Magistratura democratica

L’appello, garanzia di giustizia

di Domenico Dalfino

Nel corso degli ultimi decenni, a fronte della perdurante crisi della giustizia civile, definitivamente accantonate le tesi “iconoclastiche” favorevoli alla soppressione dell’appello, i dubbi degli interpreti si sono polarizzati sull’adesione al modello della revisio prioris instantiae o a quello del novum iudicium, sebbene il sistema vigente e il «diritto vivente» propendano evidentemente per il primo, mentre taluni recenti progetti di riforma puntano a trasformarlo in una sorta di azione di impugnativa. A ben vedere, se un secondo grado totalmente chiuso ai nova sembra inidoneo a perseguire la giustizia della decisione, non va neppure assolutizzata la questione dell’inquadramento nell’uno o nell’altro modello d’impugnazione, giacché l’efficienza del giudizio dipende principalmente dalla virtuosa organizzazione degli uffici e dall’adeguata allocazione delle risorse.

1. Crisi della giustizia e riforma del giudizio civile di appello

Una delle più eloquenti manifestazioni dell’attuale stato di crisi in cui versa la giustizia civile in Italia è rappresentata dal dissesto delle corti d’appello, quali giudici di secondo grado. È opinione diffusa che le ragioni di tale dissesto siano costituite dall’eccessivo carico di lavoro, determinato dal progressivo accumularsi dell’arretrato, nonché, sia pure in parte minore, dall’inadeguatezza strutturale e funzionale delle regole processuali[1]. Ciò che si riflette negativamente sui tempi e sui costi della giustizia, entrambi destinati inevitabilmente ad accrescersi.

Se si scende un po’ più nello specifico ci si avvede che, per quanto di crisi della giustizia e dell’appello si parli da almeno quarant’anni (se non di più), il più significativo aumento del numero dei giudizi pendenti innanzi alle corti d’appello è coinciso con la soppressione delle preture e dell’istituzione del giudice unico di primo grado, avvenute con il d.lgs n. 51/1998, che hanno determinato il trasferimento alle corti del compito di provvedere anche sugli appelli che, prima della riforma, erano attribuiti ai tribunali e con l’attribuzione ad esse della competenza in materia di equa riparazione per irragionevole durata del processo[2]. In materia di lavoro, poi, il passaggio alla giurisdizione del giudice ordinario delle controversie in materia di pubblico impiego, realizzato con intervento quasi coevo (d.lgs n. 80/1998), ha contribuito ad incrementare il peso del nuovo fardello. Mutamenti epocali, accompagnati da misure organizzative inidonee a smaltire l’arretrato e ad esaurire le cause sopravvenute[3].

Quanto al procedimento, in una prospettiva deflazionistica e di accelerazione, vengono in rilievo le seguenti misure:

- la generalizzata provvisoria esecutività delle sentenze di primo grado, di cui all’art. 282 cpc, anche di quelle di condanna emesse a favore del datore di lavoro, ai sensi dell’art. 431, 5° comma, cpc, e la conseguente soppressione dell’effetto sospensivo automatico dell’appello, attuate con la l. 353/1990;

- il temperamento della regola della collegialità del giudice di secondo grado per la trattazione dei gravami proposti innanzi alle corti di appello, attraverso la previsione della facoltà del presidente del collegio di delegare per l’assunzione dei mezzi istruttori uno dei suoi componenti (v. l’art. 350, 1° comma, come modificato dalla l. 183/2011);

- il divieto di ius novorum, di cui all’art. 345 cpc, come modificato dalla l. 353/1990, successivamente irrobustito – sulla scorta di un per lo più criticato revirement giurisprudenziale (v. infra § 5) – dalla l. 69/2009 in relazione ai documenti, e ulteriormente irrigidito, almeno nel rito ordinario, dal dl n. 83/2012, conv. con modif. in l. 134/2012 attraverso l’eliminazione dell’ammissibilità previa valutazione di “indispensabilità”;

- l’istituzione, avvenuta con l’appena menzionato intervento del 2012, dei “filtri” di inammissibilità di cui agli art. 342 cpc, per ciò che attiene alla «motivazione dell’atto di appello», e 348 bis e ter cpc, per ciò che concerne la valutazione di «non ragionevole probabilità di accoglimento» del gravame;

- l’attribuzione espressa al «giudice» d’appello del potere di decidere la causa ai sensi dell’art. 281 sexies cpc (v. l’art. 352, ultimo comma, cpc, nonché, in caso di istanza di inibitoria, l’art. 351, ultimo comma, cpc, come modificati dalla l. 183/2011)[4].

A ben vedere, non è dato conoscere con precisione quali risultati le soluzioni tecniche appena passate in rassegna abbiano effettivamente prodotto, né se il generale calo della proposizione degli appelli e l’aumento del numero dei procedimenti definiti sia dipeso e in quale misura da esse[5]. Non sembra azzardato, tuttavia, ritenere che l’appello continui a rappresentare una chance per ribaltare un esito infausto, anche sotto il profilo professionale.

Ciò detto, ci si può domandare se non sia opportuno procedere ad una ulteriore revisione del giudizio di appello, al fine di individuare e attuare il miglior modello possibile, sotto il profilo della capacità di produrre decisioni giuste e in tempi ragionevoli. Anzi, ci si potrebbe prima ancora chiedere se sia o no opportuno conservare il giudizio di appello. Proprio a quest’ultimo quesito si vuole cercare di dare immediata risposta, in quanto logicamente preliminare all’altro.

2. Eliminare il giudizio di appello?

Nel 1969, riproponendo posizioni risalenti ad un altro contesto storico e normativo[6], si propugnava con vigore e convinzione inediti, l’eliminazione del giudizio di appello, ritenuto espressione di una garanzia in eccesso, non assicurata neanche a livello costituzionale[7]. All’epoca, la sentenza di primo grado era priva di efficacia esecutiva automatica e tale ultimo giudizio, come (contro)riformato nel 1950, si presentava aperto ai nova. Di conseguenza, agli occhi dell’autorevole giurista che, con serietà e spregiudicatezza dichiarate, si faceva portatore di questa “iconoclastica” istanza, il giudizio di primo grado appariva «solo come una lunga fase di attesa, una sorta di annosa e spesso estenuante e penosa anticamera per giungere alfine alla fase di appello; e quest’ultima è il solo vero giudizio, almeno per la parte che economicamente se lo può concedere»[8].

L’idea non fu seguita dal legislatore e non fu neanche supportata dalla dottrina, se si fa salva la posizione espressa da un altro insigne giurista[9] in occasione del XII convegno dell’Associazione fra gli studiosi del processo civile, tenuto a Venezia nell’ottobre del 1977, il quale, nel sostenere la debolezza delle ragioni portate tradizionalmente a giustificazione della conservazione dell’appello, fece leva sulle seguenti principali argomentazioni:

-     l’appello è espressione di una concezione autoritaria e gerarchica dell’ordinamento;

-     il giudice di appello e il giudice di primo grado operano su un piano di disparità «nell’accertamento dei fatti e nell’applicazione del diritto»;

-     è del tutto indimostrabile che il secondo giudice sia più saggio, preparato e colto del primo e che, quindi, la seconda pronuncia dia luogo a risultati più attendibili.

