Magistratura democratica

Violenza contro le donne e accesso alla giustizia

di Kristina Velcikova
Questo contributo analizza principalmente l’inquadramento convenzionale della lotta alla violenza contro le donne, soffermandosi sugli obblighi positivi degli Stati membri in materia di accesso alla giustizia per le vittime, come affermati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nell’ambito degli articoli 2, 3, 8 e 14 della Convenzione.

1. Introduzione

L’eliminazione radicale della violenza contro le donne pone una sfida difficile per i paesi del Consiglio d’Europa e per la Corte europea dei diritti dell’uomo, soprattutto in considerazione delle implicazioni socioculturali che questo odioso fenomeno comporta.

La violenza contro le donne rappresenta «una delle espressioni più pronunciate dello squilibrio di potere tra donne e uomini, costituendo allo stesso tempo una violazione dei diritti umani e uno dei principali ostacoli all’uguaglianza di genere»[1]. La caratteristica essenziale è che si tratta di una forma di violenza commessa contro le donne in quanto tali.

L’impunità diffusa e le risposte inadeguate degli Stati nell’affrontare questa violenza, spesso basate su stereotipi patriarcali del rapporto uomo/donna, lascia molte donne vittime di violenza senza protezione e senza possibilità di ricorrere alla giustizia. È obbligo degli Stati occuparsi pienamente di questo fenomeno poiché non può esserci vera uguaglianza tra uomini e donne se queste ultime continuano a subire violenze su larga scala, nell’inerzia delle istituzioni statali.

Di fronte a un argomento cosi ampio, l’intento di questo contributo è soffermarsi sull’analisi dei principali obblighi positivi degli Stati membri in materia di lotta alla violenza contro le donne come affermati dalla giurisprudenza della Corte Edu, nell’interpretazione degli articoli 2, 3, 8 e 14 della Convenzione. Altre disposizioni convenzionali, come per esempio gli articoli 4 e 13, pur rilevanti, non saranno oggetto di trattazione[2].

L’illustrazione della tutela che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo assicura alle vittime di questo tipo di violenza metterà in evidenza gli ostacoli che queste ultime incontrano nell’accesso alla giustizia a livello interno, che rappresenta invece uno strumento indispensabile per rafforzarne la protezione e per assicurare una presa di coscienza del fenomeno.

Un accenno sarà fatto anche alla fase esecutiva, poiché l’efficacia dell’accesso alla tutela giurisdizionale davanti alla Corte Edu dipende in gran parte dalla rapida ed efficace esecuzione delle sue pronunce in materia.

Dei riferimenti ad altre fonti internazionali, in particolare al sistema di protezione dei diritti umani delle Nazione Unite, accompagneranno la suddetta analisi al fine di tracciare l’origine di alcuni dei principi essenziali in materia.

Nell’ambito di questo contributo, l’espressione “violenza contro le donne” sarà intesa nel senso a essa attribuito dalla «Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica» (Convenzione di Istanbul), ovvero come «comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata».

2. Fonti normative e tutela convenzionale

La violenza contro le donne è riconosciuta dal diritto internazionale come una violazione dei diritti umani. La lotta contro questa forma di violenza è stata disciplinata da vari strumenti normativi internazionali (convenzioni, raccomandazioni, dichiarazioni etc.) che hanno condotto non solo a una definizione del fenomeno che potesse includere le varie forme di violenza di cui una donna può essere vittima (fisica, psicologica, verbale), ma anche all’adozione di standard normativi comuni agli Stati contraenti.

Tra i molti si possono citare la «Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica» (Convenzione di Istanbul, 2011), la raccomandazione Rec(2002)5 del Comitato dei ministri (“Comitato”) agli Stati membri sulla protezione delle donne contro la violenza, la «Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna» (CEDAW, 1981)[3], la «Dichiarazione sull’eliminazione di ogni violenza contro le donne» (DEVAW, 1993), nonché la «Convenzione interamericana per la prevenzione, la punizione e lo sradicamento della violenza contro le donne» (Convenzione di Belém do Pará, 1994).

Il valore di questi testi, che mirano a sradicare la violenza contro le donne in tutte le sue componenti, inclusa la più insidiosa ovvero quella socioculturale, è innegabile soprattutto se consideriamo che, in tempi non lontani, non esisteva alcuna forma di riconoscimento normativo del fenomeno.

Ciò detto, è altrettanto innegabile che, per le vittime di questa forma di violenza, la tutela più efficace sia di natura giurisdizionale, sia a livello nazionale che internazionale. In questo ambito, l’azione della Corte Edu riveste una grande importanza non solo per la tutela che ha apportato direttamente alle ricorrenti nei casi che ha esaminato, ma anche per l’interpretazione estensiva del dettato convenzionale sviluppatasi nella sua giurisprudenza, che ha permesso di riconoscere importanti obblighi positivi a carico degli Stati membri.

La Corte europea ha analizzato la violenza contro le donne nell’ambito di diversi articoli della Convenzione (presi da soli o in combinazione tra loro) e, in particolare, sotto il profilo degli artt. 2 (diritto alla vita), 3 (proibizione della tortura o trattamenti inumani o degradanti), 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), 4 (proibizione della schiavitù e del lavoro forzato), 13 (diritto a un ricorso effettivo) e 14 (divieto di discriminazione).

