Magistratura democratica

La riforma penale e il giudizio di appello

di Anna Mori

L’articolo analizza i mutamenti più rilevanti della riforma relativi al procedimento d’appello, mettendo in luce alcune indubbie criticità, taluni profili di dubbia legittimità costituzionale, ma anche le potenzialità della nuova normativa.
Per funzionare appieno, quest’ultima richiederà però, da un lato, un mutamento di approccio da parte del giudice di secondo grado e, dall’altro, un potenziamento di alcune strutture (in particolare dell’Uepe) e un maggiore raccordo operativo tra gli uffici coinvolti.

1. Premessa: come cambia l’appello. Prime riflessioni sulla “riforma Cartabia” / 2. La presentazione dell’impugnazione: forme, termini e casi di appello; in particolare: nuove cause di inammissibilità / 3. L’azione civile; l’improcedibilità dell’azione penale; riflessi sull’azione civile e sulla confisca / 4. Le notifiche e l’assenza / 5. Il giudizio d’appello / 6. Il concordato in appello / 7. La modifica dell’art. 603 cpp; la rinnovazione istruttoria / 8. La messa alla prova e le sanzioni sostitutive / 9. Alcune modifiche sostanziali rilevanti nel giudizio d’appello

 

1. Premessa: come cambia l’appello. Prime riflessioni sulla “riforma Cartabia”

In linea generale, nel settore delle impugnazioni, e in particolare dell’appello, la riforma si muove su più direttrici: il gravame è sempre più “atto della parte” e non del difensore; si cerca di rendere il relativo giudizio più rapido ed efficiente, ad esempio rendendo definitiva l’alternativa tra processo orale e cartolare sperimentata nella fase dell’emergenza Covid; si crea un filtro nuovo all’ammissibilità dell’impugnazione agendo sul suo contenuto, e in particolare positivizzando il principio già espresso dalla sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione in tema di specificità dei motivi (sez. unite, 27 ottobre 2016, n. 8825, dep. 22 febbraio 2017, Galtelli, Rv. 268822 – 0).

Al contempo, l’oggetto del giudizio d’appello viene significativamente ampliato: anche in questo grado è possibile l’applicazione delle pene sostitutive e – quantomeno nella fase transitoria – l’ammissione dell’imputato alla messa alla prova; viene poi modificata anche la disciplina del concordato ex art. 599-bis cpp.

Come tutte le novelle normative, anche quella in esame presenta luci e ombre, e starà anche alla sensibilità dell’interprete potenziare le prime e ridurre le seconde. In altre e meno auliche parole: cercare di fare funzionare la riforma, pur con tutte le sue innegabili criticità.

Detto questo, veniamo alle modifiche più rilevanti.

 

2. La presentazione dell’impugnazione: forme, termini e casi di appello; in particolare: nuove cause di inammissibilità

Quanto alla presentazione dell’appello, l’art. 582 cpp, che è norma generale applicabile a tutte le impugnazioni, prevede due modalità, l’ultima delle quali azionabile solo dalle parti private.

Ove il gravame sia presentato dal difensore, esso deve essere necessariamente depositato in forma telematica con le modalità previste dall’art. 111-bis cpp.

La parte privata può invece scegliere tra tale modalità e il deposito presso la cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, anche a mezzo di soggetto a ciò incaricato. 

In quest’ultimo caso, è necessario chiedersi in quale forma detto incarico debba essere conferito, e in particolare se la sottoscrizione del delegante debba essere autenticata (ad esempio, dal difensore), soluzione a mio avviso preferibile perché, data la rilevanza dell’atto oggetto di deposito, l’identità dell’appellante e la sua volontà di impugnare devono risultare con certezza.

Non è invece più possibile né presentare l’impugnazione nel luogo ove l’appellante si trova, o presso un agente consolare all’estero, né spedirlo (il comma 2 dell’art. 582 cpp e l’art. 583 cpp sono stati abrogati).

La ratio di tali abrogazioni deve, ad avviso di chi scrive, collegarsi da un lato alla possibilità di depositare l’atto di impugnazione con modalità telematica e, dall’altro lato, anche al termine di improcedibilità di cui all’art. 344-bis cpp. 

Come è noto, detto termine decorre non dal momento in cui l’appello viene presentato o alla data nella quale viene ricevuto dalla Corte competente, ma dalla scadenza del novantesimo giorno successivo allo spirare del termine di deposito della motivazione della sentenza.

È infatti intuibile che la presentazione dell’appello presso un’autorità diversa da quella che ha emesso il provvedimento impugnato potrebbe allungare i tempi, imponendo la trasmissione del gravame a quest’ultima, e ciò comporterebbe un ulteriore accorciamento di un termine come quello di improcedibilità, che per come è costruito è già ora sottratto, quanto al dies a quo, a qualunque controllo da parte del giudice di secondo grado.

E qui si impone l’apertura di una parentesi.

Il rispetto del termine di improcedibilità non dipende solo dalla celerità del giudizio di secondo grado, ma anche e soprattutto dal tempestivo adempimento di tutte le formalità di ricezione e trasmissione dell’impugnazione da parte della cancelleria competente.

Sarà dunque necessario potenziare i relativi uffici, al fine di evitare che gli atti d’appello sostino presso le cancellerie del primo grado per un tempo eccessivo, sottratto a quello a disposizione della Corte per decidere il processo in ottemperanza a quanto prescritto dall’art. 344-bis cpp.

Nel mio distretto, che è quello di Bologna, i tempi di trasmissione dell’appello da parte delle cancellerie degli uffici di primo grado sono molto variabili, e in passato è accaduto che presso alcuni uffici i gravami restassero giacenti anche per oltre un anno; un simile ritardo, peraltro poco accettabile anche prima, rischia di divenire addirittura drammatico a fronte della novella normativa.

Dunque sarebbe auspicabile che i presidenti delle corti d’appello, nell’adottare i provvedimenti organizzativi volti a monitorare i termini di durata massima dei giudizi di impugnazione previsti dall’art. 165-ter disp. att. cpp, agissero in raccordo con i presidenti dei tribunali del distretto al fine di garantire celerità nella trasmissione degli atti d’appello al giudice di secondo grado.

Altra modifica riguarda il termine per proporre impugnazione, che viene aumentato di 15 giorni in caso di giudizio di primo grado celebrato in assenza dell’imputato, e solo per il difensore di quest’ultimo.

La ratio è intuibile, e collegata alla necessità che l’appello contenga, a pena di inammissibilità, l’elezione di domicilio della parte che impugna e, in caso di imputato assente, specifico mandato a impugnare rilasciato dopo la pronuncia della sentenza (art. 581 cpp): è infatti evidente che, in caso di processo di primo grado in absentia, al difensore dovrà essere concesso il tempo necessario per rintracciare il proprio assistito e farsi rilasciare gli atti di cui sopra.

Non così per le altre parti private, l’assenza delle quali in primo grado non presenta alcuna rilevanza.

La riforma restringe anche i casi di appello, prevedendo, in conformità con quanto disposto dalla legge delega, l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento o non luogo a procedere relative a reati puniti con pena pecuniaria o pena alternativa, nonché, oltre che delle sentenze di condanna alla pena della sola ammenda, anche di quelle di condanna alla pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, e infine delle sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria.

Come anticipato, la riforma introduce poi due nuove cause di inammissibilità dell’appello, entrambe rilevanti.

