Magistratura democratica

In difesa dell’udienza cartolare. Compatibilità tra la norma dell’art. 127-ter cpc e il rito del lavoro

di Amato Carbone

Non si ravvisa alcuna incompatibilità ontologica tra trattazione cartolare e rito del lavoro. Tuttavia, solo la concreta attuazione del novellato art. 127-ter cpc potrà dirimere i dubbi degli  operatori e, soprattutto, consentirà di verificare se anche il giudice del lavoro avrà piegato la sua ragion d’essere giudice specializzato a una sempre più “pubblicizzata” logica produttivistica della funzione.

1. Considerazioni introduttive / 2. La trattazione cartolare – le trattazioni cartolari / 3. Spunti giurisprudenziali / 4. Le critiche sulla compatibilità con il rito lavoro / 5. Conclusioni

 

1. Considerazioni introduttive

Avendone le capacità e le conoscenze, sarebbe meraviglioso spiegare le discussioni sulla portata del nuovo art. 127-ter cpc in termini di principi della termodinamica; entropia, equilibrio sono tutti concetti che potrebbero trovare una loro perfetta sussunzione nelle ricostruzioni che, “a caldo”, sono state date della nuova norma. Anche sotto il punto di vista della sociologia del diritto, potrebbero essere condotte interessanti analisi per individuare come “si distribuiscono” – nel senso statistico del termine – le varie impostazioni teoriche rispetto alla popolazione dei giudici del lavoro.

Sarebbe un interessante esperimento, ma anche qui difettano in chi scrive sia i requisiti di cui sopra sia il campione statistico a cui si è fatto riferimento.

Così, molto più prosaicamente, si proverà ad analizzare la norma sotto il profilo dell’interpretazione giuridica, focalizzando l’attenzione su quello che sembra essere il tema di maggior rilievo allo stato: la compatibilità tra la norma dell’art. 127-ter cpc e il rito del lavoro.

Va premesso che sono presenti nel dibattito giuridico voci sia favorevoli[2] sia contrarie[3], entrambe argomentatamente sostenute.

Con questo piccolo contributo si spera di dare un ulteriore piccolo spunto di riflessione sul tema.

 

2. La trattazione cartolare – le trattazioni cartolari

Parafrasando il titolo di un notissimo scritto sulla proprietà, si ritiene che punto di partenza per l’analisi del problema qui oggetto di scrutinio sia l’osservazione sincrona delle varie norme succedutesi nel tempo a regolare la fattispecie[4].

Come è facile notare, l’archetipo dell’udienza cartolare è stato rappresentato da una norma ridotta all’osso, che in via generale delegava all’organizzazione dei singoli capi degli uffici ampi aspetti della fattispecie emergenziale – basta rileggere i commi 6 e 7 del citato art. 83. Si potrebbe quasi dire che si trattava di una norma processuale parzialmente in bianco. Indicati la finalità e gli strumenti minimi, era delegificata la modalità di attuazione concreta delle misure emergenziali. Infatti, venivano indicati solo i casi di applicabilità («udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti»), il contenuto delle note e veniva detto che il giudice provvedeva fuori udienza.

L’art. 221, comma 4, dl n. 34/2020 si colloca in una fase diversa della stagione emergenziale (e alla cessazione formale dello stato di emergenza essa è sopravvissuta e - in un certo qual senso - è anche sostanzialmente divenuta norma transitoria/intertemporale nelle more dell’attuazione delle deleghe di cui alla l. n. 206/2021, regolando la fattispecie sino allo scorso 31 dicembre). 

La necessità di far ripartire in maniera maggiormente stabile l’attività processuale ha generato una norma che ha fatto venire – correttamente – meno ogni aspetto legato alle scelte dei singoli uffici e uniformato la disciplina della cd. trattazione cartolare.

Sono confermati i casi in cui essa è applicabile («udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti»), sono dettati dei termini (non perentori) per la comunicazione alle parti e per gli incombenti delle parti stesse, è confermato il contenuto delle note; sono previsti gli effetti del mancato deposito delle note stesse ed è data alle parti la possibilità di dissentire rispetto al provvedimento di trattazione cartolare.

L’art. 127-ter cpc si pone in un’ottica diversa, e ciò è prima facie rappresentato dalla stessa struttura della norma.