3. Gli obblighi positivi dello Stato

L’art. 1 Cedu statuisce che gli Stati membri del Consiglio d’Europa sono chiamati a riconoscere a ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà garantiti dalla Convenzione.

Questo impegno si materializza in obblighi positivi e negativi. Questi ultimi implicano che gli Stati debbano astenersi dal violare direttamente i diritti convenzionali. Gli obblighi positivi, invece, richiedono un atteggiamento attivo da parte dello Stato, volto ad assicurare, in certi casi, il rispetto dei diritti garantiti dalla Convenzione nelle relazioni tra privati cittadini. Siamo quindi nell’ambito di una tutela orizzontale. Anche in assenza di una responsabilità diretta per gli atti di un privato, la responsabilità dello Stato può, nondimeno, essere assunta dall’obbligo imposto dall’art. 1 della Convenzione.

L’esistenza di obblighi positivi è stata riconosciuta e sviluppata dalla giurisprudenza della Corte Edu sin dal 1985[4]. Il ricorso al concetto di obbligo positivo ha permesso alla Corte di rafforzare e, talvolta, estendere i requisiti sostanziali del testo europeo, al fine di garantire agli individui l’effettivo godimento dei diritti sanciti dalla Convenzione.

Gli artt. 2 e 3 Cedu, che tutelano gli individui contro forme gravi di offese alla vita e all’integrità della persona, sono tra le clausole fondamentali della Convenzione e sanciscono alcuni dei valori fondanti delle società democratiche che formano il Consiglio d’Europa. Contrariamente alle altre disposizioni della Convenzione, essi sono formulati in termini assoluti, non prevedono eccezioni né limitazioni e non ammettono deroghe da parte degli Stati membri ex art. 15 Cedu.

Gli obblighi positivi che gravano sulle autorità in virtù di questi articoli e, in altri casi, in virtù dell’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), comportano per lo Stato il dovere di istituire e applicare in maniera efficace un quadro normativo adeguato che offra una protezione contro gli atti di violenza che possono essere commessi dai privati[5].  Nell’ambito dell’art. 2 Cedu, lo Stato è altresì chiamato a dotarsi di un sistema giudiziario efficace e indipendente, che permetta di condurre indagini effettive laddove una persona sia stata uccisa e di punire i colpevoli. Un’esigenza di prontezza e diligenza ragionevole è implicita in questo contesto.

Un intervento da parte delle autorità per proteggere la vita di un determinato individuo può, altresì, essere necessario in presenza di un rischio reale e immediato che le autorità conoscevano o avrebbero dovuto conoscere[6].

Consapevole delle difficoltà per la polizia di esercitare le sue funzioni nelle società contemporanee, dell’imprevedibilità del comportamento umano e delle scelte operative da fare in termini di priorità e di risorse, la Corte Edu ha affermato che la portata di questo obbligo positivo deve essere interpretata in modo da non imporre alle autorità un onere insostenibile o eccessivo.

Pertanto, non ogni asserita minaccia contro la vita di un individuo obbliga le autorità ad adottare misure concrete di prevenzione. Perché vi sia un obbligo positivo, deve essere accertato che le autorità sapevano – o avrebbero dovuto sapere – che una persona determinata correva un rischio concreto e imminente, e che esse non hanno adottato, nell’ambito dei loro poteri, le misure che, da un punto di vista ragionevole, avrebbero senza dubbio neutralizzato tale rischio. Quest’ultimo sussiste anche in presenza di una escalation di violenza tale da costituire una minaccia costante e continua[7].

L’affermazione di obblighi di due diligence in capo agli Stati membri nell’ambito della lotta alla violenza contro le donne costituisce uno strumento per promuovere una maggiore responsabilità dello Stato. La Corte ha, infatti, più volte ribadito che le donne vittime di violenza nonché tutte le altre persone vulnerabili hanno diritto alla protezione dello Stato sotto forma di una prevenzione efficace, che le metta al riparo da forme altrettanto gravi di offese all’integrità della persona[8].

L’esistenza dei suddetti obblighi è stata riconosciuta anche dal Comitato dei ministri nella raccomandazione agli Stati sulla protezione delle donne contro la violenza cui si è fatto riferimento in precedenza – Rec(2002)5. In questo documento, il Comitato ha affermato che gli Stati hanno l’obbligo di esercitare la dovuta diligenza per prevenire, investigare e punire gli atti di violenza contro le donne, che essi siano perpetrati dallo Stato o da privati, e fornire protezione alle vittime.

Ne consegue che, quando degli episodi di violenza sono denunciati alle autorità ed esiste un rischio reale e immediato per l’incolumità di chi li ha subiti, le autorità sono chiamate ad adottare tempestivamente misure efficaci e adeguate di protezione delle vittime nonché di prevenzione di ulteriori episodi di violenza.

