Magistratura democratica
Giurisprudenza e documenti

Falso in autodichiarazione covid e risposta penale

di Milena Chiara Lombardo
giudice presso il tribunale di Torino

Il vaglio giurisdizionale sulle accuse relative alle falsità nelle c.d. autodichiarazioni COVID-19 costringe a riflettere su principi fondamentali, come il principio di legalità in materia penale, quello di sussidiarietà e sul diritto a non auto-incriminarsi; non ultimo, la questione impone di ragionare sull’utilità o meno della risposta penale verso un simile fenomeno.

Da ben più di un anno siamo di fronte al continuo susseguirsi di disposizioni legislative e, soprattutto, regolamentari che, comprimendo certamente diritti costituzionalmente garantiti (libertà personale e di circolazione in primis), hanno cercato per altro verso di dare attuazione all’art. 32 Cost. che impone la tutela «della salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività»[1]

È, invece, solo da qualche mese che la giurisprudenza si è trovata ad affrontare concretamente i problemi giuridici sottesi a tale normativa: e, più in particolare, per quanto qui d’interesse, se il cittadino che affermi il falso nelle autodichiarazioni compilate e consegnate agli operatori di pubblica sicurezza che effettuano i controlli sul rispetto delle limitazioni imposte dai vari DPCM di volta in volta emanati, commetta il reato di cui all’art. 483 c.p. 

Secondo talune opinioni – che si esamineranno nel prosieguo – l’applicazione di tale fattispecie porrebbe problemi di rispetto del principio di legalità in materia penale; altri contestano la stessa legittimità della “pretesa” di imporre al privato di rilasciare l’autodichiarazione; altri ancora, per contro, paventano il rischio che, mettendo in discussione il sistema di controllo dei comportamenti privati fondato sulle autodichiarazioni (e la repressione del mendacio che intervenga sul punto), si possa indebolire il sistema di contenimento dell’epidemia. 

Prima di passare all’analisi delle soluzioni finora adottate per dare una risposta a tale quesito (da ultimo, ma non solo, sentenza 839/21 Tribunale di Milano – Ufficio del Giudice delle Indagini Preliminari), e senza volerne sottovalutare l’evidente delicatezza, l’impatto sulla collettività in uno alla consapevolezza che si tratta comunque di decisioni destinate in qualche misura ad incidere – rafforzandolo o sminuendolo – sul rispetto da parte dei consociati delle norme via via adottate dal Governo per contrastare l’epidemia COVID-19, è dunque d’obbligo una premessa. 

Ciascun giurista che si trovi ad affrontare il tema non può che farlo ancorandosi ai basici principi guida dell’attività giurisdizionale: la soggezione, del giudice, esclusivamente alla legge, prima tra tutte la Costituzione (art. 101 co. 2 Cost.) e, conseguentemente, il rispetto dei diritti di difesa e del principio di legalità, tra i cui corollari rientra quello di sussidiarietà e necessità (sanzione penale intesa come extrema ratio). 

 

1. Il quadro normativo di riferimento

Com’è noto, l’art. 1 D.L. 23 febbraio 2020, n. 6, convertito in legge 5.3.2020, n. 13, ha previsto, per le autorità competenti e al fine di prevenire la diffusione del contagio dell’epidemia COVID-19, la possibilità di adottare «ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica», stabilendo, al successivo art. 3, la possibilità che tali misure venissero adottate «con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro della salute, sentito il Ministro dell'interno, il Ministro della difesa, il Ministro dell'economia e delle finanze e gli altri Ministri competenti per materia, nonché i Presidenti delle regioni competenti, nel caso in cui riguardino esclusivamente una sola regione o alcune specifiche regioni, ovvero il Presidente della Conferenza dei presidenti delle regioni, nel caso in cui riguardino il territorio nazionale».

