Magistratura democratica

Dissenso e magistratura

di Daniela Piana e Leonardo Morlino

In questo contributo, gli Autori inquadrano prima da un punto di vista teorico il valore del dissenso all’interno della teoria democratica; passano poi ad indagare quali siano gli effetti benefici del pluralismo e del conflitto inter-istituzionale e intra-istituzionale, soffermandosi poi ad indagare sulle dinamiche di conflitto che coinvolgono l’istituzione giudiziaria (rispetto ad altre istituzioni) e su quelle che si verificano all’interno di questa istituzione.

Il contributo si chiude rilevando un apparente paradosso: il dissenso – pur espletando un’importante funzione di autocorrezione e auto-mutamento all’interno del regime democratico – rischia, ove esasperati i momenti di conflittualità, di comportare dei costi sul piano della stessa legittimazione delle istituzioni (e sulla fiducia che, in esse, i cittadini ripongono, come forse avvenuto nel caso del calo di fiducia nella magistratura).

1. Confini di un concetto complesso

Il valore normativo del “dissenso” all’interno della teoria democratica e del costituzionalismo deriva da quello, fondante, di uno dei suoi principi: il pluralismo. Sia esso culturale, sociale o politico, il principio secondo il quale la pluralità delle idee e degli interessi, la pluralità delle visioni del mondo e della società, se inquadrate all’interno di un sistema di regole che garantiscono a ciascuno la libertà di esprimere quelle idee, quegli interessi, quelle visioni, è fondante di tutto il pensiero politico moderno (Berlin, 1955; Dahl, 1971; Sartori, 1990).

È importante sottolineare la natura storicamente determinata del “dissenso” come elemento di qualità – dunque, desiderabile – di un sistema sociale e politico governato nel rispetto dei principi dello stato di diritto (prima) e dello stato di diritto democratico (poi). Mentre infatti nell’esperienza della libertà degli antichi il tema del dissenso era piuttosto articolato come tema dello sviluppo dei diversi possibili argomenti portati a suffragare o a falsificare una determinata tesi – basti pensare al modello dei dialoghi socratici – è nella idea della libertà dei moderni che si inserisce questa dimensione plurale necessaria a garantire un bilanciamento e, dunque, un limite a qualsiasi forma di potere. Discutere, non essere d’accordo, eventualmente entrare in un conflitto, regolato e disciplinato da regole imparziali e impersonali, diviene di conseguenza un valore, un desideratum.

Sempre in una prospettiva storica, si può aggiungere che la prima istituzionalizzazione del dissenso si ha in Inghilterra dopo il 1750, quando all’opposizione parlamentare si riconosce un ruolo positivo di stimolo, di critica e di controllo del Governo e del suo operato (v. Poggi, 1990, cap. 4). Viene fondato così uno degli istituti centrali e più importanti delle oligarchie competitive e, poi, delle liberal-democrazie di massa. Tuttavia, in questi anni molto rilevanti sono anche altri due eventi, la Rivoluzione americana, segnata da un’importantissima Dichiarazione dei diritti, da una guerra di decolonizzazione e dall’approvazione di una costituzione liberale, e la Rivoluzione francese. Entrambi questi fatti hanno un impatto enorme sui diversi Paesi europei, ma sono anche l’occasione - qui da sottolineare - per un rafforzamento nell’’’azione” e per una sanzione definitiva del principio del dissenso.

Dopo quegli anni e quegli eventi, l’idea che il dissenso sia necessario e costitutivo dei regimi liberali competitivi, a partecipazione ristretta o ampia, coesiste con la precedente convinzione che il dissenso divida in maniera letale un sistema politico portandolo al crollo. Sia fuori d’Europa che all’interno di essa, la prima idea rappresenta uno dei principî usati per legittimare le democrazie, la seconda rimane uno dei luoghi comuni più ricorrenti per giustificare interventi militari, ideologie totalitarie, azioni governative con contenuti autoritari.

In sostanza, dalla ricostruzione della genesi storica e analitica della nozione di “dissenso” si può ricavare la sua definizione generale come ogni forma di disaccordo o atteggiamento negativo verso il regime o il sistema vigente. Quella ricostruzione suggerisce anche la ragione principale per cui non è possibile accettare una definizione ristretta della nozione: la relazione società di individui/dissenso, il rapporto dissenso/oligarchie competitive, il legame forte tra pluralismo e dissenso e gli altri aspetti sopra citati, tutti postulano che la nozione qui discussa sia la categoria più generale di ogni forma di disaccordo o di opposizione, assuma cioè un significato generale tale da ricoprire ogni forma di disaccordo.

Peraltro, gli autori che aderiscono alla definizione più ristretta ritengono che con dissenso si debba indicare solamente quelle forme di disaccordo non stabilmente organizzate, non istituzionalizzate, che si mantengono in ambiti limitati e non violenti, siano esse collettive o individuali. Nell’ambito di tale definizione ristretta si può sostenere che elemento centrale e ricorrente sia la pubblicità che si riesce a dare alle manifestazioni di dissenso, ovvero la forza con cui si riesce a raggiungere l’opinione pubblica e a presentare le proprie diverse posizioni. Così non è, invece, se si accetta la definizione più ampia, come qui si fa, proprio perché le variegate manifestazioni di dissenso non sono tutte necessariamente caratterizzate dall’importanza del ricorso alla pubblica opinione.

