Magistratura democratica

La crisi dell’associazionismo giudiziario tra caduta degli ideali e riemergere delle carriere

di Giuseppe Cascini

Le ragioni della crisi attuale di Magistratura democratica, iscritte nella crisi dell’associazionismo giudiziario in generale, possono essere ricercate nella difficoltà di definire un modo “diverso” di gestire il potere, oggi affidato anche a suoi esponenti all’interno degli uffici giudiziari, ma anche in altre ragioni che riguardano la magistratura in generale: la declinazione dell’uguaglianza interna come disattenzione alla professionalità e all’efficienza del servizio reso ai cittadini; l’attacco violento della politica e il patto consociativo-corporativo di riflesso scattato all’interno della magistratura; l’aggravarsi quantitativo e qualitativo delle condizioni di lavoro e il fallimento dei tentativi di rispondere efficacemente all’attenzione sempre maggiore dell’opinione pubblica al problema dei tempi della giustizia; la riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006, il cui risultato è stata l’accentuazione degli aspetti deteriori della magistratura italiana (carrierismo, gerarchia interna, conformismo, clientelismo).

Compito di Md e di Area, per superare la crisi, è elaborare un progetto per ricostruire un modello di magistratura democratico, partecipato, aperto, ma allo stesso tempo non corporativo e sensibile ai diritti degli utenti e alla qualità del servizio reso: un progetto che preveda, per cominciare, l’abolizione dei pareri dei capi degli uffici e dei giudizi sulle valutazioni di professionalità (inutili in sé e fonte indiretta di conformismo e infeudamento) e la realizzazione di una effettiva temporaneità negli incarichi direttivi.

Che l’associazionismo giudiziario soffra, non da oggi, di una profonda crisi di credibilità e di vocazioni credo sia un dato difficilmente confutabile.

Nell’opinione pubblica e nel dibattito pubblico sulla magistratura le “correnti” sono percepite come un “male assoluto”, sovente associate ad un male incurabile e devastante per l’organismo.

La gran parte dei nuovi magistrati (l’innalzamento dell’età di ingresso non sempre consente di definirli giovani), guarda con grande diffidenza al sistema delle correnti, in parte perché inevitabilmente influenzata da tale diffusa rappresentazione, ma in parte anche perché sovente ne registra concrete conferme in occasione del primo impatto con il nostro mondo.

Fatto sta che oggi la gran parte dei nuovi magistrati rifugge dalla iscrizione ad una corrente, e soprattutto alle correnti “di sinistra”.

Resiste, in parte, a tale crisi la sola Associazione nazionale magistrati, che conserva un’alta percentuale di nuove iscrizioni, dovuta probabilmente alla sua capacità di essere interlocutore credibile e accreditato nel dibattito pubblico sulla giustizia, anche se i più maligni attribuiscono un peso non indifferente alle ottime condizioni garantite agli iscritti per la assicurazione sanitaria e per quella sulla responsabilità civile.

Ma anche l’Anm è oggi attraversata al suo interno da un pericoloso vento di “antipolitica”, alimentato da uno (allo stato ancora) sparuto gruppo di magistrati che scimmiotta maldestramente il modello “antisistema” del movimento 5 stelle di Grillo e Casaleggio, ma anche colpevolmente sostenuto dalle scelte irresponsabili di una delle componenti storiche della Anm, che sembra essersi posta come obiettivo strategico quello della dissoluzione del patrimonio più prezioso ereditato dal ‘900 dall’associazionismo giudiziario italiano e rappresentato dalla unità di (quasi) tutti i magistrati italiani in una unica associazione.

L’ambizione di questo breve scritto è quella di provare a riflettere sulle cause di questa involuzione, di cercare di andare un po’ dentro a quello che è successo. Di capire più a fondo le ragioni della crisi e, soprattutto, le ragioni per le quali la crisi ha investito prevalentemente le correnti di sinistra e, più di tutte, proprio Magistratura democratica. Può essere, infatti, consolatorio e appagante attribuire le cause di questa crisi alla più generale crisi di valori e di ideali della società contemporanea, all’affermarsi di un  pensiero unico, alla mancanza di cultura politica e di sensibilità delle nuove generazioni. E non sarebbe nemmeno del tutto sbagliato. Ma se si ambisce realmente a cambiare le cose che non ci piacciono, se si vuole fare politica nel senso vero e alto del termine e non come mero esercizio declamatorio, è necessario guardare un po’ più a fondo alle cause di ciò che è accaduto e, soprattutto, alle nostre mancanze e ai nostri errori.