L’obbligo positivo di proteggere l’integrità delle donne vittime di violenza riguarda anche l’effettività dell’accesso alla giustizia, che richiede che siano condotte delle indagini effettive e tempestive. I giudici nazionali devono tenere conto della situazione di precarietà e di particolare vulnerabilità morale, fisica e/o materiale della vittima, e devono quindi valutare la situazione nel più breve tempo possibile.

Occorre altresì che le indagini siano idonee a condurre all’identificazione e alla punizione dei responsabili. Non si tratta, tuttavia, di un obbligo di risultato, ma di mezzi: si deve dar prova di aver utilizzato tutti i mezzi disponibili per assicurare l’effettività dell’inchiesta. Oltre ch tempestive, le indagini dovranno essere imparziali e indipendenti, nonché sufficientemente ampie da prendere in considerazione ogni elemento rilevante, inclusi eventuali motivi discriminatori.

Riassumendo, i principali obblighi positivi cui uno Stato deve adempiere in materia di violenza contro le donne, sembrano richiedere: un sistema giuridico e giudiziario adeguato, che abbia un effetto deterrente e permetta di condurre indagini effettive e di punire i responsabili; una pronta reazione delle autorità alle denunce delle vittime attraverso l’adozione di misure di protezione e prevenzione; l’impegno a combattere ogni forma d’inerzia e tolleranza di fronte a tale forma di violenza, di natura discriminatoria per le donne.

4. Gli obblighi positivi dello Stato in materia di lotta alla violenza contro le donne nella giurisprudenza della Corte Edu

4.1. Quadro normativo e indagini effettive

Le sentenze illustrate di seguito evidenziano l’importanza, nella giurisprudenza di Strasburgo, dell’obbligo positivo degli Stati di dotarsi di un quadro normativo adeguato a sanzionare gli atti di violenza contro le donne, nonché l’esigenza che tale quadro normativo sia applicato in maniera effettiva. La sentenza M.C. c. Bulgaria illustra, in particolare, quali siano gli obblighi positivi dello Stato nella lotta a un tipo di violenza contro le donne particolarmente grave, cioè la violenza sessuale.

4.1.1. Valiulienė c. Lituania

Il caso Valiulienė c. Lituania, riguarda una serie di episodi di violenza perpetrati ai danni della ricorrente dal suo convivente[9]. La Corte Edu ha constatato una violazione dell’art. 3 della Convenzione sulla base dei fatti come di seguito descritti.

A seguito degli episodi di violenza di cui era stata vittima, la ricorrente aveva esercitato un’azione penale privata (ovvero un’azione penale esercitata direttamente dalla vittima avanti al tribunale) per il reato di lesioni personali lievi. Il tribunale trasmise il fascicolo alla procura competente, ordinando lo svolgimento di un’indagine penale. Le indagini furono caratterizzate da notevole lentezza, a causa principalmente della negligenza della polizia. In seguito, venne disposta l’archiviazione del procedimento penale in quanto i fatti ascritti all’indagato, in difetto di particolari ragioni di interesse pubblico o altri gravi ragioni che rendessero opportuna un’azione penale pubblica, dovevano considerarsi procedibili esclusivamente a iniziativa di parte.  L’opposizione della ricorrente contro tale decisione fu rigettata. La ricorrente, quindi, intraprese nuovamente l’azione penale privata che, però, venne archiviata essendo ormai decorso il termine quinquennale di prescrizione previsto per il reato di lesioni personali lievi.

La Corte ha ritenuto, in primo luogo, che la natura e il livello di sofferenza psicofisica subita dalla ricorrente fosse riconducibile nell’ambito dell’art. 3 Cedu. Di conseguenza, si è soffermata a valutare se lo Stato convenuto avesse adempiuto all’obbligo positivo (derivante dal combinato disposto degli artt. 1 e 3 Cedu) di proteggere gli individui sottoposti alla sua giurisdizione da maltrattamenti posti in essere da altri privati, non agenti dello Stato. In particolare, si trattava di valutare se l’ordinamento lituano fosse conforme alle esigenze della Convenzione e se l’applicazione di tale normativa fosse stata efficace, in particolare, con riferimento alle indagini condotte.

Quanto al primo aspetto, la Corte europea ha ritenuto che l’ordinamento lituano, come configurato all’epoca dei fatti, fosse in linea con le esigenze di protezione imposte dalla Convenzione. In relazione alle indagini svolte, la Corte Edu ha constatato una violazione degli obblighi positivi di natura procedurale dello Stato poiché, a causa della negligenza del procuratore e della polizia, l’autore delle violenze era rimasto impunito. Particolarmente rilevanti per questa conclusione risultavano la lentezza nell’esecuzione delle indagini e il ritardo con cui la ricorrente era stata informata della necessità di riproporre un’azione penale privata, che aveva in ultimo causato la prescrizione del reato.

Uno spunto interessante viene offerto dall’opinione concorrente del giudice portoghese P. Pinto de Albuquerque, il quale faceva valere l’esigenza di un’interpretazione della Convenzione che permetta di considerare che lo Stato possa essere ritenuto responsabile qualora sappia, o sia tenuto a sapere, che una parte della popolazione – le donne – è soggetta a ripetute violenze, e non agisca per prevenire la conseguente violazione dei diritti umani.