Ed è proprio in attuazione di tale previsione normativa che, poco dopo, iniziavano a essere emanati alcuni DPCM che hanno via via previsto limitazioni alla libertà personale e a quella di circolazione delle persone (oltre alla sospensione di varie attività economico produttive). Più in particolare, con DPCM 8.3.2020, è stato imposto ai cittadini residenti nelle province e comuni individuati dal medesimo decreto, di «evitare ogni spostamento in entrata e in uscita dai territori di cui al presente articolo, nonché all’interno dei medesimi territori, salvo che per  gli  spostamenti  motivati  da comprovate esigenze lavorative o situazioni  di  necessità  ovvero spostamenti per motivi di salute», disposizione successivamente estesa, con DPCM 9.3.2020, a tutto il territorio nazionale.  

Era poi lo stesso D.L. 6/2020 a prevedere, all’art. 3, co. 4, che «salvo che il fatto non costituisca più grave reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è punito ai sensi dell’articolo 650 del codice penale».

Il successivo D.L. 25.3.2020, n. 19, pur confermando l’impianto del precedente D.L. 23 febbraio 2020 n. 6 (quindi, adozione di decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri che, per contenere l’epidemia COVID-19, potessero prevedere limitazioni della libertà personale, di circolazione, chiusura di strade o vie, sospensione di diverse tipologie di attività economiche), stabiliva che tali decreti dovessero necessariamente essere adottati «per periodi  predeterminati, ciascuno di durata non superiore a trenta giorni», comunque reiterabili, in allora, fino al 31.7.2020 (ossia l’originario termine finale dello stato d’emergenza dichiarato nel gennaio 2020), disposizione che, è bene ricordarlo sin d’ora, costituisce il primario riferimento normativo di tutti i DPCM successivamente adottati.

Si tratta di una norma certamente più in linea con il quadro costituzionale e con le pronunce della Corte che, in tema di ordinanze contingibili e urgenti, ne avevano affermato la legittimità solo se adottate in situazioni di natura eccezionale, per periodi limitati di tempo, e, comunque, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento (tra cui, in primo luogo, quello di proporzionalità tra misure adottate e situazione emergenziale da fronteggiare[2]). 

Per verificare il rispetto di tali disposizioni, le autorità preposte hanno sin da subito predisposto alcuni modelli di autodichiarazione[3] nelle quali il cittadino, dopo aver dichiarato di essere a conoscenza delle limitazioni agli spostamenti imposte dalla normativa emergenziale, dichiarava i motivi per cui si trovava al di fuori della propria abitazione (salute, comprovate esigenze lavorative ovvero situazioni di necessità), di cui doveva altresì esplicitare la natura. Tali modelli variano, attualmente, a seconda del comune di residenza del dichiarante e, in particolare, della zona (rossa o arancione, principalmente) in cui lo stesso è ricompreso. 

Tali autodichiarazioni contengono poi un esplicito riferimento agli «artt. 46 e 47 d.p.r. 445/2000», che a loro volta prevedono la possibilità di comprovare, mediante semplice dichiarazione sottoscritta dall’interessato, «stati, qualità personali o fatti che siano a diretta conoscenza dell’interessato» (art. 47), in sostituzione del relativo atto di notorietà. Gli stati, qualità personali o fatti cui fa riferimento tale ultima citata disposizione non possono poi essere sovrapposti a quelli specificatamente elencati nel precedente art. 46, secondo comma, come peraltro esplicitato dallo stesso terzo comma dell’art. 47 («fatte salve le eccezioni espressamente previste per legge, nei rapporti con la pubblica amministrazione e con i concessionari di pubblici servizi, tutti gli stati, le qualità personali e i fatti non espressamente indicati nell'articolo 46 sono comprovati dall'interessato mediante la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà»). 

 

2. La configurabilità del reato di cui all’art. 483 c.p. nelle ipotesi di false autodichiarazioni ex artt. 46 e 47 d.p.r. 445/2000

L’applicabilità del reato di cui all’art. 483 c.p. alle ipotesi di false dichiarazioni sostitutive ex artt. 46 e 47 consegue al richiamo ai reati del codice penale contenuto nell’art. 76 del medesimo d.p.r. che, al comma 1, prevede appunto la punibilità «ai sensi del codice penale e delle leggi speciali in materia» di chiunque rilasci dichiarazioni mendaci. 