Credo non vi possa essere discussione sul fatto che l’associazionismo giudiziario, e in particolare Magistratura democratica, nella seconda metà del secolo scorso, hanno radicalmente cambiato la magistratura, contribuendo in maniera determinante a realizzare il modello costituzionale di una magistratura orizzontale, uguale, paritaria, inverando in concreto il principio dell’art. 107 della Costituzione secondo il quale i magistrati si distinguono solo per le funzioni svolte.

Così come è indiscutibile che grazie all’associazionismo giudiziario, ed in particolare alla forte spinta verso il cambiamento di Magistratura democratica, si è realizzato in Italia un modello di giudice, e di magistrato, che rappresenta ancora oggi un esempio per gli ordinamenti giuridici di tutto il mondo: un giudice che è interprete diretto dei principi e dei valori costituzionali, e che ad essi informa sempre la sua attività di interpretazione della legge, un giudice consapevole e geloso della sua autonomia nei confronti dei poteri esterni alla magistratura e dei poteri interni alla magistratura, capace di inverare il ruolo del potere giudiziario come “contropotere”, come strumento di controllo della legalità dell’esercizio degli altri poteri.

La grande vittoria, il grande merito di Magistratura democratica è stato far sì che questi valori, questi principi diventassero patrimonio comune dell’intera magistratura italiana o almeno della stragrande maggioranza dei magistrati italiani. Una cosa che a noi pare scontata, ed è bello che ci paia scontata, ma che non lo era affatto, se solo si pensa che appena cinquant’anni fa i giudici della cassazione si riunirono in un’associazione autonoma, l’Unione dei magistrati italiani, contro l’Associazione nazionale magistrati, e con l’obiettivo di affermare, proprio contro i principi di eguaglianza della magistratura, la superiorietà gerarchica della Corte di cassazione e il monopolio della interpretazione della legge da parte della Corte di cassazione e di sottrarre ai giudici di merito il rapporto diretto con i precetti contenuti nella Carta costituzionale, che la Corte di cassazione in quegli anni considerava poco più che un libro dei sogni, da non utilizzare nel procedimento di interpretazione e applicazione della legge.

 

La domanda da porsi oggi è: che cosa è successo? Meglio: che cosa ci è successo? Perché oggi non abbiamo più benzina per far correre questo motore, perché non vediamo più un futuro? Come è possibile che la realizzazione in concreto degli obiettivi politici e ideali di un gruppo finisca per coincidere, almeno temporalmente, con una sua crisi profonda e apparentemente irreversibile?

La risposta potrebbe essere semplice: hai conseguito lo scopo sociale e quindi a questo punto non hai più senso, non hai più nulla da raggiungere, ma secondo me la questione è più complessa ed è, come dire, il problema di tutti i gruppi, le associazioni, i partiti politici che hanno come progetto quello di un cambiamento radicale della realtà.

La fase di distruzione di una realtà che non va bene è una fase che funziona, il problema è che cosa fai una volta che hai vinto, come gestisci la vittoria, come gestisci il risultato.

Ancora di più: il problema è il rapporto con il potere. Perché la realizzazione dei principi dell’eguaglianza, della democrazia interna, dell’indipendenza interna hanno portato, in uno con l’accrescimento dei consensi e l’inevitabile invecchiamento dei militanti del gruppo, alla assunzione di responsabilità nel governo della magistratura, negli organismi di autogoverno e negli uffici.

E se era facile, negli anni settanta, sbeffeggiare le prolusioni dei procuratori generali alle inaugurazioni dell’anno giudiziario, come faceva, con una efficacia insuperabile, la rivista Quale Giustizia, è diventato più difficile per i vecchi contestatori di allora, nel frattempo divenuti a loro volta procuratori generali, essere il motore di un cambiamento, incarnare un progetto di rivoluzione dell’ordine costituito.

È poi accaduto a noi quello che è accaduto anche a tante formazioni politiche di sinistra quando sono entrate “nella stanza dei bottoni”. Abbiamo subito, io credo, entrando in contatto, e non più in contrapposizione, con i gruppi da sempre abituati a gestire il potere, una sorta di fascinazione del potere e delle regole non scritte del suo esercizio.