4.1.2. M.C. c. Bulgaria

Nel caso M.C. c. Bulgaria, la Corte Edu ha esaminato l’adeguatezza della protezione che il sistema giuridico bulgaro assicura alle vittime di violenza sessuale[10].

La ricorrente aveva quattordici anni e dieci mesi quando dichiarò di essere stata violentata da due uomini di età compresa tra i venti e i ventuno anni. Il giorno dopo la presunta violenza, la madre della ricorrente l’accompagnò in ospedale e, successivamente, presentò una denuncia alle autorità. Il procuratore distrettuale ordinò un’inchiesta nell’ambito della quale i sospettati contestarono la versione dei fatti fornita dalla ricorrente, affermando che quest’ultima era consenziente. Anche le testimonianze raccolte erano contraddittorie. L’indagine svolta fece ritenere che non ci fosse alcuna prova che i due uomini avessero usato minacce o violenze per avere rapporti sessuali con la ricorrente. Il procuratore distrettuale, non convinto dell’obiettività dell’indagine, dispose una consulenza psichiatrica. Il rapporto concluse che la ricorrente era probabilmente stata sopraffatta da un conflitto interno tra un interesse sessuale naturale e la sensazione che l’atto fosse riprovevole, il che aveva ridotto la sua capacità di difendersi. Nonostante questo rapporto, il procuratore distrettuale chiuse il procedimento penale considerando che non vi erano prove sufficienti della coercizione della ricorrente. Davanti alla Corte Edu, quest’ultima lamentava, da un lato, che il quadro giuridico e la prassi bulgara, richiedendo la prova della resistenza fisica della vittima di un caso di stupro, erano inadeguati e lasciavano impuniti certi atti di stupro e, dall’altro, che nel suo caso l’indagine non era stata approfondita e completa.

La Corte europea ha considerato che gli eventi in questione dovevano essere esaminati sotto il profilo degli artt. 3 e 8 della Convenzione e che un’effettiva azione deterrente contro atti gravi come lo stupro, che toccano valori fondamentali e aspetti essenziali della vita privata, richiede efficaci disposizioni di diritto penale ancor di più quando le vittime sono dei minori.

In questo ambito, la Corte ha sottolineato che, conformemente agli standard moderni di diritto comparato e internazionale in materia di lotta alla violenza sessuale[11], gli obblighi positivi di uno Stato ai sensi degli artt. 3 e 8 impongono la penalizzazione e l’effettiva repressione di qualsiasi atto sessuale non consensuale, anche in assenza di resistenza fisica da parte vittima. La Corte si è limitata a esaminare se la normativa contestata e la sua applicazione nel caso di specie, unitamente alle presunte carenze nell’indagine, presentassero difetti così rilevanti da costituire una violazione degli obblighi positivi dello Stato convenuto ai sensi dei suddetti articoli della Convenzione.

Le autorità bulgare avevano dovuto affrontare certamente un compito difficile in quanto si trovavano di fronte a due versioni dei fatti divergenti e a poche prove “dirette”. Ciononostante, la Corte Edu ha evidenziato come gli investigatori e il procuratore non fossero riusciti a effettuare una valutazione che tenesse conto del contesto e della credibilità delle affermazioni contrastanti, e non avessero fatto uso di tutte le possibilità di cui disponevano per accertare i fatti. L’approccio dell’indagine e le sue conclusioni avevano posto un’enfasi eccessiva sulla mancanza di prove “dirette” di stupro, come la violenza, elevando così la “resistenza” da parte della ricorrente allo status di elemento costitutivo del reato. Questo approccio era restrittivo in quanto l’indagine avrebbe dovuto essere incentrata sulla questione dell’assenza di consenso piuttosto che della mancata resistenza. La Corte ha constatato dunque una violazione degli artt. 3 e 8 della Convenzione.

4.2. Misure di prevenzione e protezione

Le sentenze illustrate di seguito evidenziano la grande vulnerabilità delle donne vittime di violenza laddove, alle loro denunce, non faccia seguito un’efficace azione da parte delle forze dell’ordine volta a prevenire il reiterarsi di condotte violente.

Non agendo con rapidità dopo il deposito di una denuncia penale, le autorità nazionali privano la denuncia della sua efficacia, creando un contesto di impunità favorevole al perpetrarsi di ulteriori violenze.

4.2.1. Kontrová c. Slovacchia

Nella sentenza Kontrová c. Slovacchia, la Corte è stata chiamata per la prima volta a pronunciarsi nel merito di un caso riguardante episodi di violenza domestica, esaminando l’obbligo positivo degli Stati membri di adottare misure di protezione sotto il profilo dell’art. 2 Cedu[12].

