Magistratura democratica

La riforma cd. “Cartabia” in tema di procedimento penale. Una pericolosa eterogenesi dei fini

di Emanuele De Franco

Con il decreto legislativo n. 150/2022, attuativo della legge n. 134/2021 (cd. "Cartabia"), il legislatore è intervenuto sul tema del procedimento penale stravolgendo il campo dei rapporti tra giudice e pubblico ministero. In relazione ad alcuni degli istituti introdotti – su tutti, l’iscrizione coatta prevista dal nuovo art. 335-ter cp e il nuovo ambito applicativo dell’art. 408 cpp –, pare che il legislatore abbia fatto confusione, rendendo il giudice un pubblico ministero e il pubblico ministero un giudice. Il tutto è avvenuto in nome di principi di efficienza aziendalistica e in sacrificio del principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale. La "riforma Cartabia" in tema di procedimento penale, dunque, rischia di rappresentare una pericolosa eterogenesi dei fini dove gli scopi diventano mezzi e i mezzi diventano scopi.

1. Premessa: “fatto” e “fattispecie” nel processo penale / 2. L’iscrizione coatta / 3. I presupposti per l’iscrizione della notizia di reato. La modifica dell’art. 335 cpp / 4. Retrodatazione dell’iscrizione, termine per le indagini preliminari, inizio dell’azione penale, forme e termini: risposte fuorvianti ai problemi mai risolti dell’ipertrofia del sistema penale / 5. La richiesta di archiviazione per impossibilità di formulare una ragionevole previsione di condanna / 6. Conclusioni

 

1. Premessa: “fatto” e “fattispecie” nel processo penale

Non v’è dubbio che la materia del processo penale sia allo stato uno dei campi di battaglia su cui si gioca forse la sfida più importante di tutte, quella che riguarda la tenuta del nostro sistema democratico. Se ciò è vero, si capisce bene perché il legislatore delegato, con il d.lgs n. 150 del 2022, attuativo della l. n. 134 del 2021, cd. “Cartabia”, sia intervenuto in modo così massiccio e radicale sul sistema previgente. In questa sede si tralasceranno gli innumerevoli aspetti critici riguardanti la scelta della legislazione delegata come strumento di riforma di entrambi i codici. Il dato di fondo, però, appare difficilmente contestabile: a fronte di una legge delega fortemente “indeterminata”, il legislatore “delegato” (rectius, il Consiglio dei ministri) è intervenuto sull’impianto codicistico con un’opinabile ambizione di organicità, senza, peraltro, un reale e preventivo, quanto opportuno, percorso di confronto con la dottrina, la magistratura e l’avvocatura. Per evidenti ragioni, mi soffermerò solo su pochi aspetti delle modifiche in tema di procedimento penale recentemente introdotte che, tuttavia, a mio avviso, sono espressive di una nuova idea di procedimento penale. 

Nelle università si insegna tuttora che uno dei corollari di un buon sistema processuale accusatorio è il discrimen dogmatico tra “fatto” e “fattispecie”. Del “fatto” si occupa il pubblico ministero; della “fattispecie” si occupa il giudice. Il pubblico ministero formula il capo di imputazione; il giudice redige la sentenza. Il pubblico ministero ha il potere di modificare l’imputazione (cfr. artt. 423 e 516 ss. cpp), il giudice può al massimo sollecitare tale modifica. Allo stesso modo, il giudice può riqualificare la fattispecie, ma solo a struttura di fatto inalterata (si legga l’art. 521 cpp). Egli non è mai vincolato alle conclusioni del pubblico ministero. Il giudice per le indagini preliminari, lungi dal poter formulare un’imputazione, può soltanto ordinare al pubblico ministero di farlo. Ciò perché nel nostro sistema processuale il pubblico ministero è il dominus del fatto, il giudice il dominus della fattispecie. Si badi bene, questa differenza (ontologica, dogmatica, semantica e sistematica) tra “fatto” e “fattispecie”, lungi dall’apparire un mero orpello accademico, è in realtà un’irrinunciabile conquista di civiltà. Com’è noto, infatti, i sistemi inquisitori sono caratterizzati da un’invadenza del giudicante rispetto al magma dell’imputazione. In tale scenario, vi è un giudice-Leviatano che sovrasta le parti del processo e, con esse, l’imputato. Colui che formula l’accusa è ridotto a mera figura burocratica e a pigro notaio che declama la contestazione. Nel suo indimenticabile manuale, è Cordero a ricordare che «nel tardo Settecento è ancora luogo comune che l’imputazione sia formulabile dal giudice». Viceversa, nei sistemi accusatori, il giudicante è (e deve essere) terzo e imparziale rispetto al fatto, sovraintendendo alla celebrazione del rito nel quale la prova viene assunta in contraddittorio tra le parti. Sotto tale profilo, l’art. 187 cp, secondo cui «sono oggetto di prova i fatti che si riferiscono all’imputazione», è norma di sistema. L’imputazione è, dunque, la formulazione del fatto addebitato all’imputato, che è al tempo stesso l’oggetto della prova. Se ciò è vero, il giudice non si deve occupare dell’imputazione, perché se egli lo facesse entrerebbe nel campo della prova, violando i principi di terzietà e imparzialità. Il giudice, dunque, in tal senso deve stare “lontano” dal fatto, perché il suo lavoro consiste nel valutarlo e nel ricondurlo a fattispecie. Sotto questo profilo, se il fatto è la pasta, tocca al pubblico ministero metterci le mani e non al giudice; tocca, invece, al giudice terzo e imparziale valutare il quadro accusatorio emerso a seguito dell’istruzione dibattimentale. Allo stesso modo, è coerente che il pubblico ministero non abbia mai l’ultima parola sulla qualificazione della fattispecie. Egli può e deve essere corretto ogni qual volta emerga un’esigenza di iuris-dictio

