Magistratura democratica

Editoriale

di Renato Rordorf

Gli. scritti contenuti nella prima parte di questo numero della Rivista ruotano intorno ad un tema difficile. Hanno a che fare con il tempo. E riflettere sul tempo, quale che sia il punto di vista dal quale lo si faccia, provoca inevitabilmente un senso di vertigine e talora persino d’inquietudine: sia che ce lo raffiguriamo, il tempo, nella forma mitologica del dio Crono mentre brandisce la sua terribile falce, sia che torniamo con la mente all’immagine simbolica della clessidra sospesa nel muro alle spalle della «Melencolia» nella stupenda incisione di Albrecht Dürer. In un celebre passo delle sue Confessioni Agostino d’Ippona, interrogandosi su cosa sia il tempo, osserva che: «se nessuno me lo chiede lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede non lo so più». Altro del resto è il tempo oggettivo, il cui scorrere uniforme è misurato dagli orologi e dai calendari ed è registrato nei libri di storia, altro il tempo soggettivo, mutevole assai nel suo andamento, talora disordinato e frantumato nel riemergere incerto della memoria: quello che fa dire a Simone Weil, in alcuni passi dei suoi Quaderni, che «il rapporto tra il tempo e me è il tessuto della mia vita», e che «la contemplazione del tempo è la chiave della vita umana».

Ciò che avvertiamo con certezza è che il tempo inesorabilmente e progressivamente modella gli uomini nel corpo e nell’anima, e siccome i diritti appartengono agli uomini altrettanto immancabilmente esso incide sui loro diritti. In molti modi: talvolta concorrendo a generarli o a misurarne la portata, o viceversa estinguendoli o precludendone comunque l’esercizio, o segnandone i confini, o comprimendoli e perciò facendo sorgere diritti riparatori.

Il rapporto tra tempo e diritto è perciò ambiguo, come lo è tra il tempo e la vita.

Il tempo – quello che è alle nostre spalle – talvolta opera stratificando, consolidando, dando certezza: tale è, ad esempio, il tempo della consuetudine, che diviene norma e come tale è avvertita, o il tempo dell’usucapione, che salda definitivamente il rapporto tra il possidente e la cosa posseduta. Un tempo che si fa memoria e nella memoria stabilizza le situazioni giuridiche cui si riferisce. Un tempo, per certi aspetti, rassicurante, che lega passato e presente e che nelle tracce lasciate dall’uno ritrova il valore dell’altro.

C’è però un’altra faccia del tempo, forse meno tranquillizzante, perché ci costringe a confrontarci con la perenne mutevolezza delle cose – con il «πάντα ῥεῖ» eracliteo – e perciò con la perenne instabilità delle situazioni. Un tempo che segna il distacco, che cancella il passato o ne esclude comunque gli effetti: come ad esempio nelle figure giuridiche della decadenza e della prescrizione (sia in diritto civile sia in diritto penale) o nella pur ancora in parte controversa figura del diritto all’oblio.

Ma il tempo può essere anche intervallo, distacco, e sotto questo aspetto proiettare la propria ombra sul diritto in termini ancor più generali. Mi riferisco a quel segmento temporale che necessariamente separa il fatto da cui sorge il bisogno di tutela di un diritto leso (oppure dell’accertamento della sua esistenza e dei suoi limiti), o in cui si manifesta la violazione di una regola dell’agire che l’ordinamento esige sia sanzionata, ed il momento in cui la tutela o la debita sanzione effettivamente sopravvengono. La celebre affermazione di Chiovenda, secondo cui il tempo occorrente a far valere il proprio diritto non dovrebbe mai andare a scapito del titolare di quel diritto, esprime più una aspirazione ed una tendenza ideale che non una realtà concretamente e pienamente attuabile. Possono darsi, in quel lasso di tempo, eventi che modificano irreversibilmente la situazione di fatto cui dovrebbe applicarsi la norma giuridica invocata dalla parte, e ne impediscono o limitano l’applicazione; ed il tempo può produrre mutamenti oggettivi e soggettivi così profondi da rendere incongrua una sanzione irrogata per un fatto del passato a carico di chi potrebbe esser frattanto divenuto altro da quel che era. La pena, del resto, benché sovente modellata proprio in ragione della sua durata nel tempo e quindi destinata a protrarsi nel tempo, per ciò stesso dovrebbe potersi modulare in funzione dei mutamenti che il tempo apporta, forse ben più di quanto gli strumenti giuridici forniti dall’ordinamento davvero lo consentono.

Ma può anche accadere che sia il quadro giuridico a modificarsi nel tempo, e spesso muta il cd. diritto vivente, per effetto di una diversa interpretazione di norme preesistenti. Il che pone difficili domande sia in ordine ai limiti di ammissibilità di disposizioni di legge retroattive, sia in ordine alle conseguenze di imprevedibili revirement giurisprudenziali sulle vicende giudiziarie in atto, con quel che ne deriva in termini di eventuale lesione della legittima aspettativa di giustizia delle parti in causa. 