La giurisprudenza di legittimità ha sempre – e abbastanza pacificamente – ritenuto configurabile la fattispecie di cui all’art. 483 c.p. (che, com’è noto, punisce chiunque attesti falsamente al pubblico ufficiale, in atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità) in ipotesi di falsa autodichiarazione, sia se rilasciata ex art. 46, sia se rilasciata ex art. 47 (unica norma, quest’ultima, a venire in rilievo in ipotesi di falsa dichiarazione “COVID”, posto che le dichiarazioni rilasciate dall’interessato in tale ipotesi non rientrano nel catalogo previsto dall’art. 46 co. 2). 

Premesso che il reato di cui all’art. 483 c.p. è configurabile solo se «una specifica norma giuridica attribuisca all’atto la funzione di provare i fatti attestati al pubblico ufficiale, così collegando l’efficacia probatoria dell’atto medesimo al dovere del dichiarante di affermare il vero»[4], si è affermato che la dichiarazione di cui agli artt. 46 e 47 sia «per sua natura destinata a provare delle circostanze in esse affermate, che concernono fatti, stati e qualità personali, desumendosi la natura pubblica dell’atto proprio dalla sua naturale destinazione a provare la verità dei fatti in esso affermati, a sua volta evincibile dalla funzione di comprovare stati, qualità personali e fatti, che le due disposizioni richiamate assegnano alle dichiarazioni sostitutive di atti notori e certificazioni»[5]. Se tale affermazione appare quantomeno tautologica (non si comprende invero come possa affermarsi la capacità probatoria di tali dichiarazioni dalla loro «naturale destinazione a tale fine»), è comunque chiaro il principio in essa affermato: poiché tali dichiarazioni sostituiscono certificati e atti  notori e si inseriscono in un procedimento amministrativo (di qualsiasi genere), è in re ipsa che le affermazioni in esse contenute debbano corrispondere al vero in quanto destinate a comprovare stati, qualità personali e fatti e, se così non è, è certamente configurabile il reato di cui all’art. 483 c.p., tenuto conto che, a mente dell’art. 76 co. 3, «le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli articoli 46 e 47 e le dichiarazioni rese per conto delle persone indicate nell’articolo 4, comma 2, sono considerate come fatte a pubblico ufficiale» . Tanto che, la citata pronuncia, chiamata in concreto a pronunciarsi in tema di DURC, conclude affermando che «è dunque evidente ed incontestabile la specifica funzione probatoria delle dichiarazioni ex art. 46 e 47 d.p.r. 445/2000 in quanto dimostrative di stati, qualità personali o fatti che siano a diretta conoscenza dell’interessato». 

In giurisprudenza si è poi osservato che, tenuto conto del tenore letterale dell’art. 2699 c.c. (che definisce l’atto pubblico unicamente in riferimento al soggetto che lo emana secondo le prescritte formalità), in combinato disposto all’art. 76 co. 3, non può che affermarsi la natura di atto pubblico delle stesse autodichiarazioni sostitutive; in conseguenza di tale premessa, pertanto, si è affermato che integra il reato di cui all’art. 483 c.p. (in combinato disposto con gli artt. 46. 47 e 76 d.p.r. 445/2000) la falsa autocertificazione del privato («secondo l’art.76 d.p.r. 445/2000, le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli articoli 46 e 47 sono considerate come fatte a pubblico ufficiale, il che è più che sufficiente a sancirne la destinazione ad essere trasfuse in atto pubblico; per converso, la necessità, affermata dal filone giurisprudenziale che fa capo alla sentenza delle Sezioni Unite "Gabrielli", dell’individuazione di una specifica norma giuridica che attribuisca all’atto la funzione di provare i fatti attestati dal privato al pubblico ufficiale, così collegando l’efficacia probatoria dell’atto medesimo al dovere del dichiarante di affermare il vero, è puntualmente soddisfatta dalle norme di cui agli artt. 46 e 47 del d.p.r. 445 del 2000»[6]). 