Sennonché, a differenza del precedente parere iconoclastico, la più recente posizione non si limitò a proporre l’abolizione dell’appello, ma ne immaginò la sostituzione con una forma di opposizione, da instaurare innanzi al medesimo giudice di primo grado, o con una querela nullitatis attribuita, per le ipotesi di maggiore rilevanza, alla Cassazione, per le altre, invece, ad un organo formato da magistrati svolgenti anche funzioni di primo grado[10].

Questa posizione non riuscì a trovare consenso e dovette scontrarsi con le ben più realistiche obiezioni di chi, pur rilevando i limiti o la crisi del cd «doppio grado di giurisdizione», riconobbe l’opportunità di una prospettiva di riforma, piuttosto che di eliminazione dell’appello[11], dimostrando l’appartenenza delle argomentazioni contrarie ad un contesto inesistente o non più esistente[12].

3. Appello e «doppio grado di giurisdizione»

Il dibattito al quale si è appena fatto cenno, come si è potuto constatare, aveva preso origine e si era sviluppato intorno al tema più generale del «doppio grado di giurisdizione».

Di esso, è noto, si è sempre predicata l’assenza di copertura costituzionale, avendo l’Assemblea costituente scelto di provvedere, nellart. 111 Cost., soltanto alla garanzia del ricorso per cassazione per violazione di legge[13], senza considerazione alcuna (se si fa salvo l’art. 125, 2° comma, Cost., sulla giurisdizione amministrativa[14]) del «doppio grado».

Ciononostante, le spinte iconoclastiche non si sono mai affidate esclusivamente a questo debole dato [15], bensì anche ad altre argomentazioni (quelle passate in rassegna nel precedente paragrafo), anch’esse, tuttavia, non a perfetta tenuta.

Infatti, indipendentemente dall’insostenibilità, per evidente anacronismo, dell’idea di un giudizio di secondo grado fondato su una “gerarchia” (la quale altra forma non potrebbe avere se non quella di una più o meno velata soggezione, stante l’art. 107 Cost.) tra giudici di gradi diversi, si potrebbe osservare che:

-     la capacità di un ordinamento di assicurare l’«accesso alla giustizia» non si misura esclusivamente dalla rapidità con la quale produce decisioni, ma anche e soprattutto dal livello di vicinanza di queste alla verità materiale[16]; risultato questo, che ha più probabilità di essere ottenuto attraverso l’esperimento di un nuovo giudizio dinanzi a un secondo giudice, chiamato (anche) a controllare gli errori eventualmente compiuti dal primo;

-     in ogni caso, è quanto meno dubbio che l’esigenza di certezza, connessa a quella di accelerazione della formazione di un risultato stabile, debba necessariamente prevalere sull’esigenza di controllo della valutazione effettuata dal giudice di primo grado, in punto di fatto e di diritto, poiché tale rapporto di prevalenza non è stabilito da alcuna norma né emerge in modo alcuno dall’ordinamento;

-     la maggiore affidabilità degli esiti offerti dal sistema del doppio grado non deriva dal fatto che il secondo giudice, in quanto tale, sia migliore del primo, bensì semmai dal fatto che ha meno probabilità di sbagliare[17];

-     la devoluzione, non importa adesso se piena e automatica oppure selettiva, al giudice di secondo grado offre alle parti e al giudice l’opportunità di svolgere una più ampia riflessione intorno al materiale di causa ed agli errori asseritamente compiuti dal primo giudice[18].

Quanto, poi, ai due ulteriori aspetti dai quali, secondo le tesi qui avversate, emergerebbe lo stato di “crisi” del doppio grado di giudizio e che giustificherebbero l’eliminazione dell’appello, vale a dire, da un lato, la «profonda svalutazione del giudizio di primo grado» e la corrispondente «glorificazione dei giudizi di gravame» (ciò che era stato definito dal principale iconoclasta il «primo essenziale difetto» del sistema italiano), dall’altro, l’esistenza di numerose ipotesi, nell’attuale disciplina dell’appello, nelle quali il doppio grado non è attuato, si può aggiungere che:

-  neanche “glorificando” il primo grado e svalutando o addirittura eliminando il secondo, si riuscirebbe a superare l’esigenza di un controllo della decisione;

-  la numerosità delle deroghe al doppio grado contemplate dall’ordinamento non esclude che il principio, da intendere in senso concreto[19], assurga a regola tendenziale[20].

Queste sintetiche considerazioni sarebbero già di per sé sufficienti a convincere che l’eliminazione dell’appello non è certamente la strada maestra.

Se esse non bastassero, si potrebbe porre mente al fatto che in assenza di un doppio grado di giudizio, in primo luogo, l’esigenza di sottoporre la decisione del primo giudice ad un controllo dinanzi ad un altro giudice – insopprimibile sotto il profilo della violazione di legge ex art. 111, 7° comma, Cost. – potrebbe essere soddisfatta soltanto attraverso il ricorso per cassazione (e così, alla Suprema Corte spetterebbe l’infausta sorte di doversi occupare di un numero spropositato di nuove cause, con buona pace di ogni speranza per un effettivo esercizio della funzione nomofilattica); in secondo luogo, il momento della ricostruzione del fatto rischierebbe per essere relegato ad un improbabile ampliamento delle ipotesi di revocazione.

In definitiva, non basta escludere che il doppio grado di giudizio goda di una copertura costituzionale[21] per derivarne la conseguenza che all’appello si debba rinunciare; al contrario, è mia ferma opinione che la sua conservazione risponda a ragioni di giustizia delle decisioni, di logica[22], di convenienza.

Il problema, semmai, è quello di individuarne il modello più appropriato, con riferimento alle concorrenti esigenze.

4. Novum iudicium o revisio prioris instantiae: quale modello?

In linea teorica possono configurasi due modelli diversi, quello che vede l’appello come novum iudicium e quello che, invece, lo imposta come revisio prioris instantiae. In base al primo, l’appello si delinea come mezzo per sottoporre ad un diverso giudice la cognizione di una controversia già decisa da un altro, con effetto devolutivo automatico e apertura allo ius novorum, sia pure nei limiti in cui questo non si risolva nella proposizione di nuove domande (perché, altrimenti, il secondo giudizio sarebbe sì “nuovo”, ma in primo e unico grado). In base al secondo, l’appello è tendenzialmente chiuso ai nova; inoltre, per quanto a critica libera, è fondato su motivi specifici (cioè, specificamente individuati dall’appellante), con conseguente non automaticità dell’effetto devolutivo[23]. Quanto più si spinge verso il primo modello, tanto più l’appello rappresenta un rimedio volto a far valere l’ingiustizia della prima decisione; quanto più, invece, si punta sul secondo, tanto più esso si riduce a un controllo degli errori del primo giudice.

