Magistratura democratica

La Cassazione

di Giorgio Costantino

Si riferisce dello stato delle proposte di legge pendenti in Parlamento. Si dà conto della successione delle riforme del procedimento di legittimità. Si indicano le soluzioni accolte dalla Corte sulle più recenti riforme. Si auspica un improbabile intervento di razionalizzazione della disciplina processuale e si ricorda il potere di autoregolazione delle corti supreme. Si conclude segnalando i limiti e le conseguenze di una modifica della Costituzione in funzione di una restrizione dell’accesso alla Corte.

1. I conati di riforma

È all’esame della Commissione giustizia della Camera dei deputati il ddl n. 2953/XVII/C, intitolato «Delega al Governo recante disposizioni per l’efficienza del processo civile». Il ddl è stato presentato dal Governo l’11 marzo 2015. La Commissione giustizia della Camera dei deputati ne ha iniziato l’esame in prima lettura in sede referente il 23 aprile 2015. Nella seduta del 4 novembre 2015, ad esso è stato abbinato il ddl n. 2921/XVII/C, intitolato «Modifiche al codice di procedura civile ed altre disposizioni per l’accelerazione del processo civile», presentato il 2 marzo 2015 dai deputati Colletti, Agostinelli, Bonafede, Businarolo e Nesci del Movimento 5 Stelle. Questa proposta di legge è stata adottata quale testo base ed è stato fissato il termine per la presentazione degli emendamenti al 30 novembre 2015, differito al 14 dicembre 2015.

Per quanto riguarda il giudizio di legittimità, l’art. 1, lett. c) del ddl n. 2953, vorrebbe delegare al Governo la «1) revisione della disciplina del giudizio camerale, attraverso l’eliminazione del procedimento di cui all’articolo 380-bis del codice di procedura civile, e previsione dell’udienza in camera di consiglio, disposta con decreto presidenziale, con intervento del procuratore generale, nei casi previsti dalla legge, in forma scritta e possibilità di interlocuzione con il medesimo, parimenti per iscritto, da parte dei difensori; 2) interventi volti a favorire la funzione nomofilattica della Corte di cassazione, anche attraverso la razionalizzazione della formazione dei ruoli secondo criteri di rilevanza delle questioni; 3) adozione di modelli sintetici di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, se del caso mediante rinvio a precedenti, laddove le questioni non richiedano una diversa estensione degli argomenti; 4) previsione di una più razionale utilizzazione dei magistrati addetti all’Ufficio del massimario e del ruolo, anche mediante possibilità di applicazione, come componenti dei collegi giudicanti, di quelli aventi maggiore anzianità nell’Ufficio».

A sua volta, il ddl n. 2921, non contiene proposte di riforma del processo innanzi alla Corte.

Subito dopo l’approvazione del disegno di legge nel Consiglio dei ministri del 10 febbraio 2015, l’Associazione italiana tra gli studiosi del processo civile ha espresso «forte preoccupazione per questo nuovo, ennesimo, intervento di riforma in materia di giustizia civile, sia per il metodo seguito, che per il merito delle soluzioni genericamente suggerite dai principi e criteri direttivi della delega»; l’Associazione ha anche fatto presente di non condividere «il metodo che il Governo intende adottare per perseguire l’obiettivo delle riforme, consistente nella presentazione al Parlamento di un disegno di legge delega caratterizzato da principi e criteri direttivi molto generici ed evanescenti e, in quanto tali, sottratti ad un previo e serio dibattito politico e scientifico. Anche per tale motivo auspica che il Governo voglia recedere dalla preannunciata iniziativa, per la quale non sembrano d’altra parte sussistere i requisiti prescritti dall’art. 76 Cost.».

L’iter parlamentare del disegno di legge induce, almeno per ora, a prescinderne.

2. Il contesto normativo

La disciplina del procedimento di legittimità, di cui agli artt. 360 ss. cpc, è stata, da ultimo, riformata dal dl 22 giugno 2012, n. 83, conv. in l. 7 agosto 2012, n. 134, che ha modificato l’art. 360, n. 5, sostituendo al controllo sulla motivazione quello sulla omissione di un fatto decisivo per il giudizio.

L’art. 47 l. 18 giugno 2009, n. 69, a sua volta, ha modificato gli artt. 375, 376 e 380 bis; ha aggiunto gli artt. 360 bis cpc e 67 bis dell’ordinamento giudiziario di cui al Rd 30 gennaio 1941, n. 12; ha abrogato l’art. 366 bis cpc sui «quesiti di diritto». Ha introdotto il «filtro» ed ha, a tal fine, istituito, senza ulteriori oneri né incremento del personale, una nuova sezione, la sesta.

L’art. 366 bis cpc, sui «quesiti di diritto», è stato introdotto dal dlgs 2 febbraio 2006, n. 40, in attuazione della delega contenuta nella l. 14 maggio 2005, n. 80, unitamente agli artt. 380 bis e 391 ter cpc. Il decreto ha anche riformato gli artt. 360, 361, 363, 366, 369, 374, 375, 380, 384, 385, 388 e 391 bis cpc.

La delega contenuta nella legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, l. 25 luglio 2005, n. 150, è stata realizzata con il dlgs 23 gennaio 2006, n. 24, che ha determinato l’organico dei magistrati addetti alla Corte, e, con il dlgs 27 gennaio 2006, n. 25, modificato dalla l. 30 luglio 2007, n. 111, che ha istituito e regolato il Consiglio direttivo.

L’art. 1 l. 24 marzo 2001, n. 89, ha modificato l’art. 375 cpc, allargando l’ambito del procedimento camerale.