La prima (art. 581, comma 1-bis, cpp) scatta quando per ogni richiesta non sono enunciati in forma puntuale ed esplicita i rilievi critici in relazione alle ragioni di fatto o di diritto espresse nel provvedimento impugnato, con riferimento ai capi e punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione.

Tale omissione comporta dunque una mancanza di specificità dei motivi.

Si tratta, come anticipato, di un assunto al quale la giurisprudenza di legittimità era già approdata attraverso un’interpretazione ampia dell’ipotesi di cui alla lettera a della medesima norma, la quale richiedeva e tuttora richiede l’indicazione specifica dei capi o dei punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione.

In varie pronunce[1], la Corte suprema aveva poi specificato che tale causa di inammissibilità si realizza anche quando il gravame non si confronta con la motivazione della sentenza appellata, e anziché spiegare le ragioni per le quali il primo giudice ha errato non fa che reiterare le argomentazioni già confutate nel provvedimento impugnato. 

Ad esempio, il primo giudice ha spiegato per quali ragioni ritiene di dover negare le attenuanti generiche nonostante l’imputato sia giovane e incensurato, richiamando le modalità del fatto, rivelatrici di una buona pratica criminale a dispetto della formale incensuratezza, e il comportamento processuale molto negativo, posto che lo stesso non si è limitato a negare l’addebito, ma ha accusato falsamente altre persone.

Il gravame, anziché confutare tali ultime affermazioni, o spiegare per quali ragioni esse risulterebbero comunque soccombenti rispetto ai dati di segno contrario, non fa che nuovamente richiamare l’età e l’incensuratezza, senza argomentare sulle ragioni in forza delle quali tali elementi dovrebbero essere valutati diversamente rispetto a quanto evidenziato dal giudice a quo.

Si tratta di una situazione nella quale il giudice d’appello si trova pressoché quotidianamente e, dunque, la previsione espressa di un’ipotesi di inammissibilità siffatta potenzialmente presenta una sua significativa potenzialità deflattiva.

Dico potenzialmente perché poi, di fatto e come già osservato da Giovanna Ichino nel commento alla legge delega, la verifica di una simile omissione, che raramente è percepibile ictu oculi, comporta una lettura attenta sia della sentenza di primo grado, sia del gravame, difficilmente realizzabile in sede di spoglio preliminare, soprattutto quando la carenza motivazionale non riguardi solo la pena, ma ad esempio investa anche profili di merito relativi all’affermazione di responsabilità, che richiedono dunque una ricostruzione del fatto[2].

E se tale accertamento viene demandato al Collegio, l’evidenziata potenzialità deflattiva si riduce a poca cosa.

Sta di fatto che, per produrre appieno i propri effetti, la norma in esame richiede anche da parte dei giudici di primo grado l’adozione di uno standard motivazionale completo ed esauriente: è infatti chiaro che, in tanto si potrà rimproverare all’appellante di non essersi confrontato con la motivazione del provvedimento impugnato, in quanto quest’ultima esista e sia completa, requisiti non sempre soddisfatti, soprattutto nei punti e capi relativi al trattamento sanzionatorio.

Un nuovo requisito di inammissibilità rilevabile immediatamente e ictu oculi è invece quello, più volte già richiamato, del deposito, contestualmente al gravame, della dichiarazione o elezione di domicilio (comma 1-ter dell’art. 581 cpp) e di specifico mandato a impugnare se l’appellante è stato giudicato in assenza in primo grado (comma 1-quater).

Si tratta di disposizioni produttive di effetti assai rilevanti.

Ad oggi, soprattutto se il processo viene celebrato in assenza, molti difensori propongono appello personalmente senza alcun previo contatto con il proprio assistito, che a volte neppure sa che è stata presentata impugnazione.

Con le disposizioni in esame, come pure già detto, l’appello diviene atto della parte privata, perché l’indicazione del domicilio ove notificare il decreto di citazione e, ancor più, lo specifico mandato sopra richiamato presuppongono che il difensore contatti il proprio assistito e valuti unitamente a costui l’opportunità di proporre impugnazione.

Quest’ultimo, inoltre, sarà sempre pienamente a conoscenza del giudizio di secondo grado, con conseguente impossibilità di esperire nelle fasi successive eventuali rimedi restitutori e rescissori; proprio quest’ultima sottolineatura sembra fugare i dubbi di chi paventa la possibilità che i difensori possano “simulare” il conferimento dello specifico mandato ad appellare da parte dell’imputato assente, strumentalizzando precedenti procure speciali rilasciate “in bianco” prima della pronuncia della sentenza di primo grado; a prescindere dal fatto che un simile dubbio si fonda su un’ipotesi di grave deviazione dai propri doveri professionali da parte dell’avvocato, ci si limita ad osservare che tale prassi finirebbe con l’essere non vantaggiosa per lo stesso imputato, come detto privato dei rimedi restitutori e rescissori; in questo scenario è poco ragionevole che un difensore intraprenda un simile – peraltro illecito – percorso.

Infine, tale previsione garantisce, in un’ottica di razionalizzazione del giudizio, che la notifica del decreto di citazione vada sempre a buon fine, evitando la necessità di disporre defatiganti ricerche, senza peraltro in alcun modo menomare i diritti dell’appellante, il quale, come già osservato, è a piena conoscenza del giudizio di secondo grado, la cui instaurazione è frutto anche e soprattutto di una sua scelta e non di un’autonoma iniziativa del suo difensore.

Ciò spiega la ratio della disposizione del comma 1 dell’art. 589-ter cpp (che si esaminerà oltre), la quale prevede che, se le notificazioni sono regolari, l’imputato appellante che non presenzi all’udienza viene sempre considerato assente, anche al di fuori dei casi di cui all’art. 420-bis cpp.

Occorre infine evidenziare che l’art. 87-bis, introdotto in sede di conversione del dl n. 162/2022, introduce in fase transitoria ulteriori ipotesi di inammissibilità dell’impugnazione nel caso in cui l’atto non sia sottoscritto digitalmente dal difensore, sia trasmesso da un indirizzo di posta elettronica certificata non compreso nel registro generale di cui al comma 1 della norma, ovvero a un indirizzo non riferibile all’ufficio che ha emesso il provvedimento impugnato.

Il richiamato comma 1, il quale prevede la possibilità di deposito in forma telematica mediante invio all’indirizzo di posta elettronica compreso nel registro di cui al dm n. 44 del 21 febbraio 2011, si applica peraltro fino al quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione dei regolamenti previsti dai commi 1 e 3 dell’art. 87, ovvero fino al diverso termine previsto dal comma 3 di quest’ultima norma.

 

3. L’azione civile; l’improcedibilità dell’azione penale; riflessi sull’azione civile e sulla confisca

Preliminarmente, occorre osservare che la legge delega (art. 1, comma 13, lett. d) imponeva di disciplinare i rapporti tra azione civile esercitata in sede penale e azione penale, nonché tra declaratoria di improcedibilità e confisca, senza peraltro indirizzare in alcun modo il legislatore delegato, il quale era dunque libero di adottare la soluzione ritenuta più giusta.

E ancora, ai fini che interessano, occorre tenere conto della sentenza della Corte costituzionale n. 182 del 2021, la quale, nel definire l’ambito applicativo dell’art. 578, comma 1, cpp con riferimento al potere del giudice penale nella decisione sulla domanda risarcitoria, ha statuito che quest’ultimo non deve accertare la responsabilità penale dell’imputato, ma solo l’integrazione della fattispecie civilistica dell’illecito aquiliano, e segnatamente la lesione di una situazione giuridica soggettiva civilmente sanzionabile con il risarcimento del danno.

