Magistratura democratica
media

Sarajevo. Ma ville, mon destin

di Maria Giuliana Civinini
già Presidente del Tribunale di Pisa
Pubblicate da Actes Sud le foto di Milomir Kovačević sugli orrori nella guerra in Bosnia
Sarajevo. Ma ville, mon destin

Il 6 aprile 1992, all’indomani della dichiarazione d’indipendenza della Bosnia Erzegovina, 11 manifestanti pacifisti sono uccisi dai cecchini serbi nelle vie di Sarajevo. Comincia così l’assedio della città che durerà quattro anni lasciando dietro di sé 11.541 vittime, uomini donne e bambini caduti sotto i colpi dei cecchini o abbattuti dal fuoco degli obici.
In quei lunghi anni, in una città senza elettricità, acqua, comunicazioni, pane, Milor Kovačević, fotografo appassionato che qui è nato nel 1961 e che è soprannominato dai suoi colleghi Strasni (Il Terribile), scattò 300.000 fotografie. Nel 1993 fu organizzata la prima esposizione e ne seguirono altre quattro durante l’assedio perchè “bisognava mostrare a sè stessi, agli altri, al mondo, che restavamo capaci di lavorare, e solidarmente” (come sottolinea François Maspero).
Dice Kovačević: “Quando ho esposto queste foto di tombe senza nome a Sarajevo durante la guerra, davanti ad ogni foto c’era una candela. Non c’era elettricità, ma almeno avevamo le candele. Ho pensato che dovevamo loro così tanto - una sorta di requiem. L’esposizione di ciascuna fotografia durava solo finché la candela di fronte ad essa era consumata. Molta gente venne a vederla, anche se non avevamo messo neppure un manifesto con la data e l’ora della mostra per paura che fosse bombardata. Ma penso che significò molto per quelli che vennero. Alle mie mostre, dovevi letteralmente rischiare la vita per arrivarci. Si doveva attraversare un ponte su cui i cecchini sparavano e dove c’erano raids regolari. Ciò nonostante, il posto era affollatissimo” (tratto da washingtonpost.com).
Una parte di quelle foto sono ora pubblicate da Actes Sud nella collezione Photo Poche Histoire col titolo Sarajevo. Ma ville mon destin. Si inizia con le foto dei pionieri che, a scuola, commemorano un altro 6 aprile, quello del 1945 quando i partigiani liberarono la città, bambini sorridenti, sguardi al futuro, cappello con la stella. E’ il 1989. Seguono foto degli anni ’80, figure ancora di bambini, di suonatori, guitti, pacifisti, venditori ambulanti; e poi le manifestazioni per la pace, contro la partizione della Bosnia in regioni “etnicamente pure”, il capitano della nazionale Yogoslava che lancia una colomba per la pace...  E poi il 1992… il ritratto di Tito caduto, funerali, la Biblioteca, uno dei simboli dell’antica vita culturale della città, in fiamme, distrutta... E poi macerie, corvée alla ricerca di legna da bruciare per le vie della città, cadaveri, cani, cimiteri, persone che mostrano le foto di un essere amato ucciso, e ancora gli sguardi dei bambini, smarriti o fieri dell’orgoglio di imbracciare un Kalashnikov giocattolo.
Ancora Kovačević: “A partire da quel momento, la fotografia ha cessato di essere un mezzo artistico. E’ diventata un bisogno, la necessità di documentare e di fare dell’inferno di Sarajevo un documento visivo che accompagnerà con pudore e discrezione la vita quotidiana dei suoi abitanti, restituendo loro almeno un pò della loro fierezza. Senza elettricità nè acqua, spesso obbligato a cambiare domicilio, ferito, continuavo a lottare a mio modo contro la distruzione di cui ero testimone. Questi visi tristi, colpiti dalla perdita dei loro prossimi, tutti questi bambini feriti dallo sguardo innocente, i flotti di sangue nelle strade, tutto questo dolore attorno a me l’ho affrontato con la mia Nikon in mano”.
117 foto per ricordare, per riflettere, perché l’orrore non si ripeta.

05/03/2013
Altri articoli di Maria Giuliana Civinini
Se ti piace questo articolo e trovi interessante la nostra rivista, iscriviti alla newsletter per ricevere gli aggiornamenti sulle nuove pubblicazioni.