Questa contaminazione è stata per noi perniciosa, perché non siamo stati capaci di introdurre nell’esercizio del potere quelle aspirazioni alla trasparenza, alla democratizzazione, all’uguaglianza di cui eravamo, da oppositori, portatori. Mentre è quasi sempre prevalsa l’idea, frutto di una sorta di subalternità culturale nei confronti degli esperti volponi degli altri gruppi, che l’unico modo di gestire il potere sia quello che si è sempre praticato dalla notte dei tempi: l’accordo, l’intrigo, il complotto, la doppia verità. Come se non esistesse, o non fosse alla nostra portata, un modo trasparente, disinteressato, leale e corretto di gestione il potere. In una parola: un modo diverso di gestire il potere.

Ma ci sono anche altre ragioni storiche che riguardano la magistratura. L’altra faccia dell’eguaglianza della magistratura, dell’indipendenza interna, della piena realizzazione di uno statuto di autonomia del singolo magistrato è stata la caduta di attenzione sul tema della professionalità dei magistrati e la caduta di attenzione sul tema del servizio nei confronti dei cittadini. Perché rendere i magistrati tutti uguali, eliminare i controlli interni, eliminare la gerarchia, ci ha sì reso tutti più liberi, ma ha reso più liberi anche gli scansafatiche, i neghittosi, i pavidi e noi non abbiamo avuto la capacità di creare, rispetto a questo, seri meccanismi di controllo della professionalità.

Ci sono state anche forti e fondate ragioni esterne, perché questo processo è coinciso con l’inizio di una fase di scontro violento con la politica.

La effettiva attuazione del ruolo della magistratura come contropotere, come strumento di controllo delle illegalità, in un Paese che aveva(ha) un grosso problema di legalità nell’esercizio del potere, ha reso, infatti, possibili indagini nei confronti del potere e ha provocato quello che una pubblicistica interessata definisce lo «scontro fra magistratura e potere» e che, invece, altro non è che la reazione del potere di fronte al legittimo esercizio del potere di controllo della legalità da parte della magistratura.

E per questo noi abbiamo attraversato un lunghissimo periodo di attacco del potere politico nei confronti della magistratura.

La magistratura, posta sotto assedio da questo attacco, ha stipulato, lo dico, come spesso mi capita, con un’espressione brutale, un patto consociativo-corporativo al proprio interno per difendere l’assetto esistente, ritenendo, forse non del tutto a torto, che l’unico modo per difendere l’autonomia della magistratura sotto attacco, fosse quello di compattare la corporazione: difendiamo tutti, perché solo difendendo tutti riusciamo a difendere l’istituzione.

Questa scelta, forse obbligata e necessitata, non lo so, alla fine non ha retto.

La recente riforma sulla responsabilità civile è una legge sbagliata, pessima, pericolosa, me è figlia di questo ritardo da parte della magistratura, della sua incapacità di autoriformarsi, di controllare al proprio interno la qualità del servizio reso nei confronti dei cittadini, di sanzionare le cadute di professionalità, di criticare le prassi antigarantiste.

La magistratura non è stata capace di trovare al suo interno gli anticorpi necessari per contrastare quelle cadute deontologiche di cui parla Luigi Ferrajoli[1].

E anche all’interno di Magistratura democratica si è coltivato su questo tema per troppo tempo un equivoco.

Quel modello di magistrato bellicista a cui fa riferimento Luigi Ferrajoli, è stato da molti, al nostro interno, visto con simpatia, perché era comunque il magistrato che lottava contro il potere e questo, in qualche modo, evocava il ricordo di quella idea di gruppo di magistrati iconoclasti che avevano come vocazione la lotta contro il potere.

E vi è, infine, un altro aspetto determinante per la comprensione del processo di trasformazione della magistratura: un cambiamento radicale delle condizioni di lavoro dei magistrati, un aggravio enorme dei carichi di lavoro, una riduzione degli investimenti, una attenzione sempre più forte da parte dell’opinione pubblica e degli operatori al problema dei tempi della giustizia.

Da qui è nata la necessità di farsi carico del problema dell’organizzazione degli uffici. Alcuni di noi hanno iniziato a pensare che rendere giustizia, inverare i diritti passa necessariamente, anche, per un miglioramento dell’efficienza del servizio.