Nella stessa sede si è evidenziato che, ove il reato sia estinto per prescrizione, ciò non preclude il diritto del danneggiato a vedere giudizialmente accertati i presupposti della propria pretesa, anche se al contempo si deve tenere conto della presunzione di innocenza dell’imputato.

Dunque, l’accertamento dovrà svolgersi nel perimetro dell’illecito aquiliano e non del reato, con tutti i problemi che questo può poi porre nella pratica, atteso che tali istituti possono spesso sovrapporsi.

Ciò posto, la riforma prevede, al comma 1-bis dell’art. 573 cpp, la competenza del giudice o della sezione civile nel caso in cui «la sentenza è impugnata per i soli interessi civili».

La disposizione è applicabile al caso di impugnazione della parte civile o del responsabile civile avente ad oggetto le statuizioni risarcitorie.

Infatti, la diversa ipotesi in cui il reato si sia prescritto nelle more del giudizio d’appello, e dunque sopravviva unicamente quella parte del devolutum avente ad oggetto le disposizioni civilistiche, è oggetto della diversa disciplina di cui all’art. 578, comma 1, cpp.

Il comma 1-bis dell’art. 573 cpp prevede, innanzitutto, un vaglio di ammissibilità dell’impugnazione che deve essere effettuato dal giudice penale, al quale dunque dev’essere in prima battuta indirizzato il gravame.

Se quest’ultimo supera indenne la verifica, viene trasmesso per competenza al giudice civile.

Si tratta di una disciplina che mira a sgravare il giudice penale di competenze che gli sono estranee, posto che il thema decidendum è esclusivamente risarcitorio.

La norma prevede ancora che il giudice civile decida utilizzando «le prove acquisite nel processo penale e quelle eventualmente acquisite nel processo civile».

Le prime sono le prove acquisite nel dibattimento di primo grado, le seconde quelle eventualmente acquisite nel grado d’appello civile, nei limitati casi in cui ciò è consentito, ovvero quando la parte prova di non averle potute tempestivamente dedurre in primo grado (art. 345 cpc).

Quanto al canone probatorio applicabile dal giudice civile, si ritiene che esso debba uniformarsi al principio del “più probabile che non” e non a quello della “prova oltre ogni ragionevole dubbio”, in conformità a quanto statuito dalla Corte costituzionale nella sentenza richiamata; dunque, la verifica deve avere ad oggetto non la responsabilità penale dell’imputato (che anche in questa fase si presume innocente), ma solo «la lesione di una situazione giuridica soggettiva civilmente sanzionabile con il risarcimento del danno».

La disciplina dell’art. 578 cpp riguarda, invece, il caso in cui il reato si estingua per amnistia o prescrizione, o divenga improcedibile per superamento del termine di cui all’art. 344-bis cpp.

Anche in questo caso sopravvivono solo le statuizioni civilistiche della sentenza impugnata, ma la risposta del legislatore è più articolata.

Nel primo caso, infatti, la disciplina rimane immutata: la cognizione resta al giudice penale, il quale continuerà a decidere sull’impugnazione ai soli fini degli interessi civili entro i parametri delineati dalla Corte costituzionale e appena richiamati.

Si tratta di un’ipotesi che sarà sempre meno frequente, in quanto – essendo oramai scomparsi dall’esperienza penale i provvedimenti di amnistia – occorre tenere conto del fatto che la disciplina della prescrizione è stata significativamente modificata e avrà un impatto soprattutto con riferimento ai procedimenti relativi ai reati commessi fino al 31 dicembre 2021, soggetti al regime di prescrizione previgente.

Ciò nonostante, la scelta di mantenere in questo caso la competenza del giudice penale non sfugge ad alcuni rilievi critici.

I procedimenti pendenti avanti alle corti d’appello e aventi ad oggetto reati nel frattempo estinti per prescrizione, ma con statuizioni civili, sono infatti molto numerosi e sarà necessario un tempo non breve per smaltirli.

Posto che la tendenza del legislatore è quella di affidare al giudice civile la trattazione dei processi nei quali sono sopravvissute solo le disposizioni risarcitorie, ben poteva essere prevista tale competenza anche nel caso in esame, la cui ratio (ovvero prevedere l’intervento di un giudice fisiologicamente attrezzato alla trattazione delle questioni civili, ancor più necessario dopo il richiamato intervento della Corte costituzionale) è del tutto analoga.

A ciò deve aggiungersi che il citato comma 1 dell’art. 578 cpp prevede la competenza del giudice penale anche in caso di estinzione del reato per amnistia, e dunque in un’ipotesi che, seppure non frequente, non è tuttavia – quantomeno in astratto – destinata a venire meno alla fine della fase transitoria.

Nel caso, invece, di improcedibilità a norma dell’art. 344-bis cpp, la novella prevede che gli atti vengano trasmessi al giudice civile competente, il quale anche in questo caso utilizzerà le prove assunte nel giudizio penale e in quello civile, con un meccanismo del tutto analogo a quello previsto dal comma 1-bis dell’art. 573 cpp.

È da rilevare che la disposizione in esame si applica non solo a fronte di una condanna, ma in ogni caso di impugnazione della sentenza anche per gli interessi civili, quindi anche in assenza di una pronuncia di condanna al risarcimento.

Anche tale scelta tiene conto di quanto statuito dalla Corte costituzionale in merito al diritto del danneggiato ad ottenere un accertamento della fondatezza della propria pretesa.

In sostanza, in caso di declaratoria di improcedibilità ex art. 344-bis cpp, anziché prevedere una competenza del giudice penale a decidere sulla domanda risarcitoria, ovvero prevedere che il danneggiato riproponesse ex novo la domanda al giudice civile, il legislatore ha scelto una strada mediana, prevedendo la prosecuzione del giudizio nella sede che gli è propria, analogamente al caso in cui l’impugnazione abbia ab origine ad oggetto le sole statuizioni civilistiche.

Il comma 1-ter dell’art. 578 cpp prevede, poi, che gli effetti dell’eventuale sequestro conservativo disposto a garanzia delle obbligazioni civili permangano fino al passaggio in giudicato della sentenza che decide il merito.

In sostanza, la linea di tendenza del legislatore è quella di prevedere una competenza del giudice civile ogni qual volta le statuizioni penali vengano meno e residuino solo quelle risarcitorie, salva l’ipotesi di amnistia o prescrizione.

Disposizioni particolari sono poi previste dall’art. 578-ter cpp, introdotto dalla novella, in merito alla sorte della confisca ove il reato sia stato dichiarato improcedibile ex art. 344-bis cpp. Se obbligatoria, essa viene comunque disposta. Altrimenti, viene disposta con ordinanza la trasmissione degli atti al procuratore della Repubblica presso il capoluogo del distretto o al procuratore nazionale antimafia per la proposizione di eventuale istanza ex d.lgs n. 159/2011, con perdita di efficacia del sequestro se entro 90 giorni dall’ordinanza non si provvede ai sensi di quest’ultima normativa.

La ratio di tale disposizione trova fondamento nella circostanza che l’improcedibilità è un istituto di carattere processuale, e come tale ostativo a qualunque prosecuzione del giudizio, laddove la confisca (salvo il caso in cui sia obbligatoria) presuppone una condanna, e dunque una verifica della responsabilità in questa fase radicalmente preclusa.

