Magistratura democratica

Salute mentale e carcere: una necessità dimenticata

di Marco Pelissero

La sanità penitenziaria in tema di infermità mentale è l’oggetto di questo brano. Si tratta di un angolo visuale strategico per leggere la cifra complessiva della riforma. Tutto dentro il carcere e niente fuori, potrebbe essere la sintesi. Sulla base questo leitmotiv scompaiono percorsi terapeutici alternativi al carcere per i sofferenti psichici, in linea con un impianto legislativo che tace sulle misure alternative.

In data 2 ottobre sono stati pubblicati in Gazzetta Ufficiale i decreti legislativi sulla riforma dell’Ordinamento penitenziario (numeri 121, 123 e 124). In particolare il d.lgs n. 123 contiene alcune disposizioni in tema di sanità penitenziaria presenti nello schema di decreto legislativo approvato dal Governo Gentiloni ad inizio anno, senza che si concludesse l’iter di approvazione definitiva a causa del volgere a termine della legislatura e del timore delle forze politiche di Governo dello scarso appeal elettorale del tema carcere, fortemente condizionato dai più moderni venti sicuritari.

 

Il testo approvato costituisce una versione alquanto falcidiata del precedente: e nel falcidiare, ha deformato il senso complessivo delle proposte di revisione dell’Ordinamento penitenziario avanzate dalle Commissioni che avevano lavorato per dare attuazione alla legge delega. Era prevedibile, perché le scelte di politica penitenziaria che sono alla base della riforma sono perfettamente in linea con le preoccupanti indicazioni di politica penitenziaria contenute nel «Contratto per il governo del cambiamento», con il quale è stato siglato il patto di coalizione delle nuove forze politiche di maggioranza e di Governo. Avendo presieduto la Commissione, a suo tempo incaricata dal ministro Orlando di dare attuazione alla riforma della sanità penitenziaria e delle misure di sicurezza personali, mi sento in dover esprimere pubblicamente alcune riflessioni sulla profonda difformità tra le scelte in tema di sanità penitenziaria che stavano alla base della proposta della Commissione e l’esito finale dell’iter legislativo.

 

La sanità penitenziaria costituisce oggi un nervo scoperto del mondo carcerario, come confermano i suicidi, anche recenti, che costituiscono la punta drammatica di un iceberg: il carcere deforma sempre, in modo più o meno significativo, i diritti individuali fondamentali, e tra questi il diritto alla salute che dovrebbe avere valore preminente, perché la privazione della libertà personale non può comportare anche privazione del diritto alla salute. In particolare, è la salute mentale a risultare fortemente compromessa dalle condizioni di vita detentiva, specie in contesti – come l’attuale – connotati da sovraffollamento carcerario. Così il carcere diventa collettore, amplificatore e produttore di forme più o meno gravi di disagio psichico.   

La Commissione aveva proposto di operare su due fronti: sulla sanità penitenziaria in senso stretto e su percorsi terapeutici alternativi al carcere.

Sul primo versante, la Commissione, in linea con la riforma del 1999 che aveva affidato la gestione della sanità in carcere direttamente al Servizio sanitario nazionale, aveva dato alcune indicazioni: garantire il diritto a prestazioni sanitarie efficaci e tempestive; assicurare  interventi di prevenzione, cura e sostegno del disagio psichico e della marginalità sociale; prevedere procedure più snelle per garantire cure e accertamenti sanitari esterni, in caso di impossibilità di prestazioni negli istituti; introdurre il dovere del medico, all’atto della visita di ingresso, di annotare nella cartella clinica del detenuto, anche mediante documentazione fotografica, ogni informazione relativa a segni o indicazioni che facciano apparire che la persona possa aver subito violenze o maltrattamenti, con obbligo di darne comunicazione al direttore dell’Istituto e al magistrato di sorveglianza; garantire la necessaria continuità terapeutica rispetto a trattanti in corso all’esterno o all’interno dell’Istituto da cui il detenuto sia stato trasferito; assicurare la prosecuzione del programma di rettificazione di attribuzione di sesso di cui alla legge 164/1982, garantendo il necessario supporto psicologico; prevedere il diritto di effettuare, a proprie spese, trattamenti terapeutici con un sanitario di fiducia. Alcune di queste indicazioni sono state recepite dalla riforma e, se effettivamente attuate (questo sarà il vero banco di prova), contribuiranno a migliorare la sanità all’interno degli Istituti penitenziari. Scompaiono, tuttavia, nel novellato articolo 11 dell’Ordinamento penitenziario alcuni elementi che, ad avviso della Commissione erano importanti: anzitutto, viene meno il richiamo alla necessità che il servizio sanitario nazionale assicuri idonei interventi di prevenzione, cura e sostegno del disagio psichico e della marginalità sociale; la Commissione aveva previsto che fosse garantito un presidio del dipartimento di salute mentale adeguato alle dimensioni e alle esigenze di ogni istituto e nulla di tutto ciò è presente nel nuovo testo approvato, che rappresenta tra l’altro anche una regressione rispetto alla disciplina attuale che richiede che ogni Istituto disponga dell’opera di almeno uno specista in psichiatria; viene meno il riferimento alla necessità in capo al medico, all’atto della visita di ingresso in Istituto, di documentare, anche mediante documentazione fotografica, ogni informazione relativa a segni che facciano apparire che la persona possa aver subito violenze o maltrattamenti, con obbligo di darne comunicazione al direttore di Istituto ed al magistrato di sorveglianza (pur in presenza di un obbligo di referto, infatti, la previsione della documentazione fotografica appariva quanto mai opportuna).