Come si può intendere immediatamente, anche con riferimento ai due significati, quello ampio e quello più ristretto, gli elementi più rilevanti nell’analisi di questo fenomeno stanno nelle forme e nei gradi che esso assume in un sistema politico[1].

Il dissenso può manifestarsi in diverse forme e a diversi livelli. Le principali forme riguardano due dimensioni: “profondità” e “traduzione in azione”. Sotto il primo profilo, il disaccordo può limitarsi a contestare singoli provvedimenti o anche specifiche politiche governative; oppure può investire certe regole chiave o norme basilari proprie del regime vigente, ovvero riguardare anche gli assetti istituzionali parimenti vigenti; o, infine, può anche attenere ai principî basilari su cui si regge una comunità politica, come i diritti di libertà o eguaglianza, ovvero gli stessi principî basilari sottesi alla struttura socio-economica, quali i diritti di proprietà privata, il riconoscimento del profitto e anche dell’esistenza di un mercato.

La seconda dimensione più rilevante riguarda il modo in cui il dissenso è tradotto concretamente in azione. Infatti un certo disaccordo, anche radicale e profondo, può tradursi in una completa passività, che dal punto di vista politico è sostanzialmente irrilevante; ma può anche tradursi, al contrario, in azione più o meno organizzata e violenta con l’intento di rovesciare l’ordinamento del Paese, ovvero in azione organizzata, ma pacifica, che segue i canali di espressione previsti dalla legge, ad esempio quelli dell’opposizione parlamentare.

Va, poi, considerata anche l’importanza di altre dimensioni per approfondire l’analisi delle forme di dissenso. La prima di queste riguarda la questione se il dissenso sia individuale o collettivo. Mentre tutte le forme di dissenso passivo sono, di solito, espressione di scelte implicite o esplicite fatte da un singolo individuo, il dissenso attivo può essere collettivo. Se così è, la successiva dimensione rilevante è il grado di organizzazione raggiunto dal dissenso collettivo: l’opposizione parlamentare sottintende un gruppo o un partito dietro l’espressione del disaccordo. Così avviene anche per efficaci opposizioni anti-regime, contrarie cioè alle istituzioni vigenti, o antisistema, cioè contrarie ai principî cardine di quel sistema politico. Ma è così anche per il dissenso che si esprime nel terrorismo o nella guerriglia urbana. In entrambi i casi, forme sia pure diverse di organizzazione sono necessarie.

Un quinto e ultimo criterio rilevante per distinguere tra le diverse forme di dissenso consiste nel vedere se e come manifestazioni di dissenso si pongano nei confronti delle leggi in vigore. Questo criterio è particolarmente importante in un contesto autoritario, nel quale il dissenso è formalmente vietato e a dispetto di ciò riesce a esprimersi ed è di fatto, in alcuni casi, tollerato dai governanti. Riprendendo un’analoga distinzione di Linz (v., 1973, pp. 171 ss.) a proposito dell’opposizione in regimi autoritari, si può parlare di un dissenso legale, alegale, pseudolegale, illegale. Con queste etichette s’intendono: 1) quelle espressioni riconosciute, accettate e garantite dalla legge (legali); 2) quelle forme di contrasto verso il regime che scelgono vie non esplicitamente disciplinate dalle norme (alegali); 3) quelle modalità di dissenso solo apparentemente tali, che in realtà tengono gruppi incerti all’interno del regime e non violano mai le norme vigenti (pseudolegali); infine, 4) le manifestazioni, violente e non violente, che chiaramente contravvengono alle norme vigenti (illegali). L’interesse principale di questo quinto criterio e delle relative distinzioni sta nell’evidenziare un’area di notevole ambiguità tra legalità e illegalità, nella quale si collocano gruppi sociali dissenzienti, ma poco attivi politicamente o incerti o poco efficaci o che addirittura raggiungono l’effetto contrario a quello atteso di delegittimare il regime.

2. La funzione giudiziaria

La delimitazione – storica e semantica – del concetto di dissenso permette di mettere questa dimensione del vivere civile e sociale all’interno di una democrazia costituzionale e di analizzarne sul piano empirico i significati, le forme, le conseguenze.

La democrazia, infatti, prevede che vi siano sedi preposte all’espressione del dissenso, sedi tanto più importanti quanto più il sistema politico democratico prevede che le decisioni di politica pubblica e la adozione delle norme che a quelle politiche danno legittimazione istituzionale siano prese da una maggioranza di Governo, che decide per tutti i cittadini, anche quelli che rispetto a quella maggioranza sono dissenzienti o che da quella maggioranza non si sentono rappresentanti. Tali sedi sono innanzitutto quella parlamentare – con la funzione svolta dall’opposizione – e tutte quelle svolte dalle istituzioni della rappresentanza – sia sociale ed economica sia politica – che pur avendo connessioni e interazioni con il Governo restano in linea di principio autonome da questo e possono fungere da 1) canale di trasmissione del dissenso e 2) volano di espressione del dissenso.

