Magistratura democratica

Cronache di un anno in Consiglio di sicurezza:
tra tutela dei diritti e difesa della pace, tra conflitti e politica

di Luigi Marini

L’esperienza maturata dall’Italia in Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite nel corso del 2017 ha confermato tanto l’importanza e la complessità del ruolo che tale organo ricopre nel contesto internazionale quanto i limiti di una impostazione nata nel primo dopoguerra e non più in linea con l’evoluzione che quel medesimo contesto ha conosciuto.

L’Italia ha contribuito ai lavori del Consiglio presiedendo Comitati molto delicati e portando all’attenzione dei quindici temi di grande rilievo. La tutela dei diritti umani e l’applicazione dei principi della Rule of Law hanno rappresentato un orizzonte costante di riferimento. Allo stesso modo, grande importanza è stata attribuita alle conseguenze operative delle scelte che il Consiglio era chiamato a compiere.

Con il 31 dicembre 2017 si è conclusa la presenza italiana in Consiglio di sicurezza.

La presenza in CdS rappresenta per ogni Paese un obiettivo di grande importanza e viene preceduta da un’intensa attività diplomatica che impegna molti anni in vista delle elezioni con le quali l’Assemblea generale sceglie i membri non permanenti secondo una rotazione per aree geografiche.

Sintetizzare in poche pagine un intero anno di attività in Consiglio di sicurezza è impresa impossibile. Comincerò dunque col richiamare il contesto e le premesse di quell’attività, che ho cercato di delineare negli interventi precedenti su questa Rivista. Proseguirò con alcune considerazioni di ordine generale direttamente legate alle vicende del 2017 e ai fattori che hanno condizionato l’opera del Consiglio. Passerò, infine, a un esame dei contenuti essenziali del lavoro che l’Italia ha fatto e chiuderò con brevi commenti che diano il senso di una proiezione futura.

 

1. Come ricorderete, in occasione delle elezioni del giugno 2016 il termine di permanenza di due anni fu, con decisione innovativa, diviso in due parti fra Italia e Olanda: il 2017 all’Italia e il 2018 all’Olanda, che oggi siede in Consiglio. Tale decisione incluse un patto di cooperazione fra i due Paesi, con la definizione di alcune linee guida comuni, riunioni periodiche di coordinamento, scambio di informazioni e documentazione. Una realtà dettata da situazione contingente che entrambi i Paesi hanno, ciò nonostante, saputo capitalizzare e che ha mandato all’esterno un segno di effettività delle istituzioni europee.

La concentrazione in un solo anno di un programma di lavoro normalmente biennale ha imposto all’Italia e alla sua Rappresentanza a New York di moltiplicare i propri sforzi e di selezionare attentamente le priorità.

 

2. Con riferimento alla struttura e al funzionamento del Consiglio di sicurezza mi limiterò a poche considerazioni generali. Una situazione di squilibrio interno, con rilevanti ricadute su più livelli, è causata in seno al Consiglio dalla presenza di 5 membri permanenti, dotati di diritto di veto, e di 10 membri non permanenti che, sulla base di termini biennali non coincidenti, si succedono con modificazioni annuali. Tale squilibrio tocca molteplici aspetti del lavoro del Consiglio. In primo luogo i membri permanenti possiedono una forza politica maggiore nei confronti delle altre istituzioni Onu; ad esempio, il Segretario generale e le sue strutture hanno con i cinque una interlocuzione privilegiata riguardo a tutte le scelte “sensibili”, dalle nomine per le posizioni importanti all’adozione di documenti strategici. Inoltre, a cascata, ciascuno dei cinque costituisce punto di riferimento per una serie di Paesi che compongono le rispettive sfere di influenza e che tendono ad allinearsi alle politiche adottate dai primi. A questo si accompagna una prassi di consultazioni ristrette fra i cinque; qualora tali consultazioni conducano a un accordo su singole decisioni, tale accordo diviene di fatto il punto di riferimento per gli altri dieci membri che, avendo in genere posizioni tra loro non coincidenti, sono divisi e dotati di una forza contrattuale decisamente minore. Di non secondario rilievo, poi, è la circostanza che i cinque possiedono una maggiore conoscenza dei processi e dei precedenti e un complessivo know how che rafforza la posizione di primazia politica.