Con decreto del Primo presidente del 19 giugno 1999, n. 61, è stata istituita la quinta sezione tributaria.

Modifiche di scarso rilievo sono contenute nel dlgs 19 febbraio 1998, n. 51, istitutivo del giudice unico, in attuazione della delega contenuta nella l. 16 luglio 1997, n. 254.

La l. 26 novembre 1990, n. 353, entrata in vigore nel 1993, ha modificato gli artt. 360, co. 1°, 361, co. 1°, 367 co. 1°, 373, co. 2°, 375, co. 1°, 377, 384, co. 1°, cpc ed ha aggiunto l’art. 371 bis cpc.

La l. 18 ottobre 1977, n. 793, ha abrogato l’art. 364 cpc sul deposito per il caso di soccombenza, ed ha conseguentemente modificato gli artt. 366, 371, 374 e 381.

L’art. 3 l. 8 agosto 1977, n. 532, ha ridotto il numero dei componenti i collegi giudicanti, riformando l’art. 67 Rd 30 gennaio 1941, n. 12, ed ha riformato gli artt. 379 e 380.

Con la l. 11 agosto 1973, n. 533, è stata istituita la sezione lavoro.

Ulteriori modifiche al testo originario del codice sono contenute nella l. 14 luglio 1950, n. 581, e nel dPR 17 ottobre 1950, n. 857.

3. L’applicazione delle riforme nella giurisprudenza della Corte

Convivono disposizioni processuali del 1940-42, del 1950, del 1973, del 1990, del 1995, del 1998, del 2001, del 2005, del 2006, del 2008, del 2009, del 2010, del 2011, del 2012, del 2013, del 2014, del 2015. La disciplina è l’insieme di tessere di un mosaico, le figure del quale l’interprete è chiamato ad individuare. Una delle più impegnative, seppur fastidiose, attività consiste nel tentare di risolvere le numerose questioni di coordinamento tra disposizioni ispirate a diverse rationes, nel tentativo di costruire un sistema, che certamente, per quanto riguarda la normativa codicistica, non è un dato immanente.

La pendolarizzazione del quadro normativo, infatti, orienta la prevalente attenzione e le energie degli interpreti e degli operatori alla comprensione dei nuovi testi  ed alla soluzione delle inevitabili questioni di coordinamento, cosicché l’effetto più rilevante delle continue riforme consiste in un rilancio dell’editoria giuridica e del turismo processuale.

La Corte ha reagito alla frenesia legislativa.

In riferimento al nuovo art. 360 bis cpc la Corte, nella sua composizione più autorevole, ha sterilizzato i possibili effetti dirompenti dell’art. 47, co. 1°, lett. a), l. 18 giugno 2009, n. 69, ha fatto propria la lettura della disposizione prospettata dai primi interpreti ed ha immediatamente chiarito che, nonostante l’etichetta attribuita dal legislatore, nelle ipotesi considerate, si tratta di «manifesta infondatezza del ricorso», non di «inammissibilità», e che l’ambito e l’oggetto del giudizio camerale affidato alla sesta sezione non sono circoscritti alle ipotesi di cui all’art. 375, n. 1 e n. 5, cpc, ma comprendono tutte le fattispecie considerate[1].

In riferimento al rinnovato art. 360, n. 5, la Corte, non ha ripreso l’interpretazione della disposizione fornita nel periodo di vigenza del testo dal 1942 al 1950, ma si è adeguata alle indicazioni contenute nella Relazione al codice: «nel n. 5 il legislatore ha disciplinato il ricorso per difetto di motivazione entro precisi limiti, diretti ad evitare gli abusi che si sono verificati nella pratica sotto il vigore del codice del 1865. La Corte di cassazione, in quanto organo supremo della giustizia, deve infatti conoscere il difetto dei motivi della sentenza impugnata, giacché la motivazione delle decisioni è una garanzia fondamentale di retta amministrazione della giustizia. La formula adottata fa sicuramente cadere l’obiezione che il giudice supremo non può ben giudicare sulla mancanza dei motivi avendo una inesatta nozione del fatto, giacché gli elementi di fatto, posti a base di questo mezzo di ricorso, devono chiaramente emergere dagli atti, in quanto hanno formato oggetto di discussione tra le parti». Il testo attuale, infatti, corrisponde a quello originario del codice; l’art. 360, n. 5, non aveva corrispondenti nel codice del 1865, vigente il quale i vizi logici del provvedimento impugnato erano considerati come ragioni di nullità; la disposizione è stata quindi, modificata nel 1950 e nel 2006. La Corte ha collegato il nuovo testo al principio di autosufficienza del ricorso; l’omissione deve risultare del testo della sentenza e dagli atti, non riguarda gli elementi istruttorii; la Corte ha anche analiticamente specificato i dati necessari al rispetto del principio di autosufficienza: l’indicazione del fatto, l’esame del quale sarebbe stato omesso, degli atti processuali, dai quali ne risulti l’esistenza e la discussione, e la sua «decisività»[2].