Ma è la stessa architettura democratica a prevedere che sia possibile il dissenso anche nel rapporto fra i poteri. Il principio di separazione dei poteri così come quello di bilanciamento dei poteri incorporano al loro interno l’idea secondo la quale nel “potere” stesso l’innesto di un principio pluralista istituzionalizzato permette di garantire la qualità del funzionamento della democrazia e da ultimo la tutela dei diritti dei cittadini dinnanzi a qualsiasi forma di potenziale abuso di potere. Il modo in cui i diversi Paesi hanno messo in pratica questo principio dipende naturalmente dalle condizioni di contesto e dalle legacy istituzionali. Ma è pur sempre vero che anche solo osservando i 28 paesi dell’Unione europea ci si rende conto di come la preoccupazione di integrare nel tessuto istituzionale della democrazia il principio del pluralismo si sia, poi, riflesso nei meccanismi di nomina anche delle istituzioni di garanzia, come ad esempio la magistratura ordinaria, le corti costituzionali, le magistrature specializzate, ecc.

Vi è, infine, un ulteriore ambito nel quale il principio del pluralismo si declina quando si osserva una democrazia. Si tratta dello spazio del dibattito pubblico e, quindi, dei media. Non soltanto il pluralismo si applica alla distribuzione del potere sociale – i media sono un potere fra altri – ma esso deve trovare posto anche all’interno del settore dei media, al quale si chiede che sia espressione di più voci, più idee, più visioni del mondo. Fatte queste necessarie premesse, è dunque possibile sviluppare il tema del rapporto che intercorre – sempre sul piano teorico – fra magistratura e dissenso.

Innanzi tutto, l’esistenza stessa di una magistratura indipendente, capace di bilanciare gli altri due poteri dello Stato – quello esecutivo e quello legislativo – è la prima forma empirica di applicazione del pluralismo istituzionale. Ma vi è di più. Sempre intendendo il potere giudiziario nel suo complesso è vero anche che esso rappresenta la sede nella quale l’espressione del dissenso – se intesa come la opposizione ad un comportamento, sia pubblico, sia privato – può essere veicolata. In fondo, una delle ragioni per cui nelle democrazie nate durante la terza e la quarta ondata di democratizzazione sono state introdotte corti costituzionali come baluardi di difesa dei diritti umani è quella di offrire anche alla più ristretta minoranza – che volendo portare all’estremo arriva fino alla unità individuale, il singolo cittadino – la possibilità di fare valere la propria voce nel caso in cui ritenga che vi sia o vi sia stata una violazione dei diritti fondamentali.

Se ci fermassimo a questo punto, il rapporto fra funzione giudiziaria e dissenso potrebbe essere sussunto come un caso particolare della applicazione del principio del pluralismo istituzionale che a sua volta trova nell’idea di Montesquieu secondo cui per bilanciare un potere ne occorre un altro, avremmo poco guadagnato nella analisi dei complessi nessi che intercorrono fra magistratura e dissenso.

Già un passo in avanti è possibile se si considera che la magistratura è a sua volta luogo di espressione del dissenso ovvero del pluralismo culturale. L’indipendenza del giudice in questo senso rappresenta una garanzia di contrasto alla omologazione della interpretazione della legge, ossia alla possibilità di potere innovare da parte della decisione di un singolo magistrato giudicante rispetto ad una giurisprudenza consolidata. Chiaramente questo grado di autonomia si lega al e dipende dal modo con cui la magistratura è governata. Dipende, innanzitutto, da quanto forte e strutturata è la gerarchia istituzionale nella magistratura che, ad esempio, può articolarsi sulla base di una funzione non solo “nomofilattica”, ma anche di influenza sulle nomine dei magistrati da parte della Corte di cassazione. Al polo opposto una struttura di governo che prevede la pluralità, anche di carattere generazionale e istituzionale della rappresentanza nell’organo di autogoverno, muove nella direzione di una garanzia al pluralismo nella giurisdizione, quello che i sociologi del diritto chiamerebbero law in action.

La letteratura che ha affrontato il tema del rapporto fra diritto e società ha mostrato come in determinati momenti storici e ambiti di politica pubblica – ad esempio, quello del lavoro, negli anni ‘70, quello ambientale, successivamente, e oggi l’ambito di regolazione dei cosiddetti diritti di nuova generazione, attinenti alla gestione del diritto alla vita – le arene giudiziarie e i processi siano stati canali attraverso cui sono state portate istanze trascurate dal legislatore ovvero aspetti emersi nel corso della attuazione della legislazione e che, proprio per la cosiddetta “legal mobilisation” (Rosemberg, 1990; Epp, 1998), hanno indotto un approfondimento dei diritti o in taluni casi la costruzione di una risposta atta a riempire, anche se in modo parziale, il vuoto lasciato dal legislatore. Una forma di dissenso che potrebbe definirsi individuale nella sua origine, ma collettiva nella sua gestione, posto che la risposta viene data appunto dalla funzione giudiziaria.