È certo questo un indice del nuovo status della norma: non più solo disciplina emergenziale, prima, divenuta poi, in via di fatto, transitoria/intertemporale; essa è norma di parte generale del codice di rito. Circostanza non da poco, per chi scrive.

Sono ampliati i casi nei quali è possibile utilizzare la norma («se non richiede la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti, dal pubblico ministero e dagli ausiliari del giudice»). Si articola la disciplina dell’opposizione delle parti rispetto alla scelta di fissazione in modalità cartolare; si stabilisce la natura perentoria del termine per il deposito delle note e – punto critico della norma, ma non oggetto diretto di questa analisi – si considera il termine di scadenza per il deposito delle note quale data di udienza agli effetti di legge. In ultimo, si stabilisce un termine – ordinatorio – per l’emanazione del provvedimento da parte del giudice

La norma, a prescindere da potenziali critiche sulla disposizione dell’ultimo comma, ha una sua compiutezza. Essa disciplina in tutti gli aspetti di maggior rilievo l’udienza cd. cartolare. È norma di parte generale, è norma che disciplina un fenomeno nuovo.

 

3. Spunti giurisprudenziali

Sebbene la trattazione cartolare, nelle sue diverse modulazioni, sia fenomeno recente, anche nella giurisprudenza di legittimità sono rinvenibili prese di posizione sul punto.

Ha certamente avuto ampia eco il lungo obiter dictum di cui a Cass. civ., sez. VI-1, n. 33175/2021, che ha argomentato, tra le altre cose, sulla inestensibilità della norma sulla trattazione cartolare (allora si trattava dell’art. 83 dl 18/2020, cit.) al rito del lavoro.

A prescindere dalla sede inconsueta per input nomofilattici di questo tipo, la decisione in questione pone l’accento sul fatto che la norma analizzata (il già citato art. 83, ma viene anche menzionato l’art. 221, comma 4, cit.) non regolerebbe la fase della decisione e sarebbe incompatibile con la norma di cui all’art. 429 cpc, che regola la lettura di dispositivo (e motivazioni).

Anche se mero obiter dictum, le affermazioni rese sono espressione di una opinione comunque presente nel dibattito giurisprudenziale e dottrinario.

La tesi è che la lettura di dispositivo e motivazione – adempimenti la cui violazione è sanzionata a pena di nullità – sarebbero elementi indefettibili e, quindi, non sostituibili dalla previsione della trattazione cartolare, che – come detto – non regolerebbe la fase decisoria del procedimento[6].

Questa impostazione, sebbene riferita a un contesto normativo non più vigente ma comunque gravida di conseguenze interpretative anche nell’attuale contesto, non convince.

Basti pensare che l’art. 83 cit. prevedeva la «successiva adozione fuori udienza del provvedimento del giudice»; l’art. 221, comma 4, cit., invero, non ha alcuna previsione espressa sui provvedimenti all’esito dell’udienza cartolare.

Tuttavia, va detto che una lettura teleologica delle norme, e la circostanza che le stesse rispondevano alla medesima esigenza di garantire nel modo più sicuro possibile l’esercizio della funzione giurisdizionale, fa intendere che – anche sotto il vigore dell’art. 221, comma 4 – il giudice dovesse provvedere all’esito dell’udienza sostituita. Né il silenzio della norma potrebbe interpretarsi altrimenti, dato che, in caso contrario, si dovrebbe ipotizzare che il legislatore avesse creato una irragionevole stasi processuale non regolando gli esiti dell’udienza cartolare.

Le due norme vanno, per continuità temporale e teleologica, interpretate univocamente sotto questo punto di vista.

Se così è, deve ritenersi che – allorquando l’art. 83 cit. parla di autorizzare l’adozione di provvedimenti del giudice (e, per le ragioni interpretative sopra esposte, anche l’art. 221, comma 4) – si riferisca a tutti i provvedimenti che il giudice può emettere ai sensi del codice di rito.

Anche qui il richiamo ai provvedimenti va inteso come riferito al libro I, titolo VI, capo I, sezione III del codice di rito, rubricato «Provvedimenti», dove sono disciplinati forme e contenuti di sentenze, ordinanze e decreti.

Per chi scrive, il richiamo ai provvedimenti non è altro che un’indicazione del fatto che il giudice – in base all’udienza sostituita – può emettere tutti i provvedimenti che il codice consente in quella fase.

