Magistratura democratica

Indipendenza e imparzialità dei magistrati

di Maria Giuliana Civinini
L’Autrice affronta la giurisprudenza della Corte Edu sull’indipendenza e imparzialità del giudice come singolo e come potere dello Stato, analizzandola sotto tre angoli prospettici: protezione del diritto del giustiziabile, protezione delle prerogative del giudice, protezione contro l’abuso e lo sviamento di potere.

1. Introduzione. L’indipendenza dei tribunali davanti alla Corte

L’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo enuncia il diritto di ogni persona «a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale». Si tratta del diritto di ogni giustiziabile a un giudice che sia in grado di «agire senza alcuna restrizione, impropria influenza, istigazione, pressione, minaccia o interferenza, diretta o indiretta, di qualunque provenienza o per qualunque ragione» (raccomandazione Rec(94)12 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa sull’indipendenza, l’efficienza e il ruolo dei giudici, che richiama, anche dal punto di vista letterale, l’art. 2 dei «Basic Principles» fissati dalle Nazioni Unite).

L’indipendenza, quale prerequisito dell’imparzialità, è allo stesso tempo un diritto di ogni persona e una prerogativa del giudice (e del pubblico ministero, quando questi fa parte del sistema giudiziario), inteso come singolo e come corpo.

L’interrelazione tra i due profili è ben espressa nelle opinioni del Consiglio consultivo dei giudici europei (CCJE), organo del Consiglio d’Europa: «L’indipendenza della magistratura è una condizione preliminare dello Stato di diritto e una garanzia fondamentale di un processo equo. I giudici sono incaricati della decisione finale sulla vita, le libertà, i diritti, i doveri e le proprietà dei cittadini (…) La loro indipendenza non è una prerogativa o un privilegio nell’interesse proprio, ma nell’interesse dello Stato di diritto e di coloro che cercano e si aspettano giustizia», si legge nel Parere n. 1 (2001) sull’indipendenza della magistratura. «L’indipendenza dei giudici, in una società globalizzata e interdipendente, dovrebbe essere considerata da ogni cittadino come una garanzia di verità, libertà, rispetto dei diritti umani e giustizia imparziale e libera da influenze esterne. L’indipendenza dei giudici non è una prerogativa o un privilegio concesso nel proprio interesse, ma nell’interesse dello Stato di diritto e di chiunque cerchi e si aspetti giustizia. L’indipendenza come condizione di imparzialità dei giudici offre quindi una garanzia di uguaglianza dei cittadini davanti ai tribunali» precisa il Parere n. 10 (2007) sul «Consiglio per la magistratura».

 

L’indipendenza unita all’imparzialità – cioè la libertà di interpretare la legge e decidere secondo scienza e coscienza senza timore per sé, per la propria famiglia e per la propria carriera – è concetto che si declina in positivo, in relazione alla presenza di una serie di garanzie relative allo status, e in negativo, in relazione all’assenza di pressioni indebite esterne o interne al sistema giudiziario.

Le garanzie concernono l’accesso, l’inamovibilità, la carriera, i trasferimenti e le promozioni, la formazione, il sistema disciplinare, l’esistenza di un organo di autogoverno dotato di adeguati poteri di regolamentazione e protezione. Accertare la sussistenza di tali garanzie, che, di regola, hanno base legale se non costituzionale, e della loro “forza” è relativamente semplice.

Più complesso è accertare se a un sistema di garanzie formali corrisponda un sistema di garanzie sostanziali, che coincide con l’assenza di pressioni e interferenze indebite e con la presenza di adeguati meccanismi di reazione a eventuali pressioni.

A tal proposito, è utile ricordare che l’indipendenza e l’imparzialità del giudice possono essere minacciate sia dall’esterno che dall’interno del sistema giudiziario.

Un’indebita influenza esterna sul singolo giudice o sul sistema giudiziario possono essere rappresentati, tra l’altro, da: ingerenze indebite nel processo decisionale; provvedimenti amministrativi o legislativi capaci di ledere, anche attraverso la regolamentazione della carriera, la libertà di coscienza, di interpretazione e di decisione dei giudici; azioni di gruppi di pressione o di gruppi di interesse politici o economici dirette contro i giudici; azioni che possano indurre nel giudice la preoccupazione o il timore di ricevere un danno alla sua persona, alla sua famiglia o ai suoi beni.

Un’indebita influenza interna sul singolo giudice o sul sistema giudiziario può essere il risultato, ad esempio, di: ingerenze nel processo decisionale da parte di un rappresentante dell’organo di governo giudiziario, del capo della giurisdizione, di altri membri della magistratura che – dal punto di vista pratico – possono incidere direttamente o indirettamente sulla carriera o sullo status del giudice; mancanza di regole ed esistenza di prassi non trasparenti relative alla carriera, alle promozioni e ai trasferimenti; mancanza di regole obiettive e predeterminate per la selezione e l’assegnazione dei casi; mancanza di regole sul ritiro di una causa in precedenza assegnata a un giudice per attribuirla a un altro; una struttura gerarchica della carriera; la mancanza di una procedura disciplinare garantita.

Questi brevi cenni danno conto della complessità del compito della Corte Edu quando si tratti di sostanziare il diritto a un «tribunale indipendente e imparziale» e di colpirne le violazioni.