In forza di tali argomentazioni si è, quindi, ad esempio, ritenuto che integri il reato di falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico la condotta di colui che, in una autocertificazione sostitutiva diretta ad un gestore di telefonia, dichiari di aver smarrito la scheda SIM[7]; o, ancora, la condotta di colui che, in una autocertificazione sostitutiva diretta all’amministrazione penitenziaria per l’accesso all’istituto penitenziario come dipendente di una ditta, dichiari di non avere procedimenti penali in corso, pur essendogli stato notificato in precedenza un verbale di sequestro di armi e relativo provvedimento di convalida[8], esempi certamente indicativi della pacifica configurabilità, in ipotesi di falsa autodichiarazione sostitutiva, del reato di cui all’art. 483 c.p. 

 

3. Il reato di cui all’art. 483 c.p. nell’ipotesi di false dichiarazioni contenute nelle c.d. autodichiarazioni COVID

L’applicabilità del reato di cui all’art. 483 c.p. in ipotesi di falsa autodichiarazione rilasciata per la verifica del rispetto dei DPCM emanati per prevenire la diffusione del COVID-19 ha da poco iniziato ad essere oggetto di pronunce giurisdizionali. 

Ha fatto molto scalpore una recente sentenza del Tribunale di Milano, Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari (che qui pubblichiamo), che, ritenendo non configurabile in tale ipotesi la fattispecie di cui all’art. 483 c.p., è pervenuta all’assoluzione dell’imputato dal relativo reato con formula piena. 

Il caso sottoposto all’esame del giudice milanese concerneva un’autocertificazione sottoscritta il 14.3.2020 (quindi subito dopo l’entrata in vigore del DPCM 9.3.2020) nella quale l’interessato dichiarava di trovarsi fuori dalla propria abitazione per comprovate esigenze lavorative, avendo appena terminato lo svolgimento di un turno presso un esercizio commerciale. Dagli accertamenti successivamente espletati dalla Polfer (che aveva raccolto la dichiarazione) emergeva, tuttavia, che quel giorno il dichiarante non era in realtà mai stato coinvolto in alcun turno di lavoro; di qui la contestazione del reato di cui all’art. 483 c.p., in relazione agli artt. 76, 46 e 47 d.p.r. 445/2000. 

Il Tribunale, pur dando atto che, nel corso del giudizio, era emerso quantomeno il dubbio sull’effettiva falsità del contenuto dell’autodichiarazione (alla luce della documentazione prodotta dalla Difesa dalla quale emergeva la presenza dell’imputato sul luogo di lavoro nella giornata del 14.3.2020), e che, pertanto, già solo per tale ragione, la pronuncia assolutoria era necessitata, affermava la non configurabilità, nemmeno in astratto, del reato di cui all’art. 483 c.p. 

Richiamata la giurisprudenza di legittimità secondo cui le false dichiarazioni rilevano solo nella misura in cui siano destinate a provare la verità dei fatti cui si riferiscono e ad essere trasfuse in atto pubblico, il giudice escludeva la sussistenza di tali condizioni nel caso in esame rilevando, da un lato, che non era  possibile stabilire quale fosse l’atto pubblico in cui la dichiarazione era destinata ad essere trasfusa, tenendo anche conto della mera eventualità del controllo sul contenuto della dichiarazione; e, dall’altro,  che  pur ipotizzando quale atto pubblico rilevante ai sensi dell’art. 483 c.p. il successivo verbale d’identificazione o l’informativa sulla sussistenza della conoscenza del procedimento, si trattava comunque di atti che all’epoca avrebbero potuto determinare l’avvio di un  procedimento penale per il reato di cui all’art. 650 c.p. a mente del già richiamato disposto di cui all’art. 3, co. 4, d.l. 6/2020. Ne conseguiva, pertanto, che il privato si sarebbe, all’epoca, trovato di fronte ad una duplice alternativa: dichiarare sempre il vero, rischiando in ipotesi l’avvio di un procedimento per il reato di cui all’art. 650 c.p., o dichiarare il falso, così certamente determinando l’avvio del procedimento per il reato di cui all’art. 483 c.p. 