In questo senso, e con riserva di analisi di alcuni spunti in seguito, si è pronunciata – questa volta, ex professo – Cass., sez. lav., n. 35109/2022. La stessa ha ritenuto compatibile l’art. 83 cit. ritenendo anche l’assenza di violazioni dell’art. 6 Cedu, tenuto conto della finalità della norma e della logica emergenziale.

Orbene, anche se in un’ottica temporalmente circoscritta, si è ritenuta compatibile la norma col processo del lavoro[7]. Quale che sia la vicenda fattuale sottesa, la stessa motivazione afferma: «Le disposizioni menzionate consentono, quindi, di derogare alle previsioni del codice di rito, come l’art. 429 c.p.c (…)».

La Cassazione ha quindi riconosciuto la portata derogatoria della norma.

Sulla compatibilità con la Cedu si discuterà brevemente nelle conclusioni.

In sintesi, se non esiste un’udienza fisica in senso spazio-temporale (come luogo e momento di trattazione della causa), non possono esistere gli incombenti ontologicamente legati a tale “fisicità”. E se la norma dispone l’adozione dei provvedimenti da parte del giudice senza limitazione di tipologia di provvedimento, qualsiasi provvedimento potrà essere adottato in relazione agli incombenti propri dell’udienza sostituita.

Lo stesso, ad avviso di chi scrive, può dirsi per l’art. 127-ter cpc. Quando il codice afferma che «il giudice provvede» entro 30 giorni dalla scadenza del termine per il deposito delle note, altro non fa che dire che il giudice può emettere i provvedimenti della citata sezione III.

Con formula sintetica, si ritiene che il legislatore abbia preso posizione espressa anche sulla fase decisoria.

 

4. Le critiche sulla compatibilità con il rito lavoro

Chi critica la compatibilità tra art. 127-ter cpc e rito del lavoro si pone – ad avviso di chi scrive – su un duplice piano. Da un lato, evidenzia la natura e la storia del rito del lavoro e il compito del giudice del lavoro a fronte di un giudizio che vede ontologicamente le parti in posizione non paritaria; dall’altra evidenzia, in estrema sintesi, elementi di natura più strettamente tecnica, come l’insuperabile impossibilità di conciliare l’art. 429 cpc con l’art. 127-ter cpc, la mancata modifica dell’art. 128 cpc, la circostanza che mai si sia estesa al rito del lavoro la norma dell’art. 180 cpc (nelle sue precedenti formulazioni), la non rilevanza della modifica dell’art. 430 cpc, la non concordanza tra termine del 127-ter cpc e termine di costituzione nel rito del lavoro[8].

Orbene, il primo ordine di ragioni – se portato alle estreme conseguenze – rischia di evolversi in una forma di “luddismo giuridico”. Lo scopo del rito del lavoro, all’atto della sua previsione, era quello di creare uno strumento idoneo alla miglior tutela del soggetto debole del rapporto sostanziale, che – necessitato dalle circostanze ad adire la giustizia – trovava un riequilibrio della propria posizione attraverso la predisposizione di un apposito strumento processuale (un rito ad hoc).

Le critiche di quest’ordine di ragioni si fondano, secondo chi scrive, più sul timore di uso distorto della normativa che su altro. Tuttavia, va affermato che questo timore – certamente meritevole di attenzione – va affrontato sotto il profilo della formazione dei giudici del lavoro, soprattutto i più giovani, sotto il profilo deontologico e anche attraverso l’opera di supervisione dei presidenti di sezione/coordinatori di settore. Siamo nell’ambito dell’opportunità, non della doverosità.

Per ipotesi, la totale abdicazione dal tentativo di conciliazione svolto con le parti alla presenza del giudice non potrebbe mai imputarsi alla norma in sé che, in quanto strumento nelle mani del giudice, è formula neutra. Quella sarebbe una, non condivisibile, scelta organizzativa di cui certo non si può incolpare la norma. 

Appare, in punto di fatto, difficilmente replicabile la medesima preoccupazione rispetto a un’opposizione ex art. 445-bis cpc o alla discussione rispetto a un indebito assistenziale. Questo senza trascurare che sussiste la possibilità della parte non solo di chiedere la concessione di un termine per note scritte, ma anche la fissazione dell’udienza in presenza (anche se non rappresenta un diritto potestativo della parte stessa, ma cfr. infra).

In sostanza, queste obiezioni – a sommesso parere di chi scrive – restano confinate in un legittimo ambito metagiuridico più che sul piano dell’incompatibilità logica tra norme.