La ricorrente aveva presentato una denuncia penale, dando atto di una lunga serie di abusi fisici e psicologici subiti dal marito e accusandolo di averla aggredita. Successivamente, “accompagnata” dal marito, la ricorrente manifestò l’intenzione di ritirare la denuncia. Su consiglio di un ufficiale di polizia, modificò di conseguenza la denuncia in modo tale che le presunte azioni del marito fossero considerate un reato minore, che non avrebbe richiesto ulteriori azioni da parte delle autorità. In seguito, la ricorrente chiamò nuovamente la polizia locale per riferire che il marito aveva minacciato di uccidere se stesso e i bambini con un fucile da caccia. Nei giorni che seguirono, la ricorrente chiese informazioni sullo stato della sua denuncia. In quegli stessi giorni, il marito della ricorrente uccise i loro due bambini e si tolse la vita. I tribunali nazionali accertarono che la sparatoria era stata una conseguenza diretta della mancata azione degli agenti di polizia.

La Corte Edu ha constatato una violazione dell’art. 2 della Convenzione notando che le autorità erano state rese edotte dell’esistenza di un rischio concreto e reale per l’incolumità della ricorrente e dei suoi bambini e, pur consapevoli della situazione familiare della ricorrente, avevano omesso di adottare misure di prevenzione adeguate, che avrebbero potuto evitare i tragici eventi che seguirono. La Corte ha sottolineato come la polizia avrebbe dovuto registrare la denuncia penale della ricorrente, avviare immediatamente un’indagine volta ad accertare le responsabilità penali del marito e attivarsi prontamente a seguito della notizia che il marito della ricorrente aveva un fucile da caccia e aveva minacciato di usarlo.

4.2.2. Bevacqua e S. c. Bulgaria e Hajudová c. Slovacchia

L’obbligo positivo dello Stato di adottare misure preventive, una volta allertato di un rischio imminente per l’incolumità di una donna vittima di violenza, è stato analizzato dalla Corte Edu anche sotto il profilo del diritto al rispetto per la vita privata e familiare garantito dall’art. 8 della Convenzione.

Il primo caso in cui tale analisi è stata effettuata dalla Corte di Strasburgo è Bevacqua e S. c. Bulgaria[13]. In questo caso, la ricorrente era stata vittima del comportamento violento del marito, dal quale stava divorziando. La sua domanda di misure cautelari per ottenere la custodia del figlio era stata disattesa e non era stata adottata nessuna misura di prevenzione adeguata nei confronti del marito.

La Corte ha rilevato che vi era stata una violazione dell’art. 8 Cedu, con riguardo all’insufficienza delle misure di protezione della ricorrente, rilevando anche che la legge bulgara in vigore all’epoca dei fatti non prevedeva misure amministrative e di polizia specifiche. La posizione delle autorità, secondo le quali nessuna assistenza di questo tipo era dovuta poiché la controversia riguardava una “questione privata”, era incompatibile con l’obbligo positivo di garantire il godimento dei diritti della ricorrente ex art. 8.

Sempre nell’ambito dell’art. 8 Cedu, è interessante evidenziare come, al fine di far scattare l’obbligo positivo dello Stato di intervenire per tutelare l’integrità psicofisica di una donna vittima di violenza, non è necessario che la violenza lamentata sia fisica. Nel caso Hajudová c. Slovacchia, la Corte Edu ha riscontrato una violazione del diritto alla tutela della vita privata e familiare della ricorrente a causa dell’inerzia delle autorità[14]. Tuttavia, la ricorrente non aveva lamentato di aver subito violenza fisica, bensì minacce da parte del suo ex marito, il quale aveva disturbi psichiatrici e precedenti penali per episodi di violenza contro la ricorrente. La Corte ha considerato questo background sufficiente per ritenere che le autorità fossero coscienti del fatto che vi fosse un rischio concreto per la ricorrente e che fosse, quindi, necessario adottare adeguate misure di protezione.

4.3. Non-discriminazione

Spesso, gli ostacoli che si frappongono all’accesso alla giustizia vanno ben oltre il singolo caso dei ricorrenti a Strasburgo. Essi riflettono un più ampio problema di percezione socioculturale del fenomeno della violenza contro le donne, che discrimina le vittime e che, in ultimo, comporta una tolleranza del fenomeno da parte delle autorità. Incombe, pertanto, agli Stati membri l’obbligo di assicurare che il loro sistema giuridico garantisca un accesso alla giustizia libero da ogni tipo di discriminazione.

 

4.3.1 Opuz c. Turchia

Una delle più note sentenze in materia di violenza contro le donne è senza dubbio quella pronunciata all’esito del caso Opuz c. Turchia[15]. In questo caso, oltre alle violazioni degli artt. 2 e 3 Cedu, la Corte Edu ha constatato una violazione dell’art. 14 (divieto di ogni forma di discriminazione nel godimento dei diritti e delle libertà garantite dalla Convenzione), in combinazione con gli artt. 2 e 3 dello stesso trattato.

