Magistratura democratica

Il procedimento semplificato di cognizione (o meglio il “nuovo” processo di cognizione di primo grado)

di Beatrice Gambineri

La disciplina del processo di cognizione di primo grado è stata profondamente innovata dalla recente riforma, con l’intento di semplificare, razionalizzare e velocizzare l’attività processuale. Il nuovo rito ordinario appare tuttavia di difficile gestione, con la conseguenza che l’efficienza e la speditezza del sistema sono affidati al nuovo “rito semplificato”, soggetto a regole che si pongono in gran parte in linea di stretta continuità con quelle dell’ormai abrogato processo a cognizione piena.
Appare dunque fondamentale convincere gli avvocati a instaurare il processo nelle forme del rito semplificato, a tal fine potendo concorrere un’interpretazione non restrittiva dell’art. 281-duodecies, quarto comma, cpc per il deposito delle memorie scritte contenenti l’attività di controreplica e le richieste istruttorie.

1. Osservazioni generali sulla struttura del processo di primo grado / 2. La tutela massima come obiettivo del processo civile / 3. I principi endoprocessuali: ragionevole durata del processo e contraddittorio / 4. Il nuovo rito ordinario: un processo di difficile gestione / 5. Il nuovo procedimento semplificato di cognizione: funzione e struttura / 6. L’ambito applicativo / 7. L’atto introduttivo / 8. La riduzione dei termini a difesa e di costituzione del convenuto / 9. La prima udienza. Le necessarie verifiche preliminari / 10. La domanda riconvenzionale (e la chiamata del terzo) / 11. La trattazione della causa / 12. La fase decisoria / 13. Considerazioni conclusive: il procedimento semplificato di cognizione come “nuovo” processo di cognizione di primo grado.

 

1. Osservazioni generali sulla struttura del processo di primo grado

Qualunque processo a cognizione piena prende avvio con la proposizione della domanda giudiziale in cui l’attore fissa il diritto fatto valere in giudizio e il provvedimento giurisdizionale richiesto; a tale scopo, l’atto introduttivo deve contenere l’indicazione delle parti (in senso sostanziale), dell’oggetto della domanda (cd. petitum), il «bene della vita» di cui parlava Giuseppe Chiovenda, e infine dei fatti costituenti le ragioni della domanda (in particolare, i fatti costitutivi che individuano la situazione giuridica controversa), la cd. causa petendi

Di seguito, il convenuto esercita i poteri processuali espressione del suo diritto di difesa; in particolare la mera difesa, per il cui tramite prende posizione sui fatti posti a fondamento della domanda, al fine di renderli controversi e dunque bisognosi di prova, e le eccezioni di merito per il cui tramite deduce in giudizio i fatti modificativi, estintivi e impeditivi (eventualmente, potrà anche proporre domande riconvenzionali e chiamare in causa terzi).

Nel trascorrere delle numerose riforme che si sono succedute nel tempo, il legislatore italiano, ma probabilmente ogni legislatore europeo, ha compiuto scelte disomogenee in ordine alle regole di svolgimento del processo, adottando sistemi complessivi di preclusioni diversi in punto di domande, eccezioni e prove. Tuttavia, a prescindere da questo genere di scelte, la prima udienza ha sempre rappresentato uno snodo fondamentale, avendo la funzione di fissare in maniera tendenzialmente definitiva il thema decidendum e il thema probandum. In vista di questo risultato, è sempre stato centrale lo spazio di confronto e di collaborazione tra le parti (se è previsto l’interrogatorio libero e non formale) o i loro difensori e il giudice, chiamato a esercitare fattivamente il suo potere di direzione del processo, secondo quanto previsto all’art. 127 cpc. 

«Nella fase di preparazione il giudice istruttore deve adoperarsi a mettere luce, liberandolo dalle sovrastrutture create dal livore o dall’inesperienza delle parti, il vero volto della causa. La pratica dimostra che in tutte le cause, anche in quelle che a primo aspetto si presentano come straordinariamente complesse e difficili, i punti di vero dissidio si riducono a pochi: il giudice istruttore deve per prima cosa eliminare dalla discussione il troppo e il vano, e se non riesce a conciliare le parti su tutti i punti, ridurre la controversia a quelle poche questioni essenziali che hanno veramente bisogno di essere decise». Queste parole – tratte dalla Relazione al codice di procedura civile del 1940 – scolpiscono col massimo della chiarezza la centralità della prima udienza:

è nel contraddittorio delle parti che il giudice mette a fuoco la realtà della lite, valutandone la complessità (o meno) che può derivare non solo dalla quantità o qualità dei fatti controversi, ma anche o solo dalla complessità delle questioni di diritto da risolvere al fine di accertare la rilevanza o non rilevanza dei fatti controversi o no.

Solo a questo punto, il giudice può valutare se vi è la necessità di aprire la fase istruttoria; invero, se i fatti non devono essere provati perché non controversi tra le parti oppure se le prove sono tutte quante documentali, oppure se viene rilevata una questione pregiudiziale di rito e/o preliminare di merito idonea a definire il giudizio, la causa è avviata velocemente verso la fase decisoria; diversamente, se è necessario acquisire prove cd. costituende, si apre la fase istruttoria. Allora, si potrà parlare di istruttoria più o meno complessa in ragione del numero e del tipo di incombenti che è necessario svolgere. 

Il corretto funzionamento della prima udienza ha sempre assolto una funzione chiave ai fini dell’economia del processo; udienza di cui – da sempre – sono protagoniste non solo le parti, ma soprattutto il giudice che si rivolge all’attore e al convenuto (o ai loro difensori) per chiedere i chiarimenti necessari, e rileva d’ufficio le questioni di merito aventi ad oggetto fatti che producono i propri effetti di diritto e non sono individuatori, ma soprattutto la quaestio juris su cui decide – sempre – in modo del tutto autonomo dalle indicazioni, anche concordi, dei partecipanti al processo (art. 101, secondo comma, Cost.).

 

2. La tutela massima come obiettivo del processo civile

Il processo di primo grado è uno degli aspetti su cui la recente riforma ha maggiormente inciso[1]. È stata profondamente innovata la disciplina di svolgimento del cd. rito ordinario contenuta nel titolo primo del secondo libro del codice di rito (agli artt. 163 ss.); inoltre è stato introdotto il procedimento semplificato di cognizione regolato dagli artt. 281-decies fino a 281-terdecies cpc (collocati all’interno del nuovo capo III-quater dello stesso titolo primo del secondo libro del cpc).

Premessa indispensabile all’analisi delle nuove disposizioni che regolano il processo civile di primo grado è il richiamo a una serie di principi costituzionali, che sono anche principi dell’ordinamento europeo e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che permeano il processo civile e che devono trovare attuazione sempre, a prescindere dal modello di processo in vigore, anche a costo di superare le regole vigenti.

Vorrei iniziare ricordando che lo scopo del processo civile resta sempre quello di apprestare una tutela effettiva, e cioè, per usare la nota definizione elaborata da Chiovenda, «dare a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire sulla base della legge sostanziale». Questo principio, recepito a livello normativo dall’art. 24, primo comma, Cost., oggi ha una portata ancora più ampia, essendo espressamente enunciato all’art. 47 della Carta di Nizza (oltre che all’art. 6 della Cedu). E, forse, è opportuno ricordare che sul punto la Carta di Nizza ha avuto una portata solo ricognitiva di quanto già affermato dalla Corte di giustizia europea; in un’epoca in cui l’ordinamento europeo si disinteressava completamente del diritto processuale civile (ritenuto materia di competenza esclusiva degli Stati membri), la Cgue nella sentenza Johnston (1986), dando prova di un attivismo giudiziario senza precedenti, aveva affermato il principio-diritto alla tutela giurisdizionale effettiva (cui viene attribuito un rango equiparato alle norme sui trattati), precostituendosi uno strumento di cui si è sempre servita (e continua a servirsi) per assicurare il primato del diritto europeo, anche a costo di sacrificare regole e principi processuali degli Stati membri ammantati di sacralità[2].

Il principio della tutela effettiva è uscito rafforzato, o meglio, ampliato dalla elaborazione giurisprudenziale della Corte di cassazione, che da ormai quindici anni porta avanti indirizzi interpretativi molto estesi in punto di limiti oggettivi del giudicato. Limitando il richiamo agli arresti fondamentali, si ricordano Cass., sez. unite, 15 novembre 2007, n. 23726[3], in tema di divieto di frazionamento del credito (sia pure con i temperamenti messi a punto nel 2017 e nel 2021[4]); Cass., sez. unite, 11 aprile 2014, n. 8510[5], in tema di rimedi avverso l’inadempimento contrattuale; Cass., sez. unite, 12 dicembre 2014, n. 26242 e 26243[6], in tema di azioni di impugnativa contrattuale; Cass., sez. unite, 15 giugno 2015, n. 12310[7], in punto di modifica della domanda in uno con la successiva Cass., sez. unite, 13 settembre 2018, n. 22404[8] relativa al passaggio dall’azione di adempimento del contratto all’azione di arricchimento senza giusta causa.

Questa giurisprudenza, in un certo senso, ha condotto lo scopo del processo civile al di là della tutela effettiva; dal momento in cui, con riferimento a una determinata vicenda sostanziale, l’attore si vede dischiusa la possibilità di aprire un solo e unico processo, è indispensabile creare le condizioni affinché – se ha ragione – possa ottenere la tutela massima. 

 

3. I principi endoprocessuali: ragionevole durata del processo e contraddittorio 

Il processo civile deve dipanarsi nel rispetto di alcuni principi di valenza costituzionale interna e sovranazionale, che ne devono guidare l’intero svolgimento.

Innanzitutto, il principio della ragionevole durata, oggi espressamente enunciato dall’art. 111, comma 2 Cost., ma già prima contenuto nell’art. 6 Cedu (e poi ripreso nell’art. 47 della Carta di Nizza). Si tratta di un principio che deve essere declinato non solo in una prospettiva endoprocessuale, per cui è necessario contenere il tempo di svolgimento del processo in corso, in tutti i suoi gradi di giudizio, ma anche in una prospettiva extraprocessuale, per cui è necessario evitare che, con riferimento a una vicenda storica unitaria, la macchina giudiziaria sia attivata e riattivata a più riprese.

In secondo luogo, il principio del contraddittorio, enunciato dall’art. 111, comma 2, Cost. (ma vds. anche, prima, l’art. 6 Cedu e, poi, l’art. 47 della Carta di Nizza) e poi puntualizzato dall’art. 101 cpc, dalla cui lettura si evince che esso non solo assume rilevanza all’apertura del processo, ma deve trovare compiuta attuazione lungo tutto il corso di svolgimento della lite.

Su questo secondo profilo, il legislatore del 2022 è intervenuto modificando il testo dell’art. 101, secondo comma, cpc, in cui oggi si legge che «il giudice assicura il rispetto del contraddittorio e, quando accerta che dalla sua violazione è derivata una lesione del diritto di difesa, adotta i provvedimenti opportuni». A dire il vero, la previsione, per quanto preziosa, non ha carattere innovativo; in questa particolare accezione, la norma ha alle sue spalle i superiori principi del diritto di azione (art. 24, comma 1, Cost.) e di difesa (art. 24, comma 2, Cost.), collegandosi dunque al principio di uguaglianza sostanziale dei cittadini (art. 3, comma 3, Cost.). Qualsiasi processo deve essere ricostruito in modo da garantire il pieno sviluppo del diritto di azione e di difesa delle parti, poste in condizioni di parità. Ogni volta che si consente a una parte, o al giudice, di esercitare un potere processuale, occorre garantire alle altre parti l’esercizio dei poteri cd. consequenziali, eventualmente rimettendole anche in termini, ove nel frattempo siano maturate a loro carico preclusioni processuali. Si tratta di un principio che affonda le proprie radici nella Carta costituzionale e che, per questo, non lascia margine alcuno a una valutazione discrezionale del giudice[9]

Il principio del contraddittorio deve permeare l’intero processo civile, qualunque sia il modello adottato, anche oltre le espresse previsioni di legge. Allora, nessun processo deve essere ricostruito come una gabbia, come un insieme di forme e termini rigidi e insuperabili; al contrario, qualsiasi processo deve avere un certo grado di elasticità, perché questa è una componente indispensabile per assecondare la naturale evoluzione della lite, risultato – non sempre prevedibile – dell’incontro e dello scontro delle parti e poi delle parti e del giudice. 

 

4. Il nuovo rito ordinario: un processo di difficile gestione

Il nuovo processo di cognizione a rito ordinario si fonda su una fondamentale scelta: l’anticipazione rispetto alla prima udienza vuoi delle attività dell’ufficio volte alla verifica della regolare instaurazione del processo e in particolare del contraddittorio, vuoi dei poteri delle parti volti alla definizione del thema decidendum e del thema probandum, oltre alle richieste istruttorie. L’idea è che si arrivi all’udienza a carte scoperte, in modo che il giudice, dopo l’interrogatorio libero e non formale delle parti, possa procedere alla valutazione di ammissibilità e rilevanza dei mezzi di prova e alla fissazione del cd. calendario del processo.

Si tratta di un modello che presenta molteplici criticità; analiticamente: 

a) Il processo si apre con atto di citazione a comparire a udienza fissa (art. 163 cpc), da notificarsi al convenuto nel rispetto dei termini a difesa fissati dall’art. 163-bis cpc in misura pari a centoventi giorni, se la notificazione avviene in Italia e centocinquanta, se all’estero. Il convenuto deve costituirsi mediante deposito della comparsa di risposta almeno settanta giorni prima della data dell’udienza (art. 166 cpc). Nella comparsa tempestivamente depositata, il convenuto ha l’onere di prendere posizione «in modo chiaro e specifico» sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda (sul punto, vds. infra, par. 7); inoltre è previsto che, a pena di decadenza, debba proporre le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio, proporre le domande riconvenzionali e chiedere l’autorizzazione a chiamare in causa un terzo (art. 167 cpc). La disciplina degli atti introduttivi non ha subìto alcuna modifica di sostanza rispetto alla disciplina previgente.

b) In base al nuovo testo dell’art. 171-bis cpc, il giudice, entro quindici giorni dalla scadenza del termine per la costituzione del convenuto (art. 166 cpc), verificata d’ufficio la regolarità del contraddittorio, pronuncia quando occorre i provvedimenti previsti dagli artt.: 102, comma 2; 107; 164, commi 2, 3, 5 e 6; 167, commi 2 e 3; 171, comma 3; 182; 269, comma 2; 291; 292, e indica alle parti le questioni rilevabili d’ufficio di cui ritiene opportuna la trattazione. Anche questa parte rappresenta una novità, con riguardo alle condizioni di procedibilità della domanda e alla sussistenza dei presupposti per procedere con rito semplificato.