Ancora ci pare qui rilevante menzionare l’esistenza di un meccanismo di fisiologico dissenso incardinato nell’ordinamento giudiziario di tutte le democrazie costituzionali, ossia il meccanismo dell’appello. La revisione della sentenza di primo grado in appello e in cassazione (nei Paesi dove il modello cosiddetto “francese” è stato adottato, come l’Italia, l’Olanda, la Spagna, soltanto per citare alcuni casi) permette, dunque, di esprimere un dissenso da parte del soccombente in un processo, al quale o alla quale è data la opportunità di dissentire rispetto ad un atto normativo che è appunto la sentenza del giudice di primo grado. La corte di appello è libera, fatti salvi i parametri di legge e i principi di ragionevolezza ovvero di rigore argomentativo, di dissentire dal giudice di primo grado, chiedendo la revisione della sentenza.

Si tratta, tuttavia, di una forma di dissenso che è suscettibile di due diverse interpretazioni, dal punto di vista della teoria costituzionale. Una sottolinea che data la norma esiste una e una sola interpretazione corretta della medesima e, quindi, l’appello più che esercitare il dissenso esercita una correzione di un errore. L’altra, invece, evidenzia la possibilità del pluralismo normativo, soprattutto a fronte di un sistema giuridico aperto a fonti che non sempre hanno origine sul territorio nazionale – ancora una volta la posizione del giudice europeo è emblematica in tal senso – e, quindi, assegna più propriamente ai meccanismi di appello anche il valore di un possibile pluralismo giudiziario, sia pure strettamente regolato dalla supremazia delle norme (Pernice, 1999; Teubner, 2005).

Un tipo specifico di questa più ampia classe che potremmo definire “dissenso interno alla magistratura” si trova esemplificato dall’istituto della dissenting opinion. Si tratta di uno strumento che prevede la possibilità per uno o più giudici di esprimere una nota scritta dissenziente rispetto alla decisione della maggioranza del collegio. Tale nota ha come obiettivo principale quello di mostrare che è possibile, a partire dalla stessa base di considerazioni – di cui dispone l’intero collegio – approdare ad una posizione diversa da quella della maggioranza. Istituto noto agli studiosi sociali, innanzitutto, per il fatto di caratterizzare l’operato della Corte suprema degli Stati Uniti. Secondo Brenner, esso rappresenta un baluardo all’interno del potere giudiziario in favore del pluralismo e della possibilità di avanzare ed approfondire sul piano giurisprudenziale il significato delle norme costituzionali.

La magistratura può, poi, essere oggetto del dissenso o più in generale oggetto di dibattito, discussione e in questo contesto anche di dissenso, sia attraverso l’esercizio da parte dei media, sia da parte della società civile organizzata e, in ultima istanza, da parte del cittadino. Questo dissenso è tanto più funzionale alla qualità di una democrazia se emerge in un settore dei media caratterizzato da pluralismo - quindi, non è espressione di una posizione comunicativa dominante - e se emerge nella interazione basata su informazioni solide ed attendibili nonché su una comunicazione user friendly fra uffici giudiziari, istituzioni giudiziarie e cittadini.

Infine, esiste un tipo particolare di dissenso o almeno di possibile funzione dissenziente che si esercita all’interno del gruppo professionale di riferimento la cui valutazione tecnico scientifica è rilevante per la magistratura: quello degli operatori del diritto, comprendente oltre ai magistrati anche gli avvocati e l’accademia. Se si accettano queste premesse di ordine concettuale è possibile sintetizzare, come fa la tabella 1, le diverse forme e i diversi significati del dissenso in relazione al ruolo che la magistratura svolge in una democrazia.

Tab. 1. Magistratura e dissenso. Forme e funzioni
LivelloFormaStrumenti di azione
Attore Individuale Interpretazione giurisprudenziale
Collettivo Bilanciamento dei poteri

Controllo di costituzionalità

Funzione di supplenza
Arena Giurisdizionale Appello

Dissenting opinion
Culturale Correnti
Target Micro Valutazione del cittadino (non parte di un processo)

Critiche individuali rivolte a singoli magistrati
Macro Valutazione dei media e dell’opinione pubblica

Critiche alla istituzione giudiziaria nel suo complesso

La tabella 1 introduce una distinzione che permette di selezionare gli aspetti che, in una analisi del rapporto fra dissenso e magistratura, dovrebbero essere considerati. Se, infatti, consideriamo scontato il fatto che esistano tutte le garanzie del cosiddetto pluralismo istituzionale, ossia che siano garantiti dalla Costituzione bilanciamento dei poteri e accesso ai meccanismi di tutela dei diritti alle minoranze, si pone invece come questione empirica se e in quale modo l’esercizio del dissenso all’interno della magistratura e nei confronti della magistratura da parte dell’opinione pubblica, dei media e dei cittadini metta sotto tensione la qualità dell’assetto democratico. Quale è la soglia oltre la quale si può fondatamente ritenere che il dissenso vada oltre il limite, ovvero vi sia “troppo” dissenso?