La trasmissione degli atti al procuratore ha dunque la finalità di azionare una procedura del tutto autonoma e distinta, nonché fondata su presupposti del tutto differenti, al fine di verificare se la misura ablativa non più sostenibile in ambito penale possa invece trovare fondamento in quello di prevenzione, applicando i principi che lo connotano, senza peraltro operare più, neppure incidenter tantum, alcuna verifica della responsabilità penale.

La persistenza del sequestro, e la sua inefficacia trascorsi 90 giorni dalla trasmissione degli atti, rispondono invece alla necessità di coordinare le procedure ed evitare la dispersione dei beni.

 

4. Le notifiche e l’assenza

Anche sul punto in esame occorre premettere che, a norma dell’art. 89 d.lgs n. 150/2022, le nuove norme si applicano ai procedimenti nei quali non si sia già disposto procedersi in assenza.

La disciplina di cui all’art. 598-ter cpp, che regola l’assenza dell’imputato in appello, deve peraltro leggersi in parallelo alle norme sulle notificazioni e al requisito di cui ai commi 1-ter e 1-quater dell’art. 581 cpp (elezione di domicilio e mandato ad impugnare quali nuovi requisiti di ammissibilità del gravame – vds. supra).

La norma disciplina in modo radicalmente diverso il caso dell’imputato appellante da quello in cui l’impugnazione non sia presentata da quest’ultimo.

Nel primo caso, se la notifica è regolare e il predetto non si presenta viene, come già rilevato, sempre considerato assente.

La ratio è chiarissima: l’imputato appellante non può non sapere della pendenza del giudizio di secondo grado, perché ha eletto domicilio per tale fase e, se assente in quella precedente, ha conferito al proprio difensore specifico mandato ad impugnare.

Occorre però, ai fini che interessano, tener conto anche dell’art. 156 cpp come novellato, il quale, al comma 1, prevede che le notificazioni all’imputato detenuto anche successive alla prima vengano sempre eseguite nel luogo di detenzione mediante consegna alla persona.

La giurisprudenza di legittimità formatasi sotto la vigenza della normativa precedente aveva statuito che tale norma si applica anche ove l’imputato abbia eletto domicilio[3]. Salvo eventuali futuri mutamenti di orientamento, deve dunque ritenersi che, anche dopo la novella, in caso di imputato appellante detenuto la notifica debba essere effettuata con le modalità previste dall’art. 156 richiamato, indipendentemente dall’elezione di domicilio.

Ciò premesso, in ogni modo, se la notifica al predetto è regolare, saranno sempre ravvisabili i requisiti per dichiararlo assente.

Più complesso è il caso dell’imputato non appellante.

In realtà, di fatto la norma verrà applicata alla sola ipotesi di sentenza impugnata solo o anche dal pm, perché – come già evidenziato – se appellante è la sola parte civile, gli atti verranno trasmessi al giudice civile a norma dell’art. 573 cpp.

Innanzitutto, nel caso in esame, la notifica all’imputato dovrà essere effettuata a norma degli artt. 148 cpp ss., come novellati.

Se la notifica è formalmente regolare, ma l’imputato è assente all’udienza di discussione orale pubblica, la corte di appello dovrà accertare la sussistenza delle condizioni per procedere egualmente a norma dell’art. 420-bis, commi 1, 2 e 3 cpp.

In caso negativo, verranno disposte nuove ricerche e nel frattempo il processo verrà sospeso.

Analogamente si provvederà anche nell’udienza a trattazione cartolare, se si ritiene che non siano soddisfatte le condizioni per procedere in assenza.

Diversamente da quanto previsto per il primo grado, però, la sospensione viene disposta con ordinanza e non con sentenza, dunque con un provvedimento che non diverrà irrevocabile.

Ciò comporterà innanzitutto che, se l’imputato non viene reperito, quel processo non verrà definito, così alimentando la pendenza – seppure si possa immaginare un impatto circoscritto di tale disfunzione (essendo più ridotti i volumi di giudizi di appello non promossi dall’imputato), il fenomeno non può essere escluso.

In secondo luogo, se la sentenza appellata è assolutoria, come avviene nella stragrande maggioranza dei casi di impugnazione presentata da una parte diversa, la disciplina di cui sopra rischia, paradossalmente, di pregiudicare l’imputato non appellante, perché quella statuizione a lui favorevole non acquisirà mai autorità di cosa giudicata.

L’assenza dell’imputato, in questo caso dichiarata in primo grado, rileva in appello anche sotto un altro profilo.

L’art. 604 cpp prevede, infatti, alcune cause di nullità della sentenza di primo grado.

In particolare, al comma 5-bis è previsto che, nell’ipotesi in cui l’assenza sia stata dichiarata al di fuori delle ipotesi di cui all’art. 420-bis, commi 1, 2 e 3, cpp, salvo che risulti che l’imputato era a conoscenza della pendenza del processo e in grado di comparire in giudizio prima della pronuncia della sentenza appellata, quest’ultima è nulla.

Si tratta di un’ipotesi già prevista dalla legislazione previgente; la novità è però che la nullità in esame deve essere eccepita nell’atto d’appello e, in caso contrario, è sanata.

Posto che, però, il gravame deve contenere il mandato ad impugnare, è evidente che tale eccezione potrà essere avanzata solo se nel frattempo il difensore è riuscito ad avere un contatto con l’assistito, ingiustamente dichiarato assente.

Altra e peculiare nullità è prevista dal successivo comma 5-ter nel caso in cui l’imputato non abbia potuto esercitare una facoltà, dalla quale è dunque decaduto:

a) per essersi trovato nell’assoluta e incolpevole impossibilità di comparire in tempo utile per esercitare tale facoltà, nonché di comunicare tempestivamente l’impedimento;

b) nei casi di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 420-bis cpp, per non avere incolpevolmente avuto conoscenza della pendenza del processo e non essere potuto intervenire tempestivamente per esercitare la facoltà dalla quale è decaduto (si tratta dei casi nei quali l’assenza è stata dichiarata perché il giudice ha ritenuto che l’imputato fosse a conoscenza del processo, si fosse volontariamente sottratto allo stesso, oppure in caso di latitanza).

La prova di tali situazioni deve ovviamente essere fornita dall’interessato.

Occorre allora delimitare la differenza tra l’ipotesi prevista dal comma 5-bis (assenza dichiarata senza i presupposti) e quella riportata alla lettera b di cui sopra, posto che in entrambe le situazioni emerge che l’imputato non era a conoscenza del giudizio senza sua colpa.

Si ritiene che nel primo caso siano carenti ab origine, e sulla base di una valutazione ex ante, i presupposti per procedere in assenza, e dunque essi siano stati erroneamente valutati dal primo giudice.

Nel caso di cui al comma 5-ter lett. b, invece, la declaratoria di assenza era rituale sulla base dei dati conoscitivi che il giudice a quo aveva a disposizione, ma da elementi sopraggiunti emerge che la mancata presenza dell’imputato era incolpevole.

Dunque, la dichiarazione di assenza era regolare, ma il processo deve comunque retrocedere alla fase nella quale l’interessato non ha potuto esercitare la facoltà omessa.

Le ipotesi di cui sopra pure concretano una causa di nullità della sentenza che impone la trasmissione degli atti al primo giudice, salvo che la facoltà non esercitata abbia ad oggetto l’applicazione della pena, l’oblazione o la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale; in questi casi provvede il giudice d’appello.

Come meglio si vedrà, quest’ultimo non ha un ampio margine discrezionale in merito all’ultima ipotesi, posto che la norma prevede che il giudice “disponga” la rinnovazione, in assenza di alcuna valutazione sulla rilevanza, salvo che nel caso in cui l’imputato in primo grado sia stato dichiarato assente ai sensi del comma 3 dell’art. 420-bis cpp; in questa ipotesi, infatti, la prova viene assunta ai sensi dell’art. 190-bis cpp, ovvero previa valutazione della rilevanza.