Quando pronuncia i provvedimenti di cui al primo comma, se necessario, fissa la nuova udienza per la comparizione delle parti, rispetto alla quale decorrono i termini per le memorie integrative indicati dal successivo art. 171-ter cpc.

Si tratta di verifiche che, nel vecchio processo a cognizione piena, il giudice era tenuto a svolgere in apertura della udienza di prima comparizione e trattazione, nel contraddittorio delle parti. È agevole osservare che, non avendo il legislatore modificato la disciplina degli istituti cui la norma fa riferimento, anche nel nuovo rito ordinario il giudice potrà continuare a rilevare le questioni indicate nell’ulteriore corso del processo, a partire dalla prima udienza in cui le parti compaiono di fronte a lui (alcuni di questi vizi, ad esempio il difetto di litisconsorzio necessario, possono essere rilevati addirittura nei gradi di impugnazione). In questo caso, non solo la prima udienza dovrà essere rinviata (affinché possa trovare attuazione il meccanismo di sanatoria), ma il principio del contraddittorio, dietro cui – come si è già detto – si scorgono il diritto di azione e di difesa, impone che alle parti originarie venga sempre assicurata la possibilità di esercitare i poteri cd. consequenziali all’avvenuta sanatoria (per cui, tanto per fare un esempio, se viene integrato il contraddittorio nei confronti del litisconsorte necessario pretermesso, questi potrà esercitare tutti i suoi poteri di difesa, ma poi le altre parti dovranno essere ammesse a svolgere i poteri assertivi e istruttori sorretti da esigenze legate alle difese del terzo).

La norma prevede anche che, in sede di verifiche preliminari, il giudice indichi alle parti le questioni rilevabili d’ufficio di cui ritiene opportuna la trattazione, le condizioni di procedibilità e la sussistenza dei presupposti per procedere con il rito semplificato. Le questioni rilevabili d’ufficio possono essere di rito (giurisdizione, competenza, legittimazione ad agire, interesse ad agire) oppure di merito (nullità del contratto), oppure può trattarsi della quaestio juris. Anche in questo caso, è facile rilevare che si tratta di questioni che il giudice potrà – anzi, talvolta, dovrà – rilevare anche nel prosieguo del processo, a partire dalla prima udienza, con conseguente necessità di attivazione del contraddittorio delle parti (sul punto, vds. infra, sub d).

Ancora, l’art. 171-bis, comma 3, cpc stabilisce che, se non provvede ai sensi del secondo comma, il giudice conferma o differisce, fino a un massimo di quarantacinque giorni, la data della prima udienza rispetto alla quale decorrono i termini indicati dall’art. 171-ter. Questa previsione apre scenari di grande incertezza, laddove il giudice ritardi il differimento della data dell’udienza in uno con i termini di cui all’art. 171-ter. I margini sono molto stretti, visto che il convenuto deve costituirsi settanta giorni prima della data dell’udienza (art. 166 cpc) e la prima memoria integrativa deve essere depositata almeno quaranta giorni prima della prima udienza (art. 171-ter, n. 1), per cui il giudice ha solo trenta giorni di tempo per il compimento delle verifiche preliminari ad esso demandate. 

Il rispetto del termine assegnato al giudice non può darsi per scontato, soprattutto nel caso di magistrati con ruoli sovraccarichi (e nonostante il supporto che sarà offerto sul punto dall’ufficio del processo). Del pari, non è affatto scontato che il giudice, anche se interviene tempestivamente, sia in grado di esaurire tutti i controlli relativi alla valida instaurazione del processo e indicare alle parti tutte le questioni rilevabili d’ufficio. Facilmente, se il convenuto non si è costituito, ordinerà la rinnovazione della notifica dell’atto di citazione; se il convenuto ha chiesto l’autorizzazione a chiamare in causa un terzo, provvederà con decreto a fissare la data della nuova udienza (art. 269, comma 2, cpc), ma per il resto ci possiamo attendere che queste attività – o almeno una parte di esse – siano probabilmente recuperate in udienza[10], e a quel punto dovranno aprirsi i poteri consequenziali delle parti (sul punto, vds. infra, sub d).

Se l’intervento del giudice avviene a primo e/o secondo termine scaduto, è verosimile che una o entrambe le parti abbiano già depositato le memorie di cui ai nn. 1 e 2 dell’art. 171-ter cpc; allora si apre la delicatissima questione relativa al se sarà necessario far ripartire da capo il giro delle memorie oppure se quelle già depositate potranno rimanere ferme (con il rischio che, se una sola delle parti le ha depositate, si creino situazioni di sperequazione).

Ancora, cosa accade se il giudice non conferma, né differisce la data dell’udienza? Probabilmente, al fine di evitare pericolosissime situazioni di stallo e incertezza (ricordiamo che la data dell’udienza è il dies a quo per il calcolo a ritroso dei termini perentori relativi al deposito delle memorie integrative di cui all’art. 171-ter cpc), è opportuno ritenere confermata la data stabilita originariamente dall’attore.

c) Nel nuovo modello di processo, il legislatore ha anticipato rispetto alla prima udienza anche l’attività di trattazione. Infatti, in base all’art. 171-ter cpc, le parti, a pena di decadenza, con memorie integrative, possono: 1) almeno quaranta giorni prima dell’udienza di cui all’art. 183, proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto o dal terzo, nonché precisare o modificare le domande, eccezioni e conclusioni già proposte. Con la stessa memoria l’attore può chiedere di essere autorizzato a chiamare in causa un terzo, se l’esigenza è sorta a seguito delle difese svolte dal convenuto nella comparsa di risposta; 2) almeno venti giorni prima dell’udienza, replicare alle domande e alle eccezioni nuove o modificate dalle altre parti, proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande nuove da queste formulate nella memoria di cui al n. 1), nonché indicare i mezzi di prova ed effettuare le produzioni documentali; 3) almeno dieci giorni prima dell’udienza, replicare alle eccezioni nuove e indicare la prova contraria.

Nel vecchio processo a cognizione piena, queste attività dovevano essere esercitate in udienza oppure (sia pure con riferimento limitato alla controreplica e alle richieste istruttorie) nelle tre memorie depositate dopo l’udienza (art. 183, comma 6, cpc, nel testo abrogato).

Rispetto alla disciplina previgente, sono certamente da segnalare una serie di scelte nell’ordine della semplificazione e razionalizzazione; il legislatore ha previsto infatti che è nella prima memoria che le parti devono, a pena di decadenza, proporre le nuove domande o modificare quelle già proposte, ove reso necessario dalle difese svolte dal convenuto. In tal senso, nel rito ordinario perderanno rilevanza le annose e delicatissime questioni legate alla distinzione tra mutatio ed emendatio libelli. Inoltre, nella terza memoria è espressamente prevista la possibilità di replica alle nuove eccezioni formulate nella memoria precedente.

Si deve, tuttavia, rilevare che le tre memorie potrebbero non essere sufficienti a consentire alle parti di dare pieno sfogo al diritto di azione e di difesa. Supponiamo che l’attore agisca in giudizio proponendo azione di consegna del bene, che il convenuto in via riconvenzionale chieda il pagamento del prezzo, che l’attore in prima memoria sollevi eccezione di compensazione e il convenuto eccezione di prescrizione in seconda memoria; se l’attore in terza memoria solleva una controeccezione, quale ad esempio quella di interruzione o sospensione della prescrizione, il principio del contraddittorio impone di consentire al convenuto di esercitare i poteri consequenziali, a partire dalle richieste di prova contraria. Tale potere potrebbe essere esercitato in una quarta memoria, ma considerati i tempi ristretti, più verosimilmente in udienza.

d) In udienza, a margine dell’interrogatorio libero e non formale delle parti, di nuovo reso obbligatorio, il giudice può esercitare i poteri ufficiosi. In particolare, il giudice rileverà questioni di rito (difetto di litisconsorzio necessario; difetto di competenza; difetto di giurisdizione) o di merito (ad esempio, la nullità della clausola vessatoria, la nullità del contratto), ma soprattutto la quaestio juris, perché dal confronto con le parti può maturare il convincimento che la norma generale e astratta sotto cui sussumere la fattispecie dedotta in giudizio sia diversa da quella inizialmente indicata, oltre naturalmente ai poteri istruttori, l’unica possibilità che il legislatore ha espressamente contemplato (art. 183, comma 5, cpc). Può trattarsi di poteri che il giudice ha mancato di esercitare in sede di verifiche preliminari, o il cui esercizio è stato sollecitato dalle risposte offerte dalle parti in sede di interrogatorio libero (si pensi all’eccezione di difetto di litisconsorzio necessario), ma soprattutto dalle attività svolte nelle memorie integrative (ad esempio, in relazione alle domande nuove o modificate, oppure alle nuove eccezioni). In tutti questi casi, si impone comunque l’attivazione del contraddittorio delle parti e cioè l’apertura dei poteri consequenziali, sebbene molto incisivi; è noto, ad esempio, che la riqualificazione giuridica della fattispecie ha riflessi significativi sulla composizione della fattispecie giuridica, per cui potrebbe rendersi necessario consentire alle parti l’esercizio di poteri assertivi, di contestazione e istruttori (per esempio: proposta azione di adempimento del contratto, se il giudice rileva la nullità, all’attore si dovrà consentire di modificare l’originaria domanda per chiedere l’arricchimento senza giusta causa; di conseguenza, si dovrà consentire a entrambe le parti di adeguare il quadro fattuale e probatorio).

A fronte del silenzio mantenuto dal legislatore, si può ritenere che le parti possano svolgere i propri poteri direttamente in udienza, ma, più verosimilmente, il giudice dovrà fissare termini per il deposito di un doppio giro di memorie, sulla falsariga di quanto espressamente previsto dall’art. 101, comma 2, seconda parte, ma anche dall’art. 183, ult. comma, cpc, in riferimento specifico ai poteri istruttori d’ufficio. In tal caso, si registra una sorta di ritorno al passato, ovvero all’appendice scritta di cui al testo abrogato dell’art. 183, comma 6, cpc.

e) Grossissimi problemi si avranno nel caso in cui l’attore in prima memoria (art. 171-ter, n. 1, cpc) chieda l’autorizzazione a chiamare in causa un terzo; in base all’art. 183, comma 2, cpc, il giudice provvede solo in udienza e dunque a valle dello scambio delle memorie integrative di cui all’art. 171-ter cpc. L’art. 269, comma 3, cpc stabilisce infatti che il giudice sposta la data della prima udienza in modo che al terzo siano assicurati i termini a difesa di cui all’art. 163-bis, che il terzo debba costituirsi nel termine di cui all’art. 166 e che rispetto alla nuova udienza decorrono i termini di cui all’art. 171-ter cpc per il deposito delle memorie integrative, sia pure con la precisazione che per le parti rimangono ferme le preclusioni maturate anteriormente alla chiamata in causa del terzo.

Volendo tradurre in pratica le precedenti norme, possiamo tranquillamente prevedere che non solo il processo subirà una corposa battuta di arresto (la prima udienza sarà di mero rinvio e la seconda udienza dovrà slittare di almeno centoventi giorni, più qualche altro giorno per il compimento delle operazioni di notifica), ma il giudice si troverà costretto a destreggiarsi tra le prime sei memorie depositate dalle parti originarie alla vigilia della prima udienza e le altre sei depositate dall’attore chiamante e dal terzo chiamato prima della seconda udienza. La circostanza che il processo prenda avvio in tempi sfalsati per le parti originarie e per il terzo, ma soprattutto che vi siano due giri di memorie integrative, ne appesantisce molto la partenza, in particolare per il giudice che, prima dell’udienza, deve studiarsi e mettere insieme due atti di citazione, due comparse di risposta e almeno dodici memorie integrative, per un totale di sedici atti.

La ragionevolezza suggerirebbe (e suggerisce) che, a seguito della richiesta dell’attore in prima memoria di essere autorizzato a chiamare in causa il terzo, il giudice arresti lo scambio delle memorie, autorizzi l’attore e fissi subito una nuova udienza allo scopo di consentire la chiamata del terzo nel rispetto dei termini di cui all’art. 163-bis cpc; in tal modo, oltre a evitare una inutile udienza di rinvio, si avrà un solo giro di memorie per tutte le parti. 

f) Il groviglio è destinato a complicarsi sino all’inverosimile se il terzo chiamato decide di chiamare in causa un quarto (circostanza ricorrente, ad esempio, in materie complesse come gli appalti), giacché l’art. 271 cpc stabilisce che al terzo (primo chiamato) si applicano, con riferimento all’udienza per la quale è citato, le disposizioni degli artt. 166, 167, comma 1[11], e 171-ter. Dopodiché dice che, se intende chiamare in causa un ulteriore quarto, deve farne dichiarazione a pena di decadenza nella comparsa di risposta ed essere poi autorizzato dal giudice a norma dell’art. 269, comma 3, cpc. Volendo tradurre questi richiami, lo scenario che ci troviamo davanti rasenta l’assurdo: se il terzo è stato chiamato dall’attore, c’è una prima udienza di rinvio a centoventi giorni per la chiamata del terzo (a questo punto, il giudice ha già sul tavolo sedici atti); poi, sulla richiesta di chiamata in causa del quarto, il giudice provvede solo nella seconda udienza, rinviandola di almeno altri centoventi giorni (per cui, dalla data originariamente fissata dall’attore ed, eventualmente, confermata dal giudice, con due balzi, l’udienza si sposta di almeno duecentoquaranta giorni), il quarto si dovrà costituire almeno settanta giorni prima della terza udienza e da questa decorrono, ancora volta, i termini del 171-ter cpc per il deposito del terzo giro di memorie integrative. In questo caso il giudice, prima ancora di aver incontrato le parti e di averle interrogate, avrà sul tavolo ben ventiquattro atti (tre citazioni, tre comparse di risposta, diciotto memorie integrative). Oltretutto, in queste ipotesi di chiamate cd. “a catena”, spesso i diritti che ne costituiscono l’oggetto traggono origine da un fatto unico (ad esempio, il vizio dell’opera), per cui non si può escludere che rispetto a ogni chiamata anche le altre parti (diverse da chiamante e chiamato) possano avere interesse a depositare memorie integrative per replicare e controreplicare alle difese svolte dall’ultimo arrivato. In tal caso, il numero delle memorie depositate è destinato a moltiplicarsi in maniera esponenziale (se è il convenuto a chiamare in causa il terzo e questo chiama un quarto, i numeri sono più contenuti ma comunque pesanti – una sola udienza di rinvio, e ventuno atti).

