Magistratura democratica

Le nuove disuguaglianze

di Franco Ippolito

Dopo i decenni dell’egemonia liberista iniziata negli anni del thatcherismo e del reaganismo, finalmente anche le istituzioni economiche mondiali hanno scoperto che l’abnorme disuguaglianza tra gli uomini finisce col compromettere le stesse prospettive di sviluppo dell’economia. Ma le disuguaglianze, specialmente oggi, non si esauriscono sul piano dell’economia, coinvolgono la libertà, l’identità culturale e religiosa correlate alla condizione di immigrato, i rapporti tra i generi, l’accesso alle informazioni, ai servizi fondamentali, e incidono sullo stesso funzionamento dei processi democratici. In questo contesto, va rinnovata la scelta di campo dei magistrati democratici, quella indicata dall’art. 3 cpv. della Costituzione, sorretta dalla indispensabile conoscenza dei nuovi meccanismi, normativi e di fatto, istituzionali e sociali, che determinano e accrescono le disuguaglianze.

1. Per oltre trent’anni – i decenni dell’egemonia liberista aperta tra il 1979 e il 1980 dai successi di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan – il tema delle disuguaglianze è uscito di scena ed è stato coperto da un cono d’ombra, sia a livello della teoria sia sul piano della politica e della dimensione operativa, tanto che «è stato teorizzato e praticato il progressivo ritiro dello Stato dalle sue responsabilità egualitarie» (Rapporto sulle disuguaglianze – Fondazione Basso settembre 2016). E quando qualche evento o emergenza imponevano quel tema, il pensiero unico dominante acquietava le coscienze presentando le disuguaglianze come effetti collatelari del processo economico, anzi valorizzandone la positività come incentivo all’impegno e alla crescita.

La crisi mondiale che si è aperta nel 2008 sembra aver cambiato lo scenario, almeno a livello teorico, quello di studi, ricerche e pubblicazioni. Sono ampiamente noti i libri di autorevoli e famosi economisti, tra cui il premio Nobel Stiglitz, e il libro di Pichetty, divenuto un best-seller internazionale. Ma anche in Italia non sono mancati gli studi, gli approfondimenti, insomma il tema è tornato di attualità.

Recentemente sta emergendo un salutare ripensamento persino da parte delle maggiori organizzazioni internazionali, come la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, che per decenni, come portabandiera del liberismo, avevano sollecitato i Governi alla riduzione della spesa pubblica, anche a costo di compromettere i servizi fondamentali e smantellare il welfare.

Ricordiamo tutti l’enfasi con cui Fondo monetario internazionale e Banca mondiale negli anni ’90 magnificavano le politiche di “Ajuste estructural, imposte ai Paesi indebitati dell’America Latina per concedere o rinegoziare prestiti. Di quelle politiche, orientate alla crescita della libertà di mercato e alla drastica riduzione dell’intervento dello Stato nell’economia, costituivano assi portanti le privatizzazioni di tutte le imprese pubbliche e la flessibilità del mercato del lavoro, mentre la disoccupazione, che inevitabilmente ne derivava, veniva considerata un secondario effetto collaterale, quando non una favorevole occasione e uno strumento per rendere più dinamica l’economia attraverso la concorrenza dei lavoratori in cerca di occupazione.

Più recentemente ricette non molto differenti, anche se diversamente presentate, sono state imposte alla Grecia, ciò che ha determinato una severa riduzione dei salari e feroci tagli alla spesa pubblica, compresa quella destinata alla sanità, all’istruzione, al sostegno dell’infanzia e delle famiglie, con un correlato spaventoso aumento delle disuguaglianze e della sofferenza sociale, al punto da incidere significativamente sulla mortalità infantile e sulla generale aspettativa di vita delle persone (come peraltro è avvenuto in Italia secondo gli ultimi rilevamenti).