Il modello costituzionalmente orientato del processo penale, nel quale, ancora secondo Cordero, «le regole sono tutto», in sostanza si basa su questi due grandi pilastri: il fatto e la fattispecie, il pubblico ministero e il giudice. Si tratta, com’è noto agli operatori del diritto, di un equilibrio delicatissimo, che non sempre vive nel nostro sistema in maniera così netta. A solo titolo esemplificativo, si pensi alla sentenza di legittimità (Cass., sez. unite, sent. n. 5037/2008), nota con il nome di “Battistella”, che ha introdotto nel nostro ordinamento il potere da parte del gup di suggerire/ordinare al pubblico ministero la modifica dell’imputazione ai sensi dell’art. 423 cpp ogni qual volta emerga l’esigenza di riqualificare la fattispecie in senso più grave; sentenza volta ad adeguare la disciplina codicistica alla sentenza della Corte Edu Drassich c. Italia (sez. II, 11 dicembre 2007). “Fatto” e “fattispecie”, dunque, possono dialogare perché è sempre vivo il confronto tra il pubblico ministero – e le altre parti – e il giudice. Spesso vi è contrasto e si può assistere, nella prassi, a più o meno pericolose invasioni di campo.

D’altronde, lo studio delle modalità con cui pm e giudice interagiscono nelle dinamiche processuali risulta indispensabile anche per capire come le due figure svolgono il loro ruolo nel procedimento. Sotto questo profilo, quello dei rapporti “processuali” tra pm e giudice è anche tema ordinamentale, giacché la modifica delle regole del processo, come suo effetto automatico, conduce sempre a un loro “riposizionamento” nell’ordinamento. Non è un caso, infatti, che uno degli argomenti più divisivi in tema di giustizia penale sia proprio quello della separazione delle carriere. Chi la sostiene, in sostanza, manifesta la preoccupazione che il pubblico ministero, esercitando i suoi poteri, possa influenzare le decisioni del giudicante, invadendo arbitrariamente il campo che la dogmatica accusatoria riserva alla “fattispecie”. Le preoccupazioni, però, dovrebbero diminuire se si tenesse in debita considerazione che il nostro sistema processuale, com’è noto, è nettamente (e direi, per fortuna) orientato a un rigido principio di separazione delle funzioni, di cui la differenza tra “fatto” e “fattispecie” è una traduzione in termini di sistematica del processo. 