Sotto il profilo delle compatibilità normative, si permette di far rilevare che art. 127-ter cpc e art. 128 cpc sono norme tra loro autonome e distinte.

Deve – sempre per chi scrive – ritenersi che il legislatore abbia introdotto una doppia modalità di gestione dell’udienza. Da un lato l’udienza pubblica (quale quella di discussione ex art. 128 cpc e le altre norme che richiamano tale modalità di svolgimento); dall’altro, l’udienza cartolare.

Quando si attua questo secondo modello procedimentale, viene in primo luogo in rilievo l’art. 127-ter cpc. Al binomio udienza pubblica/udienza in camera di consiglio si è aggiunto anche un terzo corno, l’udienza cartolare. 

Disciplinata dalla parte generale del codice di rito, essa non incontra sotto il profilo letterale e sistematico alcun limite di applicazione rispetto al rito del lavoro. 

Se l’udienza – per ipotesi, quella di discussione – è sostituita dall’udienza cartolare, questo comporta anche la sostituzione di tutte le norme sullo svolgimento dell’udienza pubblica. Non trovano più applicazione le norme che presuppongono l’udienza pubblica (come la lettura del dispositivo e dei motivi della sentenza).

L’art. 127-ter cpc, inoltre, prevede una specifica disposizione anche sulla fase decisoria che, quale disciplina propria in tema di udienza cartolare, regola tutte le ipotesi di decisione della causa laddove si adotti tale modello di svolgimento.

Questo consente di superare anche il rilievo sulla mancata applicazione dell’art. 180 cpc al rito del lavoro.

La norma citata non appartiene alla parte generale del codice. Essa è inserita nella disciplina propria del rito di cognizione ordinario.

La stessa, quindi, si scontra(va) con la specialità del rito del lavoro, che non conteneva alcuna lacuna sul punto. Gli incombenti dell’udienza ex art. 180 cpc erano (sono) espressamente e autonomamente disciplinati dal rito del lavoro. Difetta(va)no quindi i presupposti giuridici per una simile applicazione della norma.

Di contro, la giurisprudenza ha – per esempio – esteso l’applicazione dell’art. 164, comma 5, cpc anche al rito del lavoro perché la normativa speciale non prevede una disciplina apposita (cfr. Cass., sez. lav., n. 7705/2018). 

Si tratta di un’ipotesi che non può, per chi scrive, fondare un argomento a favore dell’incompatibilità normativa.

L’art. 180 cpc non può quindi fornire alcuna argomentazione a supporto della tesi dell’incompatibilità.

Come sopra ribadito, l’udienza cartolare è un autonomo modello di svolgimento di udienza, rispetto al quale le norme sull’udienza pubblica (relative al rito del lavoro, nel caso di specie) non trovano applicazione per le fasi disciplinate dall’art. 127-ter cpc[9].

Invero, maggiore evidenza ha la discrasia tra il termine di 15 giorni dell’art. 127-ter e il termine di 10 giorni prima dell’udienza, concesso al convenuto per costituirsi tempestivamente.

Orbene, l’impostazione della critica si appunta su un dato di fatto, ossia che vi sono cause per le quali non si è svolta ancora alcuna udienza e che sono le uniche per le quali si pone questo problema (e, tra l’altro, il problema in via puramente fattuale non sussisterebbe laddove il convenuto decidesse di costituirsi con maggiore anticipo o - se per ipotesi - il convenuto si costituisse tardivamente; come si vede, trattasi sempre di ipotesi di mero fatto).

La questione non si pone laddove l’udienza da sostituire non sia stata – per i più disparati motivi – la prima o non si porrà laddove la scelta di sostituire l’udienza venga già incorporata nel decreto di fissazione dell’udienza.

Tale ipotesi non incontra alcun ostacolo di carattere normativo (al più, di opportunità, in virtù della tipologia di contenzioso). Anzi, l’inciso «anche se precedentemente fissata» dell’art. 127-ter cpc depone nel senso della possibile fissazione ab origine della controversia con modalità cartolare.

In sostanza, non si ritiene che un problema transeunte legato a un difetto di coordinamento normativo (e anche alla mancata considerazione di una norma transitoria o comunque di diritto intertemporale) possa integrare un motivo di incompatibilità tra norme.