È allora opportuno domandarsi cosa si intenda per “rinnovazione istruttoria”: se una prova nuova che l’interessato è stato impossibilitato a richiedere in primo grado, ovvero anche la ripetizione di una prova già assunta, ad esempio perché il difensore non era stato in grado di formulare alcune domande nel corso del controesame, non avendo potuto previamente conferire con il proprio assistito.

Questa nozione più ampia sembra preferibile, posto che la ratio della norma è quella di restituire all’interessato la possibilità di azionare tutte le facoltà delle quali era stato incolpevolmente privato nel grado precedente.

Infine, la novellata disciplina dell’assenza prevede anche una nuova ipotesi di restituzione nel termine per impugnare, disciplinata all’art. 175, comma 2.1, cpp, laddove nel caso previsto dall’art. 420-bis, commi 2 e 3 (esclusa dunque l’ipotesi di certezza legale disciplinata dal comma 1), l’imputato dimostri di non avere avuto conoscenza effettiva del processo e di non aver potuto proporre impugnazione senza sua colpa.

Se l’istanza viene accolta, il termine di improcedibilità dell’appello è sospeso fino alla notifica all’interessato del provvedimento che accoglie la richiesta.

 

5. Il giudizio d’appello

Molte, e rilevanti, le modifiche relative alla fase in esame.

Si deve peraltro premettere che l’art. 5-duodecies della legge di conversione del dl n. 162/2022 prevede che per le impugnazioni proposte fino al 30 giugno 2023 si continui ad applicare la previgente normativa di cui all’art. 23-bis l. n. 176/2020.

Ciò posto, innanzitutto (art. 598-bis cpp) il rito ordinario è quello cartolare, come del resto già previsto dalla legislazione emergenziale, ed è disciplinato dal comma 1 della norma, nel quale si prevede un termine (15 giorni prima dell’udienza) entro il quale il procuratore generale presenta le proprie richieste e tutte le parti possono presentare motivi nuovi e memorie; un ulteriore termine (cinque giorni prima) è previsto per la presentazione di memorie di replica.

Il termine di 15 giorni appena richiamato è previsto anche per formulare istanza di concordato in appello.

La trattazione orale può essere richiesta entro quindici giorni dalla notifica del decreto di citazione o dell’avviso della data fissata per il giudizio e può essere presentata solo dall’appellante e, in ogni caso, dall’imputato o dal suo difensore.

Dunque, il procuratore generale, la parte civile e il responsabile civile possono formulare la richiesta solo se appellanti.

Sulle modalità dell’istanza, ad avviso di chi scrive, la norma si presta a possibili censure di incostituzionalità.

Il comma 2 dell’art. 598-bis cpp prevede infatti, quanto alle parti private, che l’istanza possa essere presentata solo a mezzo del difensore.

Orbene, se tale disposizione non crea particolari problemi ove detta parte sia libera, non così quanto all’imputato detenuto; lo stesso infatti potrebbe, soprattutto in tempo di pandemia, avere difficoltà a contattare il proprio legale e a incaricarlo di presentare l’istanza. Meglio sarebbe stato prevedere la possibilità, almeno per l’imputato detenuto, di presentarla personalmente.

Altra rilevante novità è la possibilità, prevista al comma 3, che la corte di appello disponga d’ufficio la trattazione orale per la «rilevanza delle questioni sottoposte al suo esame».

Si tratta di decisione insindacabile e dal contenuto amplissimo, posto che la nozione di “rilevanza delle questioni” può comprendere una vasta gamma di situazioni, dal procedimento che presenta questioni in diritto complesse, a quello che ha ad oggetto fattispecie di particolare delicatezza (ad esempio, reati lesivi della libertà sessuale) o delitti puniti con pene molto elevate.

Non sembra che la statuizione debba essere motivata al di là del richiamo alla rilevanza, anche perché si tratta, come evidenziato, di decisione non impugnabile in alcun modo.

La trattazione orale è poi sempre disposta in caso di rinnovazione istruttoria, e ciò per garantire la formazione della prova nel contraddittorio.

Non sembra, peraltro, che la decisione della corte di appello sul punto sia soggetta ad alcun termine: raffrontando il comma 3 dell’art. 598-bis cpp con il comma 2 dell’art. 601 emerge infatti che, se la statuizione in esame viene adottata prima del decreto di citazione a giudizio, viene in quest’ultimo esplicitata, come si vedrà; essa può essere però adottata anche successivamente (ad esempio, in esito all’esame di memorie presentate dalle parti) e in questo caso, disciplinato dal comma 3 dell’art. 598-bis cpp, la corte di appello provvederà con autonomo provvedimento a comunicare la propria decisione al procuratore generale e al difensore.

La trattazione in presenza delle parti può avvenire in udienza pubblica, ovvero ai sensi dell’art. 127 cpp, disposizione quest’ultima sempre applicabile quando si procede con rito abbreviato, ovvero quando si discute unicamente della specie o misura della pena (anche con riferimento al giudizio di comparazione o alla concessione delle attenuanti generiche), di pene sostitutive o di doppi benefici – in alte parole, quando non si discute l’affermazione di responsabilità. 

In tali casi si procederà in camera di consiglio, anche quando il primo grado è stato celebrato in udienza pubblica.

Occorre allora ricordare che l’art. 127 cpp è stato modificato dalla novella, la quale ha previsto al comma 3 cpp la modalità di partecipazione dell’imputato detenuto il quale abbia richiesto di essere presente in udienza.

Se lo stesso è ristretto in luogo compreso nella circoscrizione del giudice procedente, dovrà esserne disposta la traduzione per garantirne la presenza all’udienza.

In caso contrario, la norma prevede due modalità: una, disciplinata anche dalla normativa previgente, che consiste nell’audizione dell’interessato dal magistrato di sorveglianza il giorno prima dell’udienza.

La novità è che, però, tale ipotesi diviene residuale, perché si applica solo se l’imputato non acconsente al collegamento a distanza, il quale diviene dunque la normale modalità di partecipazione del soggetto ristretto al di fuori della circoscrizione dell’autorità giudiziaria procedente.

L’art. 601 cpp disciplina il decreto di citazione a giudizio modificando, al comma 3, il termine a comparire (giorni 40 e non più 20) e prevedendo al comma 2 che, se la corte intende procedere con udienza in presenza, deve darne espressa menzione, indicando altresì se l’appello sarà deciso in udienza pubblica o ex art. 127 cpp.

In caso contrario, la corte di appello darà avviso alle parti che si procederà senza la loro partecipazione, fatta salva la possibilità che i soggetti a ciò legittimati richiedano la trattazione in presenza nel termine sopra indicato.

In quest’ultimo caso, sempre che la richiesta sia ammissibile, la corte di appello (art. 598-bis, comma 2, cpp) dispone la trattazione in presenza con provvedimento comunicato al procuratore generale e notificato ai difensori (e non alle parti personalmente).

Da quanto sopra evidenziato emerge dunque che, se la richiesta di trattazione in presenza viene formulata da un soggetto diverso dall’imputato (parte civile o procuratore generale appellante) o decisa dalla corte di appello, il relativo avviso viene notificato al solo difensore e non anche all’interessato, salvo il caso previsto dall’art. 601, comma 2, cpp.