Sullasezione «filtro», la Corte ha ripreso l’esperienza organizzativa maturata in riferimento all’applicazione del decreto del Primo presidente del 9 maggio 2005, istitutivo della «Struttura» in funzione dello smistamento tra udienza pubblica e camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375 cpc. La valutazione di ammissibilità del ricorso è, preliminarmente, attribuita, alla Sezione VI, che può definire il procedimento in camera di consiglio con ordinanza con una dichiarazione di inammissibilità, di improcedibilità, di manifesta infondatezza o di manifesta fondatezza; ovvero, all’esito dell’udienza pubblica, con sentenza anche con l’accoglimento o con il rigetto del ricorso[3]. La Sezione VI può anche rimettere con ordinanza il ricorso alla sezione tabellarmente competente. Questa, a sua volta, può ancora dichiarare in camera di consiglio con ordinanza l’inammissibilità, l’improcedibilità, la manifesta infondatezza o la manifesta fondatezza del ricorso ovvero, all’esito dell’udienza pubblica, pronunciare sentenza di accoglimento o di rigetto del ricorso. Ne consegue, tuttavia, che, se il procedimento non viene definito dalla Sezione VI, il ricorso è oggetto di una doppia valutazione, con un appesantimento del giudizio di legittimità.

In riferimento alla rivalutazione della funzione nomofilattica e agli effetti dei mutamenti di giurisprudenza, ai sensi degli artt. 363 e 374 cpc, le Sezioni unite hanno precisato che (a)l’affidamento incolpevole negli orientamenti giurisprudenziali consolidati assume rilevanza giuridica, cosicché non può essere sanzionata la parte che in essi abbia confidato; (b)l’affidamento incolpevole e la rimessione in termini possono utilmente essere invocati soltanto in riferimento ai mutamenti, improvvisi e repentini di giurisprudenza, non anche in riferimento alle decisioni che compongono un contrasto; (c)la valutazione dell’affidamento incolpevole in funzione della rimessione in termini presuppone il rilievo d’ufficio di una decadenza o l’eccezione di parte, fondati sull’indirizzo giurisprudenziale sopravvenuto, e la replica fondata sulla legittima ignoranza della norma frutto della rinnovata interpretazione; (d)il riconoscimento dell’affidamento incolpevole implica la negazione della decadenza frutto della nuova interpretazione giurisprudenziale ovvero la fissazione di un termine per la rinnovazione dell’atto, a seconda della fattispecie oggetto del mutamento di giurisprudenza; (e)l’affidamento incolpevole e la rimessione in termini non riguardano le parti, che avrebbero potuto compiere un atto processuale ma non lo hanno fatto, confidando in un orientamento giurisprudenziale poi superato; (f)in riferimento all’eventualità di futuri mutamenti giurisprudenziali nell’interpretazione di disposizioni processuali, il riconoscimento dell’affidamento incolpevole implica, nell’ambito della specifica controversia, la negazione della decadenza frutto dell’interpretazione giurisprudenziale che la corte intende accogliere, ma che può essere enunciata, ai sensi dell’art. 363 cpc, quale principio nell’interesse della legge[4].

Si è anche affermato che, «se la formula del segmento di legge processuale, la cui interpretazione è nuovamente messa in discussione, è rimasta inalterata, una sua diversa interpretazione non ha ragione di essere ricercata e la precedente abbandonata, quando l’una e l’altra siano compatibili con la lettera della legge, essendo da preferire — e conforme ad un economico funzionamento del sistema giudiziario — l’interpretazione sulla cui base si è, nel tempo, formata una pratica di applicazione stabile»[5]; e che «la salvaguardia dell’unità e della “stabilità” dell’interpretazione giurisprudenziale (massimamente quella del giudice di legittimità e, in essa, di quella delle sezioni unite) è ormai da considerare — specie dopo l’intervento del dl n. 40 del 2006 e della l. n. 69 del 2009, in particolare con riguardo alla modifica dell’art. 374 cpc ed alla introduzione dell’art. 360 bis — alla stregua di un criterio legale di interpretazione delle norme giuridiche. Non l’unico e neppure quello su ogni altro prevalente, ma di sicuro un criterio di assoluto rilievo. Occorre dunque, per derogarvi, che vi siano buone ragioni. E quando si tratta di interpretazione di norme processuali, occorre che vi siano ottime ragioni, come insegna il “travaglio” che ha caratterizzato negli ultimi anni l’evoluzione giurisprudenziale di queste sezioni unite civili con riguardo all’overruling in materia di interpretazione di norme processuali, posto che, soprattutto in tale ambito, la “conoscenza” delle regole (quindi, a monte, l’affidabilità, prevedibilità ed uniformità della relativa interpretazione) costituisce imprescindibile presupposto di uguaglianza tra i cittadini e di “giustizia’ del processo medesimo»[6].

Nonostante ciò, non mancano mutamenti di giurisprudenza affatto originali, che suscitano scalpore ed ai quali la stessa Corte, nella sua composizione più autorevole, provvede a porre rimedio[7].

4. Il potere di autoregolazione della Corte

Questi disorientamenti della giurisprudenza della Corte sono spesso giustificati in base al principio della ragionevole durata del processo.

Sennonché la vicenda relativa alla prevalenza attribuita a questo principio su ogni altra garanzia del «giusto processo» ex art. 111 Cost. può considerarsi finalmente e definitivamente superata. I vivaci contrasti provocati da quella vicenda hanno contribuito a consolidare un’esperienza, allora già in atto, di dialogo sulla giurisprudenza della Corte: in occasione della rimessione alle Sezioni unite di questioni di rilevante interesse processuale, la Corte si apre al confronto con la dottrina e con gli operatori, affinché, poi, la decisione della Corte, nella sua composizione più autorevole, possa tenere conto del dibattito sviluppatosi sul tema[8].

Occorre ricordare che le regole processuali costituiscono il punto di arrivo della evoluzione successiva al superamento dell’ordo judiciarius.

In diritto comune, la disciplina processuale era il frutto della elaborazione, stratificata nel tempo, da parte degli stessi giudici, delle prassi operative. La cristallizzazione delle disposizioni regolatrici del processo riflette l’esigenza del potere statuale di controllare l’operato dei giudici. La disciplina del processo affidata a norme generali ed astratte contenute in disposizioni statuali è un fenomeno relativamente recente.