Storicamente, nel nostro ordinamento la preferenza al novum iudicium è stata accordata dal sistema del codice di procedura civile del 1865 e, in maniera meno netta, dalla riforma del codice del 1940-42 introdotta nel 1950. Al contrario, un sistema più vicino alla revisio è quello risultante dopo la riforma del 1990 e le più recenti modifiche del 2005, del 2009 e del 2012.

L’interrogativo che viene spontaneo porsi, come già detto, è se nella situazione attuale di congestionamento dei giudizi di appello (specie quelli che si svolgono innanzi alle corti di appello) sia opportuno continuare a propugnare il modello della revisio o se piuttosto non sia consigliabile ritornare a quello del novum iudicium.

A ben vedere, però, tale interrogativo è fuorviante e, comunque, mal posto. Fuorviante, poiché in base all’esperienza applicativa dovrebbe essere chiaro che nessuna riforma di carattere processuale può considerarsi davvero risolutiva dei mali della giustizia civile, mentre i rimedi, soprattutto alla spropositata durata dei processi, sono da ricercare soprattutto sul piano dell’organizzazione, dell’ordinamento, delle responsabilità e, non da ultimo, delle opzioni di carattere socio-economico e politico-culturale. Mal posto, perché, al limite e in termini più concreti, ci si dovrebbe domandare quale tra i due modelli sia idoneo a perseguire decisioni “giuste” sul piano dell’accertamento della verità dei fatti, su quello delle garanzie, su quello dei costi, su quello dei tempi, su quello dell’effettività della tutela giurisdizionale[24].

5. L’appello-revisio nel sistema vigente e nel “diritto vivente”

Nel sistema vigente e nel “diritto vivente” della giurisprudenza, l’appello si atteggia evidentemente a revisio prioris instantiae. Questo non toglie che esso presenti occasioni di apertura ai nova.

La sua proposizione non è vincolata alla indicazione di motivi tassativamente individuati ex lege (come nel ricorso per cassazione), poiché, al contrario, la critica nei confronti della pronuncia di primo grado è libera. Ciononostante, è subordinata alla prospettazione di ragioni di censura ben precisamente individuate. Sino alla riforma del 2012 queste si identificavano con i «motivi specifici» dell’appello, la cui mancanza trovava il regime della propria sanzione non nella legge, bensì nella interpretazione giurisprudenziale, che aveva dapprima affermato la nullità dell’atto introduttivo dell’impugnazione e poi l’inammissibilità[25]. Nel 2012 la «motivazione» ha preso il posto dei «motivi specifici» ed è stato espressamente stabilito che la sua mancanza determina l’inammissibilità dell’appello (v. art. 342 e 434 cpc).

L’effetto connesso alla proposizione del gravame non è devolutivo in senso pieno e automatico. L’oggetto del giudizio di secondo grado, infatti, è determinato dall’iniziativa dell’appellante principale e di quello in via incidentale, in base a ciò che stabiliscono gli art. 342, 333, 329 cpc, se del caso in via di riproposizione ex art. 346 cpc. Nel rispetto delle indicazioni interpretative offerte dalla giurisprudenza[26], al giudice di appello si devolve tutto ciò che l’impugnante sceglie, non anche quello che omette di devolvere[27].

L’estensione dell’oggetto del giudizio di secondo grado dipende anche dallo ius novorum eccezionalmente consentito dall’art. 345 cpc, rappresentato:

- dalle domande basate su fatti sopravvenuti (quali quelle relative a interessi, frutti, accessori maturati e al risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza impugnata) alle quali vanno aggiunte quelle attinenti alle restituzioni ex art. 389 cpc);

- dalle eccezioni rilevabili d’ufficio (alle quali vanno aggiunte, per coerenza sistematica, le allegazioni di fatti costitutivi nuovi operanti ipso iure sempre nei limiti in cui non comportino una mutatio libelli);

- dai mezzi di prova (o dai documenti) che la parte dimostri di non aver potuto proporre (o produrre) in primo grado per una causa ad essa non imputabile, ferma restando l’ammissibilità senza limiti del giuramento decisorio[28].

In base a questo modello, il doppio grado di giudizio non può realizzarsi non soltanto per le domande la cui proposizione la legge espressamente ammette possa effettuarsi per la prima volta in appello, ma anche in tutte le ipotesi in cui, ai sensi dell’art. 354, ultimo comma, cpc, «il giudice d’appello dichiara la nullità di altri atti compiuti in primo grado», ordinandone, «in quanto possibile, la rinnovazione a norma dell’art. 356», stante la tassatività delle ipotesi di rimessione della causa al primo giudice, ai sensi degli art. 353 e 354, 1°, 2° e 3° comma, cpc[29].

6. La prospettiva di analisi economica del diritto: l’efficienza nomofilattica e la componente organizzativa

Da questi sintetici rilievi dovrebbe emergere che non è metodologicamente corretto occuparsi del giudizio di appello senza tener conto dei rapporti di questo con il primo grado di giudizio, almeno per ciò che concerne l’oggetto della cognizione.

Allo stesso modo, ma per ragioni diverse, non si deve prescindere dalla considerazione dei nessi funzionali sussistenti tra appello e giudizio di legittimità, che si apprezzano non soltanto sotto un profilo strettamente tecnico (con specifico riguardo alle questioni nuove e, in particolare, alle questioni rilevabili d’ufficio[30]) e di opportunità (l’appello come “filtro” di accesso al giudizio di legittimità), ma anche di analisi economica del diritto.

Sulla decisione di proporre o no l’appello possono incidere diversi fattori sotto quest’ultimo profilo, tra i quali il livello di “informazioni” a disposizione delle parti per valutare la bontà della decisione (ad esempio, l’esistenza di orientamenti giurisprudenziali consolidati), i costi dell’impugnazione, ed anche la capacità dei giudici di secondo grado di accogliere gli appelli fondati e, quindi, di saper correggere gli errori del primo giudice (cd “accuratezza”). A tali elementi di valutazione se ne dovrebbe aggiungere un altro, rappresentato dalla capacità dei giudici di legittimità di correggere gli errori del giudice di secondo grado. In sostanza, nel momento in cui occorre scegliere se proporre o no appello, ci si deve prefigurare non soltanto l’esito dello stesso appello, ma anche il livello di “accuratezza” del giudizio di Cassazione[31]; sicché, quanto più è credibile (accurato ed efficiente) il giudice di legittimità tanto meno sono proposti appelli infondati[32]. Ciò che potremmo definire “efficienza nomofilattica”.

Inoltre, sempre secondo questa prospettiva, per evitare il rischio di cadere in enunciazioni astratte, occorre che il giudizio di appello sia anche in grado di neutralizzare l’incisività di altri e diversi fattori, quali la mancanza di risorse, ma soprattutto (cioè, con il medesimo e immutato livello di risorse) la disorganizzazione dell’ufficio giudiziario[33].

7. Il «potenziamento del carattere impugnatorio» nel ddl Berruti

Con il ddl delega presentato alla Camera l’11 marzo 2015, recante il n. 2953/C/XVII, intitolato «Delega al Governo recante disposizioni per l’efficienza del processo civile» ed elaborato sulla base dei lavori della Commissione nominata con dm. 27 maggio 2014 e presieduta da Giuseppe Maria Berruti, presidente di sezione della Cassazione, si vuole riformare l’appello potenziandone il carattere «impugnatorio».