Ebbene, quelle stesse organizzazioni sembrano avere oggi finalmente scoperto che le disuguaglianze sono un ostacolo per la crescita.

La Banca mondiale, in un recente rapporto, pure continuando ad assegnare i titoli di testa agli effetti positivi della globalizzazione sulla riduzione della disuguaglianza tra i redditi medi dei diversi Paesi e sulla riduzione della povertà in Cina e in India, non può fare a meno di evidenziare il crescente aumento delle disuguaglianze interne ai vari Paesi e di raccomandare maggiore prudenza.

Il Fondo monetario internazionale – dopo avere per anni propagandato il ruolo nefasto delle tasse e delle politiche di spesa volte alla redistribuzione – prende finalmente consapevolezza che «una minore disuguaglianza netta è fortemente correlata con una crescita più veloce e più durevole» e che «la redistribuzione appare generalmente più benigna in termini di impatto sulla crescita». E dopo avere reiteratamente demonizzato i sindacati come uno dei principali ostacoli al funzionamento efficiente dei mercati del lavoro, ha scoperto che il declino della sindacalizzazione è un fattore determinante nell’aumento delle disparità di reddito.

Anche l’Ocse ha finalmente preso atto che la crescente disuguaglianza è «un male per la crescita a lungo termine». E, sia pure continuando a ripetere che «le politiche strutturali sono necessarie ora più che mai», aggiunge che «devono essere accuratamente progettate e accompagnate da misure che promuovono una migliore distribuzione dei dividendi della crescita».

La rilevante caduta del Pil greco deve essere stato un campanello d’allarme per le istituzioni internazionali (non ancora per l’Unione europea!!!).

Ma non è solo questione di Prodotto interno lordo, che rappresenta uno degli indici, e non tra i più significativi, che esprimono la situazione economica di un Paese.

Se si prende in considerazione il ben più attendibile e completo Indice di sviluppo umano (composto delle tre dimensioni fondamentali dello sviluppo umano: una lunga vita in buona salute, misurata con la speranza di vita alla nascita; la capacità di acquisire conoscenze, che si misura con gli anni, reali e sperati, di scolarità; la capacità di raggiungere un livello di vita dignitoso, che si misura anche con il Pil). che una delle più autorevoli agenzie della Nazioni Unite (Undp) da ben 25 anni utilizza per misurare la situazione reale di vita all’interno di un Paese, le disuguaglianze effettive, emergenti dal vissuto delle persone, sono ancora più evidenti e allarmanti.

La realtà è che le disuguaglianze sono ormai tanto clamorose da divenire:

  1. controproducenti per la stessa sostenibilità del processo economico;
  2. disfunzionali non soltanto rispetto alla possibilità di realizzare una effettiva democrazia, ma finanche per la sostenibilità di una qualsiasi governabilità pacifica, che non intenda fondare l’ordine pubblico sulla forza e sulla gerarchia;
  3. eticamente inaccettabili per una parte significativa delle persone che vivono in questo Paese al punto da compromettere e mettere a rischio la coesione sociale e la comune indentificazione in un Patto costituzionale condiviso.

 

2. Oggi siamo al punto di rottura, determinato da una tendenza che ha le sue origini nel liberismo thacheriano e reganiano degli anni ’80, che interruppe e ribaltò quello che è stato definito il positivo «grande compromesso» tra capitale e lavoro che concorse, dopo il conflitto mondiale, tra gli anni ’40 e gli anni ’70, a produrre il nuovo paradigma di diritto internazionale fondato sui diritti fondamentali della persona e le Costituzioni democratiche del dopoguerra.

Le disuguaglianze di quegli anni erano certamente enormi, ma erano più omogenee, prevalentemente centrate sul reddito e la ricchezza e più strettamente collegate alla divisione sociale classista.

Nei decenni ’50-’70, caratterizzati dal disgelo costituzionale e dalla lenta, ma progressiva attuazione della Costituzione, una serie di politiche ridistributive produsse una relativa attenuazione delle disuguaglianze e una graduale attuazione del processo democratico, a mezzo del radicamento diffuso dei partiti politici.