Vale allora la pena premettere brevi cenni sul ruolo del pubblico ministero, che Giuseppe Riccio efficacemente chiamava «mostro a due teste». Egli, dopo l’esercizio dell’azione penale, è una parte del processo, seppur portatrice di un interesse pubblico e non personale, con poteri tendenzialmente paritari rispetto a quelli della difesa. Della fase delle indagini preliminari egli sembra invece quasi dominus incontrastato, soprattutto per ciò che riguarda i segmenti relativi all’iscrizione della notizia di reato e al compimento degli atti istruttori. Si nota, ancora una volta, la dominanza del concetto differenziale tra fatto e fattispecie. Nella fase in cui sono preminenti le esigenze di raccolta degli elementi probatori, è il pubblico ministero a “dominare” il procedimento e con esso la fase dell’iscrizione. Ma se egli esercita l’azione penale, formulando l’imputazione, perde la sua “primazia” divenendo parte. Sotto questo profilo, l’attenzione del legislatore del 1988 alla semantica delle nozioni giuridiche introdotte con la riforma accusatoria è stata massima. E tutto dipende dall’esercizio dell’azione penale, ovverosia dalla formulazione dell’imputazione: prima di essa si può parlare solo di procedimento, contestazione e indagato; dopo di essa, c’è il processo, l’imputazione e l’imputato. Se tutto ciò è vero, può certamente affermarsi che se il pubblico ministero, dopo aver esercitato l’azione penale, è una parte del processo, prima di essa egli è il giudice della notitia criminis, perché egli è il garante dei diritti dell’indagato nei rapporti con la polizia giudiziaria. Si pensi alla fase del cd. “pre-procedimento”, ben nota a chi fa il pubblico ministero, riguardante tutto ciò che è logicamente e temporalmente anteriore alla fase dell’iscrizione dell’indagato; in tale fase, il magistrato inquirente è impegnato a interloquire con la polizia giudiziaria. Si pensi ancora alla gestione del cd. turno esterno e al procedimento precautelare. Ad esempio: l’arresto è atto proprio della polizia giudiziaria, ma la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass., sez. VI, 25 giugno 1993, n. 2000, Di Marco) ha più volte riconosciuto al pubblico ministero poteri informali di moral suasion, di natura assolutamente pragmatica, che tuttavia denotano un’opportuna declinazione del suo ruolo in chiave garantistica. L’intervento di controllo tipicamente giudiziario che il magistrato inquirente esercita, già nelle primissime fasi, sull’operato della polizia giudiziaria, infatti, rappresenta un’ineliminabile garanzia per la persona, anche prima che questa sia formalmente iscritta nel registro degli indagati. Questo potere del pubblico ministero, anche in conseguenza dell’interpretazione sistematica degli artt. 55, comma 2, e 56, comma 1, cpp, gli riconosce una posizione sovraordinata di indirizzo e di direttiva della polizia giudiziaria anche in materia coercitiva. Ed è proprio questo uno degli argomenti più forti che, a mio modesto avviso, andrebbe speso contro un’eventuale riforma che decidesse di separare le carriere. Infatti, solo un soggetto appartenente per ordine e per cultura alla magistratura potrebbe esercitare un reale controllo di legalità sul potere coercitivo informale della polizia giudiziaria. Tuttavia, mi pare altrettanto ovvio che la “prerogativa” di rappresentare per i cittadini il primo presidio garantistico vada anche conquistata sul campo. La sfida allora è quella di riportare il pubblico ministero nella cultura della giurisdizione, riassegnandogli il ruolo che gli è proprio: quello di primo presidio garantistico nel procedimento precautelare, di dominus del procedimento penale, di formatore del quadro probatorio pro reo e contra reum, di eventuale formulatore del capo di imputazione, di parte imparziale nel processo penale. Viceversa, una separazione ordinamentale tra pm e giudice in un sistema processuale ove è netta la loro separazione funzionale non rappresenterebbe altro che l’anticamera della riconduzione dell’inquirente sotto l’alveo del potere esecutivo in balia dei rischi connessi a una cultura poliziesca e autoritaria del diritto penale.

Ciò premesso, con le recenti modifiche in tema di processo penale sembra che il legislatore abbia confuso i piani del “fatto” e della “fattispecie” facendo, in relazione ad alcuni degli istituti introdotti, del giudice un pubblico ministero e di quest’ultimo un giudice, il tutto in nome degli obiettivi riformatori di deflazione e di riduzione dei carichi pendenti. 

 

2. L’iscrizione coatta

Tra le recenti modifiche più importanti ci sono quelle riguardanti l’iscrizione della notizia di reato e l’introduzione dell’istituto della cd. iscrizione coatta. 

