Magistratura democratica

La riforma del sistema penale

di Andrea Natale

L’entrata in vigore della riforma del sistema penale ha fatto gridare molti operatori alla catastrofe. Ma – posto che non stiamo lasciando alle nostre spalle il migliore dei mondi possibili – è forse il caso di accettare che questa riforma è quella che – alle condizioni date – era possibile realizzare. Il disegno riformatore – pur tra luci e ombre – fa intravedere una qualche possibilità di superamento di alcune delle disfunzioni del sistema penale previgente. Il compito di risolvere le criticità e, soprattutto, di valorizzare gli aspetti positivi della riforma è ora consegnato a operatori ed interpreti; ma non solo: è auspicabile che tutte le istituzioni pubbliche e il mondo del cd. “privato sociale” si sentano coinvolti nell’opera di inclusione sociale che è tra i tratti più caratterizzanti della riforma.

1. Dopo avere pubblicato un articolato commento della legge delega per la riforma del sistema penale (vds. Questione giustizia, n. 4/2021), la Rivista torna sul tema con un altro numero monografico dedicato ad alcune riflessioni sul decreto delegato. In un’introduzione è difficile sintetizzare i molti temi che l’entrata in vigore della riforma propone all’attenzione degli interpreti e degli operatori. Si può solo provare a cogliere qualche spunto di riflessione generale, rimandando – per l’analisi dettagliata e ringraziandone gli Autori – ai vari contributi pubblicati in questo fascicolo.

La travagliata entrata in vigore della riforma ha rivelato – o permesso di averne conferma – i molti difetti del “sistema-giustizia” e del mondo di figure che lo popolano.

Viene, anzitutto, in rilievo un dato di particolare evidenza. A fronte di una riforma preannunciata nei suoi contenuti – in quanto largamente condizionata da criteri di delega che suggerivano quale sarebbe stata la direzione che il legislatore delegato avrebbe intrapreso –, il mondo della giustizia si è fatto cogliere impreparato. Culturalmente e, peggio, organizzativamente.

L’entrata in vigore della riforma è stata vissuta da molti operatori come un fulmine a ciel sereno, come un’Apocalisse improvvisa. Certo: una riforma di così grande impatto necessita di tempi di metabolizzazione. Ma i tempi di approvazione del decreto legislativo (e, dunque, della riforma) erano tutt’altro che imprevedibili. E, nonostante l’ampia possibilità di prefigurarsi contenuti e tempi di approvazione, ci siamo fatti cogliere di sorpresa e – come prima reazione – abbiamo cominciato a lanciare accorate grida di allarme.

 

2. Un allarme conseguente anche a una non perfetta cura di alcuni meccanismi di diritto transitorio. Una riforma di così grande impatto sul funzionamento del sistema penale avrebbe imposto una cura particolare delle disposizioni di carattere transitorio, sì da consentire agli operatori e al sistema giudiziario non tanto di metabolizzare il cambiamento (perché il cambiamento prima o poi arriva e, quando arriva, lo viviamo sempre come improvviso) quanto di attrezzarsi ad affrontarlo.

E, invece, complici una delega prossima alla scadenza, un governo dimissionario, un nuovo gabinetto alle porte, il decreto delegato n. 150/2022 ha mostrato – proprio sotto il profilo delle previsioni di diritto transitorio – svariate lacune, determinando gravi incertezze e preoccupazioni in interpreti e operatori. È sufficiente pensare, per soffermarsi sui casi più eclatanti, all’assenza – in origine – di disposizioni transitorie che governassero la nuova disciplina dei termini di durata delle indagini preliminari o che chiarissero i meccanismi di diritto intertemporale della nuova udienza predibattimentale nel procedimento a citazione diretta[1].

Si trattava di lacune che determinavano incertezze interpretative difficilmente sostenibili e potenzialmente foriere di dubbi destinati a moltiplicarsi per decine di migliaia di procedimenti penali. Una incertezza di pregnanza tale da rendere necessario un differimento dell’entrata in vigore della riforma, disposto con un inedito intervento del Governo che, con un decreto legge, ha posticipato l’entrata in vigore della riforma appena approvata con un decreto legislativo[2]

Peraltro, nemmeno il differimento dell’entrata in vigore della riforma e l’introduzione di ulteriori disposizioni transitorie è stata capace di risolvere tutti i complessi problemi, se è vero che molti punti della stessa sono oggetto di vivace dibattito e – almeno in un caso – le incertezze ermeneutiche relative al diritto transitorio hanno già determinato una rimessione di una delicata questione alle sezioni unite della Corte di cassazione sull’esatta interpretazione da dare al novellato art. 573, comma 1-bis, cpp[3].