3. La magistratura in Italia

Il caso italiano appare particolarmente promettente per analizzare la tensione fra pluralismo, espressione del dissenso e qualità democratica con particolare attenzione al ruolo svolto dalla magistratura, sia come arena, sia come target. La ragione di questo valore euristico risiede nel fatto che l’Italia si qualifica sul piano comparato come un paradosso. Da un lato, le garanzie di indipendenza della magistratura e le garanzie processuali che caratterizzano il nostro Paese sono di tale livello e talmente articolate da essere state considerate come un modello nel panorama internazionale. Soltanto nel 2007 definendo il modello di governance giudiziaria che il Consiglio d’Europa potrebbe suggerire ai Paesi membri così come ai Paesi terzi il modello dell’autogoverno, disegnato sulla falsariga dell’ordinamento giudiziario italiano, è stato sintetizzato e fotografato in una raccomandazione della CCJE (il Comitato consultivo dei giudici europei). Ancora nel 2012 facendo riferimento ai modelli di tutela delle garanzie di indipendenza della magistratura la DG giustizia della Commissione europea sottolinea l’importanza della autonomia dei meccanismi di reclutamento e di promozione dei magistrati – uno dei tratti fondamentali dell’autogoverno – e se si osservano le linee guida internazionali in materia di rule of law è facile riscontrare una preferenza per un self-governing judiciary.

Da un altro lato, accanto a questa eccellenza, in l’Italia si riscontra un livello basso di fiducia dei cittadini nella magistratura. I dati del IADB situano l’Italia al di sotto della media dei Paesi “ad alto reddito” e mostrano una inflessione della percezione della indipendenza della magistratura continua dal 2002 al 2010 (dal 4.50 al 3.10) così come una diminuzione della percezione della efficienza del sistema giuridico in particolare a partire dal 2006 (da 4,20 a 2.50). Ancor più significativi i dati della World Bank (Governance and Corruption Data Set). Dal 1996 al 2010 l’Italia ha visto progressivamente ridursi l’indice di rule of law, con una lieve inflessione del suo processo di deterioramento nel 2006. Così i dati dell’Eurispes rilevano – con dati che si discostano leggermente da quelli dell’Eurobarometro in ragione del diverso tipo di domanda posta agli intervistati - l’andamento della fiducia degli italiani. Nel 2009 il 44,4% degli italiani affermava di avere fiducia nella magistratura e nel 2010 la percentuale sale al 47,8%. Solo il 36% trova accettabile l’appartenenza dei magistrati della pubblica accusa allo stesso corpo dei magistrati giudicanti, anche se il 25% degli italiani si dice preoccupato che una separazione delle carriere possa indebolire l’accusa. Solo la metà degli italiani, tuttavia, ha fiducia nella imparzialità dei magistrati e il 53,5 pensa che i magistrati siano influenzati dalle loro idee politiche.

In una prospettiva comparata, cosa dicono i dati? Il rapporto Eurobarometro 2013 mostra una fiducia - che si può definire sistemica, cioè riferita a tutta la magistratura come sistema - al di sotto della media europea. In Danimarca e in Finlandia l’85% dei rispondenti afferma di avere fiducia nella magistratura (la formulazione del sondaggio è «tendono ad avere fiducia» opposto alla opzione «tendono a non avere fiducia»). Quando invece si sonda la percezione del buon funzionamento del sistema giudiziario, ci sono grandi differenze nell’area europea. In Olanda l’83% dei rispondenti afferma di credere che il sistema giudiziario funzioni bene, mentre in Italia solo il 22% dà una valutazione positiva sul funzionamento della magistratura. I dati riguardanti poi la percezione di ricevere sufficiente informazione sul modo con il quale il sistema funziona confermano l’importanza di una informazione trasparente e puntuale nei confronti della cittadinanza. In Germania l’82% dei rispondenti crede di avere sufficienti informazioni su come trovare un avvocato, in Italia il 64%. Quando però si passa alla percezione di avere sufficienti informazioni sul gratuito patrocinio, l’Italia passa al 38%. Infine solo il 32% degli Italiani ha una chiara informazione sul costo del processo.

Va, poi, aggiunto che l’amministrazione della giustizia civile e l’amministrazione della giustizia penale sono caratterizzate da due diversi tipi di valutazione critica da parte dei cittadini. Secondo il World Justice Project, mentre i cittadini rilevano che la giustizia civile è lenta, la giustizia penale viene percepita come comparativamente meno imparziale. Senza dubbio, occorre considerare i dati di sondaggio cum grano salis. I campioni degli intervistati possono non essere rappresentativi e le formulazioni delle domande possono non essere ottimali. Tuttavia, soprattutto in una chiave comparata – sia storica, all’interno del nostro Paese, sia geografica, all’interno dell’Unione europea – i dati non possono essere trascurati. Ne aggiungiamo un paio, sempre sulla fiducia che ci sembra siano rivelatori di un problema che affligge l’interazione fra la magistratura italiana e il cittadino.[2]

La fiducia nella magistratura non solo ha avuto un picco nel 1994 in corrispondenza di Mani Pulite per poi scendere nel corso degli anni ‘90 fino a toccare il suo minimo nel 2007 e risalire a 20 punti percentuale in meno rispetto al ‘94, ma risente di una diversificazione che segue la linea di orientamento politico dei rispondenti. Demos ha, infatti, rilevato che mentre tale diversificazione non esisteva nel 1994 essa sembra massima nel 2011.