A norma del nuovo art. 335-ter cpp, «quando deve compiere un atto del procedimento, il giudice per le indagini preliminari, se ritiene che il reato per cui si procede debba essere attribuito ad una persona che non è stata ancora iscritta nel registro delle notizie di reato, sentito il pubblico ministero, gli ordina con decreto motivato di provvedere all’iscrizione». Si tratta di una modifica epocale, che stravolge il campo dei rapporti tra giudice e pubblico ministero, perché autorizza ex lege il primo all’esercizio di un potere processuale che, prima della riforma, se esercitato al di fuori delle ipotesi consentite, veniva considerato strutturalmente abnorme. Com’è noto, la “sanzione” processuale dell’abnormità viene chiamata in causa dalla giurisprudenza ogni qual volta il provvedimento esaminato, per la singolarità e la stranezza del suo contenuto, risulti avulso dall’intero ordinamento processuale (cd. anomalia “strutturale”), com’era esattamente nel caso di specie (cfr., ex aliis, Cass., sez. unite, 10 dicembre 1997, n. 17). E il provvedimento di iscrizione coattiva del giudice, esercitato al di là delle ipotesi tassativamente previste, veniva considerato abnorme proprio perché emesso in violazione di un principio informatore del sistema processuale penale, quello della separazione funzionale. Se ne capivano benissimo le ragioni. In un sistema orientato alla dommatica del differenziale tra “fatto” e “fattispecie”, quella tipologia di provvedimento costituiva un’indebita ingerenza del giudice nei poteri dell’organo requirente di adottare autonome determinazioni all’esito delle indagini espletate. 

È necessario premettere che il nuovo istituto reca in sé un’indubbia portata garantistica (che, in ogni caso, era già assicurata dall’art. 415, commi 2 e 2-bis cpp) nella parte in cui rende possibile che il gip, qualora ritenga che il reato per cui si procede debba essere attribuito a una persona che non è stata ancora iscritta nel registro delle notizie di reato, ordini al pubblico ministero, che indebitamente proceda contro ignoti, di provvedere all’iscrizione. Sotto questo profilo, l’istituto è figlio in linea retta del nuovo art. 335 cp, che, come avremo modo di approfondire, aggancia l’iscrizione a presupposti più stringenti. Tuttavia, nulla vieta all’iscrizione coattiva di trasformarsi nella prassi in un indebito strumento di direzione delle indagini. 

I rischi connessi al nuovo istituto, a sommesso avviso di chi scrive, sono plurimi:

a) nel sistema previgente, il gip poteva “indirizzare” il potere investigativo del pubblico ministero solo dopo aver valutato la fondatezza della sua richiesta di archiviazione, ciò in due ipotesi tassativamente disciplinate: 1) nell’ambito procedimentale dell’art. 409 cpp, indicando le necessarie ulteriori indagini da compiere; 2) in base al disposto dell’art. 415, commi 2, secondo periodo, e 2-bis, cpp (articoli di cui la riforma prevede l’abrogazione) secondo cui, nel procedimento a carico di ignoti, il giudice per le indagini preliminari a cui è chiesta l’archiviazione ovvero l’autorizzazione a proseguire le indagini, qualora ritenga che il reato sia ascrivibile a una persona già individuata, ordina di iscriverne il nome nell’apposito registro. 

Ora, invece, diversamente dalla normativa previgente (art. 415, commi 2 e 2-bis, cpp) il giudice potrà emettere l’ordine di iscrizione tutte le volte in cui egli sia chiamato a «compiere un atto del procedimento», divenendo la disposizione applicabile anche ai procedimenti contro indagati noti; ciò consentirà al giudice di individuare ulteriori persone da iscrivere nel registro, oltre a quelle che già vi figurano. Questo significa che il gip può ordinare l’iscrizione non solo, com’era nel vecchio sistema, quando egli si trovi a “controllare” la determinazione di inazione penale del pm (rectius, richiesta di archiviazione), ma tutte le volte in cui intervenga nel procedimento, anche sotto forma di impulso, cioè nel pieno svolgimento delle indagini (richiesta di intercettazioni, richiesta di tabulati, richiesta di incidente probatorio, richiesta di proroga del termine per le indagini preliminari, etc.), con l’evidente rischio che il giudice di garanzia delle indagini preliminari si trasformi in un superiore “funzionale” dell’organo inquirente, capace di orientarne e determinarne le scelte, a partire da quella in ordine a chi debba essere indagato. Si pensi al seguente esempio: nel sistema delineato dal nuovo art. 335-ter cpp nulla vieterebbe al gip, in sede di rigetto di una richiesta d’intercettazione, di indicare al pm la persona da iscrivere, sulla quale indirizzare le nuove indagini. Come si vede, si tratta di un potere particolarmente invasivo, che sposta sul gip la facoltà di assumere in sostanza la direzione delle indagini, in spregio del principio di separazione delle funzioni. 