 

3. Ma la difficoltà ad accogliere la riforma non è legata solo alle imperfezioni dei meccanismi di diritto intertemporale. In larga parte, tale difficoltà è legata a scarsa organizzazione. 

Per esempio, non risulta che siano state approntate tutte le necessarie modifiche ai registri informatici (e tutti noi possiamo immaginare quanto il funzionamento della macchina giudiziaria sia oggi condizionato da essi); e nemmeno si hanno notizie rassicuranti sul versante dell’apparato tecnologico che dovrà supportare la riforma (implementazione di software per il processo penale telematico; acquisto di dotazioni hardware per processo penale a distanza e documentazione audiovisiva degli atti di indagine e dell’assunzione delle prove di natura dichiarativa). 

Altro esempio: non si ha notizia di significative riflessioni da parte degli uffici giudiziari sulla necessità di rivedere la loro organizzazione in previsione delle ricadute che la riforma avrà sul sistema: se uno degli obiettivi della riforma è quello di diminuire il numero di procedimenti che approdano a dibattimento, ci si dovrebbe aspettare un rafforzamento degli uffici dei giudici per le indagini preliminari o delle risorse da destinare ai settori degli uffici giudicanti che dovranno celebrare le udienze predibattimentali (se ne occupano in questo fascicolo Maccora e Battarino). Salvo lodevoli eccezioni, non risulta che ciò sia avvenuto. 

Altro esempio: il nuovo sistema di pene sostitutive avrà un impatto enorme sugli Uffici di esecuzione penale esterna; orbene: solo con ritardo, alcuni – nemmeno tutti – gli uffici giudiziari hanno cominciato a ragionare sui modi per rendere sostenibile la riforma per gli Uepe[4].

 

4. Ma le vere difficoltà non sono legate solo alla scarsa prontezza nell’accogliere la riforma con interventi di carattere organizzativo. Tutti i protagonisti del sistema giudiziario – magistrati, avvocati e non solo – hanno manifestato una seria resistenza a confrontarsi con i contenuti della riforma:

i) i magistrati requirenti, che censurano – tra l’altro – il sistema di controlli sulla tempestività dell’iscrizione delle notizie di reato, la nuova disciplina dei termini di durata delle indagini preliminari;

ii) i magistrati giudicanti, che – tra i mille problemi interpretativi che la riforma propone – vivono come un fattore di rallentamento il meccanismo di applicazione delle pene sostitutive, vissuto come inutile aggravio procedurale;

iii) i giudici dell’impugnazione, che vivono con la spada di Damocle dell’improcedibilità costantemente puntata alla schiena;

iv) l’avvocatura, che teme che la riforma della regola di giudizio dell’udienza preliminare (e dell’udienza predibattimentale) finisca con il rendere un inutile orpello la celebrazione del dibattimento (che parte con una ragionevole prognosi di condanna formulata a monte); sempre l’avvocatura, che censura la nuova disciplina delle impugnazioni, temendo che essa determini una perdita di garanzie per le persone condannate in primo grado. 

E, poi, ovviamente, c’è l’opinione pubblica, che vive come un dramma l’ampliamento delle ipotesi di procedibilità a querela di parte[5]; che vive come un’ingiustizia manifesta la possibilità che lo Stato possa rinunciare alla punizione del delinquente per essere il fatto da questi commesso di particolare tenuità; che vive come una beffa la possibilità che – dopo la commissione di un reato – ce la si possa cavare con pene sostitutive ritenute a basso contenuto afflittivo; che vive come una burla l’introduzione nel processo di meccanismi di giustizia riparativa. 

 

5. Beninteso, alcune di queste critiche colgono problemi autentici che la riforma solleva. Ma, in larga parte, esse rivelano – spesso con toni eccessivamente allarmistici – una resistenza culturale al cambiamento che finisce con il trascurare le macroscopiche disfunzioni del sistema penale previgente.