I fatti possono essere riassunti come segue. La madre della ricorrente fu uccisa a colpi di arma da fuoco dal marito della ricorrente, mentre tentava di aiutare quest’ultima a fuggire dalla casa matrimoniale a causa delle ripetute violenze subite dal marito. Gli incidenti includevano un tentativo di investire le due donne con un’auto, che aveva lasciato la madre gravemente ferita, e un’aggressione in cui la ricorrente era stata pugnalata sette volte. Gli incidenti e le paure delle donne per le loro vite erano stati ripetutamente portati all’attenzione delle autorità. Sebbene i procedimenti penali fossero stati avviati contro il marito per una serie di reati, tra cui minacce di morte, aggressioni gravi e tentato omicidio, in almeno due casi erano stati interrotti dopo che le donne avevano ritirato le loro denunce, presumibilmente sotto pressione del marito. Tuttavia, in considerazione della gravità delle lesioni, i procedimenti riguardanti l’investimento e all’accoltellamento delle due donne erano proseguiti e l’uomo era stato condannato in entrambi i casi, anche se a pene molto lievi. In seguito, l’uomo uccise la madre della ricorrente e, per quel reato, fu condannato all’ergastolo. Tuttavia, venne rilasciato in attesa dell’appello e minacciò ripetutamente la ricorrente, la quale chiese protezione alle autorità. Queste ultime non adottarono alcuna misura. Solo sette mesi dopo, a seguito di una richiesta di informazioni da parte della Corte Edu, furono adottate misure per proteggerla.

La Corte ha rilevato che, in base alle norme e ai principi rilevanti del diritto internazionale accettati dalla grande maggioranza degli Stati (tra cui la CEDAW e le decisioni della Commissione dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite), il fallimento, anche se non intenzionale, da parte dello Stato nel proteggere le donne dalla violenza domestica viola il loro diritto a un’eguale protezione da parte della legge.

Nella sua giurisprudenza, la Corte europea ha stabilito che si ha discriminazione quando, senza una giustificazione obiettiva e ragionevole, persone in situazioni simili siano trattate diversamente. La Corte ha, inoltre, accettato che una politica generale o una misura che ha effetti sproporzionatamente pregiudizievoli su un determinato gruppo, può essere considerata discriminatoria nonostante non sia specificamente rivolta a quel gruppo. Per quanto riguarda l’onere della prova in questo ambito, la Corte ha stabilito che, una volta che la ricorrente abbia presentato elementi che indichino, prima facie, una differenza di trattamento tra uomini e donne, spetta al governo dello Stato dimostrare che tale trattamento fosse giustificato.

In questo caso, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto che la ricorrente avesse presentato un tale principio di prova, basato su vari rapporti di organismi internazionali che indicavano che la violenza domestica era tollerata dalle autorità turche e che i rimedi disponibili non funzionavano in modo efficace. Gli agenti di polizia non indagavano a seguito delle denunce, ma cercavano di assumere il ruolo di mediatore, al fine di convincere le vittime a tornare a casa e ritirare le loro denunce; i ritardi nell’emissione e nell’esecuzione delle ingiunzioni erano frequenti e i tribunali trattavano i relativi procedimenti come una forma di azione di divorzio. Gli autori di violenze domestiche non ricevevano condanne deterrenti, ma mitigate per motivi di costume, tradizione od onore.

La violenza domestica colpiva, in tal modo, soprattutto le donne, mentre la passività giudiziaria generale e discriminatoria in Turchia creava un clima favorevole al suo proliferare. La violenza subita dalla ricorrente e da sua madre poteva quindi essere considerata come basata sul genere e discriminatoria nei confronti delle donne. Nonostante le riforme attuate dal Governo negli ultimi anni, la generale insensibilità del sistema giudiziario e l’impunità di cui godevano gli aggressori, come nel caso della ricorrente, mostravano un impegno insufficiente da parte delle autorità a prendere le misure appropriate per affrontare la violenza domestica.

Successivamente a questo caso, la Corte Edu ha riscontrato un aspetto discriminatorio nell’inerzia delle autorità di fronte a episodi di violenza contro le donne in altri casi, tra cui possiamo citare Eremia e altri c. Moldavia e Talpis c. Italia[16]. L’esecuzione di queste due importanti sentenze è discussa brevemente nel paragrafo che segue.

5. Efficacia della tutela convenzionale

L’efficacia dell’accesso alla giustizia convenzionale non può essere valutata solo sulla base della giurisprudenza della Corte Edu. La protezione riconosciuta alle donne vittime di violenza di genere si dimostrerebbe teorica e illusoria se le relative sentenze non fossero eseguite in maniera rapida ed efficace dagli Stati membri.

La fase esecutiva riveste quindi un ruolo fondamentale, fungendo, in un certo qual modo, da cartina tornasole dell’efficacia del sistema giurisdizionale convenzionale in materia di lotta al fenomeno della violenza di genere.

Come noto, le misure che uno Stato è chiamato ad adottare in sede di esecuzione non si limitano a porre fine alla violazione constatata – qualora persista – e a fornire, per quanto possibile, una forma di resitutio in integrum al ricorrente. Lo Stato deve altresì, laddove necessario, adottare delle misure generali, conformi allo spirito della sentenza e alla giurisprudenza della Corte Edu nella materia, idonee a impedire che violazioni simili si verifichino nuovamente.

L’esecuzione della sentenza Eremia e altri c. Moldavia mostra come misure individuali e generali di notevole ampiezza possano essere adottate dagli Stati membri al fine di rispondere alle violazioni constatate dalla Corte europea in materia di violenza contro le donne.