La pronuncia si pone dunque nel solco dell’opinione, già espressa in più sedi, secondo cui nel caso di falsa dichiarazione in autocertificazione COVID non c’è «spazio oggettivo di applicabilità» del reato di cui all’art. 483 c.p.: è stato, infatti, affermato che «non può ritenersi che la dichiarazione resa in ordine alle ragioni dello spostamento sia qualificabile ai sensi dell’art. 46 d.p.r. 445/2000. Non vi è alcunché da certificare in sede di controllo (…). Stesso discorso vale per la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà di cui all’art. 47 DPR 445/2000, concernente stati, qualità personali, o fatti che siano a diretta conoscenza dell’interessato, non essendovi (né potendosi ragionevolmente ipotizzarsi) alcun atto di notorietà con riferimento all’uscita dalla propria abitazione»[9]. Diversamente vi sarebbe una seria violazione del principio di legalità, considerando altresì che l’art. 76, co. 1, riconnette l’applicabilità delle disposizioni penali ai «casi previsti da presente testo unico», tra cui non rientra l’autocertificazione in esame che, come sostenuto in dottrina, esula da «un rapporto tra privato e p.a. in relazione alla presentazione di istanze volte ad ottenere un determinato atto»[10].

Tali conclusioni sembrano porsi, tuttavia, quanto meno in attrito con quello che è il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità sul punto. 

Da, un lato, infatti, il combinato disposto dell’art. 76, co. 3, e dell’art. 2699 c.c. porterebbe a concludere che sia la stessa autodichiarazione a dover essere qualificata quale atto pubblico; e sotto altro profilo, è chiaro che, in quanto tale, le affermazioni in essa contenute devono necessariamente essere veritiere, proprio per la già menzionata e pacifica «funzione probatoria delle dichiarazioni ex art. 46 e 47 d.p.r. 445/2000», ad esse attribuite da specifiche norme di legge, ossia appunto gli stessi artt. 46 e, soprattutto, nel caso in esame, 47 d.p.r. 445/2000. 

Se sulla base di tali argomentazioni si è giunti a ritenere integrato il reato di falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico per la condotta di colui che, come detto, dichiari falsamente lo smarrimento di una scheda SIM[11] o di non avere procedimenti penali in corso[12], appare veramente difficile pensare che, nel caso in esame, si possa giungere a conclusioni opposte. Né appare dirimente, in senso contrario, la considerazione che il controllo sulla veridicità della dichiarazione è, nel caso di specie, solo eventuale, ipotesi che non caratterizza, invero, unicamente solo i controlli sull’autocertificazione COVID.   

D’altro canto, una precedente sentenza del Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Milano del 16.11.2020[13], aveva sì escluso il reato di falso ma perché, nel caso in allora al vaglio del giudicante, il reato concerneva una mera intenzione, non anche un fatto già accaduto; si trattava, quindi, di una ratio decidendi diversa da quella utilizzata nel provvedimento qui pubblicato[14]

Maggiormente convincente appare invece l’altra argomentazione utilizzata dal giudice milanese nella sentenza qui annotata: è, infatti, certo che il cittadino, quantomeno all’epoca dei fatti in contestazione, allorché si fosse trovato costretto a rendere la menzionata autodichiarazione, avrebbe dovuto scegliere tra dire il vero, così auto accusandosi del reato di cui all’art. 650 c.p., o dire il falso, in evidente violazione del principio nemo tenetur se detegere[15], principio che, pur non esplicitamente indicato nella Costituzione, è certo diretto corollario dell’art. 24, co. 2, come già più volte riconosciuto dalla Corte Costituzionale[16]. Si aggiunga che, secondo un filone interpretativo e, oramai, anche giurisprudenziale, tale principio è applicabile anche ai procedimenti amministrativi che si concludono con l’irrogazione di una sanzione amministrativa di natura punitiva, ove la si ritenga riconducibile alla matière pénale[17]: accogliendo tale prospettiva, dunque, potrebbe pervenirsi a conclusioni analoghe anche per le violazioni commesse dopo l’entrata in vigore del D.L. 25 marzo 2020, n. 19 che, da un lato, ha abrogato il precedente D.L. 6/2020, e, dall’altro, ha previsto, all’art. 4, co. 1, che «salvo che il fatto costituisca reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all’articolo 1, comma 2, individuate e applicate con i provvedimenti adottati ai sensi dell'articolo 2,comma 1, ovvero dell'articolo 3, è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 3.000  e non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall’articolo 650 del codice penale o da ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità, di cui all’articolo 3, comma 3» (oltre a sanzioni ulteriori per titolarti di esercizi commerciali). 