Giova ricordare alcune di tali disfunzioni: (1) il nostro sistema penale non riesce a garantire il rispetto del principio di ragionevole durata del processo, un diritto fondamentale protetto dalla Cedu e dalla Costituzione della Repubblica italiana[6] e che ha comportato un rilevante numero di condanne da parte della Corte Edu; (2) il nostro sistema penale produce un abnorme numero di procedimenti penali che – come esito – hanno una declaratoria di estinzione del reato per prescrizione (104.276 prescrizioni dichiarate nel solo anno 2021)[7]; (3) il nostro sistema penale – con il fallimento dei sistemi di filtro di accesso al giudizio – determina un tasso di esiti assolutori che supera i livelli della fisiologia: gli ultimi dati disponibili (per il periodo 2021-2022) rivelano che gli esiti dei giudizi di primo grado sono rappresentati da sentenze di assoluzione nel 47,8% dei casi; da sentenze di condanna nel 44,8% dei casi; da sentenze cd. promiscue (condanna e assoluzione) nel 7,4% dei casi[8]; (4) il nostro sistema penale produce un tasso di carcerizzazione molto elevato: al 31 maggio 2023, a fronte di una capienza regolamentare degli istituti di 51.153 posti disponibili, risultavano detenute 57.230 persone[9]; ed è noto quale sia lo stato di “vivibilità” del nostro sistema penitenziario[10]; (5) il nostro sistema penale – nel produrre carcere in eccesso – non produce nemmeno maggiore sicurezza, se è vero – come riferito dal Ministro della giustizia nel rispondere a un’interrogazione parlamentare – che, alla data del 13 dicembre 2022, le persone condannate in attesa di una risposta dalla magistratura di sorveglianza sulle richieste di applicazione di una delle misure alternative alla detenzione previste dall’ordinamento penitenziario (i cd. liberi sospesi) erano 90.120[11]; si tratta di un numero enorme: 90mila persone irrevocabilmente condannate, in attesa di sapere se dovranno andare in carcere o essere sottoposte a misure trattamentali extracarcerarie (con buona pace di chi è convinto che i delinquenti scorrazzeranno liberi per le città “per colpa” delle pene sostitutive introdotte dalla riforma…).

 

6. E, dunque, non stiamo lasciando alle nostre spalle il migliore dei mondi possibili. Ma – si dirà – le risposte a quelle disfunzioni non sono quelle tratteggiate dalla riforma Cartabia; e – a tale obiezione – si accompagna il consueto richiamo alla necessità di razionalizzare le procedure, fare una seria depenalizzazione, rivedere il catalogo dei reati, e via seguitando. Tuttavia, la composita maggioranza che ha sostenuto l’approvazione della legge delega non aveva un grado di coesione tale da immaginare che si potesse ripensare il catalogo dei reati, avventurandosi in un’azione di depenalizzazione.

Un sano realismo, dunque, impone di prendere atto di ciò che è; lasciando un attimo da parte il rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere…

Non è qui possibile ripercorrere tutti i nodi problematici che la riforma propone. Per quello, non si può che rimandare alla lettura dei vari contributi pubblicati in questo fascicolo. In queste sintetiche note introduttive ci si può solo avventurare in brevi flash.

Primo. La necessità di aumentare l’efficienza del processo penale ha determinato il legislatore a introdurre una serie di meccanismi che, negli auspici, dovrebbero: (a) dare tempi “certi” alle indagini preliminari; (b) condurre a giudizio solo i casi in cui gli elementi raccolti nel corso delle indagini abbiano una consistenza qualificata. Il rischio evidente è che il sistema giudiziario sposti il fuoco di interesse verso ciò che è facile dimostrare in giudizio, marginalizzando fenomeni criminali che richiedono maggior impegno nel momento inquirente e maggior fatica processuale nel momento processuale. Vi è il rischio, in definitiva, che si determini – per usare parole spese in questo fascicolo – una «eterogenesi dei fini» (De Franco) e che, in nome dell’«efficienza della giurisdizione», si giunga a una «fuga dalla giurisdizione» (Ruta).

Secondo. La necessità di rendere più efficienti i giudizi di secondo grado e di legittimità ha indotto il legislatore a responsabilizzare le parti private al momento della proposizione degli atti di impugnazione e ha aumentato il numero di casi in cui le impugnazioni verranno trattate con udienza in camera di consiglio (si rimanda ai contributi di Mori e Magi). Una marginalizzazione della pubblicità del processo che – in nome di una certamente necessaria snellezza di forme – può introdurre riflessi di burocratizzazione in tali delicate fasi del giudizio: «sarà il futuro a dire quale sia il punto di equilibrio che la prassi applicativa saprà trovare tra esigenze – talora in frizione tra loro – di efficienza (cui si accompagna sempre il rischio di burocratizzazione) e di pubblicità delle forme di esercizio della funzione nomofilattica» (Magi).