Anche in questo caso, la ragionevolezza avrebbe imposto una soluzione diversa; sarebbe stato sufficiente che l’art. 271, anziché l’art. 269, comma 3, relativo alla chiamata del terzo su istanza dell’attore, avesse richiamato l’art. 269, comma 2, cpc, relativo alla chiamata su iniziativa del convenuto, perché in tal caso il giudice, a fronte della chiamata del quarto, avrebbe provveduto immediatamente allo spostamento per tutti della data dell’udienza e i termini delle memorie integrative sarebbero scattati per tutti una sola volta.

g) Un’ulteriore criticità riguarda l’art. 183-bis cpc, relativo all’ordine di mutamento di rito, da rito ordinario a rito semplificato. Infatti, in base all’art. 171-bis cpc, il giudice, già in sede di verifiche preliminari, segnala alle parti la presenza dei presupposti per procedere nelle forme del rito semplificato, ma solo in udienza, valutata la complessità della lite e dell’istruzione probatoria, e in ogni caso quando sussistono le condizioni di cui all’art. 281-decies, comma 1, cpc, sentite le parti, dispone con ordinanza non impugnabile la prosecuzione nelle forme del procedimento semplificato di cognizione (art. 281-duodecies, comma 1, c.p.c.). La scelta di posticipare il passaggio di rito all’udienza, e cioè dopo il giro delle memorie integrative, rende la previsione priva di significato; nel momento in cui si è giunti in udienza, non ha alcun senso il passaggio al rito semplificato perché il thema decidendum e il thema probandum sono ormai fissati, per cui delle due l’una: o la causa è già matura per la decisione (fatti non contestati, prove solo documentali) e allora il giudice può avviare la causa in fase decisoria, eventualmente fissando la data della discussione orale (art. 275-bis o 281-sexies cpc, a seconda che la decisione sia collegiale o monocratica), oppure deve aprirsi la fase istruttoria (prove di pronta soluzione o istruttoria non complessa) e allora il passaggio è del tutto inutile, visto che nei due processi l’assunzione delle prove è governata dalle stesse norme.

Anche in questo caso, la soluzione ragionevole sarebbe (ed è) diversa: il giudice che rileva la presenza dei presupposti per il mutamento di rito in sede di verifiche preliminari attiva subito il contraddittorio delle parti (fissando i termini per il deposito di note scritte) e dispone il passaggio di rito a monte dello scambio delle memorie integrative[12].

h) Allo scopo di favorire la conclusione anticipata del processo, snellendo la fase decisoria, il legislatore ha introdotto, all’art. 183-ter, la nuova ordinanza di accoglimento e, al successivo art. 183-quater cpc, l’ordinanza di rigetto della domanda. Si tratta di due provvedimenti che possono essere emessi dal tribunale, su richiesta di parte, e solo nell’ambito di processi aventi ad oggetto diritti disponibili.

L’ordinanza di accoglimento ha come presupposto la prova dei fatti costitutivi e la manifesta infondatezza delle difese del convenuto. L’ordinanza è titolo esecutivo e, se non reclamata (art. 669-terdecies cpc), oppure se il reclamo è respinto, definisce il giudizio. L’ordinanza è totalmente priva di attitudine ad acquistare l’autorità della cosa giudicata (art. 2909 cc), né la sua autorità potrà essere invocata in ulteriori giudizi. La sua utilità risiede unicamente nel fatto che consente al creditore di accelerare i tempi per il soddisfacimento della sua pretesa. Stante la non attitudine al giudicato, tuttavia, non impedirà né all’attore né al convenuto di aprire, con riferimento al medesimo rapporto giuridico, un secondo e autonomo processo.

L’art. 183-quater cpc prevede l’ipotesi speculare, ovvero l’ordinanza di rigetto. Il provvedimento, che potrà essere emanato solo in udienza, ha per presupposto la manifesta infondatezza della domanda oppure la mancata sanatoria della nullità della citazione per omissione o assoluta incertezza del requisito di cui al n. 3) dell’art. 163, comma 3, cpc, o la persistente mancanza dell’esposizione dei fatti di cui al n. 4 dello stesso art. 163, a seguito dell’ordine di rinnovazione della citazione o integrazione della domanda (su questo punto, si rende necessario un coordinamento con l’art. 164, quarto e quinto comma cpc). È facile immaginare che questa previsione troverà scarsissimo riscontro nella pratica: l’ordinanza di rigetto è totalmente inidonea ad acquistare l’autorità della cosa giudicata, per cui è prevedibile che il convenuto non ne chiederà l’emanazione, preferendo aspettare il tempo di chiusura del processo con sentenza idonea ad acquistare l’autorità della cosa giudicata in modo da trovarsi al riparo dal rischio di riproposizione della domanda[13].

i) Infine, avuto riguardo alla fase decisoria, il legislatore, dopo aver dichiarato l’intenzione di semplificarla e abbatterne i tempi, da una parte ha abrogato l’udienza di precisazione delle conclusioni, ma dall’altra ha rispolverato l’udienza di rimessione della causa in fase decisoria, la “vecchissima” collegiale di tribunale, una sorta di udienza-farsa abrogata dal legislatore del 1990, senza il rimpianto di nessuno.

Rispetto alla collegiale di tribunale, un miglioramento c’è nella misura in cui, anche se la decisione è collegiale, il giudice istruttore fissa davanti a sé l’udienza per la rimessione al collegio (art. 189, comma 1, cpc), ma – comunque – resterà una farsa (forse, si tratta di uno dei rarissimi casi in cui gli avvocati potrebbero chiedere al giudice lo svolgimento dell’udienza in forma cartolare (art. 127-ter)[14].

A parte questo, vale la pena richiamare l’attenzione sul fatto che la nuova disciplina, che ha conservato i tre modelli decisori del sistema precedente, per un verso ha disposto, nel modello a trattazione scritta, una serie di tre termini pari a sessanta, trenta e quindici giorni per il deposito delle note contenenti la precisazione delle conclusioni, le comparse conclusionali e le memorie di replica, termini che però devono essere calcolati all’indietro a partire dalla data dell’udienza (art. 189 cpc), ma per altro verso ha affidato al giudice un potere assolutamente discrezionale nella fissazione della data dell’udienza di rimessione in decisione (artt. 189, 275 per la decisione collegiale e 281-quinquies cpc per la decisione monocratica) o di discussione orale della controversia (artt. 275-bis per la decisione collegiale e 281-sexies cpc per la decisione monocratica). Col che, è evidente che il legislatore ha lasciato all’ufficio le mani completamente libere nell’organizzazione della propria agenda: anche in questo snodo, che comunemente viene indicato come il “collo di bottiglia” del processo civile, non ci possiamo attendere – dunque – alcuna riduzione dei tempi processuali.

Una chiosa finale: il rito ordinario, in quanto pesantemente riformato, è destinato a porre una serie di nuove delicatissime questioni interpretative; questo sarà fonte inevitabile di incertezze e rallentamenti in attesa che, con il tempo, le giuste soluzioni siano individuate e possano consolidarsi (anche con l’intervento della Suprema corte).

 

5. Il nuovo procedimento semplificato di cognizione: funzione e struttura 

Dalla lettura della legge delega e dei lavori preparatori relativi al cd. procedimento semplificato di cognizione, si può avere l’impressione che sussista un legame con il procedimento sommario di cognizione di cui agli ormai abrogati artt. 702-bis ss. cpc.

Sulla esatta natura del procedimento sommario di cui all’art. 702-bis ss. si era a lungo discusso; ma, ad onor del vero, l’opinione maggioritaria si era assestata sull’idea che, aldilà della sua denominazione, si trattasse di un procedimento a cognizione piena, sia pure destinato a svolgersi in forme semplificate[15]. Questa prospettazione si prestava a essere condivisa oppure no, a seconda della nozione di “cognizione piena” cui si aderisse; però chi muove dal principio secondo cui la caratteristica principale della cognizione piena è rappresentata dalla rigida predeterminazione a livello legale delle forme e dei termini di svolgimento del processo[16], faceva fatica a condividere l’idea che potesse rientrarvi un procedimento in cui, per espressa previsione dell’art. 702-ter, comma 5, cpc, «alla prima udienza il giudice, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto e provvede con ordinanza all’accoglimento o al rigetto delle domande». È noto, infatti, che il legislatore del 2009, con una classica operazione di “copia e incolla”, non aveva fatto altro che riprodurre la formula dell’art. 669-sexies, primo comma, cpc in materia di procedimento cautelare generale, ossia la norma da cui si ricava, col massimo della chiarezza, la definizione di “cognizione sommaria”[17].

Per questo motivo, come rilevato dalla dottrina più accreditata, era probabilmente congruo ritenere che si trattasse di un procedimento non omogeneo, articolato in due distinte fasi: 

- la fase introduttiva, regolata dalla legge, che non solo dava indicazioni rigide sul contenuto degli atti introduttivi e sui termini a difesa, ma agganciava ad essi preclusioni perfettamente corrispondenti a quelle previste nel processo a cognizione piena; 

- la (eventuale) fase istruttoria e la fase decisoria, proprio in virtù di quanto stabilito nell’art 702-ter, comma 5, cpc sopra richiamato, totalmente deformalizzate, essendo rimessa a una decisione sostanzialmente discrezionale del giudice la fissazione delle regole di svolgimento del processo, con particolare riferimento alla materia istruttoria[18]. Infatti, è sempre stato pacifico che il giudice del sommario potesse acquisire le prove secondo modalità difformi da quelle stabilite nel secondo libro del codice di rito[19].

Il legislatore delegato non ha ripetuto nei nuovi artt. 281-decies fino a 281-terdecies cpc la formula presa a prestito dall’art. 669-sexies, primo comma, cpc. Al contrario, all’art. 281-duodecies, comma 5, cpc ha previsto che «il giudice ammette i mezzi di prova rilevanti per la decisione e procede alla loro assunzione»; e questo dato è sufficiente a sgombrare il campo da possibili dubbi o equivoci: dal momento in cui il giudice del semplificato acquisisce le prove, dovrà procedere in ottemperanza a quanto stabilito dalla legge (ovvero secondo le modalità stabilite dal II libro del codice di procedura civile e nei limiti fissati dal VI libro del codice civile)[20].

Diversamente, dunque, da ciò che si poteva intendere dal testo della legge delega, l’operazione messa a punto con l’introduzione del procedimento semplificato di cognizione non si può ridurre a un semplice cambio di denominazione e collocazione. Infatti, mentre il procedimento sommario di cognizione si configurava come un rito speciale di cognizione a trattazione sommaria, il nuovo procedimento semplificato di cognizione è un processo a cognizione piena, sia pure destinato a svolgersi secondo modalità non coincidenti con quelle del rito ordinario.

Nel quadro delineato dalla riforma, il procedimento semplificato di cognizione è alternativo rispetto al processo a rito cd. ordinario. Si tratta di uno strumento che l’ordinamento mette a disposizione dell’attore, il quale potrà scegliere se agire nelle forme ordinarie proponendo la domanda con atto di citazione oppure nelle forme semplificate con ricorso. Il convenuto non ha lo spazio per condizionare tale scelta; al contrario, il giudice potrà sempre disporre il passaggio dal rito ordinario al rito semplificato (art. 183-bis cpc) o viceversa (art. 281-duodecies, comma 1, cpc), «valutata la complessità della causa e dell’istruzione probatoria».

Siamo di fronte a una forma di tutela atipica; infatti, dalla lettura degli artt. 281-decies ss. si evince che il procedimento si presta a essere utilizzato con riferimento a qualsivoglia situazione giuridica e a qualsiasi forma di tutela. In tale ultimo senso potranno essere avanzate domande di mero accertamento, domande di condanna, ma anche domande ulteriori di incerta collocazione, quali la domanda di esecuzione forzata in forma specifica dell’obbligo a contrarre, oppure le azioni di impugnativa negoziale del tipo annullamento, rescissione, risoluzione, come pure domande costitutive.

Anche la struttura è pienamente aderente alla funzione svolta: non è il giudice a dettare il tempo e il ritmo del processo, ma è la legge ad averne predeterminato le regole di svolgimento in tutte le sue fasi, ossia la fase di introduzione e trattazione, la fase istruttoria e la fase decisoria. Ci troviamo di fronte a un processo organizzato su una scansione di termini posti a pena di decadenza e ancorati tendenzialmente alla fase iniziale del processo. Infatti, a conclusione della prima udienza, o al massimo all’indomani del deposito delle memorie scritte di cui all’art. 281-duodecies, comma 3, cpc, dovranno risultare fissati sia il thema decidendum sia il thema probandum (comprese le richieste istruttorie). Nell’ulteriore corso del processo, le parti non potranno più essere ammesse a svolgere poteri assertivi o istruttori, a meno che non ricorrano i presupposti per una rimessione in termini.

 

6. L’ambito applicativo

I presupposti applicativi del rito semplificato di cognizione sono segnati innanzitutto all’art. 281-decies cpc: nel primo comma si fa riferimento alle ipotesi in cui i fatti di causa non sono controversi, oppure la domanda è fondata su prova documentale, o è di pronta soluzione o richiede un’istruzione non complessa; nel secondo comma, invece, si legge che, nei casi in cui il tribunale giudica in composizione monocratica, l’attore può sempre aprire il processo nelle forme del rito semplificato e dunque con ricorso (il che, come vedremo successivamente, non implica affatto che la causa poi debba necessariamente svolgersi in quelle forme).

Con riferimento all’ambito applicativo, si rendono necessarie due precisazioni[21]. In primo luogo, il nuovo rito semplificato può trovare applicazione in tutti i processi di competenza del tribunale, a prescindere dal fatto che siano soggetti a decisione monocratica oppure collegiale. L’unico impedimento alla utilizzazione del rito semplificato è rappresentato dalla circostanza che la lite sia soggetta a un rito speciale; infatti, l’art. 281-duodecies si limita a prevedere il passaggio al rito ordinario, con fissazione della data della prima udienza di cui all’art. 183 cpc.[22].

La seconda osservazione concerne le cause di competenza del giudice di pace; il legislatore ha infatti compiuto una scelta sicuramente conforme a criteri di ragionevolezza, e per questo condivisibile, modificando il testo dell’art. 316 cpc, in cui ora si legge che si applica il rito semplificato[23].

Tornando all’esame dell’ambito applicativo, i primi commentatori hanno distinto le ipotesi in cui l’applicazione è obbligatoria, corrispondenti alle previsioni del primo comma dell’art. 281-decies cpc, da quelle in cui è facoltativa, corrispondenti alla valutazione di complessità della lite e dell’istruzione probatoria, sulla cui base il giudice in udienza può disporre il passaggio al rito ordinario (art. 281-duodecies, primo comma, cpc).