Si tratta, del resto, di un diritto che, com’è naturale, alla Corte sta molto a cuore, tanto che il tradizionale seminario, che accompagna l’inaugurazione dell’anno giudiziario, è stato dedicato nel 2018 proprio al tema dell’indipendenza. Come il presidente Guido Raimondi ha sottolineato, nella sua allocuzione di apertura, «Il tema dell’edizione di quest’anno è un tema che riguarda – e preoccupa – noi tutti che rappresentiamo il potere giudiziario. Il “meno pericoloso” dei tre poteri (secondo la famosa formula del professor Alexander Bickel) si trova oggi, in alcuni dei nostri Paesi, di fronte a pericoli che ne minacciano l’autorità, la legittimità e l’efficacia della sua azione di guardiano dello Stato di diritto. Da qui il nostro desiderio di offrire ai nostri omologhi di tutto il continente un forum di discussione europeo». Importanti, poi, le sue parole, dirette ai presidenti delle Corti costituzionali e delle Corti supreme dei Paesi del CdE: «La vostra presenza ha un significato profondo. Il meccanismo europeo per la protezione dei diritti umani può essere concepito solo se si è in grado di parteciparvi pienamente. È insieme e collettivamente che proteggiamo i diritti umani. Senza di voi, la tutela dei diritti umani è incompleta ed è per questo che la vostra presenza qui è essenziale per noi. Senza di voi, non ci può essere uno spazio comune per la protezione dei diritti e delle libertà. Senza di voi, non esiste uno Stato di diritto. Inoltre, è importante notare che il tema del seminario odierno era l’autorità del potere giudiziario. Un seminario durante il quale, in via eccezionale, ha preso la parola il segretario generale del Consiglio d’Europa, Thorbjørn Jagland. Quando un regime democraticamente eletto ignora i limiti costituzionali del suo potere e priva i cittadini dei loro diritti e libertà, quando la democrazia diventa illiberale, siete sempre e soprattutto voi ad essere attaccati. Come la nostra Corte a livello europeo, voi siete un punto di riferimento indispensabile nei vostri rispettivi Paesi. Vorrei, questa sera, dirvelo solennemente: siamo al vostro fianco».

Nella sua giurisprudenza, la Corte ha affrontato il tema dell’indipendenza giudiziaria sui due versanti sopra indicati: il diritto del giustiziabile e la prerogativa del giudice.

Il diritto del cittadino a un giudice indipendente e imparziale è analizzato dalla Corte nel contesto dell’art. 6 della Convenzione.

Le prerogative del giudice strumentali alla garanzia d’indipendenza, di cui un appartenente al sistema giudiziario lamenti la compressione o l’annullamento, sono prese in considerazione (nei casi fin qui decisi) sotto il profilo degli artt. 6, 8 e 10 della Convenzione.

Le questioni dell’indipendenza del giudice, della sua protezione e dell’idoneità di un determinato sistema a garantirle non sono ancora state affrontate in maniera diretta dalla Corte, ma utili indicazioni possono scaturire dalla giurisprudenza in materia di violazione dell’art. 18 Cedu.

Sotto questo profilo, si deve considerare che, ai sensi dell’art. 3 del Trattato istitutivo del Consiglio d’Europa, per esserne membri, gli Stati devono riconoscere il principio della preminenza del diritto, della rule of law, e il principio in virtù del quale ogni persona collocata sotto la sua giurisdizione deve godere dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Questo implica che, salvo che siano attivate le procedure per l’esclusione di uno Stato dal suo consesso, nello spazio del CdE vige una fiducia reciproca e una presunzione di rispetto dei principi della rule of law. La Corte è giudice dei casi concreti e sanzionare sistemi che non rispettino i principi dello Stato di diritto compete agli organi politici del CdE. Cercheremo di tornare brevemente sul tema alla fine di questo scritto.

2. Indipendenza e imparzialità come elementi del diritto a un processo equo

I principi elaborati dalla Corte su indipendenza e imparzialità del tribunale e la casistica sottostante sono ben illustrati nelle «Guide» all’articolo 6 della Convenzione, profilo civile (in versione inglese e francese aggiornate ad agosto 2018) e profilo penale (in versione inglese aggiornata alla stessa data) reperibili sul sito della Corte, alle quali dunque si rinvia.

Particolarmente significativa per la comprensione dell’approccio della Corte al tema é la sentenza Agrokompleks c. Ucraina (ric. n. 23465/03), del 6 ottobre 2011, un “fortunato” caso in cui vi era la prova documentale delle pressioni esercitate dal Governo e dalla controparte sui giudici.

La decisione è un decalogo dei principi rilevanti e degli obblighi degli Stati in materia e merita essere riportata verbatim:

 «125. La Corte ribadisce che, per determinare se un tribunale possa essere considerato “indipendente” ai fini dell’art. 6, § 1 della Convenzione, occorre tener conto, tra l’altro, dei seguenti criteri: il modo di nomina dei suoi membri e la durata del loro mandato; l’esistenza di garanzie contro le pressioni esterne; e se il tribunale presenta un’apparenza di indipendenza [si veda, tra le molte, Findlay c. Regno Unito, (...)]. 126. Per quanto riguarda la questione dell’“imparzialità” ai fini dell’art. 6, § 1 (...) tale requisito presenta due aspetti, uno soggettivo e uno oggettivo. In primo luogo, il tribunale deve essere soggettivamente imparziale, vale a dire che nessuno dei suoi membri deve avere pregiudizi. L’imparzialità personale è presunta, salvo prova contraria. In secondo luogo, il tribunale deve essere imparziale anche da un punto di vista oggettivo, ossia deve offrire sufficienti garanzie per escludere ogni legittimo dubbio al riguardo [si veda Kiiskinen c. Finlandia (...)]. Più specificamente, occorre determinare, in base al test oggettivo, se, indipendentemente dal comportamento personale dei giudici, vi siano fatti verificabili che possano sollevare dubbi sulla loro imparzialità [cfr. Kleyn e altri c. Paesi Bassi [GC] (...)]. 127. Nel decidere se, in un determinato caso, vi sia un motivo legittimo per temere che tali requisiti non siano soddisfatti, il punto di vista di una parte è importante, ma non decisivo. Ciò che è decisivo è se questo timore possa essere ritenuto oggettivamente giustificato [si veda Kleyn e altri (...)]. 128. La Corte osserva che i concetti di indipendenza e imparzialità oggettiva sono strettamente collegati [cfr. Findlay (...), § 73]. Essi sono particolarmente difficili da dissociare, dove – come nel caso di specie – gli argomenti avanzati dal richiedente per contestare sia l’indipendenza che l’imparzialità del tribunale si basino sulle stesse considerazioni di fatto [si veda anche Kleyn e altri (...), § 194, e Salov c. Ucraina (...), § 82 (...)]. Pertanto, la Corte esaminerà entrambe le questioni insieme. 129. La Corte rileva che – come confermato da prove documentali – varie autorità statali sono effettivamente intervenute nel procedimento giudiziario in questione in diverse occasioni (...). 131. Sebbene la nozione di separazione dei poteri tra esecutivo e giudiziario abbia assunto un’importanza crescente nella giurisprudenza della Corte [cfr. Stafford c. Regno Unito [GC] (...), § 78, e Henryk Urban e Ryszard Urban c. Polonia, § 46 (...)], né l’art. 6 né qualsiasi altra disposizione della Convenzione impongono agli Stati di rispettare alcun modello costituzionale teorico riguardante i limiti ammissibili d’interazione tra i due poteri. La Corte deve chiarire se, in un caso particolare, siano soddisfatti i requisiti della Convenzione [cfr. Pabla Ky c. Finlandia, (...), § 29 (...)]. 132. Non è compito della Corte analizzare la solidità delle pertinenti disposizioni costituzionaliin Ucraina. L’unica questione che si pone è se, nelle circostanze del caso di specie, i tribunali nazionali avessero la necessaria “apparenza” d’indipendenza, o la necessaria “oggettiva” imparzialità [cfr. McGonnell c. Regno Unito (...), § 51 (...) e Kleyn e altri (...), § 193]. 133. La Corte ha già condannato con la massima fermezza i tentativi delle autorità non giudiziarie di intervenire nei procedimenti giudiziari, considerandoli ipso facto incompatibili con la nozione di “tribunale indipendente e imparziale”ai sensi dell’art. 6, § 1, della Convenzione [cfr. Sovtransavto Holding v. Ucraina (...) e Agrotehservis v. Ucraina (...)]. 134. Analogamente all’approccio delineato nella causa Sovtransavto Holding (...), la Corte ritiene irrilevante che gli interventi impugnati abbiano effettivamente influito sul corso del procedimento. Provenendo dal potere esecutivo e legislativo dello Stato, essi rivelano una mancanza di rispetto per l’ufficio giudiziario stesso e giustificano i timori della società richiedente circa l’indipendenza e l’imparzialità dei tribunali. 135. (...). 136. La Corte sottolinea (...) che la portata dell’obbligo dello Stato di garantire un processo da parte di un “tribunale indipendente e imparziale” ai sensi dell’art. 6, § 1, della Convenzione non si limita alla magistratura. Essa implica anche l’obbligo per l’esecutivo, il legislatore e qualsiasi altra autorità statale, a prescindere dal suo livello, di rispettare le sentenze e le decisioni dei tribunali, anche quando non siano d’accordo con esse. Pertanto, il rispetto, da parte dello Stato, dell’autorità giudiziaria è una condizione indispensabile per la fiducia del pubblico nei tribunali e, più in generale, per lo Stato di diritto. Affinché ciò avvenga, le garanzie costituzionali dell’indipendenza e dell’imparzialità della magistratura non sono sufficienti. Esse devono essere effettivamente integrate negli atteggiamenti e nelle pratiche amministrative quotidiane. 137. La Corte osserva inoltre che l’indipendenza e l’imparzialità della magistratura, viste da una prospettiva oggettiva, esigono che i singoli giudici siano liberi da indebite influenze, non solo dall’esterno, ma anche dall’interno. Questa indipendenza giudiziaria interna richiede che i giudici siano liberi da direttive o pressioni da parte di colleghi o di coloro che hanno responsabilità amministrative in un tribunale come, ad esempio, il presidente dello stesso. L’assenza di garanzie sufficienti a garantire l’indipendenza dei giudici all’interno del sistema giudiziario e, in particolare, nei confronti dei loro superiori giudiziari, può indurre la Corte a concludere che i dubbi di un richiedente in merito all’indipendenza e all’imparzialità di un tribunale possono essere considerati oggettivamente giustificati [cfr. Parlov-Tkalčić c. Croazia (...)]» (tdA, corsivi aggiunti).

La casistica applicativa di questi principi è molto vasta (di nuovo, si rinvia alle ottime «Guide» predisposte dalla Corte). Nel valutare le ricadute concrete delle varie pronunce, è sempre opportuno tener conto delle circostanze specifiche del caso. Non sempre, infatti, le stesse possono essere generalizzate astraendole dalla fattispecie.

Si pensi al caso Campbell c. Regno Unito (ric. n. 13590/88, 25 marzo 1992), o al caso Maktouf e Damjanović c. Bosnia Erzegovina (ricc. nn. 2312/08 e 34179/08, 18 luglio 2013), dove la Corte ha affermato che una durata limitata nel tempo della nomina e l’assenza della garanzia di inamovibilità non violano necessariamente l’art. 6 Cedu: la prima decisione aveva a oggetto l’indipendenza di una commissione composta di membri onorari non retribuiti – «Prison Board of Visitors» –, competente a decidere sui ricorsi di un detenuto contro le decisioni della direzione carceraria relative alla corrispondenza e alle visite; la seconda riguardava la composizione del collegio giudicante con giudici internazionali “comandati” a far parte, per un periodo limitato, della State Court competente, tra l’altro, a giudicare dei crimini di guerra, quale parte di una strategia di fine mandato del Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia. Si tratta, con tutta evidenza, di situazioni molto specifiche, che non incidono sulla portata generale del principio per cui «La certezza di permanenza nelle funzioni e l’inamovibilità sono elementi chiave dell’indipendenza dei giudici. Di conseguenza, ai giudici deve essere garantita la permanenza nelle funzioni fino al raggiungimento dell’età di pensionamento obbligatorio, se essa esiste»; «La permanenza nelle funzioni dei giudici deve essere stabilita dalla legge»; «Quando il reclutamento preveda un periodo di prova o una nomina a termine, la decisione sulla conferma o sul rinnovo della nomina deve essere effettuata esclusivamente in conformità al paragrafo 44 per garantire il pieno rispetto dell’indipendenza della magistratura» e «Un giudice non deve ricevere un nuovo incarico o essere assegnato ad altre funzioni giudiziarie senza il suo consenso, salvo nei casi di sanzione disciplinare o di riforma organizzativa del sistema giudiziario» (raccomandazione CM/Rec(2010)12 del Comitato dei ministri del CdE, punti 49 - 52; per una disamina minuziosa dei principi e degli standard internazionali in materia di inamovibilità, si veda la sentenza Baka c. Ungheria [GC], ric. n. 20261/12, 23 giugno 2016).