Il tema, come credo già queste brevi osservazioni valgano a far comprendere, è troppo ampio e sfaccettato per consentire una trattazione completa di ogni suo aspetto in un numero di pagine limitato quale quello di un fascicolo di Rivista; ed è così ricco di implicazioni anche metagiuridiche da richiedere, per poter essere esplorato fino in fondo in tutti i suoi meandri, un approccio di tipo interdisciplinare. Sia pure in termini necessariamente parziali, è parso però interessante esaminarne nelle pagine successive di questo numero se non tutti almeno alcuni aspetti, e farlo da punti di vista diversi, come assai bene illustra la puntuale introduzione di Daniele Cappuccio e Giovanni Zaccaro.

Se volessi trovare un legame tra il tema del tempo, cui è dedicata la prima parte di questo numero della Rivista, ed il multiculturalismo del quale si parla nella seconda parte, lo cercherei nel sentimento dell’inquietudine. Parlare di multiculturalismo significa infatti parlare di persone che migrano da una cultura ad un’altra, dal luogo d’origine in cui anche il loro mondo interiore si è formato ad un luogo diverso a cui quel mondo interiore è estraneo ma in cui deve faticosamente cercare di inserirsi. Ed allora mi vengono alla mente le parole di un grande analista della psiche umana, Eugenio Borgna, (in Il tempo le la vita, Feltrinelli, 2015, p. 76), il quale scrive: «Quando siamo in esilio, o abbiamo cambiato casa, o siamo stati sradicati dalla nostra patria, non si modifica solo il tempo interiore, il tempo vissuto, ma anche lo spazio vissuto: il modo di vivere e di sentire lo spazio»: e poi aggiunge: «Spazio e tempo, drasticamente mutati nella loro forma e nelle loro risonanze emozionali, si fanno categorie inquietanti e stranianti». Donde la nostalgia, la malinconia, il dolore dell’anima. È questo lo sfondo umano in cui si situa l’odierno, dolente fenomeno migratorio, che non manca ovviamente di riflettersi anch’esso in quel grande specchio della società e della storia che è il diritto.

L’ordinamento giuridico, ogni ordinamento giuridico, è espressione della cultura della società in cui si situa, dei valori che quella società considera essenziali al suo modo di essere e di come essa concepisce la reciproca convivenza dei propri associati. Credo che ciò sia vero da sempre, indipendentemente dall’evoluzione storica che di volta in volta ha fatto emergere diversi possibili centri di produzione delle norme operanti all’interno dei diversi contesti sociali, Ma, sotto alcuni aspetti, mi sembra che ciò si manifesti con ancor maggiore evidenza in un’epoca come la nostra, nella quale la crisi dello Stato quale produttore esclusivo del diritto ed unica fonte della legalità del sistema giuridico, con tutto quello che ciò comporta in tema di disordine e scarso coordinamento di norme, sempre più numerose ed eterogenee, sta facendo riemergere la fondamentale importanza del cd. diritto vivente. Un diritto che, pur nei limiti più o meno elastici fissati di volta in volta dal legislatore, si fonda su opzioni interpretative che hanno radice appunto nei valori culturali espressi dalla società; valori che il giudice (ed il giurista in genere) deve perciò saper cogliere con attenzione, intelligenza ed equilibrio.

Compito da sempre difficile (e Questione giustizia ha cercato di approfondirlo nell’ultimo numero trimestrale dell’anno scorso), ma tanto più difficile da quando quei valori culturali cui accennavo, spesso frutto di tradizioni e di narrazioni storiche elaborate secondo modelli monolitici nell’epoca degli stati nazionali, sono chiamati a confrontarsi con una realtà ben diversa e molto più articolata e complessa.

Il giurista postmoderno (per dirla con Paolo Grossi) ha già dovuto fare i conti con la crisi del diritto statuale provocata, soprattutto nel mondo occidentale, dalla cosiddetta «globalizzazione»: fenomeno che ha interessato principalmente i traffici economici con evidenti ricadute sui sistemi giuridici dei Paesi coinvolti. Il ravvicinamento e la reciproca contaminazione tra gli ordinamenti di common e di civil law in ambito europeo, ed al tempo stesso il raffronto viepiù serrato con il diritto statunitense, ne sono la più evidente espressione. Ma non solo di questo si tratta: è ora all’interno stesso delle singole comunità statuali che si va sempre più ponendo il tema della coesistenza di tradizioni culturali e sociali differenti, ed appare fin troppo evidente che l’impressionante fenomeno migratorio al quale già accennavo accentuerà progressivamente questo aspetto.

Qui si colloca, appunto, il tema del multiculturalismo. Un tema che, per le ragioni che ho cercato sommariamente di indicare e che anche l’introduzione di Giacinto Bisogni mette assai bene il luce, riveste per il giurista in genere e per il giudice in particolare un enorme interesse, non solo per ragioni culturali di ordine generale, ma perché il cercare di comprendere come il più frequente e ravvicinato contatto tra culture diverse oggi può riflettersi sui principi e sui valori posti a base dell’ordinamento giuridico – a cominciare da quelli costituzionali – è essenziale all’esercizio stesso della giurisdizione.