Lo squilibrio di cui ho parlato rappresenta un limite all’azione “democratica” di un Consiglio, che per sua natura ha caratteristiche elitarie e risponde alla logica di rapidità ed efficacia di decisione. Le Nazioni unite stanno discutendo da anni di una “riforma” del Consiglio che possa, salvaguardando le esigenze di operatività, accrescerne la rappresentatività e rendere le sue decisioni più partecipate e più “legittimate” rispetto ai Paesi esterni ad esso. In tale contesto la Francia ha avanzato, senza grandi speranze di successo, una proposta di eliminazione del diritto di veto almeno per tutti i casi in cui il Consiglio si trovi davanti a situazioni che includono crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

Non è questa la sede per affrontare il tema, complessissimo, della riforma del CdS, anche perché quel tema si collega inevitabilmente alla revisione dei metodi di lavoro dell’Assemblea generale e richiede una concertazione difficile da raggiungere (a partire dalla frammentazione esistente fra i 54 Paesi africani).

 

3. Prima di passare oltre è bene ricordare che il 2017 è stato segnato da tre novità diverse fra loro ma ugualmente importanti. Sul piano interno delle Nazioni unite, registriamo l’avvio del lavoro del nuovo Segretario generale e la costituzione e l’inizio di attività dell’Ufficio anti-terrorismo guidato dall’under secretary general Voronkov; sul piano politico esterno, assume un rilievo particolare il cambio di Amministrazione statunitense, con il conseguente arrivo di una nuova Ambasciatrice e il cambiamento di parte consistente dello staff della Rappresentanza. In realtà, il cambio di Amministrazione ha comportato assai più della semplice sostituzione dei vertici e del personale che operano a New York: la partecipazione statunitense ai lavori Onu ha sofferto un lungo periodo di stasi e di incertezze, non ancora del tutto superato.

 

4. Se questa è la situazione, va detto che l’Italia e l’Olanda hanno concordato di muoversi secondo linee che mirano a ridurre le difficoltà dei membri non permanenti. In primo luogo favorendo occasioni di dibattito informale sia a livello ambasciatori sia a livello esperti; in secondo luogo cercando un dialogo strategico con gli altri tre membri europei. Merita segnalare che la ristrettezza del numero dei Paesi operanti in Consiglio e la continuità del lavoro su un numero tutto sommato contenuto di temi danno origine a una situazione in cui l’azione degli esperti assume, nei fatti, un rilievo particolare. Se restano alle capitali i compiti di definizione delle grandi linee di lavoro e delle direttive rispetto alle risoluzioni da adottare, sono poi le singole rappresentanze nazionali a creare la rete di relazioni, sviluppare il dialogo e cogliere le opportunità concrete di azione. Ciò diventa ancora più significativo col crescere della natura tecnica dei settori di intervento del Consiglio e dei temi di volta in volta affrontati. Ad esempio, nei casi di risoluzioni che riguardano il conflitto siriano o le vicende israelo-palestinesi sono le capitali a prendere le decisioni, ivi compreso l’eventuale ricorso al diritto di veto, mentre alle rappresentanze spetta il compito di adottare le soluzioni più opportune per dare esecuzione alle relative istruzioni. Assai diversa è la situazione quando si affrontano temi come il traffico di persone, la risposta ai foreign terrorist fighters o la disciplina dei beni culturali. In questi e altri settori, infatti, le rappresentanze rivestono un ruolo centrale nella individuazione dei temi su cui investire, nella preparazione del dibattito e nella gestione dei tempi e dei contenuti effettivi delle negoziazioni.