Il modo con cui la Corte procede a un prudente bilanciamento tra principi e standard generalmente accettati a livello internazionale ed esigenze del singolo ordinamento è ben esemplificato nel caso Moiseyev c. Russia (ric. n. 62936/00, 9 ottobre 2008). Nella specie, il ricorrente lamentava – tra l’altro – che il tribunale non fosse indipendente e imparziale a causa dei numerosi cambiamenti nella composizione dello stesso (undici sostituzioni di giudici, quattro presidenti succedutisi nel processo), vizio di procedura fatto valere davanti alla Corte di cassazione senza esito. La Corte:

«176. (...) ribadisce che spetta ai tribunali nazionali gestire i loro procedimenti al fine di garantire la corretta amministrazione della giustizia. L’attribuzione di una causa a un determinato giudice o tribunale rientra nel margine di discrezionalità di cui godono le autorità nazionali in tali materie. Vi è un’ampia gamma di fattori, quali, ad esempio, le risorse disponibili, la qualificazione dei giudici, il conflitto di interessi, l’accessibilità del luogo di udienza delle parti, etc., di cui le autorità devono tener conto nell’assegnare una causa. Sebbene non sia compito della Corte valutare se vi siano validi motivi per cui le autorità nazionali possono (ri)assegnare una causa a un determinato giudice o tribunale, la Corte deve essere certa che tale (ri)assegnazione sia compatibile con l’art. 6, § 1, e in particolare con le sue esigenze di indipendenza oggettiva e imparzialità (cfr. Bochan, già citato, § 72). 177. La legislazione russa non contiene disposizioni che disciplinano la ripartizione delle cause tra i giudici del tribunale competente. La sezione 6.2 della legge sullo statuto dei giudici prevede che il controllo sulla ripartizione delle cause debba essere esercitato dal presidente del tribunale, in un modo disciplinato da una legge federale (...). Tuttavia, poiché finora non è stata emanata alcuna legge di questo tipo, in base alla prassi, le cause sono distribuite dai presidenti dei tribunali a loro discrezione (...). 182. La Corte osserva inoltre che, come per la ripartizione delle cause in arrivo tra i giudici, il potere di riassegnare un processo penale pendente a un presidente era abitualmente esercitato dal presidente di un tribunale (...). La mancanza di prevedibilità nell’applicazione dell’art. 241 ha avuto l’effetto di dare al presidente del Tribunale di Mosca un margine di discrezionalità illimitato in materia di sostituzione e riassegnazione dei giudici nel procedimento penale del richiedente. A questo proposito, la Corte sottolinea che nell’art. 241 non figurano garanzie procedurali contro l’esercizio arbitrario del potere discrezionale. Pertanto, non si richiede che le parti siano informate dei motivi della riassegnazione del caso o che sia data loro la possibilità di presentare osservazioni in merito (cfr. Bochan, già citato, § 72). Inoltre, la sostituzione di un membro del collegio non è stata indicata in nessuna decisione procedurale suscettibile di controllo giurisdizionale da parte di un tribunale superiore. La Corte ritiene che l’assenza di garanzie procedurali nel testo di legge abbia reso i membri del collegio giudicante vulnerabili alle pressioni esterne (...). 184. Alla luce delle considerazioni di cui sopra, la Corte constata che, nella causa del ricorrente, il diritto penale russo non ha fornito le garanzie che sarebbero state sufficienti a escludere qualsiasi dubbio oggettivo circa l’assenza di pressioni inadeguate sui giudici nell’esercizio delle loro funzioni giudiziarie [cfr. Daktaras c. Lituania, n. 184 (...) e, per contro, Sacilor-Lormines c. Francia (...)]. In tali circostanze, i dubbi del ricorrente circa l’indipendenza e l’imparzialità del tribunale di primo grado possono essere considerati oggettivamente giustificati a causa delle ripetute e frequenti sostituzioni di membri del collegio nel suo procedimento penale, che sono state effettuate per motivi non accertabili e non sono state circondate da alcuna garanzia procedurale. 185. Vi è stata, pertanto, una violazione dell’art. 6, § 1, a causa della mancanza di indipendenza e imparzialità del tribunale di primo grado» (tdA).

3. Indipendenza e imparzialità come prerogativa del giudice e del sistema giudiziario

Come accennato, la Corte affronta le problematiche afferenti le prerogative di indipendenza e imparzialità del giudice non su un piano di sistema, ma caso per caso.

È utile ripercorrere alcuni dei casi più rilevanti, sia per fattispecie esaminata che per principi giurisprudenziali consolidati utilizzati nella decisione.

3.1. Cessazione per legge dell’incarico di Presidente della Corte Suprema

Nel caso Baka c. Ungheria, sopra richiamato, la Corte fa il punto sulla natura civile delle controversie concernenti accesso, carriera e cessazione dalle funzioni dei magistrati; sulla natura di violazione dell’art. 6 Cedu, sotto il profilo dell’accesso a un tribunale, di una norma che incide ex lege sulle prerogative del magistrato.

Il ricorrente, presidente della Corte suprema ungherese, aveva visto cessare di diritto il suo mandato con tre anni e mezzo di anticipo in forza di una nuova normativa. In particolare, egli allegava di non aver avuto accesso a un tribunale per contestare la cessazione anticipata del suo mandato di presidente della Corte suprema e di essere stato sollevato dalle sue funzioni perché, in tale qualità, aveva pubblicamente preso posizione ed espresso un’opinione su vari aspetti delle riforme legislative in corso riguardanti la giustizia. Invocava l’art. 6, § 1, e l’art. 10 della Cedu.

La Corte Edu ha rilevato che la fine prematura del mandato non era stata esaminata da alcun organo giudiziario, concludendo per una violazione del diritto di accesso a un tribunale.

Per pervenire a tale conclusione, la Corte ha ripercorso l’evoluzione della propria giurisprudenza in materia di “diritto a carattere civile” in relazione alle pretese dei funzionari pubblici, fino alla sentenza Vilho Eskelinen e altri c. Finlandia [GC] (ric. n. 63235/00, 19 aprile 2007), dove si è stabilita la sussistenza di una presunzione di applicabilità dell’art. 6, §1, Cedu, salvo che lo Stato dimostri che in diritto interno quel funzionario non abbia diritto ad accedere a un tribunale e che tale esclusione sia giustificata.