Tanto emerge dai principi e criteri direttivi di cui all’art. 1, lett. b, che qui riportiamo per maggiore chiarezza: «quanto al giudizio di appello: 1) potenziamento del carattere impugnatorio dello stesso, anche attraverso la codificazione degli orientamenti giurisprudenziali e la tipizzazione dei motivi di gravame; 2) introduzione di criteri di maggior rigore in relazione all’onere dell’appellante di indicare i capi della sentenza che vengono impugnati e di illustrare le modificazioni richieste, anche attraverso la razionalizzazione della disciplina della forma dell’atto introduttivo; 3) rafforzamento del divieto di nuove allegazioni nel giudizio di appello anche attraverso l’introduzione di limiti alle deduzioni difensive; 4) riaffermazione, in sede di appello, dei principi del giusto processo e di leale collaborazione tra i soggetti processuali, anche attraverso la soppressione della previsione di inammissibilità dell’impugnazione fondata sulla mancanza della ragionevole probabilità del suo accoglimento; 5) introduzione di criteri di maggior rigore nella disciplina dell’eccepibilità o rilevabilità, in sede di giudizio di appello, delle questioni pregiudiziali di rito; 6) immediata provvisoria efficacia di tutte le sentenze di secondo grado».

A tali previsioni si accompagnano quelle dirette, da un lato, alla valorizzazione del primo grado di giudizio (in particolare, v. lett. a), nn. 2 e 3), dall’altro, al rafforzamento della funzione nomofilattica della Cassazione e alla razionalizzazione del procedimento e delle tecniche di motivazione (in particolare, v. lett. c), nn. 1, 2 e 3).

Al di là delle singole novità sul piano tecnico, il progetto complessivo della riforma è cristallinamente enunciato nella Relazione illustrativa: «Il giudizio è chiuso nella citazione o nel ricorso in primo grado. Nulla di ciò che è stato estraneo a tale atto o alla sentenza può essere portato davanti al giudice di appello. Questa misura può apparire certamente costosa in termini di giustizia sostanziale, ma essa rende il difensore consapevole della delicatezza della sua funzione».

L’opzione di fondo, dunque, è la seguente: conservare il giudizio di appello, ma collocarlo su un binario ben preciso che con la natura di rimedio volto a far valere (anche) l’ingiustizia della sentenza di primo grado, sembra avere poco o nulla a che vedere, mentre presenta pressoché esclusivamente la connotazione di mezzo per la correzione degli errori del primo giudice. Di quanto rischiosa sia questa opzione in termini di «giustizia sostanziale» è ben consapevole anche il prossimo legislatore.

Più nel dettaglio, in questa sede val forse la pena soffermarsi sui “criteri dispari” di cui ai nn. 1, 3 e 5, piuttosto che su quelli “pari” di cui ai nn. 2, 4 e 6[34].

Orbene, il «potenziamento del carattere impugnatorio» dell’appello dovrebbe avvenire attraverso due strade: per un verso, «la codificazione degli orientamenti giurisprudenziali», per un altro, «la tipizzazione dei motivi di gravame».

La prima sembra rappresentare un’interessante scommessa. Premesso che si fa riferimento agli “orientamenti giurisprudenziali” in generale (e non, come dovrebbe essere a quelli “consolidati”), peraltro, senza specificare nemmeno se gli “orientamenti” degni di recepimento normativo siano soltanto quelli della Cassazione (sebbene anche in tal caso facendo leva sul buon senso interpretativo, non dovrebbe farsi fatica a limitare a questi ultimi il riferimento e comunque, un riferimento in tal senso è contenuto nella Relazione illustrativa), non è un mistero che la giurisprudenza (di legittimità), degli ultimi anni si sia distinta principalmente per la repentinità dei mutamenti di indirizzo, oltre che per la frequente discutibilità dei provvedimenti e delle argomentazioni adottate per sostenerli. Sicché, sarà opera non semplicissima tradurre in norma di legge tali orientamenti. A meno che non si voglia sostenere che la mancanza del riferimento alla pacificità degli stessi non sia casuale e che, in realtà, il legislatore delegante voglia lasciare al Governo la facoltà di scegliere quale di essi recepire, con valutazione discrezionale e politica, che, stando all’impostazione generale del ddl, dovrebbe finire per privilegiare quelli improntati a maggiore rigore e ispirati all’ansia di celerità. Ci sarebbe, invece, da augurarsi che il legislatore delegato, una volta che il compito gli sarà effettivamente affidato, “codifichi” gli orientamenti giurisprudenziali ponderando i costi dell’operazione in termini di giustizia delle decisioni.

La seconda strada, se attuata, rischia di ridurre l’appello ad un improbabile quasi-“doppione” del giudizio di legittimità.

L’idea non è nuova. In passato, si era già suggerito di circoscrivere i motivi in fatto al controllo della congruità logica della motivazione, senza porre, invece, alcun limite in relazione ai motivi in diritto[35]. Oggi, invece, il ddl non specifica in cosa questa «tipizzazione» debba consistere, come debba essere attuata, sebbene la Relazione illustrativa ci dia lumi in proposito.

Tra i «principi ispiratori» della riforma del giudizio di appello, infatti, essa include il «rafforzamento del carattere di impugnazione a critica vincolata fondata sui seguenti motivi: a) violazione di una norma di diritto sostanziale o processuale; b) errore manifesto di valutazione dei fatti».

È evidente lo stravolgimento del giudizio di appello, tradizionalmente a critica libera, che ne deriverebbe[36].

Con specifico riguardo ai motivi in fatto, confinati all’«errore manifesto», si prospetterebbe all’interprete la difficoltà dell’individuazione dell’esatto significato della formula, se cioè in essa possa ritenersi compreso sia l’errore che risulti dalla lettura della sentenza in maniera palese, sia quello consistente in un vizio della motivazione[37] e, in quest’ultimo caso, se questo possa risolversi in un profilo di contraddittorietà o illogicità o insufficienza della stessa ovvero se debba assurgere agli estremi della «anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali [….] nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”», sulla falsariga di quanto affermato dalla Cassazione con riferimento all’art. 360, 1° comma, n. 5 cpc[38].

Peraltro, circostanza ancor più grave, la limitazione al solo «errore manifesto» finisce per escludere ogni possibilità di appello avverso sentenze ingiuste sì (sotto il profilo della ricostruzione del fatto) che, però, non presentino profili di errore – appunto – «manifesto»[39]. Ciò che sembra non rappresentare una eventualità statisticamente remota.