 

5. È giunto il momento di passare all’esame degli aspetti di contenuto dell’azione che l’Italia ha sviluppato in Consiglio di sicurezza.

  1. Di particolare rilievo sono state le presidenze del Comitato sanzioni sulla Corea del Nord e del meccanismo di facilitazione per l’accordo sul nucleare iraniano. Come è facile intuire, in entrambi i settori l’impegno è stato massimo. I ripetuti lanci balistici effettuati dalla Corea del Nord nel corso dei dodici mesi e il crescendo di conflittualità politica che li hanno accompagnati hanno richiesto una continua azione diplomatica per tenere aperti i canali di comunicazione fra i membri del Consiglio che, come è noto, presentano politiche profondamente diverse, e per mantenere l’unità di azione del Consiglio a fronte di una minaccia per la pace e la sicurezza particolarmente elevata. Altrettanto complessa, continua e delicata l’azione messa in campo sul versante iraniano a tutela del regime internazionale di non proliferazione. In entrambi i casi, si sono rivelate di importanza decisiva la cooperazione tra gli uffici romani del Ministero e la sede di New York, nonché le iniziative che la nostra capitale ha intrapreso con i Paesi più direttamente interessati, inclusi quelli che non sono parte del Consiglio.
  2. Parlando di cooperazione fra New York e Roma e di azione diplomatica ad ampio raggio, viene naturale ricordare quanto si è fatto in due aree particolarmente delicate in sé ed enormemente sensibili per il nostro Paese: il Medio Oriente e le aree africane più direttamente in contatto con l’Italia.

Il primo teatro che viene in mente è senz’altro la Libia, un Paese con cui abbiamo legami risalenti e di particolare solidità. La Libia è considerata a livello internazionale una realtà “italiana”, nella quale abbiamo una presenza significativa e sulla quale vantiamo una conoscenza maggiore rispetto agli altri. Il fatto che le struture Onu e gli altri Paesi facciano riferimento a noi quando si tratta di iniziative che riguardano la Libia è, dunque naturale, e costituisce un elemento di grande responsabilità. Nel lavoro in Consiglio e attorno al Consiglio abbiamo fatto fronte a tale responsabilità con un forte investimento sulla presenza dell’Onu nelle realtà libiche ove questo fosse possibile, incoraggiando e sostenendo la presenza di Unsmil e della agenzie Onu, soprattutto Unhcr e Oim. Tale presenza ha rivestito progressivamente rilievo per le condizioni dei migranti e il complessivo fenomento dei flussi di persone che giungono in Libia da aree diverse e che in Libia si trovano ad affrontare di nuovo situazioni drammatiche a tutti ormai note. A tale azione si è affiancato lo sforzo per favorire ogni spazio di mediazione dell’Onu tra i protagonisti dei conflitti locali e ogni iniziativa dell’Inviato speciale, Salamè. Il risultato principale di questa nostra azione è consistito nell’affermarsi tra i quindici membri consiliari del principio di “reductio ad unum” delle iniziative intraprese dall’Onu in forme diverse.

Non è inutile ricordare, infine il contributo fornito al gruppo di lavoro appositamente costituito per raccogliere informazioni e analisi sulle vicende libiche e la circostanza che un militare italiano fu designato al vertice della forza incaricata di sostenere l’opera dell’inviato speciale e di gestire il primo anno dei preparativi di una possibile missione Onu.

Partendo da questa base l’Italia ha potuto dedicare alla Libia e al Mediterraneo due importanti dibattiti nel corso del mese di presidenza italiana (novembre); in entrambi i casi l’attenzione principale è stata dedicata al traffico di persone e alla situazione dei migranti. I due dibattiti hanno seguito di poco quello dedicato al tema dei rifugiati organizzato da noi il 2 novembre con la partecipazione del Usg Grandi, che dirige l’apposita agenzia Onu e che ha potuto così rappresentare al Consiglio un quadro aggiornato delle principali aree di crisi, delle azioni intraprese e delle prioritarie necessità di supporto.