«104. Mentre nella causa Vilho Eskelinen e altri la Corte ha dichiarato che la sua motivazione era limitata alla situazione dei dipendenti pubblici (...), la Grande Camera rileva che i criteri stabiliti in tale sentenza sono stati applicati da diverse sezioni della Corte alle controversie riguardanti i giudici [G. c. Finlandia (...), Volkov c. Ucraina (...), Di Giovanni c. Italia (...) e Tsanova-Gecheva c. Bulgaria (...)], compresi i presidenti delle corti supreme [Olujić c. Croazia (...) e Harabin c. Slovacchia (...)]. La Grande Camera non vede alcun motivo per discostarsi da questo approccio. Essa ritiene che, sebbene non facciano parte dell’amministrazione in senso stretto, i giudici fanno comunque parte della funzione pubblica in senso lato [Pitkevich c. Russia (...)]. 105. La Corte rileva, inoltre, che i criteri stabiliti nella sentenza Vilho Eskelinen e altri sono stati applicati a tutti i tipi di controversie riguardanti funzionari e giudici, comprese le controversie relative all’assunzione o alla nomina [Juričić c. Croazia (...)], alla carriera o alla promozione [Dzhidzheva-Trendafilova c. Bulgaria (...)], trasferimento [Ohneberg c. Austria (...)] e cessazione dal servizio [Olujić c. Croazia (…) e Nazsiz c. Turchia (...), riguardanti rispettivamente la destituzione disciplinare del presidente della Corte suprema della Repubblica di Croazia e di un pubblico ministero]. Nella causa G. c. Finlandia (...), in cui il Governo convenuto ha sostenuto che il diritto di un giudice di rimanere in carica era speciale e non poteva essere assimilato a una “causa civile ordinaria” ai sensi di Vilho Eskelinen e altri, la Corte ha implicitamente respinto questo argomento per applicare i principi enunciati in tale sentenza. Più esplicitamente, nella sentenza Bayer c. Germania (...), che riguardava il licenziamento a seguito di un procedimento disciplinare di un ufficiale giudiziario alle dipendenze dello Stato, si affermava che le controversie riguardanti “uno stipendio, un’indennità o altri diritti simili” erano solo esempi, tra gli altri, di “controversie di lavoro ordinarie”, alle quali l’art. 6 dovrebbe, in linea di principio, applicarsi in base al criterio Eskelinen. Nella sentenza Olujić c Croazia (...), ha affermato che la presunzione di applicabilità dell’art. 6 derivante dalla sentenza Eskelinen si applica anche ai casi di revoca dalle funzioni» (tdA).

La Corte Edu ha, quindi, esaminato i principi di base sull’accesso a un tribunale e, affermazione di grande rilievo, ha statuito:

«la Corte non può non rilevare la crescente importanza che gli strumenti internazionali e del Consiglio d’Europa, nonché la giurisprudenza dei tribunali internazionali e la prassi di altri organismi internazionali, attribuiscono al rispetto dell’equità procedurale nelle cause riguardanti il licenziamento o la revoca dei giudici, e in particolare al coinvolgimento di un’autorità indipendente dal ramo esecutivo e legislativo del governo in qualsiasi decisione relativa alla cessazione del mandato di un giudice (...). In tali circostanze, la Corte ritiene che lo Stato convenuto abbia violato il contenuto stesso del diritto di accesso del ricorrente a un tribunale» (tdA, corsivo aggiunto).

Quanto alla ritenuta violazione dell’art. 10 Cedu, la Corte ha preso le mosse dalla sua giurisprudenza in materia di procedura disciplinare e destituzione di un giudice, e dalla distinzione tra fattispecie in cui la misura costituisca un’ingerenza nell’esercizio, da parte dello stesso, della sua libertà di espressione e casi di restrizione dell’esercizio del diritto a un posto pubblico, non garantito dalla Convenzione (si vedano le sentenze Wille c. Lichtenstein, §§ 42 e 43; Harabin c. Slovacchia; Kayasu c. Turchia, §§ 77‑79; Koudechkina c. Russia, § 79; Poyraz c. Turchia) e ha affermato che, nel caso di specie, dove tra l’altro nessun giudice interno aveva conosciuto della questione, la Corte doveva esaminarla con apprezzamento pieno delle prove della responsabilità dello Stato alla luce del principio “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Sulla base di una motivazione complessa cui si rimanda, la Corte ha ritenuto che:

«148. Tenuto conto degli eventi nel loro insieme e del modo in cui si sono succeduti l’uno all’altro piuttosto che separatamente, il Tribunale ritiene che sussistano prove prima facie di un nesso causale tra l’esercizio della libertà di espressione del ricorrente e la cessazione del suo mandato (...). 149. Il Tribunale ritiene che, quando c’è un inizio di prova a favore della versione dei fatti presentati dal ricorrente e dell’esistenza di un nesso di causalità, l’onere della prova deve essere invertito e posto a carico del Governo. In questo caso è particolarmente importante farlo perché i motivi della cessazione del mandato del richiedente sono noti solo al governo e non sono mai stati stabiliti o esaminati da un tribunale o da un organo indipendente (...). 151. La Corte ritiene, pertanto, che il Governo non abbia dimostrato in modo convincente che la misura controversa è il risultato della soppressione dell’incarico e delle funzioni del ricorrente nell’ambito della riforma dell’autorità giudiziaria suprema.  Di conseguenza, essa ritiene, come il ricorrente, che la cessazione anticipata del mandato del ricorrente sia dovuta alle opinioni e alle critiche che egli aveva pubblicamente espresso a titolo professionale» (tdA).