Invero, l’unico criterio cui si correla l’applicazione del rito semplificato è proprio la «complessità della lite e dell’istruzione probatoria». L’attore, nel momento in cui propone la domanda giudiziale, non è in grado di valutare l’esistenza delle condizioni di cui all’art. 281-decies, comma 1, cpc (fatti costitutivi non controversi, prova documentale o di pronta soluzione, istruzione non complessa), che, dovendo investire anche le difese del convenuto, ne presuppongono l’avvenuta costituzione; invece, secondo quanto è dato desumere dalla previsione del successivo art. 281-duodecies, comma 1, cpc, sarà il giudice in udienza a valutare la sussistenza delle condizioni per disporre il passaggio al rito ordinario. Rispetto alla clausola generale della complessità della lite e dell’istruzione, le condizioni indicate dall’art. 281-decies, comma 1, cpc altro non sono che ipotesi specifiche, nella misura in cui si tratta di casi in cui la causa può essere decisa nel merito senza alcuna istruttoria oppure sulla base di un’istruttoria non complessa. Tali presupposti rendono dunque obbligatorio il passaggio di rito, senza peraltro essere idonei a segnare i confini di operatività dell’istituto. 

L’esatto significato del criterio della «complessità della lite e dell’istruzione probatoria», che sovraintende anche il passaggio in senso inverso, e cioè da rito ordinario a rito semplificato (art. 183-bis. cpc), dovrà essere sciolto dalla giurisprudenza. Tuttavia, è possibile sin da ora ritenere che, ai fini di un’istruzione complessa, non sia sufficiente la richiesta di assunzione di una o più prove testimoniali o di una ctu. Per contro, l’istruttoria dovrà ritenersi complessa a fronte di un poderoso numero di richieste istruttorie che renda necessario la fissazione di un ampio e articolato calendario del processo.

Quanto alla complessità della lite, richiamata dall’art. 281-duodecies, primo comma, ma non anche dall’art. 281-decies cpc, è stato suggerito che possa derivare non solo dal numero delle questioni di rito o di merito rilevate, ma anche dalla complessità delle questioni di diritto oppure dalla pluralità delle domande proposte o delle parti evocate in giudizio[24].

Si tratta, in ogni caso, di valutazioni rimesse totalmente alla discrezionalità del giudice; la scelta, qualunque essa sia, non potrà costituire motivo di invalidità della sentenza, dovendosi escludere sul punto il sindacato del giudice dell’impugnazione.

In una prospettiva dinamica, il criterio della ragionevolezza impone due considerazioni. In primo luogo, considerato che la parte maggiormente interessata al mutamento di rito è il convenuto che ha torto (la complessità del rito ordinario potrebbe essere utile per guadagnare tempo), il giudice dovrà vagliare con particolare attenzione la reale consistenza delle difese, probabilmente piuttosto articolate, da quest’ultimo svolte. In secondo luogo, ove rilevi subito la fondatezza di una questione preliminare di merito o pregiudiziale di rito idonea a definire il processo, lo stesso giudice dovrà immediatamente rimettere la causa in fase decisoria, prescindendo dalla valutazione di complessità o meno della lite e dell’istruzione.

Quanto alla previsione contenuta nel secondo comma dell’art. 281-duodecies, secondo cui, nelle cause in cui il tribunale decide in composizione monocratica, la domanda può sempre essere proposta nelle forme del semplificato, è opportuno tenere distinte le modalità di presentazione della domanda da quelle relative alle modalità di svolgimento del processo. Invero, anche se nelle controversie soggette a decisione monocratica l’attore ha il diritto di avviare il processo nelle forme semplificate, resta fermo che sarà poi il giudice a valutare, in base al disposto dell’art. 281-duodecies, comma 1, cpc, se disporre o meno il mutamento di rito.

Allora, si tratta di una previsione priva di significato normativo poiché l’attore può sempre scegliere il circuito in cui immettere la causa, a prescindere dal fatto che la causa sia soggetta a decisione monocratica o collegiale; ma, ove il giudice ritiene che la scelta non sia conforme a quanto previsto dalla legge, disporrà il passaggio di rito e il processo proseguirà. La scelta del rito, cui si aggancia la forma dell’atto introduttivo (ricorso o atto di citazione), non è motivo di invalidità della domanda.

 

7. L’atto introduttivo

Il procedimento si apre con ricorso sottoscritto ai sensi dell’art. 125, e contenente le indicazioni di cui ai nn. 1), 2), 3), 3)-bis, 4), 5), 6) e l’avvertimento di cui al n. 7 dell’art. 163 (naturalmente, dovrà farsi riferimento all’art. 281-undecies cpc anziché agli artt. 166 e 167 cpc); dunque, a eccezione della data dell’udienza, vi è una perfetta corrispondenza di contenuto tra il ricorso introduttivo del procedimento semplificato e l’atto di citazione introduttivo del processo a rito ordinario (vds. supra, par. 4, sub a). 

Naturalmente si dovrà applicare il testo riformato dell’art. 163, per cui, in base al nuovo n. 4), il ricorso deve contenere «l’esposizione in modo chiaro e specifico dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda».

I requisiti di chiarezza, sinteticità e specificità sono stati inseriti anche in ulteriori disposizioni del codice, a cominciare dall’art. 121 cpc, che in tema di libertà delle forme stabilisce, al secondo comma, che «tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico». Tuttavia, il legislatore non ha minimamente modificato la disciplina degli artt. 156 ss. in tema di nullità degli atti processuali, dal che si deve desumere, senza ombra di dubbio, che il metro su cui continuerà a essere valutata la validità/non nullità degli atti è il raggiungimento dello scopo.

All’attuale testo dell’art. 163, comma 3, n. 4, cpc si correla il nuovo testo dell’art. 167, comma 1, cpc e del corrispondente art. 281-undecies, comma 3, cpc con particolare riferimento alla previsione secondo cui il convenuto deve prendere posizione, «in modo chiaro e specifico, sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda».

La corrispondenza tra le due disposizioni è quantomai opportuna e deve essere salutata con favore; l’attività assertiva e l’attività di contestazione costituiscono l’esercizio del medesimo potere. Inoltre, l’onere di contestazione specifica (art. 115 cpc) deve essere calibrato sulla specificità delle allegazioni della controparte: tanto più specificamente è stata svolta l’attività assertiva, tanto più specificamente dovrà essere svolta l’attività di contestazione.

In ogni caso, il legislatore ha lasciato invariato il testo dell’art. 164 cpc, per cui, ancora oggi, l’atto di citazione è nullo solo quando risulta mancante l’esposizione dei fatti di cui al n. 4 dell’art. 163 cpc; anche in questo caso, dunque, la mancanza di chiarezza e specificità non avrà conseguenze sulla validità dell’atto di citazione o del ricorso, almeno nei limiti in cui non si traduca nell’omessa indicazione dei fatti costituenti le ragioni della domanda.

Insomma, la chiarezza e sinteticità degli atti ha quasi il sapore di uno slogan, è una previsione di carattere più pedagogico che giuridico in senso stretto[25].

Nonostante il silenzio serbato dalla legge, si deve ritenere che il regime di eventuali nullità del ricorso debba essere ricostruito tramite l’applicazione analogica dell’art. 164 cpc, relativo all’atto di citazione. Riducendo le osservazioni al minimo, diciamo che, ove risulti la mancanza o l’assoluta incertezza del giudice o delle parti, si ha nullità sanabile con efficacia retroattiva a seguito di costituzione spontanea del convenuto o della notificazione al convenuto non costituitosi del ricorso rinnovato e del decreto di fissazione della nuova prima udienza. La mancanza o l’assoluta incertezza del diritto fatto valere in giudizio è causa di nullità rilevabile d’ufficio, anche se il convenuto si sia costituito; non è mai sanabile con la costituzione del convenuto; è sanabile con efficacia ex nunc solo a seguito di rinnovazione o integrazione del ricorso entro il termine perentorio fissato dal giudice in prima udienza, con possibilità di chiusura in rito solo nel caso in cui l’integrazione-rinnovazione non sia effettuata entro tale termine. 

Infine, merita di essere segnalato che, molto opportunamente, il legislatore ha modificato il testo dell’art. 2658 cc in cui – ora – si legge che «quando la domanda giudiziale si propone con ricorso, la parte che chiede la trascrizione presenta copia conforme dell’atto che la contiene munita di attestazione della data del suo deposito presso l’ufficio giudiziario». Si tratta di una previsione che ha lo scopo di evitare che i tempi necessari all’ufficio giudiziario per la fissazione della data dell’udienza operino a danno dell’attore. Vi è un unico profilo che desta qualche perplessità, e cioè la circostanza che, al momento della trascrizione, il convenuto non sia ancora a conoscenza dell’avvenuta apertura del processo[26].

 

8. La riduzione dei termini a difesa e di costituzione del convenuto

In base all’art. 281-undecies, comma 2, cpc, il giudice, entro cinque giorni dal deposito del ricorso, fissa la data della prima udienza con decreto in calce al ricorso, assegnando al convenuto un termine non inferiore a dieci giorni per la costituzione[27]. Il ricorso e il decreto contenente la fissazione della data dell’udienza devono essere notificati al convenuto su iniziativa dell’attore; tra il giorno della notifica e quello della prima udienza devono intercorrere termini liberi non inferiori a quaranta giorni, se la notifica avviene in Italia, e a sessanta se avviene all’estero.

A uno sguardo inesperto, potrebbe sembrare che il legislatore abbia inteso velocizzare i tempi della fase introduttiva, ma si tratta di un’impressione errata. 

Il legislatore, una volta ancora, non ha imposto alcun termine al giudice, che resta libero nell’organizzazione della propria agenda. La data della prima udienza potrà essere fissata anche a distanza di mesi o anni, e da quella data decorreranno a ritroso i termini a difesa e di costituzione del convenuto; ma a ciò non corrisponderà necessariamente un’accelerazione della fase introduttiva, giacché questo risultato dipenderà dall’organizzazione del singolo giudice (oltre che dalla pesantezza del suo ruolo).

Oltretutto, diversamente da quanto stabilito nel rito lavoro (art. 415, comma 4, cpc), non si è previsto a carico dell’attore un termine entro cui procedere alla notificazione del ricorso e del decreto al convenuto, per cui laddove l’udienza sia stata fissata a mesi o anni di distanza, il ricorrente potrà comunque attivarsi all’ultimo momento, giusto in tempo per non violare il termine a difesa del convenuto.

Questa previsione desta non poche perplessità. Nel rito semplificato, il convenuto, per non incorrere nelle decadenze indicate nel successivo art. 281-undecies, comma 3, cpc, ha l’onere di costituirsi in giudizio almeno dieci giorni prima della data dell’udienza e da ciò, considerato che il termine a difesa è di quaranta giorni, si desume che egli può contare solo su trenta giorni per organizzare la propria difesa. Come vedremo in seguito, se il giudice dispone il passaggio al rito ordinario, il convenuto non avrà la possibilità di recuperare il più ampio termine previsto nell’altro modello di processo che, come già spiegato, ammonta a cinquanta giorni. 

Si tratta di una scelta che può creare difficoltà al convenuto, visto che nella comparsa tempestivamente depositata è tenuto a esercitare – a pena di decadenza – i suoi poteri difensivi più incisivi. La norma stabilisce, infatti, che deve prendere posizione in modo chiaro e specifico sui fatti posti dall’attore a fondamento della propria domanda, indicare i mezzi di prova di cui intende avvalersi e i documenti che offre in comunicazione, nonché formulare le conclusioni, ma, a pena di decadenza, deve anche proporre le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito che non sono rilevabili d’ufficio.

Anche se intende chiamare in causa un terzo, deve, a pena di decadenza, farne dichiarazione nella comparsa di risposta (tempestivamente depositata) e chiedere lo spostamento della data della prima udienza. In tal caso, il giudice, con decreto comunicato dal cancelliere alle parti costituite, fissa la data della nuova udienza assegnando un termine perentorio per la citazione del terzo. La costituzione del terzo avviene a norma del terzo comma dell’art. 281-undecies[28]

La circostanza che, fatta salva la forma dell’atto introduttivo del processo, il sistema di preclusioni legato agli atti introduttivi del procedimento semplificato corrisponda pienamente a quello previsto per il rito ordinario (vds. supra, par. 4, sub a), si collega alla previsione del mutamento di rito, rispondendo all’esigenza di evitare che, nel passaggio dall’uno all’altro, il processo torni indietro col rischio che venga scardinata l’architettura del sistema.

 

9. La prima udienza. Le necessarie verifiche preliminari

La disciplina dell’udienza trova collocazione nell’art. 281-duodecies cpc, dedicato al «Procedimento». La disposizione, fatto salvo il primo comma relativo alla conversione del rito, presenta più di un’affinità con il testo dell’art. 183 nella formulazione anteriore alla riforma, anche se in senso peggiorativo nella misura in cui mancano una serie di previsioni che, però, dovranno essere – necessariamente – reintegrate in via interpretativa.

Per cominciare, la disposizione non fa alcuna menzione delle cd. verifiche preliminari ovvero il controllo della corretta e valida instaurazione del processo. Si tratta di una lacuna che, evidentemente, dovrà essere recuperata. È ragionevole ritenere che in udienza il giudice, d’ufficio, verifichi la regolare attivazione del contraddittorio, disponendo, se del caso, i provvedimenti di cui all’art. 291, comma 1, e 164, commi 2 e 3 cpc. Se rileva la nullità del ricorso per vizi relativi alla edictio actionis, disporrà le sanatorie di cui all’art. 164, comma 5, cpc (o 167, comma 2, se la stessa nullità viene rilevata con riferimento alla domanda riconvenzionale); se rileva la eventuale esistenza di vizi di rappresentanza (anche tecnica), dovrà disporre le necessarie sanatorie in adesione a quanto previsto all’art. 182 cpc; potrà ordinare l’intervento in causa di un terzo ai sensi dell’art. 107 oppure disporre l’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 102 cpc, ove rilevi l’esistenza di un litisconsorte necessario pretermesso. Inoltre, dovrà altresì procedere al controllo delle condizioni di procedibilità della domanda (mediazione obbligatoria, negoziazione assistita).

Naturalmente, il giudice procederà altresì alla verifica della propria giurisdizione e competenza. Quanto alla giurisdizione, il giudice che la declini chiuderà il processo con sentenza suscettibile di essere impugnata con appello. Analogamente, il giudice chiuderà subito il processo con sentenza di rito laddove accerti il difetto di un requisito extraformale relativo alle parti, non suscettibile di sanatoria (ad esempio, il difetto di legittimazione ad agire o il difetto di interesse) oppure non sanato. Il provvedimento sarà suscettibile di impugnazione nei modi ordinari, e dunque tendenzialmente con appello.

Se rileva la propria incompetenza, dovrà immediatamente disporre la chiusura del processo con ordinanza (art. 279, primo comma, cpc), suscettibile di essere impugnata tramite regolamento necessario di competenza (art. 42 cpc). Se il tribunale adito nelle forme del procedimento semplificato rileva che la competenza appartiene al giudice di pace, non si pone alcun problema visto che, in base all’art. 316 cpc riformato, anche di fronte al giudice onorario il processo si svolge nelle forme del rito semplificato. Quanto alla dichiarazione di incompetenza a favore di altro tribunale, è opportuno che il primo giudice declini immediatamente la propria competenza, lasciando che sia il giudice ad quem a risolvere la questione del rito applicabile (la medesima soluzione vale anche in ipotesi di translatio dal giudice di pace al tribunale, ove la causa sia complessa).