  1. Altrettanto complessa e forse più drammatica, la vicenda siriana, in cui l’esercizio del potere di veto (o la minaccia del suo esercizio), da un lato, e le palesi interferenze esterne, dall’altro, aggravano una situazione che somma crisi politica, crisi militare e crisi umanitaria. L’Italia ha supportato in ogni forma gli sforzi dell’Inviato De Mistura e operato per rafforzare il coordinamento fra i Paesi europei e costruire alleanze in grado di consentire una qualche risposta almeno alle situazioni di maggiore impatto sulle popolazioni civili. Per altro verso, l’Italia ha sostenuto l’istituzione di un meccanismo di raccolta delle prove che dia concretezza al principio di accountability da tutti invocato verso gli autori dei reati più gravi.
  2. Di lunga data l’impegno italiano in Iraq (sono del 2004 le prime missioni a tutela del patrimonio culturale iracheno), che si è sviluppato in tutti questi anni con sostegni economici e strutturali, con la partecipazione alla coalizione internazionale anti-Isis, con attività di formazione e di capacity building, con progetti specifici diretti e indiretti (leggasi Unesco) ancora dedicati alla difesa dei beni culturali. Tale impegno è rimasto una priorità anche nel contesto del Consiglio di sicurezza, in ciò includendo il sostegno al meccanismo internazionale che mira a raccogliere e conservare le prove dei crimini commessi dai gruppi terroristici, Isis in testa.
  3. Permanendo la nostra partecipazione alla missione in Libano e avviata una presenza attiva in Niger, va rilevato che l’Italia ha molto investito sulle politiche di supporto alle realtà africane maggiormente critiche. L’intero bacino del Sahel ha formato oggetto di notevoli sforzi, a partire dal sostegno all’istituzione della forza regionale nota come “G5 Sahel”, che ha la finalità di operare in una prospettiva regionale e non di singolo Paese. È, quella dell’approccio a livello regionale, un’esigenza che oramai sta affermandosi nella consapevolezza e nelle scelte degli organismi Onu, Consiglio di sicurezza incluso. Si va, infatti, rivelando come dato inoppugnabile il fatto che nella maggioranza dei casi la crisi può avere l’epicentro in un singolo Paese, ma coinvolge in forme diverse l’intera area geografica e, a volte, interessa perfino aree più lontane. Ad esempio, il tradizionale impegno italiano in Somalia non può non tenere conto dei contrasti con l’Eritrea e dei collegamenti (politici, criminali, terroristici ...) che si sono instaurati tra il Corno d’Africa e la disastrosa situazione in Yemen.
  4. Peculiare l’impegno dell’Italia nella crisi della Repubblica Centro Africana, rispetto alla quale abbiamo saputo portare l’evolversi della situazione di pericolo all’attenzione collettiva e, nello stesso tempo, abbiamo sostenuto in modo incisivo gli sforzi che la Comunità di Sant’Egidio sta effettuando per la pacificazione del Paese. L’audizione in Consiglio di sicurezza del rappresentante di Sant’Egidio che segue la crisi ha fornito al Consiglio un quadro importante di informazioni e di valutazioni, confermando il rilievo e l’efficacia di forme di diplomazia alternative che potrebbero essere meglio coordinate con quelle tradizionali.