3.2. Indipendenza e imparzialità del Csm e degli organi disciplinari della magistratura. Adeguatezza del controllo della Corte suprema

Il casoRamos Nunes de Carvalho e Sá c. Portogallo(ricc. nn. 55391/13 e altri 2, 6 novembre 2018, decisione non definitiva rinviata alla Grande Camera) trae origine da tre procedure disciplinari rispetto alle quali la ricorrente, all’epoca dei fatti giudice del Tribunale di Vila Nova de Famalicão, lamenta la mancanza di accesso a un tribunale, la mancanza di imparzialità e indipendenza della sezione del contenzioso della Corte suprema di giustizia (Csg) e l’assenza di un’udienza pubblica. Le prime due procedure avevano a oggetto negligenze gravi nell’attività giudiziaria, la terza la richiesta all’ispettore di non procedere disciplinarmente contro un teste a suo discarico nella prima procedura. Dopo aver richiamato i principi generali da essa enunciati in materia di indipendenza e imparzialità, la Corte ha esaminato la questione se il Consiglio superiore della magistratura come autorità disciplinare è indipendente e imparziale.

Di grande rilievo il richiamo agli standard europei:

«75. La Corte ha già dichiarato che la presenza tra i membri di un tribunale di giudici che occupano almeno la metà dei seggi, compreso quello di presidente con voto decisivo, dà una certa garanzia di imparzialità [Le Compte, Van Leuven e De Meyere c. Belgio (...) e Volkov c. Ucraina (...)]. Va osservato che, per quanto riguarda i procedimenti disciplinari contro i giudici, la necessità che i membri dell’organo disciplinare siano essi stessi giudici in numero significativo è riconosciuta dalla Carta europea sullo statuto dei giudici (...) e dai pareri della Commissione di Venezia (...). La Corte rileva che la raccomandazione CM/Rec(2010)12 del Comitato dei ministri agli Stati membri del Consiglio d’Europa sui giudici (...) raccomanda che l’autorità competente per la selezione e la carriera dei giudici sia indipendente dai poteri esecutivo e legislativo. Per garantirne l’indipendenza, almeno la metà dei membri dell’autorità dovrebbero essere giudici scelti dai loro pari (...). Prende, inoltre, atto della raccomandazione n. 6 della Relazione di valutazione del Gruppo di Stati contro la corruzione (GRECO) del Portogallo, adottata il 4 dicembre 2015, di stabilire per legge che almeno la metà dei membri del Csm devono essere giudici scelti dai loro pari (...). [I]l Consiglio consultivo dei giudici europei ha adottato una “Magna Carta” dei giudici, che prevede in particolare che il Consiglio debba essere composto esclusivamente da giudici o, almeno, da una maggioranza sostanziale di giudici eletti dai loro pari» (tdA, corsivo aggiunto).

Su questa base, e in considerazione del fatto che l’organo di autogoverno portoghese non ha una maggioranza di membri togati e che, in almeno una delle udienze disciplinari, vi era di fatto una maggioranza di membri laici, la Corte ha ritenuto questa situazione problematica rispetto all’art. 6 Cedu e ha notato – con apprensione – che la legge non stabilisce alcun requisito e qualificazione per i membri laici. La conseguenza è che indipendenza e imparzialità del Consiglio possono essere discutibili.

La Corte ha, quindi, esaminato se la possibilità di ricorso alla Corte suprema di giustizia garantisse un controllo giurisdizionale adeguato ai sensi dell’art. 6 Cedu. Nel sistema portoghese, la Csg effettua un controllo di legalità e può annullare la decisione del Csm con rinvio a questi per una nuova valutazione e decisione.  La Corte Edu ha considerato che il controllo sul fatto attraverso la motivazione era formale e che – rifiutando di entrare nel modo di esercizio dei suoi poteri discrezionali da parte del Consiglio – la Csg ha dimostrato di avere una concezione restrittiva dell’estensione dei suoi poteri di controllo sull’attività disciplinare del Csm. La prassi giudiziaria ne sarebbe rivelatrice e, pertanto, le conseguenze giuridiche derivanti dal controllo da parte della Csg limitate, rafforzando i dubbi della Corte circa la sua capacità di risolvere efficacemente la questione e di effettuare un controllo sufficiente del caso.

Quanto, infine, all’udienza pubblica, negata dalla Csg assieme alla richiesta di ascoltare un testimone, in quanto giudice di legalità, la Corte Edu formula forti critiche e perviene a conclusioni dirompenti rispetto alla struttura del giudizio di cassazione sulla base di un giudizio di rilevanza da essa direttamente formulato:

«La Corte ritiene che la testimonianza in questione fosse pertinente nel caso di specie, in quanto avrebbe probabilmente sostenuto le difese della ricorrente. Inoltre, i motivi addotti dalla Corte suprema di giustizia non erano sufficienti a giustificare il rifiuto di ascoltare la testimone che la ricorrente voleva chiamare, in quanto tale misura ha ostacolato la capacità della parte interessata di difendere la sua causa, in violazione delle garanzie di un processo equo (...). La Corte ritiene, inoltre, che la Corte suprema di giustizia, rifiutando di ascoltare, in un’udienza pubblica, la testimone indicata dalla ricorrente nella presente causa, non ha garantito la trasparenza che questo atto procedurale avrebbe dato al procedimento disciplinare avviato nei suoi confronti, obiettivo perseguito dall’articolo 6, § 1, della Convenzione (...). Infine, rileva che in questo caso la Corte suprema di giustizia non ha posto rimedio al rifiuto di tenere un’udienza pubblica (...). 97. La Corte non ritiene che le questioni dibattute nell’ambito del procedimento contenzioso, vale a dire la sanzione disciplinare inflitta a un giudice per fatti relativi, in particolare, a dichiarazioni che violano i suoi obblighi professionali, fossero di natura altamente tecnica e non richiedessero un’udienza sotto controllo pubblico (...). Nel caso di specie, era necessaria un’udienza pubblica, orale e accessibile alla ricorrente, come richiesto. A tale riguardo, si osserva che vi è stata una controversia sui fatti e che le sanzioni in cui la ricorrente poteva incorrere erano di natura infamante, tali da pregiudicare l’integrità professionale e il credito della ricorrente (...). 98. La Corte, consapevole della necessità di trovare un giusto equilibrio tra la necessità di tutelare l’indipendenza del Csm e l’utilità di garantire il controllo da parte di un’autorità pubblica ed evitare una gestione corporativa (...), ritiene che la garanzia di un’udienza pubblica nei procedimenti disciplinari contro i giudici contribuisca alla loro equità ai sensi dell’art. 6, § 1, attraverso un procedimento in contraddittorio (...), il massimo livello di trasparenza nei confronti dei giudici e della società e la concessione di tutte le garanzie di un processo equo (...). 99. Alla luce di quanto precede, la Corte conclude che le autorità nazionali non hanno garantito lo svolgimento di un’audizione pubblica» (tdA).