Terzo. Il legislatore delegato non ha recepito – in tutta la sua portata – la delega attribuita dal Parlamento in ordine ai criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale. Si tratta di un tema cui – nel commentare la legge delega – questa Rivista aveva dedicato ampio spazio, per l’evidente rilievo costituzionale della questione. Se per la legge delega i criteri di priorità – che dovevano essere predeterminati e trasparenti – dovevano essere adottati dagli uffici del pubblico ministero «nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge», il legislatore delegato ha operato un intervento “minimalista”, di segno non totalmente sovrapponibile al criterio di delega; si è infatti introdotto nell’ordinamento l’art. 3-bis disp. att. cpp, che prevede che «nella trattazione delle notizie di reato e nell’esercizio dell’azione penale il pubblico ministero si conforma ai criteri di priorità contenuti nel progetto organizzativo dell’ufficio». La determinazione dei criteri di priorità nella trattazione delle notizie di reato affidata ai progetti organizzativi degli uffici di procura certamente sdrammatizza i timori di chi paventava un condizionamento esterno – schiettamente politico – del concreto esercizio delle indagini e, dunque, della giurisdizione. Per altro verso, però, affida una nuova responsabilità agli attori del sistema giudiziario; il che rende ancora più urgente una riflessione sul “come” debbano essere elaborati i progetti organizzativi e sul punto di equilibrio che deve essere raggiunto nella dialettica tra gerarchia e gestione partecipata degli uffici di procura. Un tema che, evidentemente, sarà all’attenzione del Consiglio superiore della magistratura, chiamato ad approvare una nuova circolare sull’organizzazione degli uffici di procura[12].

Quarto. Si è detto che la cd. riforma Cartabia non ha affrontato uno dei veri nodi di insostenibilità del sistema penale: si allude all’ipertrofia del penale e alla cieca – ma malriposta – fiducia nel fatto che il moltiplicarsi delle fattispecie di reato possa produrre una società più giusta e ordinata. Il non essere intervenuti su questi nodi – di politica criminale, ma forse, ancor prima, di cultura del diritto – è sicuramente un’occasione persa. Ma – lo si è detto – non si sono determinate le condizioni per farlo. In questa prospettiva, il disegno riformatore – pur nel contesto di un sistema ad azione penale obbligatoria – ha introdotto meccanismi di «discrezionalità di sistema», capaci di rendere “sostenibile” (sul piano dei numeri) e “ragionevole” (sul piano della qualità e della quantità) la risposta sanzionatoria da offrire ai fenomeni di devianza criminale. Siamo ancora in un sistema penale «inflazionato», perché «il Parlamento non vuole o non può abolire o depenalizzare»; la risposta – flessibile – proposta dal disegno riformatore è allora quella di introdurre una «discrezionalità di sistema, alla quale partecipano tutte le parti del processo, coinvolgendo il giudicante»; si pensi all’aumento dei casi di procedibilità a querela; ma – anche – ai meccanismi di diversion (come le procedure estintive per le contravvenzioni alimentari o l’estensione dei casi di messa alla prova); ma – ancora – a tutte le alternative sanzionatorie che si profilano con le pene sostitutive: «sono tutte alternative (…) che cancellano la staticità del discorso classico sulla pena semplicemente “meritata”, come se fosse un monoblocco di retribuzione-proporzione fissata e fotografata nel passato della “colpevolezza per il fatto”». Tutto ciò imporrà di «costruire una nuova cultura della discrezionalità»[13].