Sarà dunque onere del legale rendere nota al proprio assistito la relativa statuizione, così da consentirgli di partecipare all’udienza se lo ritiene opportuno.

Riassumendo, la scansione che emerge dalle norme in esame è la seguente:

- il decreto di citazione in appello viene notificato alle parti almeno 40 giorni prima dell’udienza; già in quella sede, l’autorità giudiziaria può disporre che l’udienza si svolga in presenza;

- analoga decisione può essere adottata dalla corte di appello anche successivamente, e in tal caso viene comunicata al procuratore generale e notificata ai difensori;

- entro 15 giorni dalla notificazione, l’appellante, l’imputato e il suo difensore possono chiedere la trattazione in presenza; se l’istanza è ammissibile, la corte di appello dispone in conformità con comunicazione al procuratore generale e notificazione ai difensori;

- fino a 15 giorni prima dell’udienza, il procuratore generale può formulare le sue richieste e tutte le parti presentare memorie e motivi nuovi, nonché richieste di concordato ex art. 599-bis cpp;

- fino a 5 giorni prima dell’udienza si possono presentare memorie di replica.

 

6. Il concordato in appello

Altre modifiche di rilievo riguardano il concordato in appello.

Del termine perentorio di 15 giorni s’è già detto; il comma 3 della norma, come novellato, prevede poi che, se la corte di appello ritiene di non poter accogliere la richiesta, dispone la trattazione in presenza, anche in questo caso indicando se si procede ex art. 127 cpp o in pubblica udienza.

È da notare che, diversamente dalle altre ipotesi nelle quali si dispone la trattazione in presenza successivamente all’emissione del decreto di citazione, in questo caso il provvedimento è comunicato al procuratore generale e «notificato alle altre parti» e non solo «ai difensori».

Si ritiene, dunque, che in tale ipotesi il provvedimento in esame debba essere notificato all’imputato appellante nel luogo ove ha eletto domicilio, e all’imputato non appellante nelle forme previste per le notificazioni.

All’udienza fissata per la trattazione, le parti possono riproporre la richiesta (ovviamente in termini diversi).

Quando, invece, è già stata disposta l’udienza in presenza (d’ufficio dalla corte di appello o su istanza di parte), se l’autorità giudiziaria procedente ritiene l’istanza non accoglibile, fissa la prosecuzione del giudizio. 

Ci si chiede se anche in quest’ultimo caso la richiesta possa essere riproposta. Una risposta negativa sembra, ad avviso di chi scrive, lesiva di parametri di ragionevolezza.

Non si vede infatti per quale ragione, se l’istanza è stata formulata nell’ambito di una procedura cartolare, divenuta orale solo perché la corte di appello non ne condivide il contenuto, essa possa essere riformulata all’udienza di trattazione, mentre se è stata presentata in un procedimento nel quale la parte ha chiesto la trattazione in presenza tale possibilità debba precludersi.

Il comma 3-ter prevede, infine, che l’accordo non abbia alcun effetto se la corte di appello decide in modo difforme dallo stesso.

 

7. La modifica dell’art. 603 cpp; la rinnovazione istruttoria

Come è noto, il comma 3-bis dell’art. 603 cpp richiedeva, in caso di giudizio d’appello promosso dal pm avverso una pronuncia assolutoria, la rinnovazione istruttoria ove il gravame avesse ad oggetto motivi attinenti alla valutazione di una prova dichiarativa.

La giurisprudenza di legittimità aveva via via ampliato l’ambito applicativo della norma, affermando in varie pronunce che essa era applicabile anche al giudizio abbreviato, all’appello della parte civile, alla perizia.

La novella invece ne restringe l’operatività, prevedendo espressamente che detta disposizione si applichi solo in caso di prove dichiarative assunte in udienza dibattimentale, ovvero avanti al giudice del rito abbreviato ex art. 438, comma 5, e 441, comma 3, cpp, così superando l’orientamento giurisprudenziale[4] che ne aveva esteso l’applicazione a tutte le prove assunte nel giudizio abbreviato tout court.

In sostanza la norma, nella nuova formulazione, si applica a tutti i casi di prove dichiarative acquisite avanti a un giudice, e nel contraddittorio delle parti.

Si ritiene allora che la norma debba essere estesa anche alle prove assunte in incidente probatorio, non espressamente richiamate, posto che la ratio è la medesima, trattandosi di un segmento dibattimentale anticipato alla fase precedente.

In assenza di un’espressa esclusione, si ritiene poi che conservi validità il principio elaborato dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento all’applicabilità del comma 3-bis in esame anche alla perizia, mentre nell’ipotesi dell’appello presentato dalla sola parte civile il tema è di fatto superato dal comma 3-bis dell’art. 573 cpp, che come già rilevato prevede in tale caso la competenza della sezione civile, la quale applicherà le regole proprie di tale rito.

La riforma prevede inoltre, al comma 3-ter, la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale quando l’imputato ne faccia richiesta ai sensi dell’art. 604, commi 5-bis e 5-ter, cpp di cui sopra.

Come sopra già osservato, la lettera della norma («il giudice dispone») non sembra in questa ipotesi lasciare alcun margine discrezionale al decidente, anche perché invece, nel caso in cui si sia proceduto in assenza dell’imputato ex art. 420-bis, comma 3, cpp, la rinnovazione è disposta ai sensi dell’art. 190-bis cpp, dunque quando ritenuta necessaria.

Ci si chiede, peraltro, se il giudice sia tenuto a disporre l’integrazione anche quando, ad esempio, sulla base del materiale probatorio già acquisito ritenga di poter accogliere il gravame riformando la sentenza, senza procedere all’assunzione di alcuna nuova prova, così allungando indebitamente i tempi del processo in violazione dell’art. 111 Cost.

La domanda è tanto più doverosa, tenendo conto che il comma in esame è inserito in una disposizione, come quella dell’art. 603 cpp, che – pur con gli ampliamenti esaminati – disciplina un’eccezione all’ordinario svolgimento del giudizio d’appello, celebrato avanti a un cd. “giudice di carta” che decide sulla base delle prove già assunte in precedenza.

Deve dunque ritenersi che, ove il giudice di secondo grado ritenga che il gravame sia immediatamente accoglibile, non sia obbligato ad accogliere la richiesta difensiva, analogamente a quanto accade relativamente all’applicazione del comma 3-bis, ipotesi quest’ultima nella quale, ove il giudice del gravame ritenga di dover confermare la sentenza assolutoria emessa in primo grado senza procedere ad alcuna integrazione, non è tenuto a disporre alcuna integrazione.

 

8. La messa alla prova e le sanzioni sostitutive

Per quanto riguarda la messa alla prova (map), la novella vede con evidente favore tale strumento, che è al contempo sostanziale e processuale, nonché rieducativo e deflattivo, ed ha conseguentemente – e significativamente – ampliato l’ambito applicativo dell’istituto e apportato alcune rilevanti modifiche alla sua disciplina processuale.

Innanzitutto, è stato allargato il novero dei reati a citazione diretta ex art. 550 cpp, con conseguente ampliamento anche di quelli per i quali è possibile richiedere l’amissione alla map.

La relativa istanza può essere proposta anche dal pm e l’art. 90 del decreto, valorizzando la natura sostanziale dell’istituto, disegna un regime transitorio che assegna la possibilità, ove si proceda per un illecito che anteriormente alla novella non ne consentiva l’applicazione, di formulare ex novo la richiesta, anche in appello, nel termine perentorio della prima udienza successiva all’entrata in vigore della normativa se fissata nei 45 giorni, ovvero entro quest’ultimo termine se l’udienza è fissata successivamente.