Le corti superiori dettano le regole del proprio funzionamento. Le scarne norme di procedura dettate dagli articoli da 15 a 22 l. 11 marzo 1953, n. 87, sono completate dalla «norma integrative», che la Corte costituzionale può emettere ai sensi dell’art. 22, co. 2°. La Corte di Strasburgo e la Corte del Lussemburgo operano in base ai propri regolamenti, rispettivamente nel testo in vigore dal 1° maggio 2013 e dal 23 aprile 2015.

Costituiscono indubbiamente forzature che, se commesse da giudici di merito, implicherebbero errores in procedendo, ma sono espressione del potere di autoregolazione della Corte l’attribuzione alla sezione sesta del potere di tenere l’udienza pubblica e di emettere sentenze[9]; il potere di enunciare un principio di diritto nell’interesse della legge, ai sensi dell’art. 363 cpc, anche nell’ambito del procedimento camerale e se vi è rinuncia al ricorso[10]; le limitazioni all’applicazione degli artt. 384, co. 3°, cpc ai casi nei quali la Corte intende provvedere sul merito e non anche alle ipotesi in cui intenda correggere la motivazione o dichiarare l’inammissibilità o l’improcedibilità del ricorso[11]. In questo senso possono anche essere valutate le violazioni, espresse o tacite, dell’art. 374, co. 3°, cpc, che dovrebbe precludere alle sezioni semplici di disattendere gli orientamenti delle sezioni unite[12]. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi.

In realtà, il procedimento innanzi alla Corte è quello che la stessa Corte determina nell’ambito dei confini segnati dalle norme generali ed astratte. Mentre è la Corte che segna i confini per i giudici di merito, i provvedimenti dei quali possono essere cassati se li travalicano, la stessa Corte interpreta ed applica, con decisioni insindacabili, le disposizioni che regolano il procedimento innanzi a sé.

Allora, piuttosto che pensare a riforme palingenetiche del giudizio di legittimità, che la Corte potrebbe non condividere e sterilizzare, in considerazione della difficoltà di porre mano a un radicale intervento di razionalizzazione complessiva del sistema[13], oltre agli interventi organizzativi in parte già realizzati e da realizzare, un contributo potrebbe essere fornito dalla previsione di un provvedimento legislativo che, annualmente, recepisca (o rifiuti) le indicazioni della giurisprudenza della Corte nell’esercizio della sua funzione nomofilattica, al pari di quanto avviene con la legge europea.

È il modello delle Rules of civil procedure nel processo federale americano: periodicamente, in base alla giurisprudenza delle corti federali, le Rules sono aggiornate[14].

Il legislatore, ovviamente, nella sua razionale discrezionalità, potrebbe anche disattendere le indicazioni della Corte, che, ai sensi dell’art. 101, co. 2°, Cost, sarebbe tenuta ad adeguarsi. Altrimenti, il recepimento in provvedimenti legislativi delle indicazioni della giurisprudenza di legittimità, potrebbe contribuire alla razionalizzazione del sistema, evitando il pendolarismo legislativo e cristallizzando, soprattutto nella materia processuale, la giurisprudenza della Corte, prescindendo da quanto previsto dall’art. 374, co. 3°, cpc, sovente disapplicato.

In subordine, come avviene, in riferimento a materie specifiche, in molti uffici di merito e come avviene per tutte le corti superiori, la stessa Corte potrebbe indicare, nel proprio sito, le «linee guida» del procedimento innanzi a sé, dettando un proprio «Statuto», fornendo agli utenti un modulo di ricorso e risolvendo così l’annosa questione relativa alla lunghezza ed alla struttura degli atti. 

5. Cenni (e rinvio) sull’ammissibilità del ricorso

Nell’attuale contesto, tuttavia, appare opportuno prescindere da tali suggestive prospettive. L’aspirazione a un intervento normativo che concentri in unico testo tutta la disciplina processuale, coordinando e selezionando i frutti della frenesia legislativa è risalente e non ha ricevuto ascolto. Anche il dialogo sulla materia processuale tra legislazione e giurisprudenza costituisce un desiderio datato, che ha dovuto cedere alle intemperanze di ripetuti interventi legislativi estemporanei. La elaborazione di «linee guida» del procedimento innanzi alla Corte presuppone una paziente e periodica analisi della giurisprudenza della stessa Corte.

Il dialogo con la Corte, già celebrato, nel decennale della istituzione, nel 1933, da Piero Calamandrei, da Francesco Carnelutti e da Ludovico Mortara, resta affidato ad altri strumenti.

Hic et nunc, appare opportuno ricordare che il processo civile di cognizione, compreso il procedimento innanzi alla Corte di cassazione, tende ad una decisione di merito, a conoscere chi ha ragione e chi ha torto, a sapere se si può ottenere il bene della vita preteso o se tale aspirazione è priva di fondamento. Dalla Corte di legittimità, il ricorrente vuole sapere se il provvedimento impugnato è frutto di errores in procedendo o di errores in iudicando e merita, quindi, per le ragioni esposte nei motivi, di essere cassato.

La proposizione di un ricorso per cassazione, come di una domanda giudiziale, tuttavia, è sottoposta a regole, l’inosservanza delle quali ne determina l’inammissibilità.

Ogni giudice, compresa la Corte, ha il doveroso compito di verificare preliminarmente la ammissibilità della domanda o dell’istanza proposta[15]. Non occorre, a tal fine, la previsione legislativa di un subprocedimento, che, se compiuto dal medesimo organo decidente, appesantisce, sempre e comunque, il processo[16].