b) il potere del gip di intervenire nella ricostruzione fattuale compiuta dal pm tramite l’indicazione di ulteriori atti istruttori da compiere, nel vecchio sistema, risulta(va) controbilanciato dalla garanzia procedimentale della previa instaurazione del contraddittorio, seppur nelle forme attenuate nell’udienza camerale. Si tratta di un’indicazione sistematica densa di significato, che esprime il principio secondo cui il giudice non può occuparsi del fatto se non in contraddittorio tra le parti (fa ovvia eccezione il procedimento cautelare, nel quale il contraddittorio si instaura solo successivamente al primo pronunciamento del giudice). Insomma, dove c’è iurisdictio c’è anche il contraddittorio. Non nel nuovo ambito dell’art. 335-ter cpp, dove il giudice esercita il suo potere di ordinare l’iscrizione con «decreto motivato» e «sentito il pubblico ministero». E non potrebbe essere altrimenti, visto che, prima dell’intervento del giudicante, il pubblico ministero non ha compiuto alcun atto d’indagine nei confronti di chi indagato non era. Si tratta di un’implicazione preoccupante. A mio avviso, infatti, ogni qual volta il giudice si occupa “unilateralmente” del fatto non in contraddittorio tra le parti, è un giudice-inquisitore; non fosse altro per il fatto che nulla vieta che il gip che ha concesso le intercettazioni o i tabulati (ordinando in quella sede al pm di procedere nei confronti di altri soggetti) sia la stessa persona fisica che dovrà decidere su un’eventuale domanda cautelare avanzata dal pm. Lungi dal rappresentare una garanzia per l’indagato, dunque, il nuovo istituto dell’art. 335-ter cpp, autorizzando il giudice a occuparsi del fatto senza preventiva instaurazione del contraddittorio, reca in sé una portata inquisitoria che avrebbe un senso solo in un sistema in cui il pm fosse assoggettato al potere esecutivo. 

c) vanno segnalate, altresì, problematiche riguardanti l’indeterminatezza della norma. In primo luogo, il legislatore non spiega come debba avvenire l’interlocuzione tra gip e pm, limitandosi a un laconico «sentito il pubblico ministero». Potrebbe, infatti, capitare che il gip ordini l’iscrizione di persona iscritta in altro e indipendente procedimento, frutto di un provvedimento di stralcio “secretato”, verificandosi in tal caso il paradosso di una doppia iscrizione. In secondo luogo, è molto incerto l’ambito applicativo dell’istituto segnato dalla locuzione «quando deve compiere un atto del procedimento», che potenzialmente rende applicabile l’istituto a tutte le ipotesi in cui il gip è chiamato a pronunciarsi;

d) da ultimo, va segnalato che l’iscrizione coatta necessita della forma provvedimentale del decreto motivato. Sotto questo profilo, l’iscrizione coatta è, sul piano ontologico, un’iscrizione motivata (sic!) con evidenti riflessi in termini di rispetto del principio di uguaglianza, giacché vi sarebbero indagati iscritti con provvedimento non motivato del pubblico ministero e indagati iscritti, in sostanza, con provvedimento motivato del giudice. 

 