Tab. 2.4. Andamento della fiducia per territorio e per orientamento politico

A questo aspetto si unisce il fatto che anche nel settore dei media esiste un dissenso rispetto all’operato della magistratura, sovente indirizzato verso alcuni casi particolarmente salienti sul piano politico. Si tratta di una espressione di dissenso che ha visto una significativa espansione a seguito di Tangentopoli, ossia con l’aumento della visibilità della magistratura e del conseguente aumento dei profili di potenziale critica che un opinione pubblica non esperta e non addetta ai lavori potrebbe essere pronta ad accogliere. Infatti, Mani Pulite lascia alle spalle una eredità di non facile gestione anche ai magistrati. La popolarità conseguita durante i processi contro i politici corrotti innalza non soltanto la legittimazione sostanziale – la responsiveness della giustizia - ma anche il rischio di sovraesposizione mediatica. D’altronde, in un sistema giudiziario fortemente improntato su logiche di controllo interno di tipo gerarchico, i singoli magistrati requirenti che seguono i fascicoli di casi giudiziari di corruzione o in generale legati a comportamenti di rappresentanti politici sarebbero sottoposti al controllo formale e sostanziale dei capi ufficio e della magistratura senior, che – secondo il modello astratto cui l’ordinamento giudiziario italiano si era ispirato – siede nelle alte corti, in particolare nella cassazione. Ma così non è. L’intervento del legislatore del 2006, orientato con la cosiddetta Castelli-Mastella a ripristinare il controllo del capo ufficio sul comportamento dei sostituti soprattutto negli uffici di procura, non trova via facile nella sua attuazione (Piana, 2010; Piana e Vauchez, 2012). D’altronde, vi sono casi in cui i singoli sostituti entrano in conflitto con il magistrato che riveste funzioni apicali. Una difesa dell’autonomia che va al di là della indipendenza del giudizio. Si badi che stiamo parlando di pochi casi. Degli oltre 8000 togati che fanno parte della magistratura italiana i magistrati che hanno alta visibilità sono nel numero di poche unità. Ma questo basta affinché l’amministrazione della giustizia finisca per occupare le prime pagine dei giornali, soprattutto attraverso la pubblicazione di stralci di intercettazioni. Laddove queste coinvolgono uomini politici l’innalzamento dell’audience è inevitabile.

L’aumento della visibilità si combina con l’aumento della domanda di giustizia, sia in termini di conflitti economico-sociali di natura civilistica, sia in termini di conflitti fra organi dello Stato di natura costituzionale, sia in termini di conflitti fra gli interessi generali e gli interessi privati di chi occupa posizioni pubbliche, conflitti di natura penale (come abuso d’ufficio e corruzione). Un tasso di litigiosità nettamente superiore a quello di altre democrazie europee e che espone gli uffici giudiziari a optare per una gestione del flusso dei procedimenti in una chiave di efficienza. Nell’ambito penale questo apre un grande dibattito sulla effettiva applicazione del principio della obbligatorietà dell’azione penale. La magistratura stessa risente di un dissenso interno, che ha alcuni momenti particolarmente salienti, come la vicenda del conflitto apertosi all’interno del Csm in merito alla circolare Maddalena adottata dal procuratore capo di Torino Marcello Maddalena nella quale venivano esplicitamente indicate priorità di gestione dei procedimenti, attraverso quella che risultava come una modulazione funzionale dell’azione penale[3]. È possibile affermare che dinnanzi ad una crescita della frammentazione interna al sistema giudiziario e, dunque, alla diminuzione della coesione istituzionale sia possibile una maggiore individualizzazione delle carriere dei magistrati. Il primo decennio del 2000 registra poche, ma rilevanti vicende di passaggio dalla carriera togata a quella politica che costituiscono un indicatore di de-differenziazione funzionale fra i due organi dello Stato, quello esecutivo e quello giudiziario. Il fatto che si stia parlando di pochissime unità non toglie che agli occhi di un cittadino comune si tratti di un fenomeno che lascia nella credenza e nella rappresentazione sociale della giustizia un tratto profondo. Di questo vedremo la manifestazione in termine di responsiveness nel prossimo paragrafo.

