Bergamo.

[3] A. Lassandari, L’ordinamento perduto, di prossima pubblicazione in LD, n. 1, 2015.

[4] M. Pedrazzoli, Tutela della tendenza e Tendenzschutz, in DLRI, 1987, p. 749 ed F. Santoni, Le organizzazioni di tendenza e i rapporti di lavoro, 1983, Giuffrè: Milano.

[5] Cfr. gli autori intervenuti Sul decreto-legge n. 34/2014 (cd riforma Poletti) ,in RGL, I, 2014, p. 679.

[6] V. Speziale, Le politiche del lavoro del Governo Renzi: il Jobs act e la riforma dei contratti e di altre discipline del rapporto di lavoro, WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT– 2014, 244.

[7] F. Carinci, Jobs Act, atto II: la legge delega sul mercato del lavoro, in http/csdle.lex.unict.it, sezione “from our users”, 15 dicembre 2014.

[8] V. Bavaro, Azienda, contratto e sindacato, 2012, Cacucci: Bari.

[9] G. Bronzini, Il reddito di cittadinanza, tra aspetti definitori ed esperienze applicative, in RDSS, 2014, p. 1; nonché Il reddito di cittadinanza, tra aspetti definitori ed esperienze applicative, in RDSS, numeri 1 e 2, 2014.

[10] V. Bavaro, (2014), Jobs act, salario minimo legale e relazioni industriali, in Il Diario del lavoro, www.ildiariodellavoro.it, 20 ottobre; F. Carinci, 2014, cit.; A. Lassandari, Il reddito, il salario e la “mossa del cavallo” (a proposito di un recente convegno su reddito di cittadinanza e salario minimo), in RDSS, 2014, p. 49 nonché C. Romeo, 2015, cit.

[11] V. Speziale, Il salario minimo legale, WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT, 2015, 244.

[12] Crf. V. Bavaro, 2014, cit e Speziale, 2015, cit.

[13]Qui e di seguito si fa riferimento a norme poi confluite nel decreto legislativo n. 81 del 15 giugno 2015, recante «Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa, in materia di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183».

[14] Le norme poi approvate, contenute nel decreto legislativo n. 81 del 2015, su cui vedi la nota precedente, hanno talora in parte modificato i riferimenti già contenuti nello “schema” di decreto e citati nel testo. Senza tuttavia che sia mutato lo scenario generale descritto. Tra le principali modificazioni, si segnalano l’eliminazione del riferimento al contratto collettivo nazionale, già presente a proposito della somministrazione di lavoro a tempo indeterminato; l’introduzione invece del riferimento ad “accordi collettivi nazionali”, per quel che concerne le deroghe alla normativa sulle “collaborazioni organizzate dal committente”.

[15] V. Speziale, 2014, cit..

[16] F. Carinci, 2014, cit..

[17] G. Ghezzi, Dopo l’XI legislatura: la rappresentanza sindacale tra iniziativa legislativa e referendum, in LD, 1994, p. 351.

[18] L. Zoppoli, Impresa e relazioni industriali dopo la “guerra dei tre anni”: verso una nuova legge sindacale?, in DLM, 2013, p. 581.

[19] Cfr. gli autori intervenuti in Opinioni sulla sentenza della Corte costituzionale n. 231 del 2013: “sentieri” e “cantieri” per una nuova stagione sindacale, 2013, in DLM, 2013, p. 671.

[20] A. Lassandari, Il contratto collettivo aziendale e decentrato, Giuffré, 2001, Milano.

[21] A. Lassandari, 2015, cit.

[22] F. Carinci, Un contratto alla ricerca di una sua identità: il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (‘a sensi della bozza del decreto legislativo 24 dicembre 2014), in http/csdle.lex.unict.it, sezione “from our users”, 13 gennaio, di prossima pubblicazione in LG, 2015, n. 2; A. Lassandari, 2015, cit..