Non è stata altresì recepita l’indicazione in favore della costituzione di specifiche sezioni per detenuti con infermità psichica ad esclusiva gestione sanitaria alla quale affidare i detenuti con semiinfermità mentale o con infermità psichica sopravvenuta: l’idea di fondo della Commissione era garantire ai detenuti, per i quali non fossero possibili percorsi di cura fuori dal carcere per imprescindibili esigenze di sicurezza, spazi che, pur all’interno del carcere, garantissero la prevalenza del supporto terapeutico su quello meramente custodiale. Oggi quelli che la legge di Ordinamento penitenziario qualifica, con terminologia oramai antiquata, «istituti per infermi e minorati» (conosciute oggi come «Articolazioni per la tutela della salute mentale in carcere»), sono del tutto inadeguati alle esigenze poste dall’urgenza di far fronte alla salute mentale in carcere. Scompaiono, altresì, dal testo approvato in via definitiva i riferimenti al disagio psichico e agli interventi a supporto della salute mentale che la Commissione aveva suggerito: in particolare la necessità di garantire un presidio del dipartimento di salute mentale adeguato alle dimensioni ed alle esigenze di ciascun Istituto, nonché l’attenzione alle infermità psichiche durante la visita di ingresso in istituto.

 

Il secondo versate di intervento proposto dalla Commissione prevedeva percorsi terapeutici alternativi al carcere, al fine di garantire cure adeguate, quando non vi si oppongono imprescindibili esigenze di sicurezza collettiva: il rinvio facoltativo della esecuzione della pena anche per i condannati in condizioni di grave infermità psichica (oggi tale rinvio è possibile solo in caso di gravi infermità fisiche); il potenziamento della detenzione domiciliare da eseguire presso specifiche strutture di cura; la previsione di una forma di affidamento in prova a contenuto terapeutico, modellato sulla disciplina vigente dell’affidamento in prova dei condannati tossicodipendenti ed affidato alla gestione dei Servizi sociali e del Servizio sanitario.

A queste proposte di riforma, la Commissione aveva affiancato, in conformità alle indicazioni della legge delega, un’ampia revisione della disciplina che, attraverso un lungo e tormentato percorso, aveva portato al superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari e alla istituzione delle Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) per gli autori di reati con vizio totale o parziale di mente: il progetto potenziava il profilo terapeutico, senza compromettere le esigenze di sicurezza collettiva. Tuttavia, di questa parte del progetto già il precedente Governo non aveva tenuto conto, alterando il senso complessivo della riforma delle norme che interessano la sanità mentale in ambito penitenziario.  

L’idea di fondo che aveva ispirato il lavoro della Commissione era nel segno del potenziamento dei percorsi extracarcerari a contenuto terapeutico, rimessi pur sempre alla valutazione della magistratura di sorveglianza, a cui sarebbe spettato contemperare la tutela della salute con le esigenze di sicurezza. 

Il decreto legislativo approvato, invece, guarda in modo asfittico alla tutela della salute dei detenuti solo attraverso interventi all’interno del carcere, senza concepire la possibilità di percorsi alternativi al carcere. L’intervento si prospetta del tutto in linea con la scelta di approvare una riforma dell’Ordinamento penitenziario che tace sulle misure alternative alla detenzione, in difformità rispetto a quanto stabilito dalla legge delega e non accogliendo le soluzioni, equilibrate e sempre lasciate al vaglio dell’autorità giudiziaria, proposte dalla Commissione Giostra nella consapevolezza indiscussa che i tassi di recidiva si abbassano quanto più sono garantiti percorsi extracarcerari.

Il Governo ha chiaramente fatto una scelta di depotenziamento della sanità penitenziaria in tema di infermità mentali, concepita solo in termini intracarcerari e senza valorizzare gli interventi di supporto in favore dei detenuti con infermità psichica: non considera che i percorsi terapeutici al di fuori delle mura del carcere non solo garantiscono in modo più efficace ed effettivo il diritto fondamentale alla salute, anche mentale, dei detenuti (e questo già basterebbe a giustificare il loro potenziamento), ma contribuiscono in modo determinante anche alla prevenzione del rischio di recidiva.

Nel frattempo pende innanzi alla Corte costituzionale una questione di legittimità costituzionale finalizzata ad estendere la misura alterativa della detenzione domiciliare, da eseguire presso idonee strutture terapeutiche e applicabile ai soggetti con grave infermità fisica, anche ai detenuti affetti da una grave infermità psichica. Vedremo come si pronuncerà la Consulta, ma intanto il legislatore ha perso l’occasione per rendere più civile l’esecuzione della pena. Nella stagione in cui la politica invoca costantemente la parola sicurezza, spetta alla magistratura costruire argini a tutela dei diritti fondamentali della persona.