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Una china pericolosa: rovesciare sui lavoratori la responsabilità dell’organizzazione delle misure di sicurezza sul lavoro

di Beniamino Deidda
già Procuratore generale della Repubblica di Firenze, già direttore di Questione Giustizia

Lo scorso 25 settembre 2023 la IV sezione della Cassazione ha depositato le motivazioni della sentenza n. 38914, con la quale per la prima volta (per quanto io sappia) si attribuisce al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS) la responsabilità dell’omicidio di un lavoratore per «aver concorso a cagionare l'infortunio mortale attraverso una serie di contegni omissivi, consistiti nell'aver omesso di promuovere l'elaborazione, l'individuazione e l'attuazione delle misure di prevenzione idonee a tutelare la salute e l'integrità fisica dei lavoratori, di sollecitare il datore di lavoro ad effettuare la formazione dei dipendenti  per l'uso dei mezzi di sollevamento e di informare i responsabili dell'azienda dei rischi connessi all'utilizzo, da parte del C.C., del carrello elevatore».

Si tratta di una sentenza di straordinaria rilevanza che, se fosse seguita da altre pronunzie dello stesso tenore, potrebbe aprire ampi spazi per un sostanziale rivolgimento della responsabilità dell’organizzazione e dell’applicazione dei sistemi di sicurezza sui lavoratori. La quale, com’è noto, spetta al datore di lavoro e agli altri soggetti titolari degli obblighi di sicurezza.

Sarebbe dunque aperto un capitolo nuovissimo rispetto al passato: al giudice incomberebbe l’obbligo di valutare non solo il comportamento dei soggetti tenuti, secondo il Testo Unico sulla sicurezza del lavoro (decreto n. 81/2008), ad organizzare ed applicare i sistemi di sicurezza sul lavoro, cioè i datori di lavoro, i dirigenti, i preposti e così via, ma anche i comportamenti di chi è stato eletto o designato come rappresentante dei lavoratori per la sicurezza.

Il punto centrale della motivazione della Suprema Corte può essere brevemente così riassunto.

Al RLS ricorrente, che aveva ricordato nel suo ricorso che la legge non prevede alcuna posizione di garanzia in capo al rappresentante dei lavoratori, la Suprema Corte risponde che si tratta di un assunto infondato: «Come è noto, l'art. 50 D.Lgs. n. 81 del 2008, che ne disciplina le funzioni e i compiti, attribuisce al Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza un ruolo di primaria importanza quale soggetto fondamentale che partecipa al processo di gestione della sicurezza dei luoghi di lavoro, costituendo una figura intermedia di raccordo tra datore di lavoro e lavoratori, con la funzione di facilitare il flusso informativo aziendale in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Ciò detto, è bene precisare che, nel caso di specie, viene in rilievo non se l'imputato, in tale sua veste, ricoprisse o meno una posizione di garanzia intesa come titolarità di un dovere di protezione e di controllo finalizzati ad impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire (art. 40 cpv. c.p.) - ma se egli abbia, con la sua condotta, contribuito causalmente alla verificazione dell'evento ai sensi dell'art. 113 c.p. E, sotto questo profilo, la sentenza impugnata ...ha osservato come l'imputato non abbia in alcun modo ottemperato ai compiti che gli erano stati attribuiti per legge, consentendo che il C.C. fosse adibito a mansioni diverse rispetto a quelle contrattuali, senza aver ricevuto alcuna adeguata formazione e non sollecitando in alcun modo l'adozione da parte del responsabile dell'azienda di modelli organizzativi in grado di preservare la sicurezza dei lavoratori, nonostante le sollecitazioni in tal senso formulate dal D.D.».