In sede di legittimità, il giudizio sulla ammissibilità del ricorso è attribuito, in prima battuta, alla Sezione VI e, poi, eventualmente, anche alla sezione tabellarmente competente.

Sebbene possa essere, o possa apparire, più semplice definire il procedimento con una dichiarazione di inammissibilità se il ricorso è privo di fondamento, l’obiettivo del giudizio di impugnazione resta la valutazione degli errores in procedendo o degli errores in iudicando denunciati con il ricorso. Con la dichiarazione di inammissibilità, invece, la Corte si sottrae al proprio compito e rifiuta la decisione richiesta; imputa al difensore l’inosservanza delle regole formali per la proposizione del ricorso ed espone quest’ultimo a responsabilità per negligenza professionale.

Il compito della Corte resta quello scolpito nell’art. 65 o.g., per il quale essa «assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni».

Ogni controversia, anche quelle sottoposte al giudizio della Corte suprema, coinvolge la vita delle parti, che, nei giudizi di merito, si sente palpitare negli atti e nelle aule di udienza, mentre nel giudizio di legittimità appare lontana fino a far dimenticare la sua esistenza. Ma sotto gli atti ingialliti dal tempo e dietro le raffinate questioni giuridiche vi sono sempre e comunque le vicende umane.

Lo jus litigatoris è garantito dall’art. 111, co. 7°, Cost. che attribuisce alla Corte il controllo di legalità sui provvedimenti giurisdizionali. Sapere se il provvedimento impugnato è viziato da errores in procedendo o da errores in judicando è un diritto garantito dalla Costituzione.

Come previsto, in generale, dall’art. 125 cpc, anche il ricorso per cassazione deve indicare «le parti, l’oggetto, le ragioni della domanda e le conclusioni o l’istanza». I requisiti del ricorso sono indicati dall’art. 366, co. 1°, cpc; ai sensi dell’art. 365 cpc, inoltre, «il ricorso è diretto alla corte e sottoscritto, a pena d’inammissibilità, da un avvocato iscritto nell’apposito albo, munito di procura speciale»; l’inammissibilità è dichiarata anche se nessuna delle parti provvede all’integrazione del contraddittorio nel termine fissato, ai sensi dell’art. 331, co. 2°, cpc

Il ricorso è qualificato «inammissibile» dall’art. 360 bis, cpc, ma, come si è già ricordato, la Corte, ha immediatamente chiarito che, nonostante l’etichetta attribuita dal legislatore, nelle ipotesi considerate, si tratta di manifesta infondatezza del ricorso, non di «inammissibilità»[17].

L’ammissibilità del ricorso presuppone anche la verifica della legittimazione e dell’interesse ad impugnare.

Alcuni requisiti di ammissibilità del ricorso per cassazione sono verificabili in base a dati oggettivi, rispetto ai quali i margini di opinabilità sono ridotti. L’applicazione di altri, invece, implica un più ampio potere di valutazione[18].

A tal fine, anche nella prospettiva della prossima informatizzazione del procedimento innanzi alla Corte e della attuazione dell’ufficio del processo di cui al dm 1° ottobre 2015, potrebbe essere semplificata la verifica dei requisiti di ammissibilità del primo tipo. Per quanto riguarda quelli del secondo tipo, invece, il compito interpretativo consiste nel segnare confini per quanto possibile certi.

A mero titolo esemplificativo, la verifica della sottoscrizione del ricorso da parte di un avvocato iscritto nell’albo speciale, l’indicazione delle parti, della procura, del provvedimento impugnato, del rispetto dei termini possono implicare indagini anche complesse, ma lasciano scarsi margini di discrezionalità[19]. Il giudizio sulla legittimazione e sull’interesse ad impugnare, sulla natura del provvedimento impugnato, sull’autosufficienza del ricorso, invece, si prestano a soluzioni opinabili.

In relazione a questi ultimi, pertanto, si tratta di proseguire, mediante il dialogo tra giurisprudenza e dottrina, la tradizionale opera interpretativa di chiarificazione e semplificazione della normativa. 

6.Lo jus litigatoris

Questo paziente lavoro, ovviamente, non può prescindere dai principii e dai valori deducibili dalla Costituzione.

In una recente pronuncia in materia, il Giudice delle leggi ha ribadito che «il presidio costituzionale - il quale è testualmente rivolto ad assicurare il controllo sulla legalità del giudizio (a ciò riferendosi, infatti, l’espresso richiamo al paradigmatico vizio di violazione di legge) - contrassegna il diritto a fruire del controllo di legittimità riservato alla Corte Suprema, cioè il diritto al processo in cassazione»[20].

La ricorrente aspirazione ad una limitazione all’accesso alla Corte, mediante una modifica della Costituzione[21], diretta a costruire una Corte di cassazione diversa da quella unificata nel 1923 ed alla quale i costituenti hanno attribuito il controllo di legalità, implica, tuttavia, una corte suprema di pochi componenti, selezionati in modo diverso dal concorso, con funzioni di indirizzo di politica del diritto, nonché, probabilmente, la unificazione delle funzioni della Corte costituzionale e della Corte di cassazione, come previsto negli Stati uniti; e presuppone altresì una profonda revisione della struttura delle corti d’appello, alle quali sarebbe affidato il monopolio del controllo di legalità sui provvedimenti giurisdizionali.

Non appare neppure realistico pensare, senza modificare la Costituzione,  alla abolizione dell’appello, liberando risorse e concentrando innanzi alla Corte tutte le impugnazioni. L’appello, come mette in evidenza Domenico Dalfino[22], sebbene non goda di garanzie costituzionali, costituisce una fondamentale garanzia di giustizia non solo contro gli errori del giudice, ma anche contro gli errori delle stesse parti.