Come è noto, il relativo riequilibrio delle quote di reddito tra capitale e lavoro raggiunse il momento più favorevole per il lavoro negli anni ’70. Quella tendenza si interruppe bruscamente con  la stipulazione delle nuove regole globali imposte dal liberismo thatcheriano e reganiano, regole – sia chiaro – che non sono affatto frutto della dimanica naturale dello sviluppo economico, bensì il risultato dei rapporti di forza che vedono un ruolo dominante degli interessi dei Paesi ricchi e delle élite dei Paesi poveri.

Successivamente, gli anni ’80-’90 e seguenti furono segnati da una rilevante contrazione della quota destinata al lavoro rispetto a quella destinata ai profitti (con qualche variazione altalenante) e, soprattutto, rispetto a quella destinata alle rendite.

I dati evidenziati da diversi istituti di ricerca e da  analisti di diversa formazione culturale e politica parlano da sé. Mi limiterò a evidenziarne qualcuno, tratto dai recenti libri di M. Franzini e M. Pianta (Disuguaglianze. Quante sono, come combatterle, Laterza 2016) e di S. Biasco (Regole, Stato, uguaglianza, Luiss 2016) e dai risultati di un workshop organizzato dalla Fondazione Basso sul tema de Le disuguaglianze economico-sociali in Italia (Report settembre 2016), a cura di un gruppo presieduto da Elena Paciotti e coordinato da Fabrizio Barca, Sofia Basso, Andrea Brandolini, Elena Granaglia e Roberto Schiattarella.

I nostri ospiti, con la loro conoscenza e competenza ci aiuteranno a ridisegnare e meglio comprendere una mappa aggiornata delle disuguaglianze e, magari, a individuare qualche rimedio sperabilmente realizzabile non in tempi storici, ma in tempi politicamente prossimi.

Un dato impressionante è che la ricchezza posseduta dall’uno per cento più ricco della popolazione mondiale è uguale a quella del resto dell’umanità (Oxfam, 2015). Venendo a noi e stando alle dichiarazioni dei redditi del 2009 (e pertanto fingendo che non esista l’evasione fiscale), l’1% più ricco detiene in Italia il 10% del reddito personale totale (in Usa il 18%). Il nostro Paese è nella fascia medio-alta dei Paesi «più disuguali».

Sono enormemente cresciute le disuguaglianze di reddito e di ricchezza. Il nuovo fenomeno dei super-ricchi e quello degli amministratori di grandi società hanno indotto a evocare situazione di neo-feudalesimo.

E tale concentrazione di ricchezza non è stato solamente il risultato delle dinamiche del mercato o della finanziarizzazione dell’economia, ma anche effetto di deliberazioni politiche. Si pensi agli interventi per eliminare o ridurre fortemente le imposte successorie, con ciò che consegue in termini di trasmissione di ricchezza ereditaria, ossia di  «trasmissione inter-generazionale di disuguaglianza», in contrasto con la lettera e con lo spirito della Costituzione della Repubblica.

L’aumento della povertà assoluta e relativa risulta dai datipubblicati dall’Istat il 14 luglio 2016, relativi al 2015. In povertà assoluta 1 milione e 582 mila di famiglie residenti e 4 milioni e 598 mila di persone (il numero più alto dal 2005 a oggi). Nell’ultimo triennio la percentuale è stabile considerando le famiglie, è in aumento se si considerano le persone (7,6 della popolazione residente nel 2015, 6,8 nel 2014). La percentuale di famiglie in povertà assoluta è raddoppiata tra il 2005 e il 2013. Al Sud e nelle Isole è doppia rispetto a quella del Nord e del Centro.