L’istanza deve essere presentata dall’interessato, ovvero da un suo procuratore speciale, e non è applicabile il comma 3 dell’art. 75 cpp, salva la possibilità per la parte civile di far valere in quest’ultima sede le proprie pretese.

L’istituto in esame è pertanto, come già osservato, applicabile anche in grado d’appello qualora se ne ravvisino i presupposti, e ciò renderà necessario un vero e proprio cambio di approccio da parte del “giudice di carta”, analogamente a quanto avverrà per le sanzioni sostitutive.

L’organo giudicante del secondo grado, infatti, è culturalmente orientato a valutare, salvo le eccezioni previste dalle singole norme, un patrimonio di dati già acquisito e a muoversi nel perimetro fissato dal procedimento a quo; con la novella, egli sarà invece chiamato a valutazioni del tutto nuove e a gestire esiti processuali alternativi al binomio conferma/riforma.

L’applicazione in appello della map sarà sicuramente uno dei banchi di prova della nuova normativa, perché dall’atteggiamento di apertura o di chiusura adottato dal giudice procedente dipenderà il concreto ampliamento dell’istituto o, viceversa, una prassi di fatto abrogativa di tale possibilità.

Analoghe argomentazioni valgono per le pene sostitutive, disciplinate dall’art. 20-bis cp, lo spazio applicativo delle quali è pure stato significativamente ampliato.

In particolare, la norma prevede i seguenti limiti:

- quattro anni per la semilibertà e la detenzione domiciliare;

- tre anni per il lavoro di pubblica utilità;

- un anno per la pena pecuniaria.

Nei primi due casi, la durata della pena sostitutiva coincide con quella della pena sostituita; nell’ultimo, i criteri sono fissati dall’art. 56-quater l. n. 689/1981.

Come stabilito dall’art. 58, comma 1 della stessa legge, nel valutare la sostituzione il giudice deve tener conto, anche alla luce di quanto previsto dall’art. 133 cp, della migliore idoneità della sanzione alla rieducazione e dell’esigenza di prevenzione della commissione di ulteriori reati, oltre alla prognosi circa l’ottemperanza da parte del sottoposto alle prescrizioni.

Nella scelta della pena, invece, si avrà riguardo solo all’idoneità rieducativa.

In sostanza, il giudice può anche decidere di non sostituire la pena inflitta a fronte di una valutazione di particolare pericolosità dell’interessato, e dunque di inidoneità della pena sostitutiva a fronteggiarla, ma una volta che ha optato per la sostituzione, non potrà più fare riferimento a questo parametro per negare, ad esempio, la pena pecuniaria applicandone invece una di natura detentiva, dovendo avere riguardo solo alla funzionalità rieducativa delle singole tipologie di sanzione.

Non solo, ma i commi 3 e 4 della norma sanciscono una preferenza per le pene non detentive (lavoro di pubblica utilità o pena pecuniaria), per cui, se queste ultime sono astrattamente applicabili, il giudice procedente dovrà spiegare anche per quale ragione intenda invece applicare la sanzione detentiva.

La norma impone anche di tener conto di alcune condizioni del sottoposto indicate al comma 4, ovvero condizioni di età e salute, maternità o paternità e AIDS o immunodeficienza grave nei casi di cui all’art. 47-quinquies o.p., certificato disturbo da sostanze, da ludopatia o abuso di alcol.

L’art. 59 prevede infine una serie di preclusioni, alcune assolute e altre relative unicamente alla scelta della misura; tra le prime, è richiamata l’ipotesi di imputato di un reato ostativo ex art. 4-bis o.p., salvo che operi l’attenuante di cui all’art. 323-bis, comma 2, cp.

Quest’ultima esclusione presenta alcuni profili di criticità.

Si pensi, ad esempio, a un soggetto condannato per rapina commessa in concorso, e dunque aggravata, reato pure rientrante nella previsione del citato art. 4-bis anche quando in concreto l’offensività del fatto è modesta (emblematica è l’ipotesi del furto in supermercato ad opera di due soggetti trasmodato nel reato più grave perché, ad esempio, uno dei due ha minacciato o dato una spinta al sorvegliante che cercava di bloccarli).

Premesso che, ad avviso di chi scrive, desta perplessità che in questi casi non sia possibile sospendere l’ordine di esecuzione della pena, la perplessità è destinata ad aumentare a fronte dell’impossibilità di sostituire la reclusione con, ad esempio, la semilibertà sostitutiva o la detenzione domiciliare sostitutiva, pur a fronte di una condotta che in concreto non presenta una gravità significativa.

Meglio sarebbe stato, dunque, prevedere in questi casi al più una restrizione del novero delle pene sostitutive applicabili, anche perché la preliminare valutazione del giudice circa l’idoneità di queste ultime sul fronte della prevenzione avrebbe comunque evitato di applicarle a soggetti connotati da una pericolosità elevata.

Ciò detto sotto un profilo sostanziale, la procedura applicativa delle sanzioni sostitutive sarà, anche in appello, quella prevista dall’art. 545-bis cpp.

Innanzitutto, la sostituzione può essere richiesta dall’interessato, ovvero proposta dal giudice; in questo secondo caso, salva l’ipotesi di sostituzione con la pena pecuniaria, è sempre necessario il consenso dell’imputato (manifestato personalmente o a mezzo di procuratore speciale).

Nel primo caso, il giudice avvisa le parti della possibilità di sostituire la pena dopo la lettura del dispositivo.

Il giudicante dunque sente il pm e, se non può decidere immediatamente, sospende il processo e fissa una nuova udienza entro 60 giorni, dandone avviso alle parti e all’Uepe, al quale può richiedere sia tutte le informazioni necessarie a decidere, sia un programma di trattamento; l’autorità giudiziaria procedente può acquisire anche le certificazioni relative allo stato di tossicodipendenza.

All’udienza fissata ad hoc il giudice può confermare il dispositivo, dandone lettura, ovvero disporre la sostituzione, indicando le eventuali prescrizioni.

Alcune notazioni.

È necessario chiedersi se, a fronte di una pena astrattamente sostituibile, il giudice sia comunque tenuto a sospendere il processo e a fissare l’udienza di decisione su punto, ovvero possa già ab initio ritenere l’insussistenza dei presupposti, ad esempio sotto il profilo dell’inidoneità preventiva della pena sostitutiva.

La seconda questione sorge dalla circostanza che la sentenza che afferma la responsabilità e infligge la pena sostitutiva è comunque impugnabile, con il rischio che il programma, in quella fase elaborato tenendo conto delle condizioni di vita dell’interessato al momento in cui la statuizione viene adottata, non sia più idoneo al momento in cui la pronuncia diviene irrevocabile.

Si tratta di una questione rilevante, poiché l’istituto attribuisce all’Uepe ulteriori competenze e si corre il rischio di esercitare un’attività in vista di un risultato non più adeguato al contesto nel quale la pena sarà di fatto applicata; dunque, un’attività sostanzialmente inutile, assegnata a un ufficio già molto gravato di competenze.

Come anticipato, la modifica in esame deve comunque a mio avviso essere valutata con favore, poiché attribuisce anche al giudice di cognizione la possibilità di scegliere il trattamento sanzionatorio più adatto al recupero dell’imputato, al contempo garantendo l’esigenza di prevenzione e tutela sociale.