Entrambe le soluzioni richiedono comunque profondi interventi strutturali e non sono di breve periodo. Comunque non contribuiscono a risolvere gli attuali problemi di funzionamento della Corte.

In riferimento a questi ultimi, non può essere pretermesso che quasi il 40% dei ricorsi per cassazione riguarda le controversie tributarie, alle quali occorre aggiungere quelle previdenziali, nonché i ricorsi in materia di sanzioni amministrative proposti prima del 2006, quando è stata prevista l’appellabilità delle relative decisioni.

La gestione di questa tipologia di controversie implica interventi organizzativi estranei all’esperienza di ogni altra corte suprema.

Una prospettiva seria e realistica non può prescindere dall’incidenza del contenzioso seriale, dai profili organizzativi del lavoro della Corte, dalle delicate questioni relative alla tecnica di redazione degli atti e, soprattutto, dei provvedimenti.

Il dibattito generale sulle proposte di riforma palingenetiche e sul futuribile ruolo della Corte prescinde dalla paziente e faticosa analisi delle norme, della giurisprudenza e dei flussi di contenzioso, ha per oggetto i desideri e le aspirazioni di ciascuno; sottrae energie e tempo alla soluzione delle questioni concrete.

Ancora una volta, perciò, come ha insegnato l’intera vita dell’amico al quale sono dedicate queste pagine, «ci metteremo al nostro lavoro ed adempiremo al “compito quotidiano” nella nostra qualità di uomini e nella nostra attività professionale»[23].

[1] Cass., ss.uu, 6 settembre 2010, n. 19051, in Foro it., 2010, I, 3333, con nota di G. Scarselli e di chi scrive; in Giur. it., 2011, 885, con nota di A. Carratta; in Giusto processo civ., 2010, 1131, con nota di F. P. Luiso; in Giust. civ., 2011, I, 403 , con nota di Terrusi; in Nuova giur. civ., 2011, I, 167, con nota di Carnevale; in Guida al dir., 2010, con nota di G. Finocchiaro.

[2] Cass. 7 aprile 2014, n. 8053 e n. 8054, in Foro it., 2015, I, 209, con nota di P. Quero; in Giur. it., 2014, 1901, con nota di  A. Turchi; in Riv. dir. proc., 2014, 1594, con nota di F. Porcelli. Cass. 9 giugno 2014, n. 12928, e Cass. 11 luglio 2014, n. 16009, hanno espressamente richiamato, in motivazione, la pronuncia delle Sezioni unite; Cass. 22 settembre 2014, n. 19881, ha riprodotto il principio di diritto, senza menzionare il precedente specifico.

[3] Cass. 20 gennaio 2014, n. 1089 (in Foro it., 2014, I, 470), ha tratto dagli artt. 75 e 76 dl 21 giugno 2013, n. 69, conv. in l. 9 agosto 2013, n. 98, la possibilità dell’udienza pubblica anche innanzi alla Sezione VI.

[4] Cass., sez. un., 11 luglio 2011, n. 15144, in Foro it., 2011, I, 2254; in Giust. civ., 2012, I, 1782; in Corriere giur., 2011, 1392, con note di F. Cavalla, C. Consolo, M. De Cristofaro; in Riv. dir. proc., 2012, 1072, con nota di C. Vanz; in Giusto processo civ., 2011, 1117, con nota di F. Auletta; in Giur. costit., 2012, 3153, con nota di C. Consolo.

[5] Così Cass., sez. un., 18 maggio 2011, n. 10864, in Foro it., 2012, I, 1864, con note di G.G. Poli e di C. Consolo.

[6] Così Cass., sez. un., ord. 6 novembre 2014, n. 23675.

[7] Ne è stata emblematica espressione Cass. 9 settembre 2010, n. 19246, sui termini di costituzione nella opposizione a decreto ingiuntivo, in Foro it., 2010, I, 3014, con note di A.D. De Santis, di C.M. Barone, R. Caponi, D. Dalfino, A. Proto Pisani, G. Scarselli e di chi scrive; id., 2011, I, 117, con nota di A. Proto Pisani; in Giur. it., 2011, 1599, con nota di E. Dalmotto; in Giust. civ., 2011, I, 399, con nota di L. D’Angelo; ibid., 2101, con nota di F. Cordopatri; in Riv. dir. proc., 2011, 210, con nota di E. Ruggeri; in Giusto processo civ., 2010, 1151, con note di G. Trisorio Liuzzi e di A. Briguglio; in Corriere giur., 2010, 1447, con nota di A. Tedoldi; in Corriere merito, 2010, 1190, con nota di G. Travaglino; in Nuova giur. civ., 2011, I, 253, con nota di L.P. Comoglio. La questione è stata, quindi, rimessa, con una motivazione esemplare, alle Sezioni unite, da Cass. 22 marzo 2011, n. 6514, in Foro it, 2011, con nota di chi scrive. È poi, anche intervenuto il legislatore, con la l. 29 dicembre 2011, n. 218. Sulla data certa del credito nell’accertamento del passivo nelle procedure concorsuali, v. Cass., 8 novembre 2010, n. 22711, e 14 ottobre 2010, n. 19251, in Foro it., 2011, I, 67, con nota di chi scrive; a queste decisioni ha fatto seguito Cass., ss.uu., 20 febbraio 2013 n. 4213, id., 2013, I, 1137. Sulla nozione di sentenze non definitive su questioni ai sensi dell’art. 360, comma 3°, cpc, v. Cass. 9 luglio 2014, n. 15601, e 2 luglio 2014, n. 14991, id., 2014, I, 3098, con nota di G. Balena, A. Carratta, D. Dalfino, V. Mastrangelo, G. Olivieri, A. Proto Pisani, G. Ruffini e di chi scrive; la questione è stata, quindi, rimessa alle Sezioni unite da Cass. 26 marzo 2015, n. 6127 «anche alla luce delle posizioni dottrinali emerse negli anni di applicazione della norma in scrutinio». Sulla inammissibilità della opposizione alla esecuzione del litisconsorte necessario pretermesso, v. Cass. 23 gennaio 2015, n. 1238, in Foro it., 2015, I, 2062 con nota di chi scrive e di A. Proto Pisani; in (corso di pubblicazione in) Giur.it., con nota di A. Carratta; in Riv. esecuzione forzata, 2015, 213, con nota di G. Monteleone. Sull’interesse ad eseguire, v. Cass. 3 marzo 2015, n. 4228, sulla quale v. G. Costantino, L’interesse ad eseguire tra valore del diritto e abuso del processo, in (corso di pubblicazione in) Giusto processo civ., 2015.