A ben vedere, inoltre, pare legittimo dubitare che questa configurazione del giudizio di secondo grado sia davvero utile a soddisfare l’obiettivo di celerità. Invero, per quanto statisticamente possa affermarsi la maggiore frequenza che le censure attengano a profili di diritto[40] e, al contempo, la bassa probabilità che il giudice di appello disponga la rinnovazione dell’istruttoria[41], non si può negare che la «tipizzazione» dei motivi nel senso indicato dalla Relazione, nel trasformare l’appello in una vera e propria «azione di impugnativa»[42], avrebbe l’effetto non di accelerare la definizione dei procedimenti, bensì di limitare grandemente le occasioni per capovolgere un esito ingiusto in fatto.

Un’ulteriore forma di irrigidimento che contribuisce pure a delineare l’appello in termini di «impugnativa» è rappresentata dalla totale chiusura ai nova. All’appellante è impedito di proporre nuove domande (anche, a quanto pare, quelle attualmente fondate su fatti sopravvenuti), nuove eccezioni e nuovi mezzi di prova e, più in generale, «nuove allegazioni», nonché, come spiega la Relazione, «nuove ragioni o deduzioni in diritto per dimostrare la fondatezza giuridica delle domande e delle eccezioni precedentemente proposte, che non siano già state sottoposte al giudice di primo grado». Limiti questi, perfettamente in linea con l’intenzione, anch’essa palesata nella Relazione, di adottare una disciplina di maggior «rigore – se del caso avvalendosi dei risultati dell’elaborazione giurisprudenziale in tema di rilevanza del giudicato interno, anche di carattere implicito – nella disciplina dell’eccepibilità o rilevabilità, in sede di giudizio di appello, delle questioni pregiudiziali di rito», a sua volta, coerente la volontà di concentrare nel primo grado di giudizio la definizione del thema decidendum e del thema probandum.

Eppure, non si può fare a meno di osservare che:

a)la chiusura alle nuove domande sui fatti sopravvenuti, per un verso, finisce per rendere vuoto e formale l’intero giudizio di appello, per un altro, favorisce la proposizione di nuovi giudizi nei quali far valere i diritti fondati su quei fatti;

b) l’applicazione generalizzata dell’espediente costituito dal giudicato implicito è molto pericolosa, nella misura in cui essa comporta un pregiudizio al contraddittorio tra le parti e l’esenzione dei giudici dal dovere di motivare i propri provvedimenti[43];

c) in generale, la preclusione alla possibilità di dedurre nuove allegazioni riduce l’appello ad una «semplice rilettura delle carte»[44] e si risolve nell’accoglimento dell’interpretazione più rigorosa del significato di “rilevabilità d’ufficio” delle eccezioni, che non tiene conto degli ultimi “orientamenti giurisprudenziali”[45];

d) più in particolare, il divieto di deduzione di nuove ragioni di diritto per supportare la propria posizione: d1) sembrerebbe comportare un ridimensionamento dell’operatività del principio iura novit curia[46], poiché, se l’obiettivo perseguito dalla riforma attraverso il divieto in parola è quello di precludere ogni possibilità di apertura dell’appello a nuovi scenari rispetto al primo grado per ragioni di celerità, anche l’esercizio del relativo potere da parte del giudice di secondo grado è idoneo a minare il perseguimento dell’obiettivo stesso; d2) porta sì alla formazione del giudicato su tali questioni in mancanza di impugnazione e, quindi, a un effetto positivo di certezza e stabilizzazione, ma rischia di impedire, quando la questione di diritto riguarda soltanto la sostituzione di una fattispecie legale ad un’altra, il più corretto e giusto svolgimento della funzione decisoria[47];

e)in ogni caso, il divieto di nova non potrebbe mai impedire lo svolgimento di attività che la parte non abbia potuto svolgere in precedenza per una causa ad essa non imputabile[48].

Ancora, si legge nella Relazione illustrativa che la riforma dell’appello deve avvenire seguendo sia il “principio ispiratore” della «ulteriore restrizione del novero delle ipotesi di rimessione della causa al primo giudice, salvi i diritti di difesa e al contraddittorio», sia quello dell’«ampliamento dell’utilizzo del provvedimento dell’ordinanza (soggetta a ricorso per cassazione) in funzione decisoria (ad esempio per la declaratoria dell’inammissibilità ovvero dell’improcedibilità, nonché per il rigetto dell’appello all’esito dell’udienza di discussione)». Orbene, il primo è da salutare con favore poiché, indipendentemente da ogni considerazione relativa alla costituzionalizzazione del doppio grado di giurisdizione, consente di evitare un risultato di diseconomia processuale. Il secondo, pure apprezzabile, non si eleva a novità di particolare rilevanza e utilità sul piano concreto, conoscendo già la disciplina del giudizio di appello modelli decisori rapidi e snelli (quale ad esempio è quello offerto dall’art. 281 sexies cpc). Sta di fatto che né l’uno né l’altro sembrano rientrare in nessuno dei sei principi e criteri direttivi contenuti nella legge delega.

8. L’appello, come garanzia di giustizia

Le proposte di eliminazione dell’appello possono considerarsi, dunque, abbandonate. La direttiva generale, risultante dall’elaborazione dottrinale e dagli interventi normativi degli ultimi decenni, è quella di conservare il rimedio sotto forma di giudizio di secondo grado e non di improbabile opposizione innanzi al medesimo giudice di primo grado.

Allo stesso tempo, pare destinata al superamento l’idea, pur autorevolmente sostenuta[49], di concepire l’appello come novum iudicium, essendo stata questa soppiantata, anche a livello giurisprudenziale, da quella che predilige il modello della revisio prioris instantiae, basato sulla individuazione di motivi specifici e tendenzialmente chiuso ai nova.

Tuttavia, a questo punto le posizioni divergono alquanto, portandosi avanti, da un lato, la tesi che vuole trasformare il gravame in azione di impugnativa e, quindi, a critica vincolata, dall’altro, quella che preferisce mantenerlo a critica libera, sia pure veicolato attraverso un’attività analiticamente selettiva dell’appellante con riguardo alle questioni (e non genericamente ai “capi” di domanda).

La prima di queste tesi, a sua volta, conosce alcune varianti. Infatti, vi è chi sostiene che la “tipizzazione” debba riguardare sia i motivi in fatto sia quelli in diritto[50]; chi la limita ai motivi in fatto, relegandoli alla denuncia del vizio di congruità logica della motivazione[51]; chi, infine, tra questi ultimi, ritiene che in caso di annullamento della sentenza impugnata, il giudice d’appello debba procedere alla rinnovazione del giudizio di fatto[52], chi, invece, riscrive i1 significato di rimessione al primo giudice estendendone le ipotesi applicative alle cause di maggiore complessità o rilevanza[53].

La seconda tesi opta comunque per un modello di revisio selettiva, con apertura ai nova giustificati dallo sviluppo del processo e dalla sussistenza di una causa non imputabile che abbia impedito lo svolgimento dell’attività in primo grado.