 

6. Fatti questi esempi delle principali linee di azione che l’Italia si è data con riferimento alle aree di crisi affrontate dal Consiglio di sicurezza (e avrei potuto aggiungere commenti, tra l’altro, sul Sud Sudan o l’area palestinese), possiamo passare alle azioni intraprese su temi “trasversali”. L’elenco sarebbe lungo e va dal traffico di esseri umani alle implicazioni di sicurezza del cambiamento climatico, dalla lotta all’impunità per le violazioni gravi dei diritti umani al contrasto ai traffici illeciti che assumono rilevanza per la pace e la sicurezza. Può essere interessante ricordare subito che una larga parte di questi temi è stata affrontata avendo presente la collocazione geografica e politica del nostro Paese, nel senso che l’Italia ha avuto sempre una particolare attenzione alle implicazioni che i singoli temi hanno sulle politiche e sulle realtà che riguardano il bacino mediterraneo.

La Rappresentanza italiana ha collocato la propria azione nel contesto di una ormai consolidata politica di sostegno agli interventi in aree territoriali a noi vicine o, comunque, direttamente incidenti sulle nostre politiche.

 

7. Va detto che questa nostra azione si muove lungo l’asse che collega la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali al contrasto ai fenomeni di illegalità che li mettono in pericolo. Il sostegno dato al rappresentante speciale Onu per la “Responsabilità di proteggere” le persone e le comunità dalle aggressioni più gravi (Simonovic) e quello dato alla Special Rapporteur sul traffico di persone, specialmente donne e minori (Giammarinaro) sono solo due dei numerosi esempi che potremmo fare a tale proposito.

Detto questo, le diverse istituzioni italiane hanno investito da molto tempo sul supporto agli organismi di polizia e giudiziari degli Stati del Nord Africa e di quelli immediatamente vicini. Il rafforzamento delle capacità di risposta in loco ai fenomeni criminali organizzati e transnazionali rappresenta una priorità per l’intera comunità internazionale. Le notorie competenze e la professionalità degli appositi organismi italiani sono particolarmente apprezzate a livello internazionale; in particolare, il nostro apporto è particolarmente apprezzato nei settori del controllo dei confini e in quello doganale, delle attività di polizia giudiziaria e di intelligence, di investigazione, indagine penale e azione processuale.

 

8. L’azione della Rappresentanza italiana in Consiglio di sicurezza ha valorizzato questi elementi che caratterizzano la politica estera del nostro Paese e lo collocano al centro delle principali iniziative internazionali. Questo è avvenuto in tre forme:

  1. la prima, all’interno degli organi ausiliari del Consiglio, in particolare il Cted, contribuendo ai dibattiti e alle analisi che vengono effettuati con continuità, nonché all’elaborazione di nuove iniziative. Particolarmente qualificante il contributo dato ai temi della risposta giurisdizionale ai fatti di terrorismo: il dibattito pubblico organizzato sul ruolo svolto in tema di assistenza internazionale ed estradizione dalle “autorità centrali” previste dalla risoluzione del Consiglio 2322/2016; il supporto al progetto Cted-iap sulla raccolta e utilizzazione delle “prove digitali”; il contributo al dibattito sulla raccolta e utilizzazione delle prove di cui vengono in possesso le autorità militari nei teatri di conflitto e, sotto un diverso ma connesso profilo, delle informazioni raccolte dai servizi di sicurezza.
  2. La seconda, all’interno dei lavori del Consiglio. Come ho ricordato in precedenti interventi su questa Rivista, ai quali per necessità rinvio, la Rappresentanza italiana si è fatta promotrice di due importanti risoluzioni. La prima dedicata alla protezione del patrimonio culturale (2347/2017 del mese di marzo), la seconda dedicata al contrasto la traffico di esseri umani (2388/2017 del mese di novembre). In entrambi i casi il nostro intervento ha affiancato alla finalità di tutela dei diritti dei singoli e delle comunità (non dimentichiamo che il Comitato ginevrino per i diritti umani qualifica come vero e proprio diritto del singolo la libertà di godimento del patrimonio culturale), ha affiancato, dicevo, a tale finalità la necessità di interventi tempestivi che scongiurino o riducano l’impatto negativo che le condotte criminose organizzate hanno sulla pace e la sicurezza internazionali. Se le due risoluzioni rappresentano le iniziative più evidenti e più dirette del nostro impegno in questo settore, merita di essere ricordata la partecipazione ai lavori che hanno condotto ad altre importanti risoluzioni del Consiglio, come quella sul contrasto all’abuso dei mezzi di comunicazione da parte dei terroristi (lotta alla propaganda e ricerca di forme efficaci di “contro-narrativa”) o quella dedicata ai fenomeni più recenti legati alle condotte dei foreign terrorst fighters (in particolare al loro ritorno ai Paesi di origine oppure alla loro dislocazione in altri Paesi). Anche di questo ho già dato conto e mi preme adesso evidenziare come il nostro sforzo sia stato quello di bilanciare la tutela dei diritti umani con la necessità di dare una risposta efficace ai pericoli che derivano dall’azione dei gruppi terroristici. In questo sempre richiamando e valorizzando le potenzialità degli strumenti che si collocano all’interno della Rule of Law e che soli garantiscono risposte proporzionate e, insieme, efficaci nel medio-lungo periodo.
  3. La terza forma riguarda l’impegno per mantenere livelli di garanzia adeguati all’interno del sistema di sanzioni che riguardano i gruppi terroristici. Anche in questo settore, infatti, si confrontano due culture profondamente diverse. La prima è portata dai Paesi secondo cui «i terroristi non meritano di avere diritti», la seconda dai Paesi che ritengono la tutela dei diritti fondamentali e l’applicazione dei principi della Rule of Law come cardini irrinunciabili del sistema politico, che debbono valere per tutti, comprese le persone e le entità ritenute “terroriste”. Le due impostazioni si confrontano in ogni settore di attività del Consiglio di sicurezza e tale confronto è inevitabilmente molto netto quando si parla di sanzioni e si parla dell’organo di garanzia, l’Ombudsperson, chiamato a valutare le richieste di cancellazione dalle liste avanzate da singole persone o singole entità. Di questo ho parlato in precedenti interventi, ma merita oggi ricordare l’impegno che l’Italia ha profuso per sostenere le posizioni proprie della nostra civilità giuridica e la loro applicazione in tutti i frangenti.

 

9. Un discorso a parte meriterebbe lo sforzo che la Rappresentanza ha compiuto e compie sistematicamente assieme a un gruppo consistente di Paesi per valorizzare gli strumenti di prevenzione dell’estremismo violento e del terrorismo. A fronte di spinte securitarie che provengono da ampi settori della comunità internazionale, sempre più concentrati sulle risposte militari e repressive, continuiamo a sostenere una politica che cerca di affrontare sia le cause di radicalizzazione, e collegate azioni violente, di molti giovani e di settori delle comunità locali, sia le difficili risposte verso coloro che hanno aderito ai gruppi violenti e terroristici. In questo il Segretario generale ha assunto un ruolo attivo e positivo, ma le difficoltà e i contrasti fra gli Stati membri sono rilevanti e si scaricano su tutte le iniziative che a diverso titolo coinvolgono questi temi.

 

10. Resterebbe ancora molto da dire di quanto è stato fatto nel corso del 2017, ma vorrei dedicare una specifica attenzione al tema delle missioni di pace e delle missioni speciali.

Ho ricordato poco sopra l’impegno diretto e importante che l’Italia dedica al Medio Oriente e all’Africa, in particolare ai Paesi che si affacciano sul Mediterraneo e al Sahel. Tale impegno si collega strettamente alle iniziative internazionali, in particolare quelle sotto l’egida Onu, e si coordina in modo efficace con l’azione che l’Unione europea adotta o sostiene a sua volta nelle medesime aree.

Forte dell’esperienza maturata nel corso della missione di pace in Libano, che è stata per anni diretta da rappresentanti del nostro Paese, e in altre missioni come quella irachena, l’Italia ha dedicato grande attenzione all’evoluzione che le missioni Onu stanno conoscendo in direzione del consolidamento delle strutture nazionali e della ricerca di una pace “sostenibile”, collegata alle condizioni di sviluppo del singolo Paese all’interno del contesto regionale.