Quinto. L’attribuzione di maggiori spazi di discrezionalità attribuisce agli attori processuali – tutti, nessuno escluso – nuove responsabilità. Ciascun attore processuale sarà inevitabilmente costretto a ripensare il proprio ruolo, a ripensare un immaginario professionale sedimentato in anni di esperienza e tradizione. Il pubblico ministero, per esempio, non potrà più accontentarsi di “fare le indagini” e pensare che, poi, “se la vedrà il giudice” (come scherzosamente si sente talora dire): dovrà pensare con maggiore serietà alla solidità del risultato dell’azione inquirente. Ma non solo. Il pubblico ministero non potrà più “pensarsi” soltanto come promotore dell’azione penale: dovrà immaginare se – nel contesto delle indagini – sia sensato (e in che termini) proporre alla persona sottoposta ad indagini percorsi di messa alla prova (si allude alla messa alla prova su proposta del pm) o se sia possibile sollecitare meccanismi di estinzione di talune contravvenzioni prima del (e in alternativa al) giudizio (si allude all’estinzione delle contravvenzioni alimentari). 

I giudici di cognizione, per parte loro, non potranno più pensarsi come investiti del sacerdotale compito di accertare la verità (beninteso: processuale) e somministrare anni di galera. I giudici di cognizione avranno la responsabilità di “guardare” alle parti del processo – possibilmente con occhi attenti – e verificare se vi siano spazi di conciliazione (che troveranno, eventualmente, sede nei percorsi di giustizia riparativa introdotti dalla riforma)[14] e – se non ve ne sono – dovranno immaginare quale sia la “giusta pena” da irrogare alla persona della cui colpevolezza sono convinti al di là di ogni dubbio ragionevole: muta la fisionomia dei giudici di cognizione: «il “mormorante evocatore del passato remoto”, per dirla con le parole che Thomas Mann riservava al narratore di storie, sarà d’ora in avanti sempre più tenuto ad attrezzarsi sul versante della prognosi dei comportamenti futuri, dovendo incorporare parte dei compiti del magistrato di sorveglianza (…). [Il mutamento di] focus della prognosi impone un salto di qualità: non più soltanto (o in misura prevalente) il giudizio sull’astensione dalla recidiva, ma, accanto a tale componente “negativa”, la valutazione “positiva” sulla idoneità della misura sostitutiva (in questo senso, anche della pena pecuniaria) a favorire il percorso di reintegrazione sociale del condannato»[15]

Ma anche gli avvocati dovranno ripensare il proprio ruolo e re-immaginare la loro fisionomia professionale. Stare dalla parte dell’inquisito (o della vittima) imporrà – con la riforma – un più coinvolgente impegno professionale: non ci si potrà più accontentare di spendersi nell’agone processuale per ottenere l’assoluzione dell’imputato (o la tutela dell’offeso); per esercitare in modo pieno il ministero difensivo, l’avvocato dovrà – laddove l’assoluzione non sia un’opzione plausibile – stare dalla parte dell’inquisito anche in un altro modo: da un lato favorendo, quando possibile, percorsi di riparazione funzionali a ricomporre la frattura determinata dal reato; dall’altro lato, ove ciò non sia possibile e l’inflizione di una pena sia un’evenienza concreta, adoperandosi per “costruire” – insieme al proprio assistito e agli altri protagonisti del procedimento – un percorso sanzionatorio calibrato sulla specifica figura di “quell’imputato”[16]. Anche così – lavorando per una pena sostitutiva (e valutando se essa favorisca la risocializzazione in misura superiore a un percorso carcerario o a un percorso davanti al tribunale di sorveglianza) – l’avvocato può stare genuinamente dalla parte dell’inquisito. 

Sesto. La svolta copernicana che la riforma intende imprimere al sistema penale, però, è solo una promessa. Per carità: si tratta di una promessa di rango costituzionale, se è vero che l’unica funzione della pena esplicitamente considerata dalla Carta è quella rieducativa[17].

Ma sempre di “promessa” si tratta. La scommessa di coniugare retribuzione e risocializzazione; di favorire percorsi di riparazione e rammendo; di ridurre – con un’autentica opera di reinserimento sociale – i tassi di recidiva sono, oggi, solo una promessa. Rischiano di essere parole per anime belle. 