Alla luce delle tre criticità constatate, è stata affermata la violazione dell’art. 6, § 1.

Nel caso Paluda c. Slovacchia (ric. n. 33392/12, 23 maggio 2017), il ricorrente – all’epoca dei fatti, giudice della Corte suprema – lamentava la violazione dell’art. 6 Cedu per il rifiuto delle corti nazionali di esaminare il suo ricorso contro la sospensione cautelare dalla funzione di giudice, disposta in sede disciplinare dal Consiglio giudiziario, l’organo di autogoverno della magistratura (composto da diciotto membri, otto eletti dai giudici e nove nominati da organi politici, oltre al presidente della Corte suprema con funzione di presidente di diritto del Consiglio). I vari ricorsi erano stati dichiarati inammissibili, data la natura cautelare e provvisoria della sospensione. Ritenuta la legalità della misura, la Corte Edu ne ha escluso la proporzionalità, concludendo per la violazione dell’art. 6 Cedu:

«47. (...) il mancato accesso del ricorrente al giudice riguardava una misura impostagli da un organismo che, come è stato constatato in precedenza [le ragioni non sono esplicitamente indicate – ndA], non forniva le garanzie istituzionali e procedurali inerenti all’art. 6, § 1, della Convenzione.  48. A livello istituzionale, la Corte rileva inoltre che l’organo in questione, il Consiglio giudiziario, era all’epoca, per legge, presieduto dal presidente della Corte suprema (...). Alla luce dei fatti del caso di specie, ciò è particolarmente rilevante in quanto la sospensione del ricorrente è stata imposta dal Consiglio giudiziario nell’ambito di un procedimento disciplinare avviato nei suoi confronti dallo stesso organo in relazione alla sua denuncia penale e alle dichiarazioni pubbliche relative all’esercizio, da parte del presidente della Corte suprema, dei suoi doveri d’ufficio (...).  49. Dal punto di vista procedurale, la Corte rileva che, nell’ambito della sua sospensione, il ricorrente non è stato sentito né per quanto riguarda la sospensione né per quanto riguarda il merito delle accuse. 50. Inoltre, sebbene la sospensione non costituisca l’oggetto della presente richiesta, le sue ripercussioni sul ricorrente sono rilevanti ai fini della valutazione della proporzionalità dell’assenza di accesso al giudice in rapporto alla sospensione medesima. Da questo punto di vista, la sospensione ha comportato l’interdizione del ricorrente dall’esercizio delle sue funzioni e la trattenuta del 50% della sua retribuzione (...) e, allo stesso tempo, egli è stato soggetto a restrizioni quali l’impossibilità di esercitare un’attività lucrativa altrove (...). 51. Mentre il ripristino dello stipendio è importante in relazione alla riparazione degli effetti della sospensione sul ricorrente, in quanto tale, esso non ha un nesso diretto con il fatto che egli non abbia avuto accesso al giudice (...). 53. In conclusione, il ricorrente non ha avuto accesso a un procedimento giudiziario ai sensi dell’art. 6, § 1, della Convenzione in relazione a un provvedimento che lo ha posto per due anni in una situazione di incapacità a esercitare il suo mandato e di trattenuta della metà della retribuzione, senza possibilità di esercitare altre attività lucrative. 54. Inoltre, la Corte rileva che il Governo non ha invocato alcun motivo concludente per negare al ricorrente la tutela giurisdizionale nei confronti di tale misura. A questo proposito, la Corte ritiene importante operare una chiara distinzione tra le ragioni, che si possono ritenere convincenti, che giustificano la sospensione di un giudice soggetto a un certo tipo di accusa disciplinare e le ragioni per non consentirgli di adire un tribunale in relazione a tale sospensione. Secondo la Corte, l’importanza di tale distinzione è amplificata dal fatto che l’organo che ha adottato tale provvedimento e la procedura nel corso della quale è stato adottato non erano conformi ai requisiti di cui all’art. 6, § 1, della Convenzionee dal fatto che il provvedimento è stato adottato in un contesto particolare come quello del caso di specie» (tdA, corsivi aggiunti).   

Nel caso Mitrinovski c. ex-Repubblica jugoslava di Macedonia (ric. n. 6899/12, 30 aprile 2015) la Corte ha affermato la violazione dell’art. 6, § 1, Cedu in relazione alla composizione del Consiglio superiore della magistratura e alla titolarità del potere di promuovere l’azione disciplinare. Il fatto che, come ammesso dalla legge, un membro del Consiglio, che era anche presidente della Corte suprema, avesse richiesto di iniziare una procedura disciplinare (sulla base di una sentenza della Corte suprema che aveva accertato scorrettezze professionali commesse da alcuni giudici) e, poi, avesse partecipato al voto, aveva violato i canoni oggettivi e soggettivi dell’indipendenza e dell’imparzialità.

Nel caso, più sopra richiamato,Volkov c. Ucraina (2013), il ricorrente lamentava che la sua destituzione da giudice della Corte suprema – decisa in sede disciplinare dall’organo di autogoverno e confermata dal Parlamento e inutilmente impugnata davanti al giudice amministrativo – violava gli artt. 6, specialmente il diritto a un tribunale indipendente e imparziale, e 8 Cedu. Sotto il primo profilo la Corte ha concluso che il caso rivelava una serie di gravi problemi, relativi sia alle carenze strutturali del procedimento dinanzi al Consiglio superiore della magistratura, sia all’apparenza di parzialità da parte di alcuni dei membri di tale Consiglio che hanno deciso sul caso del ricorrente, concludendo che tale procedura non era compatibile con i principi di indipendenza e imparzialità garantiti dall’art. 6, § 1, della Convenzione. Quanto alla fase parlamentare, la Corte ha poi stabilito che:

«i dibattiti in plenaria non erano la sede appropriata per esaminare questioni di fatto e di diritto, per valutare le prove e per formulare una qualificazione giuridica dei fatti. Il Governo non ha spiegato a sufficienza il ruolo dei politici che siedono in Parlamento, che non sono in alcun modo tenuti ad avere una qualche esperienza giuridica o giudiziaria nell’affrontare complesse questioni di fatto e di diritto nei singoli procedimenti disciplinari, e non ha dimostrato che tale ruolo sia compatibile con l’indipendenza e l’imparzialità richieste dall’art. 6 della Convenzione» (tdA).