Si deve, peraltro, dare conto che recentemente è intervenuta un’altra sentenza che, pur pervenendo alla medesima soluzione (dichiarazione di non luogo a procedere perché il fatto non costituisce reato), sembra aver affermato, seppur incider tantum, l’astratta configurabilità, nei casi in esame, del reato di cui all’art. 483 c.p. 

Si fa riferimento alla ben più dirompente sentenza del Tribunale di Reggio Emilia del 27.1.2021 che, nel valutare la sussistenza del reato di cui all’art. 483 c.p. in riferimento ad un fatto accaduto il 13.3.2020, ha dapprima disapplicato il DPCM 9 marzo 2020 (ritenendo che le prescrizioni in esso contenute violassero, in sostanza, la libertà personale a tutela della quale l’art. 13 prevede la doppia riserva di giurisdizione e di legge), affermando poi che «poiché, proprio in forza di tale decreto, ciascun imputato è stato costretto a sottoscrivere un’autocertificazione incompatibile con lo stato di diritto del nostro Paese e, dunque, illegittima, deriva dalla disapplicazione di tale norma che la condotta di falso, materialmente comprovata come in atti, non sia tuttavia punibile giacché nella specie le esposte circostanze escludono l’antigiuridicità in concreto della condotta» che, integrerebbe, al più, «un falso inutile»[18]

Prima di chiudere queste considerazioni, ci si permette una notazione conclusiva: anche a prescindere dalla questione interpretativa relativa alla applicabilità (o meno), in simili casi, del reato di cui all’art. 483 c.p. in relazione agli artt. 46, 47 d.p.r. 309/90, può certo affermarsi che il privilegio contro l’auto incriminazione e il principio di sussidiarietà che, quale corollario di quello di legalità, impone il rimedio penale quale extrema ratio, suggerirebbero di evitare il ricorso allo strumento penale; ciò anche in considerazione del fatto che la violazione delle disposizioni regolamentari appare già sufficientemente presidiata, in funzione general preventiva, dalle – non lievi – sanzioni amministrative via via previste dalla normativa in vigore, in primo impatto più efficaci di quelle penali (le prime, infatti, hanno natura patrimoniale; le seconde, tenuto conto dei limiti edittali del reato di cui all’art. 483 c.p. si risolverebbero al più, nella maggior parte dei casi, in una condanna a pena sospesa). 

 

[1] Del tema questa Rivista si è occupata a più riprese, dedicandovi molti contributi ed anche il numero monografico 2/2020 Il diritto nell'emergenza. Per i contributi aventi ad oggetto le implicazioni di carattere costituzionale, ci si limita a richiamare, ivi, i contributi di M. Luciani, Avvisi ai naviganti del Mar pandemico e M. Bignami, Le fonti del diritto tra legalità e legittimità nell’emergenza sanitaria; si vedano anche – limitando ad alcuni contributi comparsi su questa Rivista, in ordine di apparizione, a G.M. Locati, F. Filice, Lo Stato democratico di diritto alla prova del contagio, in Questione giustizia on line, 27.3.2020; M. Bignami, Chiacchiericcio sulle libertà costituzionali al tempo del coronavirus, in Questione giustizia on line, 7.4.2020; M.G. Civinini, G.Scarselli, Emergenza sanitaria. Dubbi di costituzionalità di un giudice e di un avvocato, in Questione giustizia on line, 10.4.2020; sulle misure di contenimento e sul sistema sanzionatorio posto a loro presidio, v. A. Natale, Il decreto legge n. 19 del 2020: le previsioni sanzionatorie in Questione giustizia on line, 28.3.2020; G. Battarino, A. Natale, Reati dell’epidemia e reati nell’epidemia, in Questione giustizia n. 2/2020. V. anche F. Filice, C. Valori, Il punto sui reati dell'emergenza COVID in Questione giustizia on line, 4.4.2021

[2] Cfr., tra tutte, sent. Corte Costituzionale 14.4.1995, n. 127.