Ciò ha creato l’illusione, o la speranza, di poter contribuire al miglioramento dell’efficienza della giustizia gestendo il potere all’interno degli uffici giudiziari. Non è solo carrierismo o ambizione personale, c’è anche questo, c’è sempre stato e fa parte delle debolezze degli uomini, ma soprattutto c’è stata l’idea di dare un futuro al cambiamento successivo, quello di rendere la giustizia un sistema efficiente e funzionale. Purtroppo non ci siamo riusciti, dobbiamo dirlo con nettezza che su questo abbiamo fallito, abbiamo mancato un obiettivo.

In tutto questo si è innestata la riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006.

 

A quasi dieci anni di distanza dobbiamo dirci con chiarezza che la riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006 ha cambiato radicalmente in peggio la magistratura italiana, accentuandone gli aspetti deteriori: il carrierismo, la gerarchia interna, il conformismo, il clientelismo. E devono dirlo soprattutto quelli che, come me, avevano creduto nella bontà di alcune delle innovazioni introdotte, probabilmente sottovalutando l’impatto che l’impianto complessivo della legge e la sua ispirazione di fondo avrebbero avuto sulla magistratura.

Il tema fondamentale del dibattito oggi all’interno della magistratura è come si vogliono affrontare queste trasformazioni in atto, quale direzione si vuole dare al futuro della magistratura.

A me pare che, oggi, alla luce del nuovo ordinamento giudiziario, si confrontino, al nostro interno, tre modelli di magistratura.

C’è un modello burocratico, corporativo, piramidale, che è quello più in sintonia con lo spirito della legge.

Un modello che promette al magistrato protezione corporativa e clientelare, attenzione sindacale ai suoi interessi e una carriera tranquilla, e che presuppone un approccio burocratico alla funzione, conformismo interpretativo e rispetto delle gerarchie interne.

È questo un modello molto rassicurante, che piace a molti, anche perché incontra l’individualismo, l’assenza di passioni ideali, l’ambizione alla sintonia con il potere che purtroppo caratterizza la nostra epoca.

C’è poi un altro modello, quello che io definisco della mediocrazia.

È il modello dell’uguaglianza al ribasso, che non vuole controlli sulla professionalità, non vuole gerarchie interne, rivendica il ritorno all’anzianità senza demerito come criterio di selezione dei dirigenti (collocando molto in basso l’asticella del demerito), che offre protezione corporativa e clientelare a tutti i magistrati, e non solo ai propri aderenti, che promette a tutti soddisfazioni di carriera e difesa ad oltranza dei privilegi della corporazione.

Un modello molto insidioso, perché richiama alcune parole d’ordine delle battaglie democratiche e egualitarie dell’associazionismo, si batte contro le derive efficientiste e contro il carrierismo, e contro la gerarchia in difesa dell’autonomia interna dei magistrati.

E c’è, infine, un terzo modello, che rappresenta una diversa interpretazione della riforma dell’ordinamento giudiziario.

È quello del governo dei migliori, dei più bravi, di quelli che se comandano loro allora va bene anche la gerarchia, perché sono dirigenti democratici e illuminati. È un modo di essere diversamente corporativi e clientelari, in quanto la protezione e la promozione degli aderenti al proprio gruppo non si fonda esplicitamente su di un patto corporativo, ma sull’illusione di essere i più capaci a realizzare il buon funzionamento del sistema.

È questo un approccio molto problematico e pericoloso, da un lato perché tende evidentemente ad essere gradito solo a coloro che si riconoscono all’interno della cerchia dei migliori, escludendo tutti gli altri, dall’altro perché l’inevitabile disvelamento, alla prova dei fatti, della fallacia dell’assunto di partenza, rende ancora più odiosa l’ambizione individuale ammantata da brama di efficienza.

Queste tendenze corrispondono, più o meno, alle posizioni degli attuali gruppi associativi, ma esse sono presenti, in modo variegato e con accenti diversi, in tutte le componenti della magistratura associata.

Io credo che noi, oggi, abbiamo il dovere di rivedere criticamente il nostro modello di magistratura, abbiamo l’obbligo di fare un bagno d’umiltà e di offrire ai magistrati una alternativa diversa dal ripiegamento burocratico e dal carrierismo rampante.