Tra le due tesi, è da preferire quest’ultima. Si è già segnalata, infatti, la pericolosità di una predeterminazione legale dei motivi di appello, in particolare di quelli in fatto e la contrarietà al principio di economia processuale di un allargamento dei casi in cui la ricostruzione del fatto, a seguito della conclusione del giudizio rescindente, ritorni al giudice di primo grado. A ben vedere, se è vero che i giudici di appello statisticamente già tendono ad impostare la propria cognizione nel senso di un «controllo dell’operato del giudice a quo», piuttosto che a rinnovare il giudizio di fatto, se del caso attraverso la rinnovazione dell’istruttoria, il tentativo di ridurre i tempi del secondo grado attraverso la “tipizzazione” dei motivi di gravame si rivela sproporzionato rispetto al fine. In altri termini, limitare i motivi di appello ad ipotesi tassativamente indicate dal legislatore non contribuisce ad accelerare effettivamente il processo e, allo stesso tempo, rischia di favorire l’emissione di decisioni ingiuste.

L’appello a critica libera, invece, non ingessa l’impugnazione in schemi cognitivi predeterminati legalmente, e non per questo tradisce l’esigenza di ordine e razionalità che sempre dovrebbe essere perseguita, in qualunque processo. A questo fine, un ruolo determinante è svolto dai motivi specifici e dal 2012 dalla “motivazione” della sentenza, di cui all’attuale art. 342 cpc, la cui funzione – lungi dall’essere quella di presentare al giudice un cd “progetto di sentenza” – è quella di circoscrivere l’oggetto del giudizio di secondo grado alle questioni selezionate dall’appellante. Un appello di questo tipo, nel quale all’attività di selezione contribuisce anche l’istituto della riproposizione ex art. 346 cpc, sotto il profilo dell’efficienza costituisce un modello accettabile.

Sennonché, il modello appena descritto, di per sé, non è ancora sufficiente ad assicurare la giustizia della decisione.

A tal fine, infatti, sul piano tecnico, ferma restando la generale operatività della rimessione in termini ex art. 153, 2° comma, cpc, non si dovrebbe poter prescindere:

- come già stabilito dalla disciplina vigente, dall’apertura alle nuove domande fondate su fatti sopravvenuti (ciò che risponde pure ad esigenze di economia), nonché alle nuove eccezioni rilevabili d’ufficio (nel significato di recente affermato dalle sezioni unite[54]) e alle prove la cui novità sia giustificata dalla novità dell’attività assertiva consentita[55];

- de iure condendo, dalla libera producibilità dei documenti nuovi[56].

A questa fisionomia dell’appello, la cui funzione – come è stato messo autorevolmente in evidenza – non sarebbe soltanto quella di correggere gli errori del giudice, ma anche quelli delle parti (e del loro difensore)[57], certamente non varrebbe opporre l’asserita esistenza di un principio in base al quale, una volta maturate le preclusioni in primo grado, non è più possibile effettuare in secondo grado le attività precluse, poiché, come è stato ampiamente dimostrato[58], il legislatore è libero di disciplinare nel modo che ritiene più opportuno il rapporto tra i gradi di giudizio.

Opzione questa, che, nella ricerca di una soluzione di equilibrio, sembra idonea a soddisfare le esigenze concorrenti e, tuttavia, in una situazione di mancanza o cattiva gestione delle risorse, lascia l’amara sensazione che rappresenti una delle tante voci di una disputa senza fine (sul migliore dei modelli possibili)[59].

[1] V., di recente pubblicazione, le riflessioni di M. Pacilli, L’abuso dell’appello, Bologna, 2015, 8 ss. (ove anche il richiamo agli importanti studi di N. Picardi), nonché 25 ss., 34 ss., che, però, reputa le regole processuali un fattore di efficienza della giustizia civile «al pari delle altre variabili che incidono sul buon funzionamento del processo» (rappresentate dai fattori strutturali e organizzativi, dall’incertezza del diritto e dal comportamento dei protagonisti del processo).

[2] Cfr. G. Costantino, La riforma dell’appello, in Giusto proc. civ., 2013, 21 ss., § 1.

[3] La gravità della situazione è evidenziata dai dati riportati dal Censimento speciale giustizia civile - Analisi delle pendenze e dell’anzianità di iscrizione degli affari civili - Ottobre 2014, di Mario Barbuto, Capo del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, nel quale si legge (Prospetto 1-ter: Giustizia civile – Corti d’appello): «Le Corti d’appello, nel loro insieme, sembrerebbero avere una potenzialità di esaurimento dell’intero “arretrato”, a sopravvenienze ipoteticamente ZERO, ben oltre il biennio previsto dall’art. 2, comma 2-bis della legge Pinto come termine massimo».

[4] Sull’applicabilità dell’art. 281 sexies cpc in appello già prima della l. 183 cit., v., se vuoi, D. Dalfino, in Giur. it., 2009, 2473, nonché V. Mastrangelo, Osservazioni sull’ambito di applicazione dell’art. 281 sexies cpc, prima e dopo la l. 12 novembre 2011 n. 183, in Foro it., 2012, I, 2477.

[5] Cfr. il Censimento speciale giustizia civile, cit. o dall’art. 2, comma 2-bis della legge Pinto come termine massimo».

[6] L. Mortara, nella voce Appello civile, del Digesto it., III, 2, Torino, 1890, 380 ss.

[7] Cfr. M. Cappelletti, Parere iconoclastico sulla riforma del processo civile, in Giur. it., 1969, IV, 81 ss.; Id., Doppio grado di giurisdizione: parere iconoclastico n. 2 o razionalizzazione dell’iconoclastia, in Giur. it., 1978, IV, 1 ss.

[8] M. Cappelletti, Parere iconoclastico, cit., 84.

[9] A. Pizzorusso, Doppio grado di giurisdizione e principi costituzionali, in Riv. dir. proc., 1978, 33 ss., spec. 44 ss.

[10] A. Pizzorusso, op. cit., 54.

[11] E.F. Ricci, Il doppio grado di giurisdizione nel processo civile, in Riv. dir. proc., 1978, 59 ss., spec., 80 ss.

[12] G. Tarzia, Realtà e prospettive dell’appello civile (I), in Riv. dir. proc., 1978, 86 ss., nonché A. Cerino Canova, Realtà e prospettive dell’appello civile (II), in Riv. dir. proc., 1978, 92 ss.33

[13] Cfr. L.P. Comoglio, Il doppio grado di giudizio nelle prospettive di revisione costituzionale, in Riv. dir. proc., 1999, 317; G. Balena, La rimessione della causa al primo giudice, Napoli, 1984, 302 ss.

[14] V. Corte cost. 31 dicembre 1986, n. 301, Foro it., 1987, I, 2962.

[15] V. le efficacissime pagine di E. Allorio, Sul doppio grado del processo civile, in Riv. dir. civ., 1982, I, 318 s. Per un tentativo di rinvenire una base costituzionale del principio, v. E.T. Liebman, Il giudizio di appello e la Costituzione, in Riv. dir. proc., 1980, 401 ss. Più di recente, v. I. Nicotra, Guerrera, Doppio grado di giudizio, diritto di difesa e principio di certezza, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2000, 127 ss.

[16] Cfr. S. Chiarloni, Giusto processo (diritto processuale civile), in Encicl. dir.-Annali, Milano, 2008, II, tomo I, 403.