In questo caso, la Corte aveva censurato l’operato delle autorità le quali, nonostante fossero a conoscenza degli abusi subiti dalla ricorrente, non avevano adottato misure adeguate per proteggerla da ulteriori episodi di violenza. Inoltre, le autorità avevano ripetutamente giustificato tale violenza manifestando un atteggiamento discriminatorio nei suoi confronti in quanto donna.

A tale riguardo, la Corte aveva osservato, richiamando le conclusioni del relatore speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, che le autorità non avevano pienamente apprezzato la gravità e la portata del problema della violenza contro le donne in Moldavia e dei suoi effetti discriminatori (violazioni degli artt. 3 e 14, in combinazione con l’art. 3 della Convenzione).

Il Comitato dei ministri ha classificato questo caso in procedura rafforzata alla luce della complessità del problema sollevato dalla sentenza. Nel corso della fase esecutiva, ha poi invitato le autorità moldave ad assicurare, senza indugio, adeguata protezione alla ricorrente. Le autorità locali, la polizia e i servizi sociali hanno quindi condotto visite periodiche alla ricorrente e hanno istituito un piano di supervisione continuo per la sua sicurezza; si sono, inoltre, impegnate davanti al Comitato a continuare a seguire da vicino la situazione. A seguito di queste misure, non ci sono stati nuovi episodi di violenza nei confronti della ricorrente.

Sul versante delle misure generali, le autorità competenti hanno adottato politiche mirate a ridurre la violenza domestica attraverso la creazione di un meccanismo di prevenzione nazionale. Riforme legislative importanti hanno poi introdotto nuove disposizioni del codice penale al fine di perseguire più efficacemente i responsabili di episodi di violenza domestica, con la possibilità per la polizia di adottare misure urgenti  in caso di minaccia immediata, nonché prestazioni sociali aggiuntive per le vittime, garanzie di assistenza legale, il diritto della vittima a chiedere il risarcimento per lesioni gravi, la creazione di un sito web supportato dallo Stato in materia di violenza familiare e l’organizzazione di corsi di formazione continui per i servizi di assistenza. Inoltre, la Corte suprema moldava ha adottato una raccomandazione sulle misure protettive urgenti per le vittime di violenza domestica. Al fine di intervenire radicalmente sulla percezione della violenza contro le donne da parte della popolazione e aumentare la conoscenza di questo tema, nonché della legislazione pertinente, diverse campagne di sensibilizzazione sono state lanciate dalle autorità moldave.

A seguito di questi sviluppi, il Comitato dei ministri ha deciso di porre fine alla supervisione dell’esecuzione di questo caso, sottolineando, però, come la questione delle misure generali ancora necessarie continuerà a essere seguita nell’ambito di un altro caso simile[17]. Va ricordato, in proposito, che la Moldavia non ha ancora ratificato la Convenzione di Istanbul.

Anche il più recente caso Talpis c. Italia costituisce un buon esempio in ambito di esecuzione delle sentenze del giudice di Straburgo.

In questo caso la Corte europea, oltre a una violazione degli artt. 2 e 3 della Convenzione, ha constatato una violazione dell’art. 14 Cedu in combinato disposto con i suddetti articoli. La Corte ha ritenuto che le violenze inflitte alla ricorrente fossero fondate sul sesso e che costituissero, perciò, una forma di discriminazione nei confronti delle donne. Le autorità, sottovalutando, con la loro inerzia, la gravità della violenza in questione, l’hanno sostanzialmente avallata.

Questo caso, anch’esso classificato in procedura sostenuta, è stato esaminato per la prima volta dal Comitato dei ministri nel corso della riunione “diritti umani” di giugno 2018[18]. In vista di tale riunione, le autorità italiane hanno presentato un corposo piano d’azione, in cui hanno illustrato tutte le misure adottate in seguito ai tragici eventi oggetto della sentenza della Corte Edu e dopo la ratifica, nel 2013, della Convenzione di Istanbul. Da rilevare l’approccio adottato, che affronta il complesso problema della violenza contro le donne a 360 gradi. Da un lato, misure legislative ad hoc sono state adottate, rafforzando la protezione delle vittime e la capacità di reazione dell’ordinamento giuridico di fronte a tali gravi episodi. Dall’altro, numerose iniziative di formazione e sensibilizzazione sono state lanciate, avendo come destinatari i magistrati, i servizi sociali e le forze dell’ordine, nonché i giovani, attraverso attività svolte in ambito scolastico. È stato, inoltre, creato un sistema di monitoring del fenomeno, che permette di raccogliere dati statistici importanti al fine di valutare l’impatto delle misure adottate. Tale approccio è stato accolto favorevolmente dal Comitato dei ministri, il quale ha posto l’accento sulla determinazione che le autorità italiane hanno dimostrato nell’affrontare i molteplici aspetti del complesso problema della violenza contro le donne, comprese le percezioni sociali e culturali sottostanti alla radice di questo problema[19]. Il Comitato ha chiesto alle autorità italiane informazioni e dati statistici dettagliati sull’impatto delle misure adottate, al fine di verificarne l’efficacia.