E per questo, credo, dobbiamo rivedere anche alcune delle nostre convinzioni sulla riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006.

 

Il sistema di valutazioni di professionalità ha clamorosamente fallito il suo scopo.

Il numero di magistrati valutati come non idonei si conta, oggi come prima della riforma, sulle dita di una mano. Ma in compenso abbiamo creato un mastodontico apparato, che nella assurda pretesa di pesare le qualità di ogni magistrato, crea in ognuno quelle speranze e quei timori, cito ancora Luigi Ferrajoli, che ne inficiano l’autonomia. La speranza di una promozione o di un incarico, da un lato, e la paura di un giudizio negativo dall’altro, spingono i magistrati verso il conformismo interpretativo, verso l’ossequio ai capi degli uffici, unici reali padroni del sistema di valutazioni di professionalià, e verso la sudditanza nei confronti del sistema delle correnti, l’unico in grado di garantire successi e di evitare guai.

Tutto ciò rende i magistrati meno liberi, senza reali vantaggi per il sistema nel suo complesso.

L’abolizione dell’anzianità per il conferimento degli incarichi direttivi, ha prodotto nella prima fase un significativo e salutare svecchiamento della dirigenza degli uffici, ma nel medio periodo ha finito per esasperare la corsa al carrierismo, la spasmodica ricerca di titoli e medaglie, e ancora il servilismo verso i capi e verso il sistema delle correnti, unici depositari del potere di designare i migliori.

Ancora, la riforma del sistema disciplinare, con la introduzione della tassatività degli illeciti, invece di garantire un maggiore controllo democratico sull’esercizio del potere di azione da parte dei titolari dell’azione disciplinare e di offrire maggiori garanzia agli incolpati, ha esasperato gli aspetti burocratici e formalistici del sistema disciplinare.

È un fatto che oggi la stragrande maggioranza dei giudizi disciplinari hanno ad oggetto ritardi nel deposito dei provvedimenti e finiscono per colpire i magistrati più volenterosi e generosi, quelli che non riescono a fronteggiare, ma si sforzano di farlo, la enorme mole di lavoro che oggi grava su alcuni uffici giudiziari, mentre le situazioni di opacità, se non addirittura di illegalità, che pure esistono al nostro interno emergono solo a seguito di inchieste giudiziarie, rendendo il nostro mondo simile al mondo della politica, che si accorge della corruzione al proprio interno solo quando arrivano i Carabinieri.

Tutto questo ha determinato un pericoloso ripiegamento burocratico dei magistrati, che finiscono per prestare maggiore attenzione ai possibili riflessi negativi sulla carriera delle proprie iniziative che all’esigenza di offrire una adeguata risposta in termini di giustizia.

 

Il compito di Md, e di Area, è allora oggi quello di elaborare un progetto politico e culturale di cambiamento della situazione attuale.

Io sono convinto, infatti, che la nostra crisi, oggi, dipenda principalmente dal fatto che noi non abbiamo un progetto credibile di cambiamento della magistratura, e senza un progetto di cambiamento è la nostra stessa ragione di esistere che viene meno, perchè nella conservazione dell’esistente e nella gestione del potere ci sono altri più bravi e più spregiudicati di noi.

Quello che io vorrei è che riuscissimo ad immaginare un progetto per ricostruire un modello di magistratura orizzontale ed egualitaria, con una forte autonomia sia esterna che interna, ma che sappia anche occuparsi della qualità e dell’efficacia del servizio reso, e che sappia allo stesso tempo esercitare la critica nei confronti delle cadute di professionalità, delle prassi antigarantiste, delle situazioni di opacità e di collusione. In una parola, e con uno slogan, un modello democratico, partecipato, aperto, ma allo stesso tempo non corporativo e sensibile ai diritti degli utenti e alla qualità del servizio reso.

Per far ciò sono necessari, a mio avviso, alcuni interventi normativi e/o in sede di autogoverno, che mirino a ridurre gli effetti più negativi della riforma del 2006.

Provo ad indicarne alcuni solo a titolo esemplificativo e come avvio di una riflessione:

a) Abolizione dei pareri dei capi degli uffici nelle procedure di valutazione.