In questa prospettiva si è operato per predisporre gli strumenti che possono rendere le missioni più efficaci in contesti oramai “ibridi”, dove le tradizionali forme di conflitto sono rese più complesse da fenomeni criminali organizzati e/o dall’azione di gruppi terroristici. L’obiettivo è quello di investire in migliore equipaggiamento, compreso quello tecnologicamente avanzato, e training dei peacekeepers, nella dotazione di adeguati servizi di intelligence, nella definizione di più stretta collaborazione con le autorità locali e con le organizzazioni regionali e sub-regionali, chiamate a maggiori responsabilità. È questo l’ambito in cui si colloca la risoluzione 2382/2017, che l’Italia ha facilitato con l’obiettivo di migliorare il contributo alle missioni che può venire dalle forze di polizia: maggiore chiarezza sui mandati; previsione di strategie di adattamento al mutare dei contesti; preparazione del personale delle missioni ad affrontare la dimensione transnazionale delle crisi e degli attori che vi operano; collegamento con gli attori che operano all’interno dei processi negoziali e di pacificazione (il pensiero va all’azione della Comunità di Sant’Egidio nella Repubblica Centro Africana e in Sud Sudan, così come alle iniziative della rete di “donne mediatrici” nell’area mediterranea, che abbiamo fortemente sostenuto assieme all’Unione europea).  

Di grande rilievo, infine, i finanziamenti e le altre forme di contributo forniti al settore delle missioni Onu, che vedono l’Italia fra i primi contributori in assoluto.

 

11. Un discorso a parte merita la soluzione innovativa che la Rappresentanza ha fortemente voluto con riferimento all’Impatto ambientale che le missioni Onu possono avere. Su nostra iniziativa è stato, infatti, adottato un protocollo che impegna le missioni a includere la tutela ambientale fra i criteri di programmazione e operatività. Tale impegno si lega sia all’esigenza di migliorare in maniera decisa le relazioni fra le missioni Onu e le comunità locali sia all’esigenza di agevolare i processi di normalizzazione e di pacificazione in un’ottica di medio e lungo periodo. Non è senza significato ricordare che il concetto di “tutela” dell’ambiente ricomprende anche l’attenzione verso i siti archeologici e culturali.

 

12. È il momento di qualche considerazione finale.

La possibilità di operare in Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite per quindici mesi (che includono i tre mesi iniziali di preparazione in qualità di “osservatore”) ha rappresentato un’occasione unica per esplorare dall’interno le logiche e i metodi di lavoro di un organismo che riveste un ruolo cruciale nel determinare le politiche internazionali.

La circostanza che su un numero ristretto di temi l’esercizio del diritto di veto non permetta al Consiglio di sicurezza di assumere posizione (ricordo per tutti alcuni passaggi a vuoto del costante dibattito sulla Siria oppure sulla realtà israelo-palestinese) costituisce certo un fattore di criticità, o meglio di sostanziale impotenza. Tuttavia, questo non toglie che le numerose risoluzioni adottate, e tutto il lavoro che attorno ad esse si svolge, rappresentino un punto di riferimento essenziale per la gestione delle crisi locali e regionali, per il contrasto al terrorismo, per lo sviluppo di politiche di medio periodo. In questo assume indubbio rilievo la natura vincolante delle risoluzioni adottate nell’ambito del Capitolo VII della Carta delle Nazioni unite, così come vanno ricordate le ricadute che anche le restanti risoluzioni conoscono di fatto negli ordinamenti nazionali, nelle politiche regionali e nell’azione di tutte le istituzioni Onu.