In base all’art. 281-duodecies, comma 1, alla prima udienza il giudice valuta se con riferimento alla domanda principale o all’eventuale domanda riconvenzionale ricorrono i presupposti di cui al primo comma dell’art. 281-decies e, se del caso, dispone con ordinanza non impugnabile la prosecuzione del processo nelle forme del rito ordinario, fissando l’udienza di cui all’art. 183 (sul punto, vds. infra, par. 10). Nello stesso modo procede se, valutata la complessità della lite e dell’istruzione probatoria, ritiene che la causa debba essere trattata con il rito ordinario.

In entrambi i casi, per le parti decorrono i termini per le memorie di cui all’art. 171-ter cpc rispetto alla nuova udienza.

Dunque, nel passaggio dal rito semplificato al rito ordinario, le parti conservano intatti i poteri assertivi e probatori, il cui esercizio dovrà avvenire a pena di decadenza nei termini stabiliti dall’art. 171-ter cpc, calcolati a ritroso rispetto alla data dell’udienza di cui all’art. 183 cpc. 

Resta ferma, invece, la perdita dei termini a difesa del convenuto, che nel rito semplificato – come detto – ha a disposizione trenta giorni di tempo per depositare la comparsa di risposta, mentre nel rito ordinario ne avrebbe cinquanta. Si tratta di un punto sensibile e delicatissimo, visto che al tempestivo deposito della comparsa di risposta si legano le preclusioni relative ai poteri più incisivi del convenuto (domanda riconvenzionale, eccezioni in senso stretto e chiamata in causa del terzo)[29].

Il mutamento di rito viene disposto con ordinanza non impugnabile; questa previsione porta a ritenere che il provvedimento non sia suscettibile di revoca (art. 177, comma 2, n. 2, cpc) né di impugnazione tramite appello o ricorso straordinario per cassazione, stante il difetto del carattere definitivo e decisorio. Ancora, la scelta del rito non è sindacabile dal giudice dell’impugnazione, pertanto non potrà costituire motivo di impugnazione[30].

Un’ultima notazione. La distinzione tra cause semplici e cause complesse ha un senso, così come è del tutto ragionevole immaginare che la controversia possa essere immessa in circuiti diversi proprio in ragione di tale parametro. Quel che non è ragionevole è che la scelta iniziale sia rimessa all’attore, che ad essa si correli la forma dell’atto introduttivo, ma soprattutto l’ampiezza dei termini di costituzione e difesa del convenuto, potendo il giudice intervenire solo in un secondo momento. La ragionevolezza avrebbe suggerito una soluzione diversa e cioè l’apertura del processo in forme unitarie (non importa se con atto di citazione o con ricorso), l’attivazione del contraddittorio e una scelta in limine litis del circuito in cui immettere la causa da parte del giudice alla luce degli atti introduttivi del processo e previa attivazione del contraddittorio delle parti.

 

10. La domanda riconvenzionale (e la chiamata del terzo) 

Il legislatore ha espressamente disciplinato l’ipotesi in cui la domanda principale o quella riconvenzionale non si prestano a essere trattate nelle forme semplificate, optando per la necessaria conservazione del processo simultaneo cui sarà applicato il rito ordinario[31].

In verità, la soluzione nella sua assolutezza non è convincente. È noto che tra due domande possono intercorrere forme di connessione più o meno intense; la soluzione prescelta dal legislatore è certamente da approvare in ipotesi di connessione per pregiudizialità-dipendenza, stante il favor che l’ordinamento processuale mantiene per il processo cumulativo, come unica condizione idonea a evitare il formarsi di giudicati logicamente contraddittori. Al contrario, in presenza di forme di connessione blanda quali la connessione meramente soggettiva o quella per identità della causa petendi, la soluzione suscita qualche perplessità nella misura in cui si tratta di vincoli che mettono in campo solo un’esigenza di economia processuale e non anche di coordinamento delle decisioni. 

Allora, stante il potere del giudice di disporre sempre, in base all’art. 104, comma 2, nella parte in cui rinvia all’art. 103, comma 2, cpc, la separazione delle cause nel corso del processo, se si vuole favorire la rapida conclusione della lite non complessa, a prescindere dal fatto che si tratti della domanda principale o di quella riconvenzionale, si potrebbe anche immaginare che il giudice separi le cause, ordinando il mutamento del rito con riferimento limitato alla domanda avente ad oggetto la causa complessa.

A completamento del quadro tracciato, è utile segnalare anche la modifica apportata al testo dell’art. 40, comma 3, cpc, ove si legge che, «in caso di connessione ai sensi degli articoli 31, 32, 34, 35 e 36 tra causa sottoposta al rito semplificato di cognizione e causa sottoposta a rito speciale diverso da quello previsto dal primo periodo, le cause debbono essere trattate e decise con il rito semplificato di cognizione». In tal senso, nelle ipotesi indicate, se la causa soggetta a rito semplificato è connessa con altra causa soggetta a rito speciale diverso dal rito lavoro, si applica a entrambe il rito semplificato. Diversamente, se è connessa con altra causa di lavoro o previdenziale, si applica a entrambe il rito del lavoro.

Non è un caso che la regola si sovrapponga a quella stabilita per il rito ordinario. Abbiamo detto che si tratta di due riti a cognizione piena, alternativi l’uno all’altro, sicché la disciplina della deroga al rito applicabile per ragione di connessione deve essere la stessa.

Infine, è interessante notare che l’art. 40, comma 3, richiama solo i casi di domande connesse ai sensi degli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 cpc; in tal senso, in presenza di cause connesse ai sensi dell’art. 33 cpc, il processo simultaneo non è realizzabile e il giudice, tendenzialmente, dovrà disporne la separazione.

Siccome le regole di svolgimento del processo simultaneo devono essere delineate in ragione della struttura dei rapporti dedotti in giudizio, e non anche delle modalità per il cui tramite il cumulo è stato realizzato, quanto affermato con riferimento alla domanda riconvenzionale deve valere anche con riferimento alle ulteriori ipotesi di cumulo oggettivo, come ad esempio quello derivante dalla chiamata in causa del terzo su iniziativa di parte o d’ufficio, nonché di riunione di cause separatamente proposte. 

 

11. La trattazione della causa 

In base all’art. 281-duodecies, comma 2, cpc, entro la stessa udienza l’attore può chiedere di essere autorizzato a chiamare in causa un terzo, se l’esigenza è sorta dalle difese del convenuto. Il giudice, se lo autorizza, fissa la data della nuova udienza assegnando un termine perentorio per la citazione del terzo. La costituzione del terzo avviene nelle forme e con le decadenze previste per il convenuto, stante il richiamo all’art. 281-undecies, terzo comma, cpc.

Il legislatore non si è dato cura di ripetere quanto previsto al vecchio testo dell’art. 183, comma 5, cpc nella parte in cui si leggeva che il giudice richiede alle parti, sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari e indica le questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione. Nonostante il silenzio della legge, si deve ritenere che anche questa previsione debba trovare compiuta attuazione; in udienza deve necessariamente aprirsi una fase di collaborazione tra il giudice e i difensori delle parti, ai fini dello svolgimento delle attività prodromiche alla fissazione del thema decidendum e del thema probandum. Il giudice, se rileva d’ufficio una questione di rito o di merito, deve attivare il contraddittorio e le parti dovranno essere ammesse a esercitare tutti i poteri consequenziali. Delle questioni di rito si è già detto. Quanto alle questioni di merito, può trattarsi della quaestio juris, ovvero la questione relativa alla individuazione e interpretazione della norma sotto cui sussumere la fattispecie dedotta in giudizio; ma anche di questioni relative a fatti (costitutivi non individuatori e alternativi rispetto a quelli su cui si è basato l’attore nel ricorso, ovvero estintivi, modificativi, impeditivi non fatti valere nella comparsa di risposta) rilevabili d’ufficio, che emergano dagli atti (atti introduttivi, mezzi di prova) oppure dal notorio. 

Stando al terzo comma dell’art. 281-duodecies cpc, alla stessa udienza le parti, a pena di decadenza, possono proporre le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale e delle eccezioni proposte dalle altre parti. Diciamo subito che, sulla base dell’argomento a fortiori, possiamo ritenere pacifico che le esigenze difensive possano sorgere non solo da eccezioni e domande, ma anche dalle mere difese svolte dal convenuto.

Si tratta del cd. potere di replica generalmente di appannaggio dell’attore, o comunque di chi ha proposto la domanda; in tal senso, le esigenze difensive potrebbero anche trarre origine dalle difese svolte dal terzo chiamato in causa. La norma non menziona la possibilità che vengano avanzate le domande conseguenti alle difese del convenuto, ma la lacuna deve essere colmata in via interpretativa, facendo leva sull’esigenza di dare piena attuazione al principio del contraddittorio. D’altra parte, se l’attore è ammesso a chiamare in causa un terzo proponendo nei suoi confronti una nuova domanda giudiziale, si dovrà ritenere che, a più forte ragione, potrà avanzare una nuova domanda nei confronti del convenuto, sempre che si fondi su esigenze conseguenti alle difese svolte nella comparsa di risposta (come negare che, proposta domanda di adempimento del credito ereditario, a seguito della contestazione della qualità di erede da parte del convenuto, all’attore sia concessa la possibilità di proporre domanda di accertamento incidentale ex art. 34 cpc, oppure che, proposta domanda di adempimento di un credito pecuniario, se il convenuto solleva eccezione di compensazione, l’attore possa avanzare domanda di risoluzione del contratto da cui trae origine il controcredito?). Il procedimento semplificato di cognizione è perfettamente compatibile con il cumulo di cause.

Dal momento in cui l’attore propone domande o eccezioni nuove, il principio del contraddittorio impone di aprire al convenuto i poteri di controreplica, ovvero il potere di sollevare eccezioni o controeccezioni (in tal senso, se il convenuto in comparsa di risposta solleva eccezione di compensazione, e in prima udienza l’attore solleva eccezione di prescrizione, si dovrà consentire al convenuto di rilevare la controeccezione di interruzione o sospensione della prescrizione).

In base al quarto comma, se richiesto e se sussiste giustificato motivo, lasciando dunque spazio a una valutazione se del caso negativa, il giudice può acconsentire allo svolgimento in forma scritta dell’attività di controreplica; in tal caso, fissa un primo termine non superiore a venti giorni per precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni, indicare i mezzi di prova e produrre documenti e un ulteriore termine non superiore a dieci giorni per replicare e dedurre prova contraria.

Si tratta indubbiamente di un passaggio cruciale. La fortuna pratica del rito semplificato dipenderà dall’interpretazione che si vorrà offrire ai «giustificati motivi» cui è subordinata la fissazione dei termini per il deposito delle memorie scritte. Stanti le considerazioni precedentemente svolte sulla ingovernabilità del rito ordinario, sarebbe importante fin da subito un chiarimento al fine di trasmettere messaggi tranquillizzanti. Non dobbiamo dimenticare che, una volta che l’avvocato ha aperto il processo nelle forme ordinarie notificando un atto di citazione, il rischio è che il tiro non possa essere corretto. Infatti, stante la lettera dell’art. 183-bis cpc, il passaggio dal rito ordinario al rito semplificato non verrà disposto perché, giunti all’udienza, non è di alcuna utilità (l’unica possibilità è che prendano campo prassi favorevoli ad anticipare il passaggio di rito rispetto allo scambio delle memorie integrative di cui all’art. 171-ter cpc; vds. supra, par. 4, sub g).

Il processo semplificato è pur sempre un processo a cognizione piena, destinato a chiudersi con una sentenza idonea ad acquistare la autorità di cosa giudicata. In tal senso, a fronte degli orientamenti molto ampi intrapresi dalla giurisprudenza in riferimento ai limiti oggettivi del giudicato (vds. supra, par. 2), le regole di svolgimento devono essere delineate in maniera tale da consentire all’attore che ha ragione di ottenere la tutela massima, e a entrambe le parti di dare pieno sfogo al diritto di azione e di difesa. 

È noto che la nozione di modifica della domanda è estremamente ampia, nella misura in cui la giurisprudenza vi fa rientrare l’allegazione dei fatti costitutivi di diritti autodeterminati, alternativamente concorrenti a quelli posti a fondamento della domanda, la variazione del quantum della pretesa e – all’indomani delle sezioni unite del 2015 – anche la riqualificazione giuridica della fattispecie[32]. Nella modifica della domanda, rientrano una serie di attività che, una volta che il processo si è chiuso con sentenza passata in giudicato, non potranno essere svolte in un secondo e autonomo processo relativo alla medesima situazione giuridica perché coperte dalla preclusione da dedotto e deducibile.

Sulla base di questa premessa, si comprende che l’alternativa è secca: o si impone lo svolgimento di tali attività in udienza oppure si rilasciano i termini di cui all’art. 281-duodecies, comma 4, cpc. Nell’affrontare la questione, peraltro, occorre tenere a mente che, in base al fondamentale principio del contraddittorio, l’esercizio di un potere processuale impone anche l’apertura di tutti i poteri consequenziali: alla modifica della domanda dovrà necessariamente corrispondere la possibilità di allegare nuovi fatti costitutivi (già si è ricordato che la riqualificazione giuridica ha un riflesso sulla fattispecie costitutiva del diritto; si pensi al passaggio dall’azione di adempimento all’azione di arricchimento senza giusta causa, che le sezioni unite del 2018 hanno ricondotto nei limiti della emendatio libelli), i poteri di contestazione e di allegazione di nuovi fatti modificativi estintivi e impeditivi della controparte, oltre ai poteri istruttori diretti e contrari.

Dal momento in cui si concorda sull’idea che tutte le attività di controreplica sono componenti ineliminabili del diritto di azione e di difesa, negare i termini per il deposito delle memorie scritte ha come unico risultato quello di obbligare le parti a esercitarle tutte in udienza. Quest’ultima opzione potrebbe creare serie difficoltà; infatti, potrebbe non essere esigibile che le parti svolgano tali attività in udienza (la considerazione investe anche le richieste istruttorie, ad esempio laddove si tratti di capitolare una prova testimoniale). Ma, in favore della medesima soluzione, militano anche considerazioni molto più pratiche; ad esempio, come procedere in udienza alla produzione in forma telematica di un documento? A pari difficoltà potrebbe trovarsi esposto il giudice nel momento in cui è costretto a verbalizzare tutte le attività svolte di fronte a sé.