3. I presupposti per l’iscrizione della notizia di reato. La modifica dell’art. 335 cpp

Tra le modifiche al titolo II del libro V del codice di procedura penale, dedicato alla “notizia di reato”, si segnala quella riguardante l’art. 335 cpp. Ora, in attuazione della norma di delega di cui all’art. 1, comma 9, lett. p della legge n. 134, la notizia di reato è definita come «contenente la rappresentazione di un fatto, determinato e non inverosimile, riconducibile in ipotesi a una fattispecie incriminatrice». Secondo quanto precisato nella relazione illustrativa, tale espressione è mutuata per coerenza sistematica dall’art. 63 cpp, e «vale ad escludere sia la sufficienza di meri sospetti, sia la necessità che sia raggiunto il livello di gravità indiziaria». Lungi dal rappresentare una modifica di poco conto, anche la nuova formulazione dell’art. 335 cpp, che sostituisce il previgente «nonché, contestualmente o dal momento in cui risulta, il nome della persona alla quale il reato stesso è attribuito», produce sensibili effetti. A proposito, coglie nel segno la già richiamata relazione illustrativa, nella parte in cui chiama in causa la nozione di «indizi di reità» prevista dall’art. 63 cpp. L’iscrizione è, quindi, dovuta ogni qual volta dovessero emergere concreti indizi di reità a carico di una persona e non anche quando le indagini dovessero, a titolo esplorativo, svilupparsi nei suoi confronti. Non può essere revocato in dubbio, infatti, che già prima della riforma la giurisprudenza aveva più volte chiarito che l’iscrizione era possibile solo in presenza di specifici elementi indizianti e non di meri sospetti (cfr., ex plurimis, Cass. pen., sez. V, n. 45725/2005). E allora, se così già era, è legittimo chiedersi a cosa sia servita la modifica della norma. Ad avviso di chi scrive, non può sostenersi, anche in considerazione dei principi informatori della riforma, che il legislatore con la modifica abbia avuto il mero intento di recepire l’orientamento giurisprudenziale. Viceversa, ne va riconosciuta un’intenzione profondamente riformatrice, volta a restringere l’ambito applicativo della norma. In pratica, se prima poteva essere iscritta anche la notitia criminis avente un quid minus rispetto all’indizio di reità di cui all’art. 63 cpp, ora viene richiesto un quid pluris. Se così è, si tratta di una modifica che, diversamente dalle intenzioni dichiarate dal riformatore, pregiudica i diritti dell’indagato, giacché potrebbe condurre nella prassi ad autorizzare il pubblico ministero a posticipare l’iscrizione dalla genesi del procedimento a un momento successivo, coincidente con quello relativo a una prima progressione investigativa idonea a far emergere più concreti e pregnanti indizi di reità. Tuttavia, com’è noto, l’obbligo imposto al pubblico ministero di iscrivere la notitia criminis nell’apposito registro, previsto dall’art. 335 cpp, risponde all’esigenza di garantire tutta una serie di diritti di partecipazione dell’indagato, oltre al rispetto dei termini di durata delle indagini preliminari, che, nel caso di specie, verrebbero sacrificati nel caso in cui il pm procedesse all’iscrizione dell’indagato (come correttamente dovrebbe fare in base a nuovo disposto dell’art. 335 cpp) solo in un secondo momento. Anche qui è necessario fare un esempio: si immagini una denuncia dei familiari di un paziente deceduto in ospedale sporta genericamente nei confronti di tutti i sanitari che l’hanno avuto in cura. A mio modesto avviso, sarebbe ora possibile, in base al nuovo disposto dell’art. 335 cpp, iscrivere la notizia di reato a carico di ignoti e svolgere l’esame autoptico a norma dell’art. 360 cpp avvisando solo i congiunti della persona offesa, pregiudicando così i diritti di partecipazione all’atto irripetibile dei futuri indagati. Come si è visto, dunque, la modifica dell’art. 335 cpp potrebbe anche comportare effetti opposti a quelli voluti; occorrerà verificare come verrà accolta nella prassi. 

Questo involontario “auto-sgambetto” in cui è incorso il legislatore, a mio avviso, si spiega con due ordini di ragioni. La prima va individuata nella preoccupazione dimostrata dalla classe politica per gli effetti extra-procedimentali connessi all’iscrizione, come altresì dimostra l’introduzione dell’art. 335-bis cpp (con cui il legislatore ha sentito l’esigenza di specificare che la mera iscrizione non può, da sola, determinare effetti pregiudizievoli di natura civile o amministrativa). Deve pensarsi alle rilevanti implicazioni mediatiche cui spesso si è assistito in caso di iscrizioni “eccellenti”. La norma, dunque, sembra essere il frutto di questa “preoccupazione” che ha condotto a restringere il potere di iscrizione del pubblico ministero, ora invogliato a svolgere molte più indagini a seguito di iscrizione nel mod. 44. La seconda ragione corrisponde purtroppo alla preoccupazione, più volte espressa dalla dottrina, circa l’insipienza tecnica dei nostri riformatori, che troppe volte e male hanno “novellato” il sistema processuale penale senza bene calcolare gli effetti sistematici degli interventi di riforma. 