Nel circuito che si viene a creare di aumento di visibilità e, quindi, aumento delle probabilità e delle possibilità di esercitare consenso ma anche dissenso nei confronti dell’operato della magistratura, la componente di maggiore peso è rappresentata dai media. Qui si intendono, innanzitutto, i quotidiani e i canali TV. Nonostante gli input di carattere sovranazionale e le tendenze globali dei mercati il mercato dei media si configura in Italia sulla base di un altissimo RC4, ovvero l’indice di concentrazione nelle mani dei primi quattro proprietari. In verità siamo dinnanzi ad un sistema che ha per lungo tempo funzionato sulla base di un duopolio: Rai e Mediaset. Afferma Campus: «ciò che spicca […] è la sensibile polarizzazione dell’audience televisiva. Infatti, Rai e Mediaset catalizzano oltre il 60% del totale dello share giornaliero medio; un dato che rappresenta un miglioramento rispetto alla situazione vigente solamente quattro anni fa, quando la percentuale complessiva dello share delle tre reti Rai e delle tre emittenti Mediaset era dell’80,9%. Lo share medio di La7 è del 3,1%, mentre le televisioni satellitari, sommate alle altre emittenti terrestri non contenute nell’elenco, raggiungono, in media, il 34,7% dei telespettatori, a fronte del 16,7% del 2008 [---]. Ma ancor più significativo è che il fanalino di coda siano i partiti politici (16% di fiducia dichiarata); il governo (23%); il parlamento (25%). La tendenza è quella di associare i due ambiti: i media, pertanto, non vengono visti come “cani da guardia” secondo il modello anglosassone, ma piuttosto come entità che perseguono i propri interessi in sostanziale accordo con i politici.»(Campus, 2013, p. 112).

Quindi, se di dissenso esercitato sulla magistratura si può parlare (dissenso rispetto al target), allora lo si deve fare tenendo conto del fatto che la visibilità di singoli casi sottopone i magistrati anche sul piano individuale a forme di dissenso mediatico e pubblico, così come occorre considerare il fatto che la magistratura come istituzione è soggetta a una forma di consenso/dissenso polarizzata, come mostrano i sondaggi di Demos sulla fiducia in Italia.

Cosa può essere detto sul piano del dissenso all’interno della magistratura? Fra le molte considerazioni che si trovano in letteratura e che riguardano il ruolo della Associazione nazionale magistrati come luogo dove il pluralismo culturale è stato non solo tutelato, ma incoraggiato sin dalle origini, un aspetto ci pare meritevole di attenzione, in quanto di recente ritornato all’apice della agenda istituzionale giudiziaria è quello inerente alla definizione del profilo del magistrato avente funzioni direttive. Una tematica di grande rilievo in qualsiasi istituzione, che all’interno della magistratura italiana si è declinata, da un lato, rispetto alla valorizzazione della seniority ovvero del culmine della carriera, da un altro, rispetto alle capacità di carattere giurisdizionale ovvero al punto di eccellenza della professionalità specifica della magistratura, e da un altro lato ancora rispetto alle capacità organizzative e di leadership, ovvero al punto di eccellenza della professionalità specifica del capo ufficio. Spesso queste tre visioni ideal-tipiche sono combinate, ma esse sono sottese al dibattito che è in essere nella magistratura e anche all’interno dell’organo di autogoverno.

Il dissenso interno alla magistratura può essere anche rilevato osservando le decisioni giudiziarie. Ad esempio, è interessante notare come la revisione delle sentenze in appello non sia egualmente distribuita all’interno di un singolo distretto né fra diversi tipi di procedimenti e di materie, un indicatore indiretto di come gli effetti di uniformazione giurisprudenziale che potrebbero arrivare dal rapporto dialettico fra primo grado giurisdizionale e appello ovvero cassazione siano se non deboli di certo non omogenei. Si nota, dunque, come il pluralismo culturale interno alla magistratura italiana sia sviluppato ampiamente, ma anche come i canali, le opportunità e le visibilità del dissenso indirizzato verso la magistratura siano ampi. Fino a che punto è questo un aspetto che denota la qualità della democrazia?

4. Magistratura, dissenso, democrazia

L’analisi del dissenso fin qui condotta fa emergere un paradosso. Il primo: in contesti democratici, da una parte, si riconosce il dissenso e addirittura lo si garantisce e istituzionalizza per rafforzarne l’espressione, ma, dall’altra, si vede come diverse manifestazioni di dissenso abbiano un impatto negativo e delegittimante sul regime democratico. Lo stesso può dirsi anche rispetto alle istituzioni fondanti una democrazia costituzionale, fra le quali le istituzioni giudiziarie. Come risolvere il paradosso?

La prima risposta è normativa e attiene alle giustificazioni del dissenso. Al di là delle sue basi sociali, il dissenso si “autogiustifica” in quanto espressione di volontà individuali e collettive che si constatano diverse da quelle della maggioranza solo dopo che ne sia stata garantita effettivamente la manifestazione. Dunque, la giustificazione del dissenso è duplice: come libera espressione di volontà e come necessità di proteggere le minoranze dissenzienti. Entrambi gli aspetti costituiscono elementi ricorrenti delle ideologie liberali o anche liberaldemocratiche. Dal punto di vista normativo è ovviamente irrilevante il contesto democratico o autoritario. Anche nel secondo caso, infatti, il dissenso è giustificato in termini di diritti e di libertà. Dunque, nella prospettiva normativa, i due paradossi sopra indicati non sono neanche considerati rilevanti.