A queste argomentazioni, già di per sé persuasive, ne possiamo aggiungere un’altra: tutto ciò che non verrà concesso dal giudice di primo grado sarà oggetto di censura di fronte al giudice dell’appello, il quale, nel momento in cui si convince che alla parte è stato precluso l’esercizio di un potere processuale che avrebbe potuto ribaltare l’esito di merito della controversia, dovrà procedere, previo annullamento della sentenza impugnata, alla rinnovazione di fronte a sé degli atti nulli (art. 354, ult. comma, cpc, ad esempio all’acquisizione della prova); se il vizio verrà denunciato e rilevato in cassazione, sarà probabilmente emessa una sentenza di cassazione con rinvio, con buona pace della ragionevole durata del processo.

Dunque, anche in base a considerazioni di tipo pratico, il sistema è congegnato in maniera da favorire al massimo la fissazione dei termini di cui all’art. 281-duodecies, comma 4, cpc. D’altra parte, siamo ancora alle battute iniziali del processo: si parla di termini pari a venti più dieci giorni, che decorrono in avanti dalla chiusura della prima udienza; dunque, non sembra una prospettiva in grado di compromettere la speditezza o l’efficienza del processo.

Allora, anche se la norma apre un innegabile spazio di discrezionalità al giudice, sarebbe molto opportuno che questi concedesse sempre i termini, a meno che non rilevi subito una questione pregiudiziale di rito o preliminare di merito idonea a definire il giudizio e avvii immediatamente la controversia verso la fase decisoria (come ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità elaborata nel vigore del vecchio testo dell’art. 183, comma 6, cpc)[33].

Con riferimento alle memorie scritte, il legislatore ha previsto che nella prima le parti debbano, a pena di decadenza, modificare e precisare le domande ed eccezioni già formulate, ma anche produrre i documenti e chiedere l’assunzione dei mezzi di prova. Sembra dunque che chi modifica la domanda abbia l’onere di articolare le proprie richieste istruttorie senza attendere l’eventuale contestazione della controparte (e che si applichi, conseguentemente, il cd. “principio di eventualità”). Inoltre, anche in questo ulteriore frangente, dobbiamo fare i conti con la possibilità che la previsione limitata a due memorie non sia sufficiente alla piena attuazione del contraddittorio. Infatti, se a seguito della modifica della domanda il convenuto solleva nella seconda memoria una nuova eccezione, con riferimento alla quale articolerà le proprie richieste istruttorie, si renderà necessario offrire all’attore lo spazio per dedurre una contro-eccezione, con relativa prova, e/o la prova contraria. La norma sul punto tace, ma anche questa lacuna dev’essere colmata in via interpretativa, consentendo all’attore di depositare una terza memoria.

Ove non provveda ai sensi del secondo e quarto comma, in base all’art. 281-duodecies, comma 5, cpc, il giudice ammette i mezzi di prova richiesti dalle parti e procede alla loro assunzione. Il processo semplificato di cognizione non consente al giudice di dettare tempi e modi di svolgimento dei poteri processuali; dunque, l’acquisizione dei mezzi di prova dovrà avvenire nel pieno rispetto delle forme fissate dal secondo libro del codice di procedura (e del codice civile).

 

12. La fase decisoria

La fase decisoria segue il modello a discussione orale. Infatti l’art. 281-terdecies cpc prevede che il giudice proceda ai sensi dell’art. 281-sexies se la decisione è monocratica, mentre si applica il disposto dell’art. 275-bis cpc se la decisione è affidata al collegio. In ogni caso, nessuna di queste disposizioni si premura di assegnare al giudice un termine massimo per la fissazione della data dell’udienza di discussione, la quale potrà dunque slittare di mesi, o di anni, senza che ciò integri la violazione di alcuna norma processuale.

Il processo si chiude con sentenza, una scelta coerente con il carattere pieno della cognizione svolta dal giudice[34]

La legge tace in ordine al fatto che la sentenza definitiva sia dotata di efficacia esecutiva oppure sia titolo per la trascrizione (o meglio, l’annotazione) e l’iscrizione di ipoteca giudiziale; peraltro, partendo dal presupposto che siamo di fronte al provvedimento che chiude un processo a cognizione piena, si può tranquillamente ritenere che sia idoneo ad attribuire all’attore che ha avuto ragione le medesime utilità che scaturiscono dalla sentenza che definisce il processo a cognizione piena secondo il rito ordinario. Una conferma indiretta di questa conclusione si ritrova nel nuovo testo dell’art. 2658 cc, che – come spiegato – consente la trascrizione del ricorso depositato, ma non ancora notificato.

La sentenza è suscettibile di appello nei modi ordinari; di conseguenza, l’eventuale impugnazione dovrà essere introdotta con atto di citazione e sarà soggetta per intero alla disciplina di cui agli artt. 339 fino a 359 cpc.

Infine, il legislatore non si è premurato di stabilire che la sentenza, ove non tempestivamente impugnata, è idonea ad acquistare autorità di cosa giudicata, ma probabilmente non ce n’era bisogno.

 

13. Considerazioni conclusive: il procedimento semplificato di cognizione come “nuovo” processo di cognizione di primo grado

La distinzione tra cause complesse e cause semplici non è una novità, e ha sicuramente un senso; tuttavia, se una causa è semplice oppure no si può comprendere solo dopo che il giudice, nel contraddittorio con le parti, ha messo a fuoco il diritto dedotto in giudizio e i fatti controversi che devono essere provati (thema decidendum e thema probandum). Infatti, come si è osservato sin dalle battute iniziali di questo contributo, l’attività di collaborazione tra il giudice e le parti svolge un ruolo insostituibile ai fini della riduzione e semplificazione della lite a quelle poche questioni di fatto e di diritto effettivamente controverse. Di conseguenza, un modello di processo efficiente dovrebbe prevedere che, all’indomani dello scambio degli atti introduttivi, il giudice, nel contraddittorio delle parti, individui il circuito in cui immettere la causa; tale scelta dovrebbe essere legata al fatto che la causa si presti a essere immediatamente avviata verso la fase decisoria, magari modellata su uno schema agile (perché i fatti non sono controversi e la controversia è di puro diritto, oppure perché le prove sono solo documentali), se del caso anche a seguito di un’istruttoria ridotta (prove di pronta soluzione), oppure che sia necessario procedere a un’istruttoria complessa. Il processo a cognizione piena dovrebbe essere unitario, ma elastico; infatti, al suo interno dovrebbero essere collocati due o più circuiti verso cui avviare le cause, in ragione della loro più o meno marcata complessità. In questo diverso contesto, il rito semplificato si presterebbe a essere configurato come il circuito riservato alle controversie non bisognose di attività istruttoria (o, comunque, a istruttoria ridotta).

Il legislatore del 2022 ha compiuto una scelta diversa: ha delineato due modelli di processo a cognizione piena alternativi l’uno all’altro, introdotti l’uno con atto di citazione, l’altro con ricorso, rimettendo la scelta per l’uno o l’altro in prima battuta all’attore, salva la possibilità di un correttivo successivo da parte del giudice (anche se detto correttivo non potrà funzionare nel passaggio dal rito ordinario al rito semplificato – vds. supra, par. 4, sub g).

Questa scelta può piacere oppure no, ma a questo punto è legge dello Stato, essendo formalmente entrata in vigore. 

Ricordiamo che il PNRR subordina il cospicuo finanziamento ricevuto dall’Italia al raggiungimento, entro giugno 2026, di obiettivi particolarmente impegnativi, quali l’abbattimento del 90% dell’arretrato civile e la riduzione della durata del processo in misura pari al 40%. Ricordiamo anche che l’Europa non si accontenta dell’avvenuta approvazione della riforma, ma andrà a verificare il raggiungimento dei risultati nei termini prefissati, e che al (malaugurato) mancato raggiungimento degli stessi corrisponderà l’obbligo di restituzione dell’ingente finanziamento ricevuto.

Sappiamo tutti che il mutamento delle regole di svolgimento del processo non è certo la cura per risolvere i problemi della giustizia civile italiana. Tuttavia, è nell’interesse del Paese, e quindi di tutti noi, che il nuovo processo civile sia efficiente, che funzioni.

È questo l’approccio che si deve coltivare nel momento in cui si vanno ad analizzare le nuove disposizioni del secondo libro del codice di procedura civile, tentando di offrire una risposta adeguata alle molte questioni che inevitabilmente si porranno. Inoltre, è soluzione di buon senso che gli operatori facciano sistema, che tutti, magistrati e avvocati in prima fila, si adoperino al fine di individuare soluzioni e instaurare prassi condivise e conosciute.

La lettura delle disposizioni relative al nuovo rito ordinario e al rito semplificato fonda la considerazione secondo la quale il risultato cui è approdato il legislatore non corrisponda affatto a quello che era stato preannunciato. Per comprendere il senso di questa affermazione è interessante partire da quanto riportato nella Relazione tecnica di accompagnamento al decreto delegato n. 149 del 2022, ove a proposito del rito ordinario si legge che, al fine di «assicurare la semplicità, la concentrazione e l’effettività della tutela e la ragionevole durata del processo», si è intervenuto sulla disciplina della fase introduttiva, con lo scopo di perseguire una maggiore concentrazione e pervenire alla prima udienza con la già avvenuta completa definizione del thema decidendum e del thema probandum, consentendo al giudice, attraverso le necessarie verifiche preliminari anticipate, un più esteso case management volto, tra le altre possibilità, anche a favorire il passaggio dal rito ordinario a quello semplificato. Ancora, «la fase decisoria del giudizio di primo grado è stata interamente novellata, con la previsione di termini difensivi finali ridotti e a ritroso dalla finale rimessione della causa in decisione (comma 5, lett. l), l. n. 206/2021)». Infine, «sono stati introdotti provvedimenti estremamente semplificati di accoglimento o di rigetto, rispettivamente per i casi in cui i fatti costitutivi sono provati e le difese del convenuto appaiono manifestamente infondate, oppure quando la domanda è manifestamente infondata o è omess[a] o risulta assolutamente incert[a] la determinazione della cosa oggetto della domanda o l’esposizione dei fatti e degli elementi che costituiscono le ragioni della domanda ex articolo 163, terzo comma, numero 3) del codice di procedura civile (comma 5, lettera o), l. n. 206/2021; art. 183-ter c.p.c. e art. 183-quater c.p.c.)».

Stando ai risultati acquisiti nel corso dell’indagine, il rito ordinario – autentica novità introdotta dalla riforma – non è affatto idoneo ad «assicurare la semplicità, la concentrazione e l’effettività della tutela e la ragionevole durata del processo»; infatti è forgiato in modo irragionevole, non c’è alcuna semplificazione, anzi si è evidenziato che il diritto di azione e difesa spesso faranno saltare la rigida e anticipata scansione processuale prescelta, e che a tratti il giudice rischia di trovarsi in seria difficoltà. Si è previsto, infatti, che le parti (attore e convenuto) esauriscano i loro sforzi di attacco e di difesa (domanda, eccezioni, riconvenzioni, contro-eccezioni, e relative prove e controprove documentali o costituende) anteriormente alla prima udienza davanti al giudice, udienza che dovrebbe poter essere destinata solo all’interrogatorio libero e non formale delle parti e all’organizzazione del calendario del processo, poiché le questioni impedienti di rito dovrebbero essere state già preventivamente indicate alle parti e risolte dal giudice. 

Tuttavia, si è rilevato che non si può escludere la possibilità che il giudice, solo in udienza, rilevi un vizio formale o extraformale, il che, se è possibile mettere in moto un meccanismo di sanatoria, comporterà un rinvio della stessa (vds. supra, par. 4, sub b). 

Il vero passo falso compiuto dal legislatore, tuttavia, risiede nella scelta di aver allontanato il giudice dalle attività tese a definire il thema decidendum e il thema probandum, lasciando le parti in balia di loro stesse. Si è detto che in prima udienza – inevitabilmente – il giudice eserciterà i poteri di direzione che gli sono assegnati ancora oggi dall’art. 127 cpc e, nel contraddittorio con le parti, si adopererà per mettere a fuoco il «volto della causa», eliminando «il troppo e il vano» (per riprendere la felice formulazione della Relazione di accompagnamento del codice del 1940 – vds. supra, par. 1). A tale scopo, rileverà d’ufficio le questioni di merito, ma soprattutto la quaestio juris, dopodiché le parti dovranno essere ammesse a modificare il quadro fattuale e probatorio (vds. supra, par. 4, sub d). Se l’attore chiama in causa un terzo, ma ancor più in caso di chiamate a catena, si va incontro a un concreto rischio di ingovernabilità perché la fase introduttiva diventa faraonica (vds. supra, par. 4, sub e e f). Il passaggio al rito semplificato non viene affatto favorito, ma, giusta la previsione di cui all’art. 183-bis cpc, è praticamente paralizzato (vds. supra, par. 4, sub g). Quanto alle ordinanze di chiusura anticipata, è facile preconizzarne l’inutilità, soprattutto con riferimento all’ordinanza di rigetto (vds. supra, par. 4, sub h). Né è possibile attendere alcuna riduzione dei tempi dalla fase decisoria, perché, cancellata l’udienza di precisazione delle conclusioni, è stata reintrodotta la vecchia collegiale di tribunale, che il giudice è libero di fissare senza limiti di tempo (vds. supra, par. 4, sub i). 

Escluso che il rito ordinario possa essere la strada per il raggiungimento degli obiettivi prefissati, resta come unica alternativa il procedimento semplificato. Nella Relazione tecnica si fa riferimento all’intento di apprestare una ulteriore «semplificazione dei procedimenti attraverso il rafforzamento di un modello processuale già esistente, il procedimento sommario di cognizione (articoli 702-bis e seguenti del codice di procedura civile) denominato ora procedimento semplificato di cognizione e reso obbligatorio per ogni controversia, anche di competenza del tribunale in composizione collegiale, quando i fatti di causa non siano controversi oppure quando la domanda sia fondata su prova documentale o di pronta soluzione o comunque richieda un’attività istruttoria non complessa (comma 5, lettera n), l. n. 206/2021; artt. 281-decies e seguenti c.p.c.)». 

Sennonché, l’analisi nel dettaglio delle nuove disposizioni contenute negli artt. 281-decies fino a 281-terdecies cpc offre un quadro, per certi versi, inaspettato. Se l’idea era quella di riallocare il vecchio procedimento sommario di cognizione per apprestare un modello di processo semplice destinato alle cause non complesse, il risultato di fronte a cui ci troviamo è un altro perché il legislatore ha finito per mettere a punto un modello di processo ad alto tasso formale, sia pure soggetto a una disciplina che non si sovrappone a quella del rito ordinario.