Credo che quanto ho sintetizzato nelle pagine precedenti permetta di comprendere gli spazi che pure in un contesto tanto complesso e “sbilanciato” possono essere sfruttati dai singoli Stati per far valere le proprie priorità politiche e i valori che ad esse si collegano. In alcuni casi ciò avviene muovendosi sul terreno tipicamente politico del confronto diretto tra idee e obiettivi in cerca di una sintesi “alta”. In altri, e forse sono i più numerosi, il confronto politico passa attraverso la mediazione tecnica.

Su quest’ultimo punto molto si potrebbe dire, ma una cosa è risultata evidente: la mediazione tecnica consente spesso di fare progressi che non sarebbero possibili mantenendo il confronto sul piano delle enunciazioni di principio. Limitandomi ad un esempio vicino alla nostra sensibilità di giuristi, va accettato il fatto che il concentrarsi sulle diverse concezioni di Rule of Law proprie degli Stati membri e, dunque, muovendosi sul piano delle implicazioni politiche che ne discendono, dà vita a un confronto che conduce quasi inevitabilmente a una situazione di stallo e lascia tutto come prima. Diverso l’esito nei casi in cui la discussione si attesta sugli strumenti giuridici e sulle modalità di loro applicazione alle singole materie: nonostante temi come la cooperazione internazionale, la tutela delle vittime, la riabilitazione e il reinserimento di chi ha commesso delitti siano altamente sensibili e caratterizzati da visioni diverse, un confronto tecnico destinato a rispondere a bisogni avvertiti come comuni lascia spazi di mediazione e di progresso inizialmente non sperati.

Questo introduce un altro aspetto che deve essere tenuto presente: il fattore tempo. L’iniziale sconcerto che si prova rispetto ai tempi lunghi di risposta delle Nazioni unite si tramuta poco a poco nella accettazione di due elementi: a) le grandi distanze culturali e politiche esistenti fra gli Stati richiedono spesso un lasso di tempo importante che consenta dialogo informale, consultazioni ristrette e spazi di avvicinamento che si rivelano decisivi per giungere a un accordo; b) la trasformazione degli obiettivi politici in soluzioni tecniche suscettibili di concreta applicazione rappresenta un passaggio molte volte decisivo e richiede visione lunga, costanza e coordinamento. I risultati vanno costruiti per singoli passi, sfruttando ogni possibile occasione e creandone di apposite, facendo crescere negli altri la consapevolezza del problema che si intende affrontare e l’accettazione delle soluzioni proposte. Le diplomazie forti sono quelle che hanno obiettivi chiari, coordinamento interno, capacità di costruire alleanze e, insieme, di evitare che vengano innalzati muri non sormontabili. Posizioni declamatorie possono tacitare le coscienze e apparire ben spendibili presso l’opinione pubblica, ma spesso finiscono per ostacolare il raggiungimento degli obiettivi possibili: comprendere quando si può forzare la mano, quando è il momento di tenere fermo un principio fondamentale e quando è opportuno muoversi su un terreno più contenuto fa parte dell’arte di costruire politiche efficaci nel contesto internazionale.

In questa prospettiva diventano essenziali gli strumenti di lavoro destinati a durare nel tempo: progetti nazionali oppure condivisi tra più Paesi, programmi adeguatamente finanziati, “gruppi” di lavoro che coinvolgono gli Stati con medesime sensibilità rispetto al singolo tema. L’esperienza fatta in Consiglio ha rafforzato la consapevolezza di quanto sia decisivo preparare il terreno in favore degli strumenti giuridici che si vogliono adottare e quanto sia, poi, decisivo dare corso alle soluzione adottate.

È, quest’ultimo, un aspetto critico del lavoro svolto in una sede complessa come quella newyorkese, in cui si confrontano 193 Paesi: sfruttare le capacità esistenti e individuare le azione migliori per rendere operativi gli strumenti su cui si è raggiunto un accordo. In questo, la cultura e la preparazione degli esperti possono offrire un contributo deciso al lavoro diplomatico.