[17] Cfr. E. Allorio, op. cit., 320; P. Calamandrei, Appello, voce dell’Enciclopedia italiana, Roma, 1929.

[18] Cfr. G. Tarzia, op. cit., 90.

[19] Cfr., anche per riferimenti, L.P. Comoglio, op. cit., 328 s., nonché Cfr. F. Danovi, Note sull’effetto sostitutivo dell’appello, in Riv. dir. proc., 2009, 1471 s.

[20] Il principio è pure derogato là dove espressamente il legislatore esclude l’appellabilità della sentenza ovvero attribuisca la controversia alla competenza, quale giudice di unico grado, della corte di appello. Per l’individuazione delle specifiche ipotesi, v. G. Costantino, La riforma dell’appello, cit., § 2.

[21] V. Corte cost. 26 ottobre 2007, n. 351, Foro it., 2008, I, 713.

[22] La logicità della conservazione dell’appello si apprezza anche e prima ancora sul piano «del pensiero», come osservato, ancora una volta efficacemente, da E. Allorio, op. cit., 993 (in contrasto con L. Mortara, op. cit., 453). Osservazione ripresa di recente da A. Tedoldi, I motivi specifici e le nuove prove in appello dopo la novella «iconoclastica» del 2012, in Riv. dir. proc., 2013, 145, nonché da G. Verde, La riforma dell’appello civile: due anni dopo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2014, 993.

[23] Per una sintesi, v. A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2014, 454 ss.

[24] In questi termini pare porre il quesito anche R. Poli, Giusto processo e oggetto del giudizio di appello, in Riv. dir. proc., 2010, 56 ss., il quale propende chiaramente per il modello della revisio.

[25] V. Cass., sez. un., 29 gennaio 2000, n. 16, Foro it., 2000, I, 1606, con note di G. Balena e di C.M. Barone, e Corriere giur., 2000, 750, con nota di M. De Cristofaro. In precedenza, v. Cass., sez. un., 6 giugno 1987, n. 4991, Foro it., 1987, I, 3037, con nota di G. Balena e Giur. it., 1988, I, 1, 1819, con nota di G. Monteleone.

[26] Sulla nozione di «capo» o «parte» di sentenza, v. Cass., sez. un., 29 gennaio 2000, n. 16, cit.; sul rapporto tra appello incidentale e onere di riproposizione, v. Cass., sez. un., 16 ottobre 2008, n. 25246, Giusto proc. civ., 2010, 851 ss., con nota di M. Brunialti. Nel senso che l’attore in primo grado appellante il quale affermi che la documentazione prodotta dal convenuto in primo grado provi l’esistenza e non il pagamento del suo credito, ha l’onere di provare tale motivo di impugnazione ancorché il convenuto non riproduca in appello la documentazione prodotta in primo grado, v. Cass., sez. un., 8 febbraio 2013, n. 3033, Foro it., 2013, I, 819 (prima ancora, Cass., sez. un., 23 dicembre 2005, n. 28498, Foro it., 2006, I, 1433, con nota duramente critica di G. Balena-R. Oriani-A. Proto Pisani-N. Rascio, nonché Riv. dir. proc., 2006, 1397, con nota adesiva di R. Poli).

[27] In generale, sull’oggetto dell’appello, v. N. Rascio, L’oggetto dell’appello civile, Napoli, 1996; L. Bianchi, I limiti oggettivi dell’appello civile, Padova, 2000.

[28] Invece, nel rito del lavoro, ai sensi dell’art. 437 cpc, oltre al giuramento estimatorio, sono ammessi in appello i «nuovi mezzi di prova» ritenuti «indispensabili ai fini della decisione della causa» (senza alcuna menzione dei documenti nuovi); diversamente, nel procedimento sommario di cognizione, ai sensi dell’art. 702 quater cpc, è anche prevista la valutazione di «indispensabilità».

[29] Cfr. G. Balena, La rimessione, cit., G. Olivieri, La rimessione al primo giudice nell’appello civile, Napoli, 1999.

[30] Cfr. S. Trabace, Le questioni nuove nel giudizio di cassazione, in Giusto proc. civ., 2009, 1177 ss.

[31] Cfr., ampiamente, l’analisi di B. Szego, L’inefficienza degli appelli civili in Italia: regole processuali o altro?, in Mercato concorrenza regole, 2008, 285 ss., 309 ss.

[32] Sotto altro profilo, il principio può essere espresso in termini di prevedibilità dell’esito della impugnazione, poiché, infatti, quanto più questo è incerto tanto più saranno proposti appelli, anche infondati, là dove la prevedibilità è commisurata al grado di “accuratezza” dei giudici dell’impugnazione (e, in ultima analisi, dei giudici di legittimità). Cfr. G. Costantino, La prevedibilità della decisione tra uguaglianza e appartenenza, in Riv. dir. proc., 2015, 646 ss., spec. § 6.

[33] Cfr. B. Szego, op. cit., 288 ss.

[34] Invero, il n. 2 non presenta profili di particolare problematicità, se soltanto si pone mente alla interpretazione che ormai può dirsi prevalente di quanto stabilito dall’art. 342 cpc (nello stesso senso, v. S. Menchini, Il disegno di legge delega per l’efficienza del processo civile, in Giust. civ., 2015, 369). La previsione di cui al n. 4, al di là della enunciazione tanto importante quanto generica della prima parte, è certamente molto apprezzabile là dove provvede all’eliminazione del “filtro” di inammissibilità di cui ai menzionati art. 348 bis e 348 ter cpc; tuttavia, non è sufficiente a conservare all’appello la funzione anchedi mezzo per denunciare l’ingiustizia della sentenza, poiché, infatti, se la previsione di quel “filtro” si è rivelata, oltre che in teoria, anche alla prova dei fatti, inutile e dannosa, la sua soppressione può, tutt’al più, essere considerata una saggia e doverosa forma riparazione di un clamoroso errore tecnico e politico del legislatore del 2012. Il n. 6 fa da pendant al criterio di cui alla lett. a), n. 3 («immediata provvisoria efficacia di tutte le sentenze di primo grado»).

[35] Cfr. A. Proto Pisani, Note sulla struttura dell’appello civile e sui suoi riflessi sulla cassazione, in Foro it., 1991, I, 107 ss.; nonché, su posizioni analoghe, C. Consolo, La rimessione in primo grado e l’appello come gravame sostitutivo (una disciplina in crisi), in Ius, 1997, 95 ss.; V. Denti, Appunti sulla riforma delle impugnazioni civili, in Foro it., 1982, V, 111 s., sia pure senza limitazione dei motivi in fatto al controllo logico della motivazione.

[36] Molto meno dirompente è il testo del parallelo ddl 2921/C/XVII, presentato il 2 marzo 2015, che propone di modificare direttamente l’art. 342 cpc sostituendo la necessità di “motivare” l’atto di appello con la quella di indicare specificamente «le censure in fatto o in diritto nei confronti della sentenza impugnata», sempre a pena di inammissibilità.