Anche la povertà relativa, stabile in termini di famiglie (2 milioni 678 mila, pari al 10,4 di quelle residenti), aumenta in termini di persone (8 milioni 307 mila, pari al 13,7% delle persone residenti. Erano il 12,9 nel 2014.

Evidente risulta la correlazione tra povertà e tasso di disoccupazione, per cui bisogna innanzitutto rimarcare che la prima e rilevante disuguaglianza – nella Repubblica democratica fondata sul lavoro e che a tutti i cittadini riconosce il diritto al lavoro, con l’obbligo di promuovere le condizioni che rendano effettivo tale diritto (artt. 1 e 4 Cost.) – è quella tra chi ha un lavoro e chi non ce l’ha, nonostante lo cerchi o lo abbia cercato a lungo, per rassegnarsi infine nella categoria dei disoccupati cronici che ha rinunciato a cercare l’introvabile.

Si misurano 6,7 milioni di soggetti che non lavorano perché disoccupati (3,3 milioni) o perché ormai scoraggiati (3,4 milioni). Se il trend rimanesse quello dell’ultimo anno, «occorrerebbero circa 20 anni per assorbire l’eccesso strutturale di offerta di lavoro» (Report Fond. Basso).

Ma la crescita delle disuguaglianze non riguarda solo gli ultimi, i più poveri, la fascia di coda nella linea di distribuzione dei redditi, riguarda anche quelli che Nello Rossi chiama i penultimi, quella fascia che sta in mezzo tra il 10% dei più ricchi e il 20% di coda nella catena reddituale.

Le disuguaglianze presentano oggi una complessità maggiore rispetto a 50 anni fa.

Basti pensare alle disuguaglianze, non solo economiche, ma di libertà e di identità culturale e religiosa, correlate alla condizione di immigrato.

Sono cresciute anche all’interno del mondo del lavoro, sia di quello dipendente sia di quello autonomo. Le disparità retributive si sono moltiplicate, in barba all’art. 36 della Cost., con il lavoro atipico e il lavoro precario. La frammentazione dei contratti e «la precarietà del lavoro … ha effetti sulla disuguaglianza sociale strutturale, specialmente se di lunga durata e se coinvolge soggetti adulti»; «la diffusione del lavoro “atipico”, concentrata peraltro sulle nuove generazioni, sta producendo pesanti effetti di disuguaglianza e di esclusione sociale» (Report Fond. Basso).

Sui redditi da lavoro hanno una enorme influenza le origini familiari, che pesano più che nei decenni precedenti, a causa del cd. blocco dell’ascensore sociale, determinato anche dalle politiche scolastiche e fiscali. «La disuguaglianza salariale appare dunque essere trasmessa da generazione in generazione attraverso meccanismi che vanno al di là del capitale umano» (Id.)

Nonostante l’art. 37 Cost., le disuguaglianze di genere sono ancora assai rilevanti a livello di occupazione, di reddito e di progressione verso i livelli alti (nel 2012 soltanto il 16% dei dirigenti di impresa era una donna). Senza dire poi del lavoro non retribuito (domestico e di cura) in gran parte a carico delle donne.

Vanno aggiunte le disuguaglianze in materia di conoscenza e di informazione, di accesso alla rete, di accesso ai mutui, di possibilità di allocazione dei risparmi da parte di piccoli risparmiatori sforniti delle conoscenze riservate ai soggetti  forti del mercato.

Enormi disuguaglianze sussistono nell’accesso ai servizi fondamentali e nella loro qualità: scuola, sanità, nidi d’infanzia. Per quest’ultimo ambito, oltre all’enorme divario tra Nord e Sud, c’è un grande divario tra i  bambini di famiglie operaie (meno del 9%) e quelli delle famiglie del ceto medio impiegatizio e borghese (27-29%).

Per non dire della salute e dell’accesso alle cure e agli accertamenti sanitari strumentali (come sanno tutti quelli che hanno fatto una tac o una risonanza); dei portatori di handicap, degli anziani.