E inoltre, proprio la necessità di implementare la norma in assenza di una disciplina di coordinamento (e la necessità di non disporre rinvii) potrebbe integrare l’urgenza che l’art. 127-ter cpc richiama al fine di abbreviare i termini in questione.

 

5. Conclusioni 

Non si ritiene ovviamente di avere fornito una soluzione definitiva ai problemi sollevati da più parti; si spera, di contro, di aver offerto un piccolo contributo al dibattito complessivo.

Un’ultima notazione si ritiene, però, necessaria. Cass., n. 35109/2022 ha menzionato il tema della compatibilità con l’art. 6 Cedu[10]. Ed è invero questo raffronto quello che si ritiene il vero banco di prova per la tenuta generale della norma.

La Corte costituzionale – sent. n. 73/2022, in materia di processo tributario[11] – ha fatto presente, a proposito del citato art. 6 Cedu, che: «il precetto in questione non ha carattere assoluto e può subire deroghe, conservando validità l’assunto secondo il quale la Costituzione non impone “in modo indefettibile la pubblicità di ogni tipo di procedimento giudiziario” e tanto meno di ogni fase di esso (ancora sentenza n. 263 del 2017).

È appena il caso di evidenziare come detto principio, pur trovando espressa enunciazione nella CEDU (art. 6, paragrafo 1), non assuma carattere di assolutezza neanche nell’interpretazione offertane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (v., ex aliis, Corte EDU, 6 novembre 2018, sentenza Ramos Nunes de Carvalho e Sá contro Portogallo)».

Ed ancora: «In linea con le indicazioni esegetiche offerte dalla giurisprudenza europea (Corte EDU, sentenza 10 aprile 2012, Lorenzetti contro Italia; sentenza 26 luglio 2011, Paleari contro Italia; sentenza 17 maggio 2011, Capitani e Campanella contro Italia; sentenza 2 febbraio 2010, Leone contro Italia; sentenza 5 gennaio 2010, Bongiorno e altri contro Italia; sentenza 8 luglio 2008, Perre e altri contro Italia; sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia), diverse pronunce costituzionali hanno, infatti, ravvisato un vulnus al principio di pubblicità dei dibattimenti giudiziari nell’assenza, in alcune procedure camerali penali, non già dell’udienza pubblica quale snodo procedimentale necessario, ma piuttosto della previsione della possibilità, per l’interessato, di richiederne la celebrazione».

Nel rimandare all’ampia motivazione della sentenza e alla giurisprudenza ivi riportata, si ritiene di sottolineare che nel passaggio appena riportato si evidenzia forse l’unica vera criticità dell’impianto normativo, ossia la non vincolatività per il giudice della richiesta di trattazione orale se non congiuntamente effettuata dalle parti. E che sia non vincolante tale opposizione unilaterale è deducibile dal fatto che il giudice procede in conformità solo se la richiesta è congiunta. A contrario, tale vincolo non sussiste in caso di richiesta non congiunta, né ciò appare ricavabile in via interpretativa (pena interpretatio abrogans di questa parte della norma)[12].

Tuttavia, questa criticità – ancora tutta da esplorare anche alla luce di quello che diverrà il diritto vivente in materia – rappresenta una circostanza non solo valida per qualsiasi rito, ma soprattutto irrilevante ai fini della valutazione di incompatibilità della norma con l’intera disciplina del rito del lavoro.

In conclusione, non si ritiene sussistere alcuna incompatibilità ontologica tra trattazione cartolare e rito del lavoro. Anche la stessa assenza di pubblica udienza resta una circostanza non confliggente di per sé con le fonti sovranazionali, fermo restando che sarà certamente necessario porre attenzione alla concreta attuazione del potere del giudice rispetto alla decisione sull’opposizione di una sola parte allo svolgimento dell’udienza cartolare[13].

Tuttavia, solo la concreta attuazione della norma nelle aule di tribunale saprà dirimere i dubbi di tutti gli operatori e, soprattutto, dire se anche il giudice del lavoro avrà piegato la sua ragion d’essere giudice specializzato a una sempre più “pubblicizzata” logica produttivistica della funzione[14].

 

 

1. Si utilizza questa denominazione, pur avendo presente che sono invalsi anche i termini “trattazione scritta” e “udienza fittizia”. Trattasi di mera questione terminologica.

2. Cfr. R. Ionta e F. Caroleo, La trattazione scritta. La codificazione (art. 127-ter c.p.c.), in Giustizia insieme, 5 dicembre 2022.