L’analisi svolta ci ha consentito di appurare che, se si eccettuano la forma dell’atto introduttivo e il taglio dei termini a difesa e di costituzione del convenuto (oltre al numero e ai termini delle eventuali memorie scritte da depositarsi all’indomani della prima udienza), le regole di svolgimento del processo semplificato si pongono in linea di stretta continuità con quelle dell’ormai abrogato processo a cognizione piena (di cui agli artt. 163 ss. cpc). Infatti, a seguito dello scambio degli atti introduttivi del processo, è previsto lo svolgimento dell’udienza in cui il giudice verifica d’ufficio la regolare instaurazione del contraddittorio (vds. supra, par. 9) e le parti potranno procedere all’attività di replica e, poi, alla modifica e precisazione delle domande, eccezioni e conclusioni già formulate, oltre che alla formulazione delle richieste istruttorie dirette e contrarie. Tali attività, su istanza di parte e sempre che il giudice ritenga che sussistano giustificati motivi, potranno essere svolte nell’ambito di due memorie scritte, da depositarsi a pena di decadenza entro venti e dieci giorni (vds. supra, par. 11). L’evidente similitudine con il processo a cognizione piena abrogato consentirà agli operatori di attingere alla prassi e alla giurisprudenza elaborati nel sistema previgente.

La conclusione che si può trarre ad esito dell’analisi svolta è scontata. Che la scelta complessivamente effettuata dal legislatore sia idonea a garantire gli obiettivi che lo stesso si era dato, non pare credibile. Speditezza ed efficienza non potranno certamente contare sul nuovo rito ordinario che, oltre a essere di difficile gestione, è destinato ad aprire una serie di questioni interpretative del tutto nuove, e subirà un inevitabile contraccolpo dalla mancanza di prassi e soluzioni consolidate. Dunque, sarebbe opportuno limitarne il più possibile l’utilizzazione.

La tenuta del sistema giustizia è dunque interamente affidata al rito semplificato; in tale direzione, se vogliamo che si affermi come modello generale del processo di primo grado, è indispensabile innanzitutto incoraggiare gli avvocati a sceglierlo (avanzando la domanda in forma di ricorso), ma questo risultato è in gran parte subordinato alla rassicurazione circa la concessione dei termini di cui all’art. 281-duodecies, comma 4, cpc per il deposito delle memorie scritte[35].

L’epilogo, dobbiamo ammetterlo, lascia un po’ di amaro in bocca. All’indomani di una riforma lanciata al dichiarato scopo di assicurare la «semplificazione», «speditezza» e «razionalizzazione» del processo (vds. l’art. 1, comma 1 della legge delega 22 novembre 2021, n. 206), ci ritroviamo esattamente al punto di partenza, e cioè aggrappati a un processo che ha come snodo centrale un’udienza, ora regolata dall’art. 281-duodecies cpc, modellata sul testo abrogato dell’art. 183 cpc[36].

Un finale un po’ gattopardesco; tutto cambia, ma in fondo rimane tutto com’è!

 

 

1. Ulteriori modifiche, sicuramente di spessore più contenuto, sono state introdotte con riferimento all’appello e al ricorso per cassazione. Su questi temi, vds. R. Tiscini (a cura di), La riforma Cartabia del processo civile. Commento al d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, Pacini, Pisa, 2023, pp. 464 ss.; con riferimento specifico all’appello, vds., se si vuole, B. Gambineri, Le novità del giudizio di appello, in corso di pubblicazione in Le Corti fiorentine, 2023.

2. Il primo caso, celeberrimo, è rappresentato dalla sentenza Factortame del 1990 (19 giugno 1990, C-213/89) che ha fatto saltare una regola costituzionale dell’ordinamento anglosassone, ovvero il divieto per il giudice di emanare provvedimenti cautelari (interlocutory injunctions) contro il Governo (dunque, contro il Re); sul punto, vds. N.G. Trocker, La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ed il processo civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., n. 4/2002, pp. 1171 ss. (successivamente ripubblicato in Id., La formazione del diritto processuale europeo, Giappichelli, Torino, 2011, pp. 107 ss.); con riferimento specifico all’Italia, l’ultimo in ordine di tempo è rappresentato dalla sentenza 17 maggio 2022 in cui la Grande Chambre della Corte di giustizia europea, nelle cause riunite C-693/19, SPV Project 1503, e C-831/19, Banco di Desio e della Brianza, ha affermato l’euro-incompatibilità del giudicato nazionale che scaturisce dalla mancata opposizione del decreto ingiuntivo, nel caso in cui il giudice non abbia provveduto a esaminare officiosamente la vessatorietà di una clausola nei contratti con i consumatori (cui ha fatto seguito la sentenza della Corte di cassazione, sez. unite, 6 aprile 2023, n. 9479). 

3. Cass., sez. unite, 15 novembre 2007, n. 23726, in Foro it., n. 5/2008, I, c. 1515, con note di R. Pardolesi e A. Palmieri; ivi, n. 4/2008, c. 929, con nota di A. Ronco; in Riv. dir. civ., n. 3/2008, II, p. 335, con nota di M. De Cristofaro. 

4. Cass., sez. unite, 16 febbraio 2017, n. 4090, in Corr. giur., n. 7/2017, p. 975, con nota di C. Asprella; in Giur. it., n. 5/2017, p. 1089, con nota di M. Barafani; Cass., 20 settembre 2021, n. 25413. 

5. Cass., sez. unite, 11 aprile 2014, n. 8510, in Giur. it., n. 7/2014, p. 1619, con nota di E. D’Alessandro.

6. Cass., sez. unite, 12 dicembre 2014, nn. 26242 e 26243, in Foro it., n. 3/2015, I, cc. 862 ss., con note di A. Palmieri e R. Pardolesi, F. Di Ciommo, S. Pagliantini, A. Proto Pisani, S. Menchini; in Giur. it., n. 1/2015, p. 71, con nota di I. Pagni; in Corriere giur., n. 1/2015, p. 88, con nota di V. Carbone; ivi., p. 225, con nota di C. Consolo e F. Godio. Sul tema vds., più di recente, A. Proto Pisani, Oggetto del processo e oggetto del giudicato nelle azioni contrattuali, in Foro it., n. 10/2016, V, c. 325.

7. Cass., sez. unite, 15 giugno 2015, n. 12310, in Foro it., n. 1/2016, I, c. 255, con nota di C.M. Céa; ivi, n. 10/2015, I, c. 3174, con nota di A. Motto; in Corriere giur., n. 7/2015, p. 968, con nota di C. Consolo; in Riv. dir. proc., n. 3/2016, p. 807, con nota di E. Merlin. 

8. Cass., sez. unite, 13 settembre 2018, n. 22404, in Corriere giur., n. 2/2019, p. 263, con nota di C. Consolo e F. Godio; in Riv. dir. proc., n. 4-5/2019, p. 1300, con nota di L. Dittrich.

9. Sul punto, è opportuno ricordare quanto stabilito dalla Suprema corte nella sentenza n. 8510 del 2014 (cit.), in tema di rimedi avverso l’inadempimento del contratto. La Corte, dopo aver ammesso che, proposta azione di adempimento del contratto, l’attore può, per la prima volta davanti al giudice dell’appello, trasformare la domanda originaria in domanda di risoluzione del contratto (interpretando l’art. 1453 cc come deroga espressa al divieto di domanda nuova in appello sancita all’art. 345, comma primo, cpc), ha altresì affermato che gli deve essere anche concessa la possibilità di avanzare contestualmente la domanda di restituzione di quanto prestato in esecuzione del contratto impugnato e la domanda di risarcimento del danno. Se la prima domanda non pone problema alcuno, dal momento in cui si presta a essere ricondotta tra le domande ccdd. consequenziali, aperte in appello giusta la previsione contenuta nella seconda parte del primo comma dell’art. 345, la domanda di risarcimento pone questioni spinose dal momento che, potendo essere proposta anche in forma autonoma, non si presta a essere ricompresa nella nozione di domanda consequenziale. La Corte, tuttavia, ne ha ritenuto l’ammissibilità, affermando che una simile apertura risponde a un principio cardine, ovvero quello secondo cui il processo deve apprestare la tutela massima al fine di evitare l’apertura di ulteriori giudizi con riferimento a una vicenda sostanziale unitaria. Inoltre, nel prosieguo della motivazione, ha pure chiarito che in nome dei superiori principi del diritto di azione e di difesa, si deve riconoscere alle parti il diritto di esercitare tutti i poteri strumentali alla nuova domanda, quali i poteri assertivi, di contestazione e istruttori.

10. Vds. R. Giordano, Più ombre che luci nel nuovo processo civile di primo grado, in Giustizia civile, 19 ottobre 2022 (https://giustiziacivile.com/arbitrato-e-processo-civile/editoriali/piu-ombre-che-luci-nel-nuovo-processo-civile-di-primo-grado).

11. Su questo punto, si osserva che il legislatore ha mancato l’occasione di recepire a livello normativo il principio enunciato dalla Corte costituzionale nella sentenza 23 luglio 1997, n. 260, che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 271 cpc nella parte in cui non prevede che al terzo si applichi (non solo il disposto dell’art. 167, primo comma, ma anche) il disposto dell’art. 167, secondo comma, cpc. Si tratta di una lacuna che dovrà essere colmata in via interpretativa, per cui anche il terzo chiamato ha l’onere di proporre, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta tempestivamente depositata, le domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio.

12. Come previsto nel nuovo testo dell’art. 4 d.lgs n. 150/2011, dove si legge che, se una controversia viene introdotta in forme diverse da quelle previste dal presente decreto, il giudice dispone il mutamento di rito con ordinanza, emanata anche d’ufficio, «entro il termine di cui all’art. 171-bis del codice di procedura civile».

13. Come rilevato da B. Capponi, Sulla nuova ordinanza di rigetto (art. 183 quater c.p.c.), in Foro it., n. 10/2022, V, c. 299.

14. Vds. F.P. Luiso, Il nuovo processo civile, Giuffrè, Milano, 2023, pp. 100-101.

15. Sul punto vds., anche per ampi riferimenti di dottrina, R. Tiscini, Il procedimento semplificato di cognizione (artt. 281-decies, 281-undecies, 281-duodecies, 281-terdecies c.p.c.), in Ead. (a cura di), La riforma Cartabia del processo civile, op. cit., pp. 405 ss., part. p. 406.

16. A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Jovene, Napoli, 2014, p. 544.

17. Come rileva A. Proto Pisani, op. ult. cit., p. 545, la cognizione può essere sommaria perché superficiale, «in quanto l’attività conoscitiva del giudice, pur avendo ad oggetto sia i fatti che fondano la domanda sia quelli che fondano le eccezioni, non avviene nelle forme e secondo le modalità previste, in funzione di garanzia, dal secondo libro».

18. S. Menchini, L’ultima “idea” del legislatore per accelerare i tempi della tutela dichiarativa dei diritti: il processo sommario di cognizione, in Corriere giur., n. 8/2009, pp. 1025 ss.

19. Sul punto vds., anche per riferimenti di giurisprudenza, A.M. Tedoldi, Procedimento sommario di cognizione, in S. Chiarloni (a cura di), Commentario del Codice di Procedura civile, Zanichelli, Bologna, 2016, pp. 588 ss.

20. Come affermato chiaramente da F.P. Luiso, Il nuovo processo civile, op. cit., pp. 142-143.

21. A completamento di quanto riportato nel testo, si ricorda altresì che il procedimento semplificato di cognizione dovrà essere applicato:
a) in base al disposto dell’art. 15 d.lgs n. 149/2022, alle controversie previste al capo III del d.lgs n. 150/2011 sulla riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione (artt. 14 fino a 30-bis); ovvero: 1) alle controversie in materia di liquidazione degli onorari e dei diritti di avvocato (art. 14); 2) all’opposizione a decreto di pagamento di spese di giustizia (art. 15); 3) alle controversie in materia di mancato riconoscimento del diritto di soggiorno sul territorio nazionale in favore dei cittadini degli altri Stati membri dell’Unione europea o dei loro familiari (art. 16); 4) alle controversie in materia di allontanamento dei cittadini degli altri Stati membri dell’Unione europea o dei loro familiari (art. 17); 5) alle controversie in materia di espulsione dei cittadini di Stati che non sono membri dell’Unione europea (art. 18); 6) alle controversie in materia di accertamento dello stato di apolidia (art. 19-bis); 7) alle controversie in materia di diniego o di revoca dei permessi di soggiorno temporanei per esigenze di carattere umanitario (art. 19-ter); 8) all’opposizione al diniego del nulla osta al ricongiungimento familiare e del permesso di soggiorno per motivi familiari, nonché agli altri provvedimenti dell’autorità amministrativa in materia di diritto all’unità familiare (art. 20); 9) all’opposizione alla convalida del trattamento sanitario obbligatorio (art. 21); 10) alle azioni popolari e alle controversie in materia di eleggibilità, decadenza e incompatibilità nelle elezioni comunali, provinciali e regionali (art. 22); 11) alle azioni in materia di eleggibilità e incompatibilità nelle elezioni per il Parlamento europeo (art. 23); 12) all’impugnazione delle decisioni della Commissione elettorale circondariale in tema di elettorato attivo (art. 24); 13) alle controversie in materia di riparazione a seguito di illecita diffusione del contenuto di intercettazioni telefoniche (art. 25); 14) all’impugnazione dei provvedimenti disciplinari a carico dei notai (art. 26); 15) all’impugnazione delle deliberazioni del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti (art. 27); 16) alle controversie in materia di discriminazione (art. 28); 17) alle controversie in materia di opposizione alla stima nelle espropriazioni per pubblica utilità (art. 29); 18) alle controversie in materia di attuazione di sentenze e provvedimenti stranieri di giurisdizione volontaria e contestazione del riconoscimento; 19) ai procedimenti in materia di efficacia di decisioni straniere previsti dal diritto dell’Unione europea e dalle convenzioni internazionali (art. 30-bis); 
b) alle cause di risarcimento del danno da responsabilità sanitaria disciplinate dalla l. 8 marzo 2017, n. 24 (art. 8, comma 3); 
c) alle azioni rappresentative a tutela degli interessi collettivi dei consumatori di cui all’art. 140-septies, comma 7, d.lgs 10 marzo 2023, n. 28;
d) infine, in base all’art. 1-ter, comma 1, l. 24 marzo 2001, n. 89, nei processi civili l’introduzione del giudizio nelle forme del procedimento semplificato di cognizione di cui agli artt. 281-decies ss. cpc costituirà «rimedio preventivo» ai fini dell’equa riparazione da irragionevole durata del processo.
Il passaggio dal rito sommario al rito semplificato di cognizione rappresenta un cambiamento meritevole di approvazione con riferimento ai molti procedimenti sopra richiamati aventi ad oggetto status, libertà personali o, più in generale, situazioni giuridiche aventi funzione e contenuto non patrimoniale, ma anche situazioni giuridiche con contenuto patrimoniale ma funzione non patrimoniale (si considerino, a titolo meramente esemplificativo, le controversie in materia di mancato riconoscimento del diritto di soggiorno sul territorio nazionale in favore dei cittadini degli altri Stati membri dell’Unione europea o dei loro familiari di cui all’art. 16 d.lgs n. 150/2011; le controversie in materia di allontanamento dei cittadini degli altri Stati membri dell’Unione europea o dei loro familiari di cui all’art. 17; le controversie in materia di espulsione dei cittadini di Stati che non sono membri dell’Unione europea di cui all’art. 18; le controversie in materia di accertamento dello stato di apolidia di cui all’art. 19-bis; le controversie in materia di diniego o di revoca dei permessi di soggiorno temporanei per esigenze di carattere umanitario di cui all’art. 19-ter, etc.). Il procedimento sommario, stante il suo carattere deformalizzato, era per definizione inadeguato a offrire la tutela giurisdizionale adeguata a tali diritti; al contrario, il rito semplificato come a cognizione piena offre il massimo delle garanzie, poiché alla predeterminazione a livello legale delle forme e dei termini nonché dei poteri, doveri e facoltà processuali delle parti, ma soprattutto del giudice, corrisponde la garanzia della piena controllabilità.