Gli attentati alla salute mutano sensibilmente in relazione ai tipi di lavoro, in violazione degli artt. 32 e 41 Cost. La qualità della salute dipende anche dal livello di istruzione, confermando così la centralità dell’istruzione come leva per la riduzione delle disuguaglianze.

È stato da più parti rilevato che la disuguaglianza ha effetto sul funzionamento dei processi democratici, ed influenza il quadro istituzionale e i processi politici a livello globale e nazionale, compromettendo la stessa democrazia e la parità di diritti politici, rischiando di determinare effetti radicali e irreversibili (v. Franzini-Pianta e Biasco).

 

3. Già quanto innanzi rilevato costituisce una ragione più che sufficiente per costituire oggetto di riflessione e di confronto per un gruppo di magistrati, da sempre attento a ciò che accade nella società e che si riunisce per un appuntamento congressuale che vuole rappresentare il rilancio della propria ragion d’essere e di agire nella società italiana e nella giurisdizione del nostro Paese.

Lo è ancor di più per Magistratura democratica, che, a metà degli anni anni ‘60, fu costituita – rompendo dichiaratamente con l’associazionismo di impostazione corporativa e sindacale – «per affermare la piena e incondizionata fedeltà alla Costituzione. Una fedeltà che non si enuncia solo a parole, ma che deve essere tradotta in prassi quotidiana nell’esercizio del proprio ministero» (dalla Mozione fondativa di Md - luglio 1964).

Quella scelta fu feconda e costituì per tutto l’associazionismo giudiziario un forte stimolo e una potente spinta di crescita, rompendo con la separatezza che per anni aveva estraniato la magistratura dalle dinamiche positive e innovative della società.

Non fu certo un caso che l’anno successivo, il 1965, il congresso Anm di Gardone costituì il momento di più alto contributo che i giudici dettero al rinnovamento delle istituzioni e alla rifondazione della cultura giudiziaria, basata sui valori della Costituzione democratica antifascista.

Magistratura democratica individuò nell’art. 3 cpv. Cost. la stella polare e il faro che indica il cammino della giurisdizione nella costruzione dello Stato democratico di diritto.

È compito della Repubblica – di tutte le istituzioni della Repubblica, compresa la giurisdizione – rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Questo articolo costituì e costituisce (unitamente alla previsione del governo autonomo dei giudici) il contributo massimo e  più originale che i nostri Padri costituenti recarono al costituzionalismo mondiale e tradusse in obbligo costituzionale il completamento del principio di uguaglianza formale, la cui insufficiente astrattezza era stata oggetto della dirompente ironia di Anatole France, secondo cui «la maestosa uguaglianza della legge... proibisce al ricco come al povero di dormire sotto i ponti».

Senza questo articolo, che consacrò l’obbligo della Repubblica (e della sua classe dirigente) di cambiare l’esistente, non sarebbe neppure immaginabile l’espansione dello Stato costituzionale di diritto, al punto da prevedere (come ha previsto la Costituzione democratica del Brasile del 1988) un sindacato di costituzionalità non soltanto per illecita azione legislativa (ossia per la promulgazione di leggi ordinarie costituzionalmente illegittime), ma finanche per illegittima omissione legislativa (ossia per l’ignavia o trascuratezza o la volontà negativa delle maggioranze parlamentari che omettono l’attuazione dei precetti costituzionali).

Nell’attribuzione del ruolo centrale da assegnare al principio di uguaglianza sostanziale non mi fa velo la partecipazione al mondo culturale creato dall’autore di quella fondamentale norma, Lelio Basso, giacché il più entusiasta sostenitore della centralità e della fecondità del principio di uguaglianza sostanziale fu Piero Calamandrei, un “liberal” ben distante dall’impostazione socialista di Lelio Basso.