 

7. Il reinserimento sociale “praticato” – e non solo promesso – mediante la risposta penale potrà funzionare solo se – dell’attuazione di tale promessa (che è la promessa costituzionale) – tutti saranno messi in condizioni di operare in modo adeguato (si allude agli Uepe; ai Centri di giustizia riparativa; ai servizi di assistenza alle vittime di reato) e se tutti si sentiranno responsabili di quel risultato: non solo pubblici ministeri, giudici e avvocati, ovviamente. A doversi sentire coinvolti dovranno essere anche gli altri attori sociali: istituzioni pubbliche (si pensi ai servizi pubblici di assistenza alla persona; si pensi agli enti territoriali) e private (si pensi al mondo del terzo settore e del cd. privato sociale). La sinergia tra il sistema penale e il sistema sociale è la vera scommessa. Per il funzionamento della riforma sarà infatti indispensabile un maggiore coinvolgimento degli enti locali territoriali[18] e degli enti del terzo settore[19] nella costruzione di percorsi che favoriscano l’inclusione sociale delle persone condannate; in altri termini, «si tratta di contaminare il sistema penitenziario con elementi di inclusione sociale»[20], sicuramente rientranti nel perimetro dei doveri istituzionali degli enti territoriali e – altrettanto sicuramente – coerenti con il dettato costituzionale; come a dire: l’inclusione sociale è un tema che coinvolge tutte le istituzioni; non solo l’amministrazione penitenziaria e il sistema giudiziario.

Per dirla con Mario Sbriccoli, «un lungo lavoro strategico sembra realisticamente la sola via praticabile. (…) Un lavoro lungimirante che riorganizzi la presenza dei tutori dell’ordine nelle città, che impianti meccanismi di riparazione del danno e procedure di mediazione tra aggressore e vittima, che coinvolga i mezzi di informazione in un’opera di razionalità informativa, dissuadendoli dalla attuale funzione di allarme a intermittenza e dall’opera di cattiva informazione che nasce dalle enfasi, dalle metafore belliche, dai toni parossistici (…). Un lungo lavoro, comme toujours. La fuoriuscita dalla vendetta non è, da secoli, impresa da poco»[21].

 

 

1. Per cui cfr. Corte di cassazione, Ufficio del massimario, disciplina transitoria e prime questioni di diritto intertemporale del d.lgs 10 ottobre 2022, n. 150, §§ 16 e 18.

2. Si tratta del dl n. 162/2022. Il differimento dell’entrata in vigore della riforma dettato con decreto legge è stato oggetto di un’articolata questione di legittimità costituzionale proposta dal Tribunale di Siena (sul punto, cfr. Questione giustizia online, 11 novembre 2022, www.questionegiustizia.it/articolo/ordinanza-tribunale-di-siena-11-11-2022-di-rimessione-di-q-l-c-relativa-all-art-6-del-d-l-162-2022). L’incidente di legittimità costituzionale è stato discusso dalla Corte costituzionale all’udienza del 7 giugno 2023. Nel momento in cui si scrive, non è ancora noto l’esito della decisione.

3. All’udienza del 25 maggio 2023, le sezioni unite hanno affermato che «l’art. 573, comma 1-bis, cod. proc. pen., introdotto dall’art. 33 del d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, si applica alle impugnazioni per i soli interessi civili proposte relativamente ai giudizi nei quali la costituzione di parte civile è intervenuta in epoca successiva al 30 dicembre 2022, data di entrata in vigore della citata disposizione ai sensi dell’art. 99-bis del predetto d. lgs. n. 150 del 2022».

4. Il primo protocollo – stipulato dagli uffici giudicanti, dall’avvocatura e dall’Uepe – risulta essere quello approvato a Milano; cfr. Schema operativo per l’applicazione delle pene sostitutive previste dalla c.d. Riforma Cartabia, in Questione giustizia online, 17 febbraio 2023 (www.questionegiustizia.it/articolo/schema-operativo). Nel commentarne l’approvazione, questa Rivista aveva annotato: «Lo “schema operativo” milanese è forse solo un primo passo. Ma, trattandosi di una evidente dimostrazione di capacità di dialogo, di razionalità e di pragmatismo è potenzialmente rivoluzionario». Al “protocollo milanese” hanno fatto seguito altre iniziative, tra le quali è utile segnalare il protocollo adottato nel circondario di Napoli Nord e nel circondario di Torino; detti protocolli sono pubblicati su www.sistemapenale.it.