[8] Nell’ambito di questo percorso, nell’anno in corso, si sono svolti incontri, Dialogoi, sui rapporti tra il principio di diritto ex art. 363 cpc e le questioni di legittimità costituzionale (12 febbraio), sulla rilevabilità d’ufficio del difetto di capacità processuale (25 marzo), sulla nozione di prove «indispensabili» (5 maggio); nonché sulla impugnabilità dell’ordinanza che dichiara inammissibile l’appello privo di una ragionevole probabilità di accoglimento ex art. 348 ter cpc (3 giugno). I materiali di ciascun incontro, nonché di quelli degli anni precedenti, sono nel sito della Corte: http://bit.ly/1O9MDG1; e in quello del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma Tre: http://bit.ly/1StFt0c.

[9] Cass. 20 gennaio 2014, n. 1089, cit., per la quale «l’esplicito riferimento contenuto sia nell’art. 76, 1° comma, lett. b), Rd n. 12 del 1941 (come modificato dall’art. 81 dl n. 69 del 2013), sia nell’art. 75, 2° comma, cit. (id est:  dello stesso dl 21 giugno 2013, n. 69, conv. in l. 9 agosto 2013, n. 98), alle udienze che si tengano presso la sesta sezione (e cioè quella di cui all’art. 376, 1° comma, cpc), consenta di ritenere non solo che la detta sezione è abilitata a tenere oltre alle adunanze camerali anche udienze pubbliche, ma anche che alle udienze che si tengono presso la stessa sezione non è più obbligatoria la partecipazione del pubblico ministero. Rimane impregiudicata, ovviamente, la facoltà dell’ufficio del pubblico ministero di intervenire ai sensi dell’art. 70, 3° comma, cpc, e cioè ove ravvisi un pubblico interesse».

[10] Cass., ss.uu., 6 settembre 2010, n. 19051, cit.

[11] Per l’applicabilità dell disposizione soltanto all’ipotesi in cui la corte ritenga di dover decidere nel merito e non anche a quelle in cui intenda correggere la motivazione, Cass. 1° aprile 2015, n. 6669; Cass. 12 dicembre 2011, n. 26610; Cass. 30 agosto 2011, n. 17779; Cass. 22 luglio 2011, n. 16141. Per l’inapplicabilità dell’art. 384, co. 3°, cpc al rilievo d’ufficio delle cause di inammissibilità del ricorso, v. Cass. 20 luglio 2011, n. 15964.

[12] Cass. 14 giugno 2011, n. 12957, in Foro it., 2011, I, 3033, con nota di chi scrive, ha ritenuto «di doversi discostare, in consapevole e motivato dissenso» dal precedente orientamento consolidato.

[13] Diversi sono stati i tentativi di porre mano ad una riforma complessiva, riscrivendo interamente il codice di rito. Ma non hanno avuto alcun esito: il «Progetto Liebman» (in 35° Quaderno dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile, Milano, 1979), il «Progetto Tarzia» (in Giur. it., 1988, IV, 257); il «Progetto Vaccarella» (oggetto del ddl C/XIV/4573); il «Progetto Proto Pisani» (in Foro it., 2009, V, 1.); il «Progetto Vaccarella», consegnato al ministro della giustizia il 1° dicembre 2013. Questi progetti, tuttavia, hanno per oggetto soltanto la normativa codicistica. Nessuno di essi propone di inserire nel futuro codice, come si è fatto altrove e come sarebbe doveroso, tutta la normativa sulla tutela giurisdizionale civile, ormai contenuta anche in altri testi legislativi, compresi i regolamenti Ue. In questa direzione era la Relazione presentata nella IX Legislatura, alla Commissione Giustizia del Senato dal sen. Nicolò Lipari (in Giust. civ., 1985, II, p. 520 ss., e in Riv.trim.dir.proc.civ., 1986, p. 318 ss.).

[14] Si rinvia a Il processo civile tra riforme ordinamentali, organizzazione e prassi degli uffici. Una questione di metodo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1999, 77 ss.