Nel suo famosodiscorso sulla Costituzione, pronunciato il 26 gennaio 1955, Calamandrei non esitò ad affermare che l’art. 3 cpv. era il più importante e impegnativo di tutta la Costituzione. «…rimuovere gli ostacoli … quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare una scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’articolo primo (L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro) corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della società»[cvo mio].

Rilevava Calamandrei che le Costituzioni sono anche delle polemiche, di solito rivolte contro il passato, ma l’art. 3 cpv. nell’affermare che occorre «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana» riconosce che questi ostacoli oggi vi sono di fatto e che bisogna rimuoverli. …Quindi, è polemica contro il presente … e impegno di fare quanto è in noi per trasformare questa situazione presente»[cvo mio].

Un piccolo gruppo di magistrati nel 1964 prese sul serio la conclusione di quel discorso di Calamandrei, quando affermava che per realizzare la Costituzione bisogna metterci «l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità».

Fu quella la nostra scelta di campo, che oggi siamo chiamati a rinnovare.

Il fatto che la politica non faccia più (perché non vuole o non può) quanto è costituzionalmente doveroso, non soltanto non ci legittima a fare altrettanto, ma accresce la nostra responsabilità e deve sollecitare ancor di più il nostro impegno.

Per i giudici è importante non soltanto conoscere lo stato delle disuguaglianze, ma anche cogliere i meccanismi, normativi o di fatto, istituzionali o sociali, che le determinano o le accrescono.

Conoscere le nuove disuguaglianze e le forme nuove delle disuguagliane tradizionali ci serve a ri-conoscerle e tenerne conto nell’esercizio del nostro mestiere quotidiano. Capire i meccanismi del loro formarsi o consolidarsi è essenziale per il controllo di liceità e di legittimità dell’esercizio dei poteri privati e pubblici e per la sottoposizione a verifica di costituzionalità degli atti normativi che dovessero rivelarsi funzionali alla produzione di disuguaglianze, così concorrendo, nei limiti della nostra funzione e competenza, all’adempimento dell’obbligo costituzionale imposto dall’art. 3 cpv. Cost.

Secondo Piketty, la disuguaglianza è destinata a crescere indebolendo la democrazia liberale, se non si interviene tassando  la ricchezza a livello globale.Dice Stiglitz che le cose possono ancora peggiorare se non facciamo qualcosa.

Si può agevolmente prevedere che, perdurando le attuali tendenze (frammentazione del mondo del lavoro, precarizzazione del lavoro, tendenza all’oligarchia del capitalismo, libertà di movimento per i capitali e non per il lavoro…), le disuguaglianze cresceranno ulteriormente.

Noi siamo magistrati ed abbiamo il compito professionale di garantire la legalità, costituzionale innanzitutto, e di garantire i diritti, compreso il diritto all’uguaglianza nel rispetto delle differenze.

È questo lo specifico dell’associazionismo giudiziario di Md, che è nata e deve vivere per sintonizzare il punto di vista interno alla giurisdizione con il punto di vista esterno della società.

Il primato (di attenzione e di azione) non è del soggetto “magistratura”, ma è della funzione “giurisdizione” per ciò che può e deve fare per i diritti delle persone.

«Ripartire dalle disuguaglianze» vuol dire ripartire innanzituto dai diritti, dalle persone titolari dei diritti fondamentali, non dalle disuguaglianze tra magistrati.

Non che queste non siamo importanti, lo sono in quanto rendono disfunzionale l’apparato giudiziario alla garanzia dei diritti. Ma questa dimensione non è certo trascurata dall’associazionismo giudiziario nel suo complesso, mentre inadeguata è l’attenzione alle disuguaglianze tra le persone.

A noi spetta tenere innanzitutto alto l’impegno per ciò che di specifico abbiamo portato e possiamo accora recare all’associazionismo dei magistrati italiani ed europei; e che, senza la nostra presenza e il nostro impegno, deperirebbe o sarebbe di molto appannato.