22. Al contrario, il rito semplificato non potrà applicarsi alle cause in cui il tribunale giudica come giudice d’appello (in quanto le norme che disciplinano il giudizio di secondo grado non sono compatibili con quelle in esame).
Inoltre, si deve escludere che possano essere applicate di fronte alla corte d’appello (a meno che la corte non sia competente a trattare come giudice di primo e unico grado uno dei procedimenti di cui al capo III del d.lgs n. 150/2011, ad esempio con riferimento alle azioni in materia di eleggibilità e incompatibilità nelle elezioni per il Parlamento europeo (art. 23); all’impugnazione delle decisioni della commissione elettorale circondariale in tema di elettorato attivo (art. 24); all’impugnazione dei provvedimenti disciplinari a carico dei notai (art. 26); alle controversie in materia di opposizione alla stima nelle espropriazioni per pubblica utilità (art. 29); alle controversie in materia di attuazione di sentenze e provvedimenti stranieri di giurisdizione volontaria e contestazione del riconoscimento (art. 30); ai procedimenti in materia di efficacia di decisioni straniere previsti dal diritto dell’Unione europea e dalle convenzioni internazionali (art. 30-bis).

23. Al riguardo, deve essere segnalato un vero e proprio svarione di cui è auspicabile la immediata correzione da parte del legislatore: l’art. 319, nel nuovo testo, stabilisce che «l’attore si costituisce depositando il ricorso notificato». Che si tratti di un errore è evidente, ma ai pratici può causare gravi incertezze o, peggio, può essere la fonte di delicate questioni se qualcuno lo dovesse prendere sul serio!

24. Lo rileva F.P. Luiso, Il nuovo processo civile, op. cit., pp. 140-141.

25. A supporto di questa conclusione, oggi si può richiamare quanto espressamente previsto nel Protocollo d’intesa sul processo civile in Cassazione, siglato il 1° marzo 2023 dal presidente della Corte di cassazione, dal procuratore generale presso la Corte di cassazione, dal Consiglio nazionale forense e dall’Avvocatura dello Stato, in cui si legge espressamente, sia pure avuto riguardo all’analoga previsione contenuta nell’art. 366 in tema di ricorso per cassazione, che l’eventuale difetto di chiarezza e sinteticità non può costituire motivo di inammissibilità del ricorso (vds. § 1.6. – www.cortedicassazione.it/corte-di-cassazione/it/dettaglio_ecs.page?contentId=ECS28162 ).

26. Il legislatore non ha modificato il testo dell’art. 645 cpc, che con riferimento all’opposizione al decreto ingiuntivo stabilisce, al primo comma, che l’opposizione si propone di fronte al giudice che ha emanato il decreto, con atto di citazione; e, al secondo comma, che il giudizio si svolge secondo le norme del giudizio ordinario. 
Naturalmente, si porrà la questione relativa al se il procedimento di opposizione al decreto ingiuntivo potrà essere instaurato con ricorso e svolgersi nelle forme del procedimento semplificato di cognizione.
La questione non ha ragione di porsi di fronte al giudice di pace, considerato che, in base al nuovo testo dell’art. 316 cpc, il processo si apre con ricorso e si svolge – necessariamente – nelle forme del rito semplificato.
Davanti al tribunale, la questione potrebbe essere più spinosa. Sul punto, fortunatamente, soccorre un recente intervento della Cassazione, ord. 23 novembre 2022, n. 34501, sia pure in relazione al procedimento sommario di cognizione; nel caso di specie, un avvocato otteneva decreto ingiuntivo per i compensi professionali per l’attività espletata in due giudizi penali e il cliente proponeva opposizione con ricorso, facendo riferimento all’art. 14 d.lgs n. 150/2011 (oltre che all’art. 702-bis cpc): l’opposizione veniva ritenuta inammissibile dal Tribunale in ragione del fatto che detto articolo è limitato ai soli compensi per attività professionale svolta in un giudizio civile, dovendosi pertanto, nel caso di specie, introdurre l’opposizione con atto di citazione, secondo quanto previsto dall’art. 645 cpc. Veniva proposto ricorso per cassazione, sostenendo in particolare che il Tribunale avrebbe dovuto riqualificare il ricorso come mero ricorso in opposizione a decreto ingiuntivo ex art. 702-bis cpc e, di conseguenza, dare seguito alla procedura. La Cassazione ha accolto tale doglianza, sostenendo che la scelta delle forme del procedimento monitorio da parte dell’avvocato per il recupero dei crediti professionali in materia penale – in alternativa al rito ex art. 702-bis cpc – non comporta che l’eventuale opposizione al decreto ingiuntivo vada proposta necessariamente nelle forme del rito ordinario di cognizione, rimanendo in facoltà dell’opponente optare per il procedimento sommario, applicabile in tutte le controversie di competenza del tribunale in composizione monocratica.
La soluzione elaborata da quest’ultimo arresto merita piena approvazione, e dovrà essere applicata anche con riferimento al procedimento semplificato. Al riguardo, sembra dirimente la considerazione secondo cui il procedimento semplificato è un processo a cognizione piena perfettamente alternativo al rito ordinario; pertanto, l’opponente deve vedersi riconosciuto il diritto di aprire l’opposizione al decreto ingiuntivo con ricorso il quale, per essere tempestivo, dovrà essere depositato in cancelleria entro il termine di cui all’art. 641 cpc.

27. Nessuna particolare disposizione si occupa delle modalità di designazione del giudice; pertanto, si dovranno applicare le regole ordinarie valide per il processo a cognizione piena secondo il rito ordinario.

28. Nell’art. 281-duodecies, comma 2, cpc, il legislatore parla espressamente di chiamata in causa del terzo, evitando di ripetere la formula equivoca contenuta nell’art. 702-bis, in cui si faceva menzione della sola chiamata in garanzia.

29. Il problema esisteva ed era già stato ripetutamente segnalato nella vigenza del vecchio rito sommario di cognizione (in quel caso, la distanza era ancora più marcata, il convenuto potendo disporre nel processo a cognizione piena di settanta giorni e nel rito sommario di soli venti giorni); tuttavia, forse anche a causa della scarsa fortuna che il rito sommario aveva registrato, non è mai stata sollevata al riguardo questione di costituzionalità.

30. Il legislatore non ha ripetuto quanto previsto, nell’ambito del procedimento sommario di cognizione, all’art. 702-ter cpc, a tenore del quale, «se rileva che la domanda non rientra tra quelle indicate nell’art. 702-bis, il giudice, con ordinanza non impugnabile, la dichiara inammissibile».

31. Questa previsione, di segno opposto rispetto a quella a suo tempo espressa con riferimento al procedimento sommario di cognizione dall’art. 702-ter, comma 4, cpc, che imponeva la necessaria separazione delle due cause, ha generalizzato il principio elaborato dalla Corte costituzionale nella sentenza 26 novembre 2020, n. 253 (in Foro it., n. 2/2021, I, c. 383, con nota di R. Metafora; Il processo, n. 3/2020, p. 953, con nota di R. Martino e M. Abbamonte; Giusto proc. civ., n. 1/2021, p. 161, con nota di D. Volpino), nella parte in cui aveva affermato che, se tra le cause cumulate intercorre un nesso di connessione per pregiudizialità-dipendenza, il giudice dovrà disporre per tutte il passaggio al rito ordinario.

32. Vds. A. Motto, Domande nuove e modificate nel primo grado di giudizio a rito ordinario, in D. Dalfino (a cura di), Problemi attuali di diritto processuale civile, speciale del Foro it., n. 1/2021, cc. 69 ss.

33. Vds. Cass., 23 marzo 2017, n. 7474; Cass., 11 marzo 2016, n. 4767.

34. Anche questa modifica potrebbe contribuire a decretare il successo del procedimento semplificato. Voci di corridoio sussurrano che una delle ragioni per cui il giudice adito nelle forme del sommario di cognizione disponeva sempre passaggio al rito ordinario risiedeva proprio nella circostanza che il procedimento avrebbe dovuto chiudersi con ordinanza, e i provvedimenti in forma di ordinanza non rilevano ai fini della valutazione di produttività del magistrato. Se questo è vero, e dico “se”, possiamo attenderci un cambiamento di rotta, giacché l’ostacolo “forma del provvedimento” è stato definitivamente rimosso.

35. Sul punto, si segnala che la X sezione civile del Tribunale di Milano ha pubblicato il verbale della riunione tenuta ex art. 47 della legge sull’ordinamento giudiziario, in cui si legge che «la Sezione all’unanimità osserva che l’effettiva tutela del contraddittorio, di cui al novellato art. 101 c.p.c., appare garantita dall’interpretazione estensiva del “giustificato motivo” di cui all’art. 281-duodecies, quarto comma c.p.c., rendendo così più effettivo il diritto di difesa delle parti anche nel procedimento semplificato di cognizione».
Nel protocollo d’intesa siglato tra il Tribunale di Palermo e l’Ordine degli avvocati di Palermo, si legge: «per giustificato motivo – ai sensi dell’art. 281 duodecies co. 4 c.p.c. – dovrà intendersi qualsiasi motivo, sia in senso oggettivo che soggettivo, secondo un’accezione molto ampia, occorrendo assicurare a ciascuna parte il diritto al contraddittorio e alla difesa, anche alla luce del principio codificato oggi nel novellato art. 101 co. 2 c.p.c.».

36. È molto interessante ripercorrere, sia pure nel limitato spazio di una nota a piè di pagina, le alterne vicende cui è andato soggetto, nel trascorrere degli interventi di riforma, il testo dell’art. 183 cpc, relativo alla prima udienza di trattazione.
Nel testo originario della legge di riforma n. 353/1990 si leggeva, sotto la rubrica «Prima udienza di trattazione»:
«nella prima udienza di trattazione il giudice istruttore interroga liberamente le parti presenti e, quando la natura della causa lo consente, tenta la conciliazione. La mancata comparizione delle parti senza giustificato motivo costituisce comportamento valutabile ai sensi del secondo comma dell’art. 116.
Il giudice richiede alle parti, sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari e indica le questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione.
Nella stessa udienza l’attore può proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto nella comparsa di risposta. Può altresì chiedere di essere autorizzato a chiamare un terzo ai sensi degli articoli 106 e 269, terzo comma, se l’esigenza è sorta dalle difese del convenuto. Entrambe le parti possono precisare e, previa autorizzazione del giudice, modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate.
Se richiesto, ove ricorrano giusti motivi, il giudice fissa un termine perentorio non superiore a trenta giorni per il deposito di memorie contenenti precisazioni o modificazioni delle domande e delle eccezioni già proposte. Concede altresì al convenuto, su sua richiesta, un termine perentorio non superiore a trenta giorni per replicare alle domande ed eccezioni dell’attore di cui alla prima parte del comma precedente e per proporre, entro lo stesso termine, le eccezioni che sono conseguenza delle domande medesime. Con la stessa ordinanza il giudice fissa l’udienza per i provvedimenti di cui all’art. 184».
In base al successivo art. 184 (rubricato «Deduzioni istruttorie»): «salva l’applicazione dell’art. 187 il giudice istruttore, se ritiene che siano ammissibili e rilevanti, ammette i mezzi di prova proposti; ovvero, su istanza di parte, rinvia ad altra udienza, assegnando un termine entro il quale le parti possono produrre documenti e indicare nuovi mezzi di prova, nonché altro termine per l’eventuale indicazione di prova contraria.
I termini di cui al comma precedente sono perentori.
Nel caso in cui vengano disposti d’ufficio mezzi di prova, ciascuna parte può dedurre, entro un termine perentorio assegnato dal giudice, i mezzi di prova che si rendono necessari in relazione ai primi».
La disciplina del processo a cognizione piena è stata modificata dal dl 21 giugno 1995, n. 238, reiterato con dl 9 agosto 1995, n. 347, e con dl 18 ottobre 1995, n. 432, convertito con modificazioni con l. 20 dicembre 1995, n. 534, che ha sdoppiato l’originaria prima udienza di trattazione inserendo, all’art. 180 cpc, l’udienza di prima comparizione a conclusione della quale il giudice fissava la data della prima udienza di trattazione di cui all’art. 183. 
In base all’art. 180 riformato («Udienza di prima comparizione e forma della trattazione»):
«all’udienza fissata per la prima comparizione delle parti il giudice istruttore verifica d’ufficio la regolarità del contraddittorio e, quando occorre, pronuncia i provvedimenti previsti dall’art. 102, secondo comma, dall’art. 164, dall’art. 167, dall’art. 182 e dall’art. 291, prima comma.
La trattazione della causa davanti al giudice istruttore è orale. Se richiesto, il giudice istruttore può autorizzare comunicazioni di comparse a norma dell’ultimo comma dell’art. 170. In ogni caso fissa a data successiva la prima udienza di trattazione, assegnando al convenuto un termine perentorio non inferiore a venti giorni prima di tale udienza per proporre le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio».
Il testo dell’art. 183, rubricato ancora «Prima udienza di trattazione», viene modificato nel quinto comma: «se richiesto, il giudice fissa un termine perentorio non superiore a trenta giorni per il deposito di memorie contenenti precisazioni o modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte. Concede altresì alle parti un successivo termine perentorio non superiore a trenta giorni per replicare alle domande ed eccezioni nuove o modificate dell’altra parte e per proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni medesime. Con la stessa ordinanza, il giudice fissa l’udienza per i provvedimenti di cui all’art. 184». In particolare, viene soppresso l’inciso «ove ricorrano gravi motivi», cui, nella precedente versione, era subordinato il rilascio dei termini per il deposito delle difese scritte.
Infine, il dl 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni con l. 14 maggio 2005, n. 80, ha inserito il testo degli artt. 180, 183 e 184, in vigore fino al 27 febbraio 2023; oggi, a seguito della riforma attuata dalla legge delega n. 206 del 2021 e dal successivo decreto delegato n. 149 del 2022, il testo dell’art. 183, sia pure con qualche taglio e lievi modifiche, riappare sotto mentite spoglie all’art. 281-duodecies cpc, relativo al procedimento semplificato di cognizione.