[37] La possibilità di riferire la formula di cui nel testo all’errore riguardante la motivazione è confermata, come giustamente nota S. Menchini, op. ult. cit., cit., 371, dal fatto che la Relazione illustrativa parla di «errore manifesto nella valutazione dei fatti».

[38] V. Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053, Foro it., 2015, I, 209, con nota di P. Quero.

[39] Cfr. M. Pacilli, op. cit., 265, il quale, nel lodevole tentativo di ampliare il significato della formula, propone di interpretarla nel senso che il carattere «manifesto» dell’errore di fatto consista «nell’efficacia causale che esso deve avere nei confronti della decisione appellata, nel senso che deve risultare rilevante per la sentenza impugnata ovvero idoneo ad inficiarne la correttezza».

[40] Cfr., sia pure con riferimento al processo del lavoro, S. Chiarloni, La cassazione e le norme, in Riv. dir. proc., 1990, 982 ss.; Id., L’appello nel processo del lavoro. Profili dell’esperienza, Milano, 1984, 77 ss.

[41] Cfr. G. Balena, Il sistema delle impugnazioni civili nella disciplina vigente e nell’esperienza applicativa: problemi e prospettive, in Foro it., 2001, 134.

[42] In tal senso v. anche S. Menchini, op. cit., 372.

[43] Sul giudicato implicito relativo alla questione di giurisdizione, v. la ben nota Cass., sez. un., 9 ottobre 2008, n. 24883, Foro it., 2009, I, 810, con nota di G.G. Poli.

Successivamente, v. anche Cass. 14 novembre 2014, n. 25353, che ha rimesso gli atti al Primo presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni unite della questione se il limite alla rilevabilità, in ogni stato e grado del giudizio, del difetto della legitimatio ad processum del rappresentante, costituito dal giudicato, implichi un’espressa affermazione del giudice circa l’esistenza del potere rappresentativo o possa altrimenti implicitamente desumersi anche dall’avvenuta decisione del merito della causa.

[44] In tal senso, v. P. Biavati, Note sullo schema di disegno di legge delega di riforma del processo civile, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2015, 217.

[45] Cass., sez. un., 7 maggio 2013, n. 10531, Foro it., 2013, I, 3500, che, nell’aderire alla posizione secondo la quale sollevare un’eccezione significa allegare il fatto posto a fondamento dell’eccezione stessa (cfr., in dottrina, R. Oriani, Eccezione rilevabili (e non rilevabili) d’ufficio. Profili generali (I), in Corriere giur., 2005, 1156 ss.; Id., Eccezione, voce del Digesto civ., Torino, 1991, VII, 266 ss.; Id., L’eccezione di merito nei provvedimenti urgenti per il processo civile, in Foro it., 1991, V, 9 ss.), pare aver superato il precedente restrittivo orientamento riconducibile a Cass., sez. un., 3 febbraio 1998, n. 1099, Foro it., 1998, I, 764, che identificava quella attività come mera possibilità di attribuire rilevanza o efficacia giuridica ad un fatto già ritualmente allegato. Sul tema, di recente v. E. Merlin, Eccezioni rilevabili d’ufficio e sistema delle preclusioni in appello, in Riv. dir. proc., 2015, 299 ss.; C. Cavallini, L’eccezione «nuova» rilevabile d’ufficio nel giudizio d’appello riformato, in Riv. dir. proc., 2014, 588.

[46] Dello stesso avviso è anche S. Menchini, op. cit., 375.

[47] Cfr., se vuoi, D. Dalfino, Questioni di diritto e giudicato. Contributo allo studio dell’accertamento delle “fattispecie preliminari”, Torino, 2008.

[48] Cfr. anche S. Menchini, op. cit., 374, che aggiunge la possibilità per la parte di svolgere attività «non compiute (o invalidamente poste in essere) in primo grado a causa di un vizio processuale riscontrato dal giudice dell’impugnazione».

[49] Cfr. F. Cipriani, L’appello civile tra autoritarismo e garantismo, in Giusto proc. civ., 2009, 329; Cfr. G. Monteleone, La crisi dell’appello civile ed il dissesto delle Corti d’appello: cause e rimedi, in Giusto proc. civ., 2011, 863 ss.

[50] Cfr. V. Denti, op. cit., 112 ss., al quale si unisce adesso il prossimo eventuale legislatore del ddl Berruti.

[51] A. Proto Pisani, Note sulla struttura dell’appello, cit., 114 ss.; C. Consolo, La rimessione, cit., 97 s.

[52] A. Proto Pisani, Note sulla struttura dell’appello, loc. cit.

[53] C. Consolo, La rimessione, loc. cit., 97 s.

[54] Ci si riferisce a Cass., sez. un., 7 maggio 2013, n. 10531, cit.

[55] Dunque, dovrebbero essere ammessi i nuovi mezzi istruttori volti a provare i fatti nuovi allegabili per la prima volta in appello, vale a dire quelli sopravvenuti e costitutivi di nuove domande (per questa ragione ammissibili), nonché quelli posti a fondamento delle eccezioni rilevabili d’ufficio, nel significato accolto, come già messo in luce, dalle sezioni unite della Cassazione.

[56] Libera producibilità che dovrebbe essere introdotta attraverso la modifica dell’art. 345, 3° comma, cpc, come modificato dapprima, dalla l. 69/2009, successivamente dal dl 83/2012, conv. con modif. in l. 134/2012, con ritorno alla situazione già esistente, sotto forma di “diritto vivente”, prima del revirement operato da Cass., sez. un., 20 aprile 2005, nn. 8202 e 8203, Foro it., 2005, I, 1690, con note di C.M. Barone, A. Proto Pisani, D. Dalfino, ibid., 2719, con nota di C.M. Cea, Corriere giur., 2005, 929, con note di G. Ruffini e C. Cavallini, e Riv. dir. proc., 2005, 1051, con nota di B. Cavallone.

Una tale modifica servirebbe anche a dare coerenza al sistema, poiché, infatti, è evidente a tutti che non ha alcun senso (e, comunque, non risponde a ragioni di giustizia) affermare la possibilità di sollevare nuove eccezioni (sia pure soltanto quelle in senso lato) e poi precludere la possibilità di provare quelle eccezioni attraverso la produzione del documento da cui risulti la sussistenza del fatto posto alla base dell’eccezione.

[57] Cfr. A. Proto Pisani, Note sull’appello civile, in Foro it., 2008, V, 257 ss., il quale, nel ripensare le proprie posizioni espresse nel 1991, ha auspicato un modello di appello, per un verso, ristretto il più possibile alle questioni devolute al giudice di secondo grado, per altro verso, pienamente aperto ai nova.

[58] Cfr. per tutti G. Balena, Le preclusioni istruttorie tra concentrazione del processo e ricerca della verità, in Giusto proc. civ., 2006, 45 ss., ove ampi riferimenti.

[59] Di una certa utilità concreta, se non sul piano delle risorse disponibili, quanto meno su quello organizzativo, sembra il progetto del cd ufficio per il processo, sul quale v., di recente, il dm 1° ottobre 2015 (v. già le misure di cui agli art. 69 ss. dl 69/2013, conv. con modif. in l. 98/2013).