5. In replica a molti allarmismi, l’esecutivo di Magistratura democratica, il 23 gennaio 2023, aveva commentato: «Noi rimaniamo legati ad un’idea di diritto penale in cui la pena – ossia l’inflizione di una privazione di libertà al condannato – costituisce un “male” che si giustifica solo con la necessità di proteggere beni di rilievo costituzionale, in cui la risposta sanzionatoria deve essere calibrata sulla gravità del fatto di reato, sul rilievo del bene giuridico protetto dall’ordinamento e sull’intensità della offesa procurata dalla condotta delittuosa. Per questo crediamo che l’estensione del regime di perseguibilità a querela di un rilevante numero di figure di reato non necessariamente ponga in discussione la “tenuta” del sistema penale. Crediamo piuttosto che rimettere alla persona offesa la scelta sulla perseguibilità di un certo reato – quando essa ha ad oggetto un bene giuridico disponibile e, comunque, leso in modo non irreversibile – possa rispondere all’interesse della giustizia. Si è censurato il fatto che, in tal modo, si impedisce l’arresto degli autori di reato. Questa critica, però, trascura il fatto che – là dove la persona offesa proponga querela (anche oralmente) – l’arresto è comunque consentito. E si trascura altresì il fatto che, in ogni caso, il processo penale, nel suo ordinario svolgimento, dovrebbe essere celebrato con un imputato che si presenta davanti ai tribunali in stato di libertà»; per il testo integrale del comunicato, cfr. esecutivo di Md, 23 gennaio 2023, Su alcuni aspetti della riforma penale: per una nuova idea di risposta penale, 23 gennaio 2023 (www.magistraturademocratica.it/articolo/su-alcuni-aspetti-della-riforma-penale-per-una-nuova-idea-di-risposta-penale).

6. Cfr. Consiglio d’Europa, European judicial systems (Rapporto Cepej), 2022 (su dati del 2020), p. 75 (https://rm.coe.int/cepej-fiche-pays-2020-22-e-web/1680a86276); il cd. “disposition time” evidenziava una durata dei procedimenti penali che, in primo grado, era superiore di tre volte rispetto alla mediana dei Paesi del Consiglio d’Europa; in secondo grado, il dato era superiore di quasi dieci volte rispetto alla mediana; in sede di legittimità, il disposition time era superiore di circa il doppio rispetto alla mediana dei Paesi aderenti al Consiglio d’Europa. I dati relativi agli anni successivi al 2020 – registrato nella Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2022 del primo presidente della Corte di cassazione, Pietro Curzio, all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2023, p. 56 (www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Cassazione_Relazione_2023.pdf) – mostrano, però, un trend in via di miglioramento.

7. Cfr. Relazione, op. ult. cit., p. 57. Il dato di 104mila prescrizioni è così disaggregato: circa 32mila prescrizioni in fase di indagini preliminari; circa 45mila prescrizioni dichiarate all’esito del giudizio di primo grado; circa 23mila prescrizioni dichiarate all’esito del giudizio di appello; meno di 1000 prescrizioni dichiarate all’esito del giudizio di legittimità.

8. Cfr., per un’analisi più approfondita, Relazione, op. ult. cit., pp. 59-60. In occasione della pubblicazione del fascicolo dedicato alla legge delega, nel commentare un analogo dato, questa Rivista aveva osservato: «Certamente, ciascuna assoluzione può trovare cause variegate: esiti assolutori possono trovare spiegazioni in esiti estintivi non immaginabili al momento dell’esercizio dell’azione penale (esito positivo della messa alla prova; estinzione del reato per remissione di querela a seguito di sopravvenuti risarcimenti del danno) o nella considerazione di cause di non punibilità che non implicano una sconfessione dell’ipotesi d’accusa (con l’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto).
Resta tuttavia il fatto che un dato così rilevante (oltre il 50% di assoluzioni, con un dato consolidato da qualche anno) denuncia in sé l’inefficienza e l’iniquità del meccanismo di selezione delle notizie di reato per cui si ritiene di dover esercitare l’azione penale; inefficienza per il dispendio di energie processuali che impegnano i meccanismi del giudizio per trattare procedimenti penali che, probabilmente, avrebbero potuto e dovuto essere “fermati” prima; iniquità per la posizione delle persone che – siano esse imputati o persone offese – hanno visto pronunciare sentenza di assoluzione dopo anni di faticoso coinvolgimento in un processo penale» (così A. Natale, La cd. “riforma Cartabia” e la giustizia penale, in Questione giustizia online, 24 marzo 2022, p. 6, www.questionegiustizia.it/data/doc/3181/introduzione-a-natale.pdf).

9. Cfr. le statistiche del DAP al 31 maggio 2023 (www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?facetNode_1=0_2&contentId=SST431144&previsiousPage=mg_1_14#), ove è presente anche una serie di dati disaggregati. Sul sito del Ministero della giustizia sono presenti ulteriori tabelle, utili per analisi di maggior dettaglio.