Motivazione che lascia interdetti, perché rivela la totale incomprensione della funzione del RLS all’interno dei luoghi di lavoro. E’ vero che nella motivazione si attribuisce al RLS ‘un ruolo di primaria importanza’, ma l’estensore della sentenza deve averlo sentito dire, senza comprendere l’essenza del ruolo medesimo. Il quale non consiste nell’esercizio di obblighi di alcun genere, ma solo nella facoltà di intervenire, a nome dei lavoratori, nel procedimento di adozione delle misure e delle cautele per garantire la sicurezza dei lavoratori. Inutile precisare che l’esercizio di queste facoltà è lasciato alla discrezionalità del RLS, il quale di quell’esercizio rende conto ai lavoratori che lo hanno eletto o designato e non certo al datore di lavoro o al giudice.

Basta leggere l’art. 50, così infelicemente citato nella sentenza, per rendersi conto che il RLS è titolare di diritti («diritto di essere consultato» lett.b, c ,d; «diritto di ricevere notizie e documenti» dal datore di lavoro: lett. f, g; «diritti di accesso e di formulazione di proposte»: lett. i, m, ; «diritto di ricorrere all’autorità»: lett. o).

Dalla lettera della norma, dunque, si trae agevolmente la conclusione che nessuno di questi diritti o facoltà può essere trasformato in un obbligo, perché il loro esercizio è lasciato interamente al giudizio del RLS.

L’estensore della motivazione deve avere intuito questa difficoltà. E allora per sostenere la colpevolezza del RLS sceglie la via della cooperazione colposa di cui all’art. 113 cp. Ma è agevole osservare che ci vuole pur sempre “una colpa” per affermare la responsabilità penale. La colpa in questo caso sarebbe quella di non avere «ottemperato ai compiti che erano stati attribuiti per legge». Ma legge all’art. 50 non distribuisce “compiti”, ma solo diritti e facoltà. Bisogna inoltre ricordare che l’essenza della colpa consiste pur sempre nella violazione di norme o regolamenti o di regole di prudenza o di perizia o di diligenza. In nessuna di queste categorie rientra «l’aver consentito che la vittima fosse adibito a mansioni diverse», posto che la scelta delle mansioni spetta al datore di lavoro e il RLS non ha alcun diritto di interloquire; oppure il “non aver sollecitato in alcun modo da parte del responsabile dell’azienda modelli organizzativi in grado di preservare la sicurezza dei lavoratori”: una sollecitazione niente affatto obbligatoria.

Certamente il RLS, a norma dell’art.50 TU 81/08, “può” fornire qualche suggerimento se lo ritiene opportuno, ma non “deve” suggerire alcunché. Tanto più che non è detto affatto che i suoi suggerimenti saranno accolti e attuati dal datore di lavoro, al quale esclusivamente spetta l’adozione delle misure di sicurezza.

E’ quello che fa puntualmente osservare il condannato nel suo ricorso, osservando che «è altamente probabile che detta comunicazione non avrebbe avuto alcun riverbero sulle decisioni aziendali, stanti la mancanza di potere in capo all'imputato e la piena conoscenza dell'attività posta in essere dall'infortunato da parte del datore di lavoro». Osservazione pertinente, come insegna l’esperienza nelle aziende che vede spesso rapporti conflittuali tra datori di lavoro e RLS e che legittima l’ipotesi che il datore di lavoro non si attenga affatto alle indicazioni del RLS. Ma in proposito la sentenza liquida l’osservazione con il rilievo che l’argomento è «del tutto congetturale e comunque inconferente». Ma è inevitabile rilevare che anche l’idea che il datore di lavoro avrebbe accolto il suggerimento è meramente “congetturale”. Solo che è molto più improbabile.

Certo è che il nesso causale tra il comportamento del RLS e la morte dell’operaio manca del tutto, non potendosi in alcun modo dimostrare che il semplice suggerimento al datore di lavoro sarebbe sicuramente valso ad evitare l’evento.

In conclusione si tratta di uno scivolone della Suprema Corte, che andrebbe archiviato in tutta fretta. Anche perché non va sottovalutato il pericolo che qualche giudice di merito segua il cattivo esempio, ‘perché l’ha detto la Corte’. Come si sa: quandoque dormitat bonus Homerus.

09/10/2023
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