3. Si fa riferimento a P. Sordi, In difesa del processo del lavoro: perché la trattazione scritta è incompatibile con il rito lavoro, in Giustizia civile, 17 gennaio 2023 – si richiama anche la relativa bibliografia ivi citata (https://giustiziacivile.com/lavoro/approfondimenti/difesa-del-processo-del-lavoro-perche-la-trattazione-scritta-e-incompatibile).

4. Non si ritiene utile, rispetto alla finalità dello scritto, menzionare i diversi provvedimenti di proroga di efficacia delle norme che hanno regolato la fattispecie o le questioni di diritto intertemporale. Si ritiene che sia il testo delle norme, come regola in rito, a rilevare.

5. La norma, così come formulata, è stata inserita in sede di conversione. Invero, nelle more della conversione del dl n. 34/2020, il legislatore era intervenuto anticipando dal 31 luglio al 30 giugno il termine ultimo di efficacia – tra l’altro – del citato art. 83, comma 7, lett. h. L’art. 1 l. n. 70/2020, di conversione del dl n. 28/2020, manteneva ferma l’efficacia dei provvedimenti adottati nel vigore dell’art. 3, comma 1, lett. i, dl 30 aprile 2020, n. 28, non convertito dalla citata legge n. 70. Basterebbe solo questo intreccio a far cogliere la complessità dell’intero sistema.

6. Invero, l’ordinanza sembra ipotizzare che il deposito telematico della sentenza non possa neppure ritenersi equivalente alla lettura della sentenza perché la visione dell’atto per le parti sarebbe mediata dall’attività di cancelleria. Si tralascia di analizzare questa parte del provvedimento. Si fa notare che questa scissione è fisiologica ed è oramai insita nel deposito telematico in cui sussisterà sempre un stacco temporale di questo tipo, anche se minimo.

7. Il caso concreto appare complesso perché un giudizio azionato quale rito Fornero vedeva, all’esito della fase sommaria, l’impugnazione dell’ordinanza del giudice monocratico con reclamo al collegio dello stesso tribunale (e, quindi, come se il primo giudice avesse emesso un provvedimento cautelare) e non con opposizione ex l. n. 92/2021. A seguito di declaratoria di inammissibilità del reclamo proposto al collegio del tribunale, veniva proposto appello; tra i motivi del ricorso per cassazione vi era anche la violazione dell’art. 83 cit. da parte della corte d’appello. Dallo storico di lite riportato, si desume che la fase di appello non sia stata trattata con le modalità del reclamo Fornero, ma con le disposizioni del codice di rito in tema di appello nel rito del lavoro.

8. Cfr. P. Sordi, In difesa del processo del lavoro, op. cit.

9. L’argomento relativo alla modifica del solo art. 430 cpc, e non dell’art. 429 cpc, non ha invero pregnanza. L’art. 430 cpc era rimasto distonico rispetto al contesto del rito lavoro già con l’entrata in vigore del dl n. 112/2008, art. 53, comma 2, che aveva modificato il primo comma dell’art. 429 cpc.

10. «Ogni persona ha diritto a un’equa e pubblica udienza (…)».

11. Cfr. anche Corte cost., n. 275/1998.

12. Specularmente, l’udienza è da sostituirsi con lo scambio di note se tutte le parti costituite lo richiedano, sempre che si verta nell’ambito di applicabilità della norma.

13. Solo per dovere di completezza, si fa presente che la norma parla di «decreto», non di «decreto motivato». L’art. 135 cpc prevede che il decreto sia motivato solo quando espressamente previsto dalla legge. Non appare neanche di immediata percezione la possibilità di ricavare l’obbligo di motivazione in via interpretativa. Inoltre, la norma si premura di specificare che il decreto è «non impugnabile». Appare previsione invero non strettamente necessaria.

14. Rimarcando quanto in altra parte del testo affermato, la trattazione cartolare è un mezzo per meglio adempiere alla funzione e per dare una più efficiente organizzazione al proprio lavoro. Ciò dovrebbe consentire di meglio discernere ciò che merita l’udienza in presenza e ciò per il quale tale forma di trattazione si riduce a un mero simulacro time consuming. Come detto, è operazione di cultura e di riappropriazione dello scopo della funzione rispetto alla quale l’art. 127-ter cpc è, in sé, strumento neutro.