Per funzionare appieno, è però necessario, anche in questo caso, un profondo mutamento anche culturale del giudice di cognizione, in particolare di quello di secondo grado, che dovrà essere disponibile a valutare elementi (quali la condizione di vita dell’interessato, la potenzialità rieducativa concreta della sanzione e, al contempo, l’idoneità preventiva) che finora raramente entravano nel suo angolo visuale (l’ipotesi di sostituzione di pene in appello era, infatti, assai poco frequente).

In caso contrario, si rischia una prassi abrogativa dell’istituto, e la conseguente perdita di un’importante occasione di adeguare il nostro sistema sanzionatorio ai principi costituzionali.

 

9. Alcune modifiche sostanziali rilevanti nel giudizio d’appello

La prima riguarda la procedibilità a querela di numerosi reati, ad oggi procedibili d’ufficio.

Il testo originario dell’art. 85 d.lgs n. 150/22 disponeva che, per i reati commessi prima dell’entrata in vigore della riforma, il giudice dovesse informare la parte lesa della possibilità di presentare querela, anche disponendo ricerche se la stessa non è reperibile. Come è noto, l’attribuzione di un simile onere informativo all’autorità giudiziaria è stata oggetto di ripensamento in sede di conversione del dl n. 162/22, che ha posticipato l’entrata in vigore della riforma. In quella sede, infatti, il testo dell’art. 85 d.lgs n. 150/22 è stato modificato prevedendo che «per i reati perseguibili a querela della persona offesa in base alle disposizioni del presente decreto, commessi prima della data di entrata in vigore dello stesso, il termine per la presentazione della querela decorre dalla predetta data, se la persona offesa ha avuto in precedenza notizia del fatto costituente reato» (art. 85, comma 1, d.lgs n. 150/22, come modificato dal dl n. 162/22); conseguentemente, il legislatore prevede che sia onere della persona offesa attivarsi per proporre querela.

Evidente la diminuzione del carico di lavoro per gli uffici giudiziari e l’aumento di un onere di attivazione per le persone offese che intendano coltivare la pretesa punitiva (con il rischio, però, che queste ultime - magari per ignoranza - possano non essere concretamente informate dell’esistenza di un simile onere). Resta, tuttavia, assegnato all’autorità giudiziaria il dovere di informare la persona offesa da un reato “divenuto” perseguibile a querela nel caso in cui vi siano misure cautelari personali in corso di esecuzione; in questo caso, «l’autorità giudiziaria effettua ogni utile ricerca della persona offesa, anche avvalendosi della polizia giudiziaria»; è però previsto che le misure cautelari perdano efficacia «se, entro venti giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, l’autorità giudiziaria che procede non acquisisce la querela».

A prescindere dalla disciplina transitoria, occorre mettere in evidenza alcuni problemi.

In appello, un primo problema si pone con riferimento alla stessa verifica circa la sussistenza di un atto di querela. Nulla quaestio se si procede con rito abbreviato, perché in questo caso il giudice ha a disposizione il fascicolo del pm, con conseguente immediata possibilità di verificare la presenza, o meno, della condizione di procedibilità in esame.

Il problema – eminentemente pratico, ma non per questo da trascurare – si pone invece con riferimento al rito ordinario, perché in questo caso il giudice ha a disposizione solo il fascicolo del dibattimento, oltre ai verbali di udienza del giudizio di primo grado, e in quel fascicolo di regola la querela non è inserita, essendo il reato procedibile d’ufficio.

A volte la presenza di una querela emerge dallo stesso tenore dell’istruttoria dibattimentale (ad esempio, la presentazione della stessa viene confermata in sede testimoniale dalla persona offesa, o utilizzata per le contestazioni). Se ciò non accade, potrebbe allora rendersi necessario richiedere al pm di verificare se nel proprio fascicolo la querela sia o meno presente, anche nelle more dell’interpello della persona offesa.

Altra norma immediatamente applicabile è l’art. 131-bis cp nella nuova formulazione. Nella Relazione illustrativa, si evidenzia che «trattandosi di un istituto sostanziale, [è] pacifica l’applicabilità dell’art. 2 c.p.; con la conseguenza che l’estensione dell’ambito di applicazione dell’art. 131 bis c.p. a nuove figure di reato ha effetto retroattivo, come anche il parametro di valutazione della tenuità dell’offesa alla luce della condotta susseguente al reato. Viceversa, alla luce del principio di irretroattività della legge penale sfavorevole all’agente (art. 25, co. 2 Cost.), le modifiche alla disciplina dell’art. 131 bis c.p., che escludono dall’ambito di applicazione dell’istituto talune figure di reato, in quanto sfavorevoli all’agente, avranno effetto solo per i fatti commessi dopo l’entrata in vigore della riforma. Si tratta di soluzioni costituzionalmente obbligate».

L’ovvia conseguenza è che la valutazione dell’impatto della riforma in materia di particolare tenuità del fatto rientrerà tra i doveri decisori della corte di appello. È solo il caso di evidenziare che la richiesta di declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto, per i reati che anteriormente alla novella non rientravano nell’alveo applicativo della norma, potrà essere formulata anche in appello, sia pure come motivo nuovo, dunque soggetto al relativo termine.

Concludendo, come anticipato, la riforma presenta luci e ombre; profili di criticità e, al contempo, significative opportunità.

Il suo buon funzionamento dipenderà, in larga parte, dalle risorse che verranno stanziate per renderla attuabile (penso, ad esempio, al necessario potenziamento dell’Uepe) e dall’adozione di soluzioni organizzative adeguate all’interno dei singoli uffici.

Ma ciò dipenderà, a mio avviso, anche dalla disponibilità dei magistrati – in particolare di quelli di secondo grado, per le ragioni già esplicitate – ad ampliare il proprio angolo visuale e l’oggetto dell’attività giurisdizionale, facendovi rientrare anche profili (quali quelli da ultimo richiamati) finora toccati solo di striscio dalla cognizione del giudice d’appello, e tuttavia di fondamentale importanza in un ordinamento ispirato a principi di risocializzazione e recupero. 

 

 

1. In particolare, la Corte di cassazione, quantomeno a partire dalla sentenza a sezioni unite del 27 ottobre 2016, n. 8825 (cit. supra, in Premessa), ha statuito che:
«dal combinato disposto degli artt. 581, comma 1, lettera c), 591, comma 1, lettera c), e 597, comma 1, cod. proc. pen., emerge che l’ultima di tali disposizioni – nello stabilire che la cognizione del procedimento è attribuita al giudice d’appello limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti — non può essere interpretata nel senso che sia sufficiente, ai fini dell’ammissibilità dell’appello, che i motivi si riferiscano semplicemente a “punti della decisione”. (…) Infatti l’espressione “si riferiscono”, contenuta nella disposizione, deve essere riempita di contenuto proprio sulla base dell’art. 581, comma 1, lettera c); con la conseguenza che essa non può che significare “indicano specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta”, in relazione ai punti della sentenza e, dunque, in relazione alla motivazione della sentenza che sorregge tali punti» (ivi, par. 7.2.).

2. G. Ichino, “Riforma Cartabia” e processo d’appello, in questa Rivista trimestrale, n. 4/2021, pp. 159 ss., part. p. 164 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/997/4-2021_qg_ichino.pdf). 

3. Cass., sez. unite, 27 febbraio 2020, n. 12778 (dep. 22 aprile 2020 ), Rv. 278869 – 01.

4. Cfr. Cass., sez. unite, 19 gennaio 2017, n. 18620 (dep. 14 aprile 2017, ric. Patalano), Rv. 269786 – 0.