10. Si rimanda – per ulteriori informazioni – alle relazioni annuali predisposte dall’Autorità garante per i diritti delle persone private della libertà personale; cfr. R. de Vito, Una miniera d’oro: la Relazione al Parlamento 2022 del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, in Questione giustizia online, 23 giugno 2022 (www.questionegiustizia.it/articolo/una-miniera-d-oro-la-relazione-al-parlamento-2022-del-garante-nazionale-dei-diritti-delle-persone-private-della-liberta-personale); a commento della Relazione al Parlamento per l’anno 2023, cfr. R. De Vito, Relazione al Parlamento 2023: i «sette anni in Tibet» del Garante Nazionale delle persone private della libertà personale, ivi, 20 giugno 2023 (www.questionegiustizia.it/articolo/commento-rel-garante). 

11. Cfr. l’interrogazione n. 4/00072 del deputato R. Giachetti, cui ha fatto seguito la risposta scritta del Ministro della giustizia, del 13 febbraio 2023 (https://aic.camera.it/aic/scheda.html?numero=4/00072&ramo=CAMERA&leg=19).

12. L’intervento del Consiglio superiore della magistratura è reso necessario anche – e soprattutto – dalla reintroduzione del “sistema tabellare” anche per gli uffici della Procura della Repubblica; cfr. art. 13 l. n. 71/2022.

13. Si rimanda alle – come sempre stimolanti – osservazioni di M. Donini, Diritto penale e processo come Legal system. I chiaroscuri di una riforma bifronte (Introduzione), in D. Castronuovo - M Donini - E.M. Mancuso - G. Varraso (a cura di), Riforma Cartabia. La nuova giustizia penale, Cedam/Wolters Kluwer, Milano, 2023, pp. 15-18.

14. Si rimanda ai commenti di M. Bortolato e M. Bouchard, in questo fascicolo.

15. Così – già a commento della legge delega – R. De Vito, Fuori dal carcere? La “riforma Cartabia”, le sanzioni sostitutive e il ripensamento del sistema sanzionatorio, in questa Rivista trimestrale, n. 4/2021, pp. 28-37 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/984/4-2021_qg_devito.pdf). Si vedano anche le acute riflessioni dell’Autore pubblicate in questo fascicolo.

16. Sul ruolo del difensore e sul contributo che questi può dare al momento dell’eventuale applicazione di pene sostitutive, si rimanda al contributo, pubblicato in questo fascicolo, di A. Calcaterra.

17. Il che, evidentemente, non priva di rilievo costituzionale le “altre” funzioni della pena. Secondo la Consulta, la concezione polifunzionale della pena è coerente con il dettato costituzionale e i profili di «reintegrazione, intimidazione, difesa sociale (…) hanno un fondamento costituzionale»; tuttavia, è altrettanto vero che la considerazione delle altre funzioni della pena non è di portata «tale da autorizzare il pregiudizio della finalità rieducativa espressamente consacrata dalla Costituzione nel contesto dell’istituto della pena. Se la finalizzazione venisse orientata verso quei diversi caratteri, anziché al principio rieducativo, si correrebbe il rischio di strumentalizzare l’individuo per fini generali di politica criminale (prevenzione generale) o di privilegiare la soddisfazione di bisogni collettivi di stabilità e sicurezza (difesa sociale), sacrificando il singolo attraverso l’esemplarità della sanzione. È per questo che, in uno Stato evoluto, la finalità rieducativa non può essere ritenuta estranea alla legittimazione e alla funzione stesse della pena» (cfr. Corte costituzionale, sent. n. 313/1990).

18. Cfr. l. n. 328/2000.

19. Cfr. il cd. “Codice del terzo settore”, approvato con d.lgs n. 117/2017.

20. Il tema è diffusamente trattato nei lavori degli Stati generali dell’esecuzione penale (www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_19_3.page?previsiousPage=mg_2_19#a2u) e, più in particolare, nella relazione del Tavolo 17 – «Processo di reinserimento e presa in carico territoriale» (www.giustizia.it/resources/cms/documents/sgep_tavolo17_relazione.pdf).

21. Cfr. M. Sbriccoli, Storia del diritto penale e della giustizia. Scritti editi e inediti (1972-2007), Giuffrè, Milano, 2009, p. 44.