[3] Tra i vari modelli di autodichiarazione disponibili, cfr.  https://www.interno.gov.it/sites/default/files/202010/modello_autodichiarazione_editabile_ottobre_2020.pdf

[4] Cfr. Cass. Pen., sez. 5, sent. n. 32859 del 24.4.2019, dep. 22.7.2019, ma in senso conforme, sent. 5365 del 2018, 39215 del 2015, 18279 del 2014.

[5] Ibidem.

[6] Cfr. Cass. Pen., sez. 5, sent. 7857 del 2018.

[7] Cfr. Cass. Pen., sez. 3, sent. 6347 del 4.10.2018, dep.  11.2.2019.

[8] Cfr. Cass. Pen., sez. 5, sent. 3701 del 19.9.2018, dep. 25.1.2019.

[9] M. Grimaldi, Covid-19: la tutela penale dal contagio, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 4.

[10] M. Pelissero, Covid-19 e diritto penale pandemico. Delitti contro la fede pubblica, epidemia e delitti contro la persona alla prova dell’emergenza sanitaria, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, Fasc. 2, 2020, pag. 503 e seguenti; l’Autore ha sostenuto, tra l’altro, come argomentato dallo stesso G.I.P. del Tribunale di Milano, che tale reato è configurabile solo «laddove vi sia una norma che ricolleghi specifici effetti a determinati fatti attestati dal privato […]. Sul punto la giurisprudenza è costante, perché la fattispecie incriminatrice collega la falsa dichiarazione ad un atto pubblico che deve recepirne il contenuto», pag. 515.  

[11] Cfr. Cass. Pen., sez. 3, sent. 6347 del 4.10.2018, dep.  11.2.2019.

[12] Cfr. Cass. Pen., sez. 5, sent. 3701 del 19.9.2018, dep. 25.1.2019.

[13] Cfr. sent. 16.11.2020, G.I.P. Tribunale di Milano, pubblicata in www.giurisprudenzapenale.com/2020/12/14/falsita-in-autocertificazione-e-divieti-di-spostamento-causa-covid-19-lattestazione-della-propria-intenzione-di-recarsi-in-un-determinato-luogo-o-di-svolgere-una-determinata-attivita/

[14] Sul punto, v. anche F. Lombardi, Covid-19, misure di contenimento e reati di falso: aspetti problematici dell’autodichiarazione, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 3, p. 7-8.

[15] Principio evocato, fra i primi, da G.L. Gatta, Coronavirus, limitazione di diritti e libertà fondamentali, e diritto penale: un deficit di legalità da rimediare, in Sistema Penale, 16 marzo 2020.

[16] Cfr. di recente, Corte costituzionale, ordinanza 10.5.2019, n. 117.

[17] Corte di Giustizia UE (Grande sezione), Sentenza 2 febbraio 2021, Causa C-481/19, su rinvio operato dalla già citata Corte Costituzionale, ordinanza n. 117 del 2019.  

[18] Cfr. Trib. Reggio Emilia, sent. 54 del 27.1.2021, in quotidianogiuridico.it  

15/04/2021
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18/07/2023
La “Fabbrica di San Pietro” della giustizia penale

Per descrivere lo stato dell’arte dei lavori legislativi sulla giustizia penale è ormai d’obbligo attingere alle metafore “stanche” che designano un eterno lavorio, il rifacimento dell’appena fatto, la riscrittura del già deciso: la Fabbrica di San Pietro, la tela di Penelope, la fatica di Sisifo et similia. Mentre ci si accinge ad abrogare totalmente il reato di abuso d’ufficio, ignorando le argomentate critiche di larga parte della dottrina penalistica e dei magistrati impegnati sul campo, si propone anche di rimettere mano alla tormentata disciplina della prescrizione, già oggetto di tre interventi riformatori succedutisi nell’arco di pochi anni. L’auspicio di quanti operano nel mondo della giustizia è che la normativa in tema di prescrizione, per la straordinaria rilevanza degli interessi in gioco, cessi di essere terreno di uno scontro pregiudiziale delle forze politiche e divenga oggetto di una soluzione largamente condivisa e perciò destinata – finalmente – a durare nel tempo. 

17/07/2023