Emerge, quindi, come l’esecuzione delle sentenze della Corte Edu in materia di violenza contro le donne, sotto la supervisione del Comitato dei ministri, non solo permetta di assicurare una protezione adeguata alle ricorrenti, ma anche di dar luogo all’adozione, da parte degli Stati soccombenti, di importanti misure generali che contribuiscono a prevenire e contrastare questo fenomeno e a progredire nel percorso di sradicamento della cultura della prevaricazione dell’uomo sulla donna.

6. Conclusioni

La lotta contro l’odioso fenomeno della violenza sulle donne ha assunto un ruolo importante nell’azione del Consiglio d’Europa. L’adozione della Convenzione di Istanbul ha rappresentato un grande passo in avanti per prevenire la violenza, favorire la protezione delle vittime e impedire l’impunità dei colpevoli.

Grazie alla giurisprudenza della Corte Edu, è ormai acclarato che la Convenzione incorpora importanti obblighi positivi a carico degli Stati membri, i quali richiedono un approccio proattivo a questo problema.

La suddetta Convenzione di Istanbul costituisce un ulteriore strumento cui la Corte può fare ricorso nell’analisi della risposta data, a livello interno, a episodi di violenza contro le donne.

L’azione del Comitato dei ministri ha permesso, in sede di esecuzione delle sentenze di Strasburgo, di arrivare all’adozione, da parte degli Stati soccombenti, di importanti misure individuali e generali.

Molto è stato fatto e questi sviluppi positivi meritano di essere rilevati. Tuttavia, non si può ignorare che la violenza contro le donne continua a rappresentare una minaccia all’uguaglianza di genere nelle società moderne e che la responsabilità di lottare contro un fenomeno spesso sommerso, e profondamente radicato nel tessuto sociale di molti Stati, non può che essere condivisa.

Spetta, in primo luogo, alle autorità nazionali farsi artefici dell’implementazione dei principi affermati dalla Corte Edu, nonché assicurare la ratifica e il rispetto degli strumenti internazionali in materia.

La Corte europea sarà, senza dubbio, chiamata nuovamente a esaminare casi di violenza contro le donne e non mancherà di essere attenta garante dei diritti delle vittime, ma solo attraverso la creazione di una sinergia positiva e duratura tra gli Stati membri e gli organi del Consiglio d’Europa si potrà giungere a un vero cambiamento della percezione sociale e culturale del ruolo della donna nelle società in cui viviamo.

[1] Consiglio d’Europa, Strategia per l’uguaglianza tra donne e uomini 2014-2017, Strasburgo, febbraio 2014, p. 5 (https://rm.coe.int/CoERMPublicCommonSearchServices/DisplayDCTMContent?documentId=0900001680590174).

[2] In relazione a questi articoli della Convenzione si segnalano, inter alia, O’Keeffe c. Irlanda [GC], ric. n. 35810/09, 28 gennaio 2014 e J. e altri c. Austria, ric. n. 58216/12, 17 gennaio 2017.

[3] Come interpretata, in particolare nelle Raccomandazioni generali nn. 12 del 1989 e 19 del 1992.

[4] Si veda il caso X e Y c. Paesi Bassi, ric. n. 8978/80, 26 marzo 1985. Il caso riguardava lo stupro di una ragazza di 16 anni con handicap mentale in una casa per bambini con disabilità mentali.

[5] Ex multis, Sandra Janković c. Croazia, ric. n. 38478/05, 5 marzo 2009, § 45.

[6] Ex multis, Osman c. Regno Unito, ric. n. 23452/94, 28 ottobre 1998, § 116.

[7] Opuz c. Turchia, ric. n. 33401/02, 9 giungo 2009, § 134.

[8] Ex multis, Talpis c. Italia, ric. n. 41237/14, 2 marzo 2017, § 99.

[9] Valiulienė c. Lituania, ric. n. 33234/07, 26 marzo 2013.

[10] M.C. c. Bulgaria, ric. n. 39272/98, 4 dicembre 2003.

[11] Nell’ambito delle fonti internazionali, la Corte ha fatto riferimento, inter alia, alla giurisprudenza del Tribunale penale internazionale per l’ex-Iugoslavia e alla Raccomandazione – n. (2002)5 – del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri sulla protezione delle donne contro la violenza.

[12] Kontrová c. Slovacchia, ric. n. 7510/04, 31 maggio 2007.

[13] Bevacqua e S. c. Bulgaria, ric. n. 71127/01, 12 giugno 2008.

[14] Hajudová c. Slovacchia, ric.n. 2660/03, 30 novembre 2010.

[15] Opuz c. Turchia, cit., nota n. 7.

[16] Eremia e altri c. Moldavia, ric. n. 3564/11, 28 maggio 2013 e Talpis c. Italia, cit., nota n. 8.

[17] Si veda la Risoluzione finale del Comitato dei ministri DH(2017)425, adottata il 7 dicembre 2017.

[18] Talpis c. Italia, cit., nota n. 8.

[19] Si veda la decisione del Comitato dei ministri relativa al caso Talpis c. Italia, adottata alla riunione “diritti umani” tenutasi dal 5 al 7 giugno 2018.