[15] I processi si uccidono da piccoli, prima che crescano e diventino difficili da gestire. Si rinvia a Prime note sulla fase introduttiva del processo ordinario di cognizione, in Foro it., 2005, V, 100 ss.; L’esperienza del processo nell’assetto attuale. Le prassi esistenti e quelle possibili, in Processo ed organizzazione, a cura di G. Gilardi, Milano, 2004, 23 ss.; e a Note sulla struttura della decisione nei processi a cognizione piena. Un modello per la consolle del giudice, in Tecnologia, Organizzazione e Giustizia, a cura di S. Zan, Bologna, 2004, 191, ora in Riflessioni sulla giustizia (in)civile, Torino, 2011, 293, 313 e 329. V. anche le considerazioni svolte in L’interesse ad eseguire tra valore del diritto e abuso del processo, cit., e in  Questioni processuali tra poteri del giudice e facoltà delle parti, in Riv. dir. proc., 2010, 1012. Sono, infatti, sintomi di patologia del processo che, innanzi alla Corte, si arrivi a discutere del contraddittorio su questioni rilevate d’ufficio ovvero che giungano in Cassazione controversie di infimo valore; questi fenomeni presuppongono un malfunzionamento dei processi di merito.

[16] In riferimento al «filtro» in appello, si rinvia a La riforma dell’appello, in Giusto proc. civ., 2013, 21.

[17] Cass., ss.uu, 6 settembre 2010, n. 19051, in Foro it., 2010, I, 3333, con nota di G. Costantino e di G. Scarselli; in Giur. it., 2011, 885, con nota di A. Carratta; in Giusto processo civ., 2010, 1131, con nota di F. P. Luiso; in Giust. civ., 2011, I, 403, con nota di Terrusi; in Nuova giur. civ., 2011, I, 167, con nota di Carnevale; in Guida al dir., 2010, con nota di G. Finocchiaro.

[18] Per una analisi aggiornata dei requisiti di ammissibilità del ricorso, si rinvia alla relazione svolta il 5 novembre 2015, al corso della Formazione decentrata della Scuola superiore della magistratura, «Filtri di ammissibilità e controllo di legittimità sui provvedimenti del giudice civile», cod. P15077, http://bit.ly/1j77uP6.

[19] Basti pensare alle questioni relative all’inammissibilità del ricorso per inosservanza dei termini per impugnare, che hanno scarsi margini di opinabilità, ma non possono essere sottovalutate. In primo luogo, l’applicazione della disciplina ordinaria, oggetto di ripetute modifiche, implica la soluzione di  problemi di diritto transitorio: il termine «lungo» per impugnare è stato abbreviato dall’art. 46, co. 17°, l. 18 giugno 2009, n. 69; per valutare, quindi, l’ammissibilità dei ricorsi contro i provvedimenti non notificati occorre preliminarmente verificare se la domanda sia stata proposta prima o dopo il 4 luglio 2009. Nel calcolo dei termini, inoltre, occorre tenere presente la sospensione feriale: nelle controversie alle quali riesce applicabile la l. 7 ottobre 1969, n. 742, modificata dall’art. 16, co. 1°, dl 12 settembre 2014, n. 132, conv. dalla l. 10 novembre 2014, n. 162.; nel computo dei termini regolati dalla sospensione feriale, pertanto, per valutare la tempestività della notificazione del ricorso e, quindi, la sua ammissibilità, occorre preliminarmente verificare se la domanda sia stata proposta prima o dopo il 1° gennaio 2015. In secondo luogo, occorre considerare le disposizioni che, in materie specifiche, prevedono termini diversi; l’analisi ed il confronto di esse sono indice del pressappochismo del legislatore; rispetto a ciascuna fattispecie, occorre verificare l’atto che determina la decorrenza dei termini: talvolta, infatti, è indicata la «comunicazione», talaltra la «notificazione», talaltra ancora è attribuito alla cancelleria il compito di notificare il provvedimento. In terzo luogo, merita attenzione la questione relativa all’individuazione del dies a quo, sulla quale è intervenuto il Giudice delle leggi su sollecitazione della Corte: cfr. Cass., ss.uu., 1° agosto 2012, n. 13794, Giur. it., 2013, 909, con nota di richiami, che ha fornito un’interpretazione non condivisa da Cass. 22 novembre 2013, n. 26251 (in Corriere giur., 2014, 988, con nota di F. Auletta), che, a sua volta, ha dubitato del «diritto vivente»; Corte cost. 22 gennaio 2015, n. 3, in motivazione, ha chiarito che «il ricorso all’istituto della rimessione in termini per causa non imputabile (art. 153 cod. proc. civ.), utilizzato dalle sezioni unite (e che pure in situazioni particolari può costituire un utile strumento di chiusura equitativa del sistema), va inteso come doveroso riconoscimento d’ufficio di uno stato di fatto contra legem che, in quanto imputabile alla sola amministrazione giudiziaria, non può in alcun modo incidere sul fondamentale diritto all’impugnazione, riducendone, talvolta anche in misura significativa, i relativi termini (specie nella prospettiva della sopravvenuta disciplina dell’istituto e in particolare della riduzione a sei mesi del termine in questione)»; Alle indicazioni del Giudice delle leggi si è, quindi, adeguata la Corte: Cass. 25 marzo 2015, n. 6050; Cass. 22 maggio 2015, n. 10675.

[20] Così Corte cost. 9 luglio 2009, n. 207, in Foro it., 2009, I, 3281, con nota di scrive, Contro l’abuso del «filtro» è pronta la «pillola del giorno dopo»: sono revocabili anche le ordinanze dichiarative della inammissibilità dei ricorsi per cassazione.

[21] La questione è stata oggetto anche della ultima Assemblea generale, gli atti della quale sono pubblicati nel sito della Corte: http://bit.ly/1PxUJaR.

[22] D. Dalfino, L’appello, garanzia di giustizia, in questo stesso Obiettivo.

[23] Così M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, tr. it. Torino, 1967, p. 43.