La dirigenza della magistratura ha dimostrato nei fatti di non essere in grado di fornire un contributo apprezzabile al circuito di autogoverno nel percorso di crescita professionale dei magistrati. I pareri sono, oggi come ieri, un fiorire di inutili iperboli e superlativi, nei quali, contro ogni legge della matematica e della logica, tutti i magistrati lavorano “al di sopra della media”, mentre i giudizi non positivi si devono leggere in filigrana attraverso acrobazie linguistiche finalizzate prevalentemente a “dire e non dire”. Per converso, il ruolo centrale attribuito dal circuito di autogoverno ai pareri dei dirigenti nel procedimento di valutazione ha finito per attribuire un eccessivo potere ai dirigenti nei confronti dei magistrati dell’ufficio, tale da minarne l’autonomia interna.

Il ruolo dei dirigenti nella procedura di valutazione dovrebbe dunque essere limitato alla eventuale allegazione di fatti specifici meritevoli di segnalazione.

b) Abolizione dei giudizi in sede di valutazione di professionalità.

La montagna delle valutazioni di professionalità, lo si è detto sopra, ha partorito, nei fatti, un topolino, essendo numericamente insignificanti, e nella media della prassi precedente alla riforma, i casi di giudizio negativo. Mentre la corsa ad accapararsi titoli e benemerenze al fine di ottenere qualche aggettivo in più nel parere, da utilizzare in vista di una nomina per un incarico o per un ufficio direttivo, ha accentuato uno spirito competitivo non adeguato al ruolo istituzionale della magistratura. Meglio, allora, limitarsi ad un giudizio di idoneità/non idoneità, evitando inutili aggettivazioni. Al più si potrebbe aggiungere la segnalazione di alcune criticità che pur non comportando un giudizio di inidoneità possa servire da stimolo per una migliore crescita professionale del magistrato.

c) Realizzazione di una effettiva temporaneità negli incarichi direttivi.

Il modello realizzato dalla riforma del 2006, e oggi rafforzato dalle circolari del Csm, è, nei fatti, quello di una finta temporaneità, in quanto il dirigente è libero di passare da un incarico direttivo ad un altro e, anzi, il pregresso esercizio di funzioni direttive vale come titolo preferenziale nei concorsi successivi, con il risultato che chi inizia la “carriera” direttiva mai o quasi mai tornerà a fare il giudice. Ciò comporta una separatezza tra ruoli direttivi e ruoli non direttivi, che accentua la diseguaglianza interna, esaspera la spinta al carrierismo e, soprattutto, finisce per consegnarci dirigenti lontani dalla giurisdizione attiva e dai suoi problemi quotidiani.

Si dovrebbe, al contrario, prevedere una temporaneità effettiva, con il ritorno obbligato alle funzioni giudiziarie dopo l’esercizio di funzioni direttive. In questo modo si realizzerebbe un effettivo e stabile svecchiamento dei ruoli direttivi, si sdrammatizzerebbero le tensioni sulle nomine, si ridurrebbero le aspirazioni individuali, privilegiando le esigenze del servizio, e si creerebbero i presupposti per una gestione più partecipata e democratica degli uffici giudiziari.

A chi obietti che in questo modo si rinuncia alla costruzione di una professionalità  specifica dei dirigenti, disperdendo un patrimonio di conoscenze e di esperienze con conseguente danno per la qualità del servizio, è agevole rispondere con un invito a farsi un giro dei tribunali italiani e a guardare come sono organizzati per capire a cosa dovremmo effettivamente rinunciare.

Ma, al di là degli interventi normativi, è evidente che si tratta di un progetto da inverare principalmente sul piano della cultura e della deontologia dei magistrati, coltivando, nella prassi quotidiana del lavoro negli uffici e nei luoghi dell’autogoverno, l’etica della responsabilità professionale, il rifiuto delle ambizioni personali e delle carriere, la partecipazione democratica alla gestione degli uffici, il contrasto ad ogni forma di solidarietà corporativa e di gestione consociativa del potere.

Insomma, il nostro compito è quello di fare, ancora una volta, una rivoluzione culturale, una cosa nella quale un gruppo di magistrati democratici, eretici e iconoclasti, dovrebbe riuscire a ritrovare un senso di sé.

[1] Crf. L. Ferrajoli in questo numero Associazionismo dei magistrati e democratizzazione dell’ordine giudiziario.