Nella prima prospettiva normativa rientra anche una seconda e più specifica giustificazione: il consentire il dissenso nelle sue diverse espressioni è utile anche a prendere decisioni maggiormente avvertite, consapevoli, razionali rispetto allo scopo che si vuole raggiungere. La sostanza dell’argomento sta semplicemente nel rilevare come il dissenso e la discussione possano essere un mezzo per approfondire un problema, esplorandone tutte le soluzioni alternative, pesando vantaggi e svantaggi, capendo meglio gli stessi obiettivi che si vogliono raggiungere (v. Dahl, 1966, pp. 391-392). Se questo corrisponde all’esperienza di tutti i giorni, non è tuttavia possibile darne definitive prove empiriche a livello di processo decisionale politico. Per questa ragione sembra un argomento il cui fondamento più solido sta in un’opzione di valore, cioè nella convinzione che il dissenso sia positivo in se stesso. Si torna così alla precedente giustificazione.

La seconda risposta è empirica e riguarda le funzioni del dissenso. L’aspetto centrale è che il paradosso del dissenso in democrazia è solo apparente. Ammettendo l’espressione di opinioni diverse e contrarie, il dissenso svolge un’importante funzione di autocorrezione e automutamento all’interno del regime democratico, sia in sedi governative centrali che locali, e in questa prospettiva svolge un ruolo molto importante nel migliorare la “qualità” del governo. Inoltre, dando l’opportunità di manifestare il proprio scontento, offre canali di sfogo a un’insoddisfazione che altrimenti si radicalizzerebbe. Complessivamente, automutamento e integrazione danno maggiore legittimità. A ben vedere, dunque, le funzioni effettivamente svolte dal dissenso portano in direzione esattamente opposta a quella apparente, di divisione e di conflittualità. Tali funzioni, però, sono svolte efficacemente solo se le sue manifestazioni si mantengono entro limiti moderati. In una situazione di bassa legittimità e diffusa insoddisfazione un dissenso radicale ha effetti ben diversi da quelli sopra indicati; ha, cioè, risultati destabilizzanti.

Il sistema politico italiano e, in particolare, il circuito delle istituzioni rappresentative, dopo Tangentopoli, sono caratterizzati da un vuoto, una destrutturazione di quelle forme di organizzazione della partecipazione, aggregazione del consenso e del dissenso che sono i partiti politici. L’aumento del numero dei veto players interni ai partiti – per l’esistenza delle fazioni, la disaggregazione delle segreterie dei vecchi partiti che si sfaldano, è solo in un caso ridotto ad unum dal leader, il caso di FI e poi PDL. In generale, il sistema attiva dei meccanismi di omeostasi funzionale, che fanno sì che altre funzioni svolgano un ruolo di stabilizzatori, fra questi la magistratura non solo quella ordinaria ma anche quella speciale e la presidenza della Repubblica. In tale contesto le vicende giudiziarie che coinvolgono esponenti del mondo politico non possono che avere l’effetto di una cartina al tornasole. Essa induce l’emergere di conflitti latenti. Inoltre, la scarsa capacità di gestione del conflitto che manifestano le istituzioni si riverbera ed amplifica attraverso i media, all’interno dei quali non solo non sono in azione meccanismi di self restraint e di responsabilità pubblica e professionale adeguati, ma che hanno ormai assunto una identità come broker di idee invece che come arene di confronto.

Da ultimo, va rilevato il fatto che manca da parte delle istituzioni giudiziarie una strategia di comunicazione pubblica che sia unica o quantomeno condivisa. In un simile frangente, dove il rischio di sovraesposizione è inevitabile, la magistratura ha mostrato di lasciarsi coinvolgere in una serie di contenziosi comunicativi, comprensibili – perché è stata rappresentata come “parte” invece che super partes – ma del tutto nocivi. Come i sondaggi mostrano, gli italiani continuano ad avere più fiducia nella magistratura che nelle altre istituzioni dello Stato. Un capitale di legittimità che andrebbe tutelato ad ogni costo, attenendosi alle disposizioni ordinamentali in materia di rapporti con i media, da un lato, ma sviluppando la capacità di autogoverno anche sotto il profilo delle strategie di comunicazione pubblica. Questo avrebbe il merito di fare uscire la magistratura da un “gioco istituzionale”, quello del conflitto, nel quale essa, avendo il ruolo di risolvere legittimamente i conflitti, mai si deve porre, come giustamente ricordava il primo presidente della Corte di cassazione, Giorgio Santacroce.

[1] Facciamo qui strettamente riferimento al dissenso così come esso si manifesta nella dimensione pubblica. Sono pertanto esclusi da questa ulteriore analisi del concetto gli aspetti che caratterizzano il dissenso nella dimensione privata.

[2] http://ec.europa.eu/public_opinion/flash/fl_385_en.pdf.

[3] Citiamo questo caso solo a titolo esemplificativo.