 

4. Retrodatazione dell’iscrizione, termine per le indagini preliminari, inizio dell’azione penale, forme e termini: risposte fuorvianti ai problemi mai risolti dell’ipertrofia del sistema penale

Da ultimo, il nuovo comma 1-ter dell’art. 335 cpp attribuisce al pubblico ministero, ove non abbia provveduto tempestivamente alle iscrizioni previste dai due commi precedenti, il potere di indicare la data anteriore a partire dalla quale l’iscrizione deve intendersi effettuata. Secondo quanto specificato dalla relazione illustrativa, tale previsione traduce in norma di legge una prassi virtuosa già attualmente seguita da alcune procure, e ha l’obiettivo di consentire al pubblico ministero, ove riconosca un ritardo delle iscrizioni, di porvi rimedio senza la necessità di attendere l’attivazione del già analizzato meccanismo giurisdizionale previsto dall’art. 335-ter cpp, di cui si sono già sottolineati alcuni aspetti critici. Fa da contraltare il nuovo articolo 335-quater, rubricato «Accertamento della tempestività dell’iscrizione nel registro delle notizie di reato», che introduce l’istituto della retrodatazione su istanza di parte. Si tratta di due modifiche positive che, tuttavia, non fanno i conti con il vero problema del sistema penale: la sua ipertrofia. Nella maggior parte dei casi, infatti, la tardività dell’iscrizione della notizia di reato, quando si verifica, è un fenomeno addebitabile alle eccessive pendenze degli uffici di procura e alle croniche difficoltà della polizia giudiziaria, che spesso non riesce, per carenza di risorse e di organico, ad attuare in tempi brevi le deleghe del pubblico ministero. Sarebbe stato allora auspicabile che il legislatore avesse colto l’occasione anche di adottare una ragionevole depenalizzazione, in ossequio ai principi costituzionali di sussidiarietà ed extrema ratio del diritto penale. 

L’inversione metodologica che pretende di risolvere i problemi dell’ipertrofia del sistema penale intervenendo, invece che sul diritto sostanziale, sul processo, orientandolo sempre di più a principi di efficienza aziendalistica, si manifesta nelle sue più evidenti forme nel nuovo articolo 407-bis cpp, a norma del quale il pubblico ministero esercita l’azione penale o richiede l’archiviazione entro tre mesi dalla scadenza del termine di cui all’art. 405, comma 2, o, se ha disposto la notifica dell’avviso della conclusione delle indagini preliminari, entro tre mesi dalla scadenza dei termini di cui all’art. 415-bis, commi 3 e 4. Il termine è di nove mesi nei casi di cui all’art. 407, comma 2, cpp. Il mancato rispetto del termine comporta due conseguenze: 1) da una parte, l’attivazione del meccanismo previsto dall’art. 412 cpp, secondo cui «il procuratore generale presso la Corte d’appello può disporre con decreto motivato l’avocazione delle indagini preliminari»; 2) dall’altra, la possibilità prevista dal nuovo art. 415-ter cpp di far intervenire nel procedimento indagato e persona offesa. In particolare, la riforma ha previsto l’obbligo per il pubblico ministero che non rispetti il cd. termine di riflessione – salvo il tempestivo ottenimento di un’autorizzazione al differimento (comma 4) – di depositare in segreteria la documentazione relativa alle indagini espletate, avvisando l’indagato e la persona offesa della facoltà di esaminarla e di estrarne copia. Si tratta, a mio avviso, di una norma punitiva e fortemente “ipocrita”, figlia di quell’inversione metodologica di cui si è già detto, che, non tenendo conto delle notevoli difficoltà in cui versano attualmente gli uffici giudiziari e quelli di polizia, esprime una forte diffidenza “culturale” nei confronti delle procure. L’irragionevolezza dei tempi del procedimento, infatti, pare essere innanzitutto il frutto avvelenato dell’ipertrofia del sistema penale, invece che di una pretesa mai dimostrata pigrizia “definitoria” dei pubblici ministeri. 

 

5. La richiesta di archiviazione per impossibilità di formulare una ragionevole previsione di condanna

Il legislatore, modificando l’art. 408 cpp, ha previsto la possibilità di chiedere l’archiviazione quando, sulla base degli elementi acquisiti nel corso delle indagini, non sia possibile formulare una ragionevole previsione di condanna o di applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca. Si tratta di una modifica epocale che introduce una regola di giudizio del tutto nuova, con la quale si attribuisce al pubblico ministero, al termine della fase delle indagini preliminari, il potere di effettuare una prognosi sui “ragionevoli” esiti di un processo ancora da celebrarsi e che, magari, mai si celebrerà. Questo indeterminato ampliamento dell’ambito applicativo dell’archiviazione autorizza il pm a entrare nella “fattispecie”, riservandogli una facoltà valutativa propria del giudice, anche qui in violazione del principio di separazione funzionale. 

Va segnalata, in primo luogo, una nota di evidente contraddizione sistematica. Com’è noto, il nostro ordinamento processuale assegna al contraddittorio una funzione epistemologica in tema di formazione della prova, vale a dire che la prova si forma in contraddittorio tra le parti dinanzi a un giudice terzo e imparziale. Viene, dunque, da chiedersi come possa il dominus delle indagini effettuare una prognosi di “assoluzione” senza prima essersi confrontato con il valore epistemologico derivante dall’instaurazione del contraddittorio. Sono evidenti i rischi connessi a tale potere; essi risiedono nell’eccessiva discrezionalità conferita alle procure di determinarsi nella direzione dell’inazione penale tutte le volte in cui si prevede che non vi sarà condanna. 

In secondo luogo, deve essere evidenziato il rischio che un eccessivo ricorso a tale strumento possa aumentare esponenzialmente il numero delle udienze camerali di opposizione alle richieste di archiviazione, con il paradosso che a una diminuzione dei dibattimenti potrebbe corrispondere un aumento esponenziale delle udienze di opposizione. Più è indeterminato il parametro valutativo dell’archiviazione (come pare essere quella della «ragionevole previsione di condanna»), infatti, più vi sarà spazio per proporre motivi di “impugnazione”, più sarà possibile che tali opposizioni vengano accolte, determinando una paradossale ritrasmissione degli atti al pubblico ministero, il tutto in violazione della ratio deflattiva della riforma. 

In conclusione, pare difficilmente contestabile che anche tale novità sia figlia della decisione politica di “subappaltare” alla magistratura le istanze e le urgenze della depenalizzazione, com’è accaduto con l’istituto della «tenuità del fatto» di cui all’art. 131-bis cp, il cui ambito applicativo è stato coerentemente ampliato con l’ultimo intervento riformatore. 

 

6. Conclusioni

I rilievi critici appena segnalati possono condurre a formulare delle prime conclusioni. 

In primo luogo, mi pare che con il d.lgs n. 150/2022 il legislatore abbia manifestato una forte diffidenza nei confronti delle procure nella loro funzione di promozione dell’azione penale. Viceversa, si è ritenuto fiduciosamente di aumentarne i poteri in materia di determinazione dell’inazione penale (si veda, in ultimo, la modifica dell’art. 408 cpp), subappaltando alla magistratura una depenalizzazione in fatto che non si è avuto il coraggio di adoperare in diritto. 

Tale ultima considerazione intercetta, in secondo luogo, un tema di fondo, che è quello di una pericolosa eterogenesi dei fini, dove gli scopi diventano mezzi e i mezzi diventano scopi. L’impianto principale del d.lgs n. 150/2022 è, infatti, il frutto di un’evidente inversione di metodo che è consistita, come segnalato sin dall’inizio, nell’intervenire sul processo quando invece il vero intervento riformatore avrebbe dovuto riguardare il diritto penale sostanziale. Possono farsi più esempi: a) come ho appena accennato, invece di depenalizzare in diritto, si è attribuito alla magistratura il potere di depenalizzare in fatto (si vedano gli istituti dell’art. 131-bis cp, del nuovo art. 408 cpp, dell’introduzione anche nel giudizio monocratico dell’udienza pre-dibattimentale di prima comparizione); b) invece di introdurre efficaci strumenti normativi in tema di rispetto del segreto istruttorio per evitare le cd. “fughe di notizie” nelle indagini preliminari, si è intervenuti impropriamente sull’istituto della notizia di reato. 

Una terza conclusione concerne la violazione del principio di legalità, di cui l’obbligatorietà dell’azione penale non è altro che il riflesso processualistico. Lo dimostra l’art. 1, comma 9, lett. i, l. n. 134/2021, secondo cui, nella trattazione delle notizie di reato e nell’esercizio dell’azione penale, il pubblico ministero si conforma ai criteri di priorità contenuti nel progetto organizzativo dell’ufficio. Si tratta di una norma, forse passata in secondo piano, che dimostra ancora una volta l’intenzione del legislatore di “subappaltare” agli uffici giudiziari l’impresa della depenalizzazione, in spregio del principio di legalità. 

Nel d.lgs n. 150/2022 il principio di legalità, dunque, cede il passo alla necessità di soddisfare gli obiettivi di deflazione cui il nostro Paese si è vincolato ottenendo i fondi del PNRR. Una riforma parlamentare organica, orientata ai principi di sussidiarietà ed extrema ratio del diritto penale, sarebbe stata forse lo strumento più efficace per addivenire a una sensibile diminuzione del numero dei processi.