Quanto, infine, al controllo della Corte amministrativa superiore, il medesimo non è stato ritenuto effettivo, data l’impossibilità di annullamento dell’atto e l’incertezza sulla fase successiva all’eventuale dichiarazione di illegittimità. Nel caso di specie, inoltre, le questioni dell’indipendenza e della sollevata incompatibilità con la Costituzione della fase parlamentare non erano state affrontate.

È importante sottolineare come la Corte avesse individuato vari elementi problematici nell’organo di autogoverno, basandosi tra l’altro su rapporti della Commissione di Venezia: a) la composizione dell’organo disciplinare, ove i giudici erano una minoranza; la Corte ha ricordato che la presenza, tra i membri, di un tribunale di giudici che occupano almeno la metà dei seggi, compreso quello di presidente con voto decisivo, dà una certa garanzia di imparzialità (Le Compte, Van Leuven e De Meyere c. Belgio) e che, per quanto riguarda i procedimenti disciplinari contro i giudici, la necessità che un numero significativo di membri dell’organo disciplinare siano essi stessi giudici è riconosciuta nella Carta europea dello statuto dei giudici; b) il fatto che solo alcuni dei membri del Consiglio siano a tempo pieno; osserva la Corte:

«solo quattro dei membri del Consiglio superiore della magistratura lavorano a tempo pieno. Gli altri continuano a lavorare e ricevono uno stipendio al di fuori di questo organismo, il che implica inevitabilmente una dipendenza materiale, gerarchica e amministrativa dai loro principali datori di lavoro e ne compromette l’indipendenza e l’imparzialità. In particolare, nel caso del ministro della giustizia e del procuratore generale, che sono membri di diritto del Consiglio e per i quali la perdita della funzione principale implica le loro dimissioni dal Consiglio» (tdA);

c) la presenza del procuratore generale quale membro di diritto:

«La Corte ricorda il parere della Commissione di Venezia secondo cui il fatto che il procuratore generale sia membro d’ufficio del Consiglio superiore della magistratura suscita ulteriori preoccupazioni, in quanto può avere un effetto deterrente sui giudici ed essere percepito come una potenziale minaccia. Il procuratore generale è ai vertici della gerarchia della procura e controlla tutti i pubblici ministeri. A causa del loro ruolo funzionale, i pubblici ministeri possono partecipare in molti dei casi che i giudici devono decidere. La presenza del procuratore generale in un organo competente per la nomina, la disciplina e la destituzione dei giudici determina il rischio che essi non agiscano in modo imparziale in questi casi, o che il procuratore generale non agisca in modo imparziale nei confronti dei giudici le cui decisioni non approva» (tdA).

Come invocato dal ricorrente, la Corte ha ritenuto sussistente anche la violazione dell’art. 8 Cedu:

«[L]a destituzione del ricorrente ha avuto un impatto su gran parte dei suoi rapporti con gli altri, comprese le sue relazioni professionali. Ha avuto un’influenza anche sulla sua “cerchia ristretta”, poiché la perdita del lavoro ha avuto necessariamente un impatto concreto sul suo benessere materiale e su quello della sua famiglia. Inoltre, il motivo della sua destituzione, la violazione del giuramento, suggerisce che la sua reputazione professionale sia stata compromessa. Ne consegue che la destituzione del ricorrente costituisce un’ingerenza nell’esercizio, da parte dell’interessato, del diritto al rispetto della sua vita privata, ai sensi dell’art. 8 della Convenzione» (tdA).

Gli stessi principi hanno trovato applicazione nel caso Kulykov e altri c. Ucraina(ricc. nn. 5114/09 e altri 17,19 gennaio 2017), concernente la destituzione, secondo le medesime procedure, di diciotto giudici.

Il caso Volkov e i suoi cloni sono il perfetto esempio dell’interazione tra livello giudiziario e livello politico in seno al Consiglio d’Europa, funzionale a promuovere l’applicazione della Convenzione e il più alto standard di protezione dei diritti umani nei Paesi membri.

La Corte Edu, infatti, ha indicato in via eccezionale la necessità di adottare misure generali e individuali specifiche:

«199. La Corte rileva che il presente caso rivela gravi problemi sistemici nel funzionamento del sistema giudiziario ucraino. In particolare, le violazioni riscontrate indicano che il sistema disciplinare dei magistrati non è stato adeguatamente organizzato, non garantendo l’adeguata separazione della magistratura da altri poteri dello Stato. Inoltre, non fornisce adeguate garanzie contro gli abusi e l’uso improprio delle misure disciplinari a scapito dell’indipendenza della magistratura, che è uno dei valori più importanti alla base del corretto funzionamento delle democrazie. 200. La Corte ritiene che, dalla natura delle violazioni constatate, risulta che, per la corretta esecuzione della presente sentenza, lo Stato convenuto dovrebbe adottare una serie di misure generali per riformare il sistema disciplinare. Tali misure dovrebbero comprendere una riforma legislativa che ristrutturi la base istituzionale del sistema, nonché la definizione di forme e principi adeguati per l’applicazione coerente del diritto interno in questo settore (...). 202. La Corte ritiene pertanto necessario sottolineare che l’Ucraina deve attuare con urgenza le riforme generali del suo sistema giudiziario. A tal fine, le autorità ucraine dovrebbero tener conto della presente sentenza, della pertinente giurisprudenza della Corte e delle raccomandazioni, risoluzioni e decisioni pertinenti del Comitato dei ministri. 207. Alla luce delle conclusioni sopra esposte in merito alla necessità di misure generali di riforma del sistema disciplinare, la Corte ritiene che la riapertura del procedimento giudiziario non costituirebbe una forma adeguata di riparazione per le violazioni dei diritti del richiedente. Niente consente di concludere ch’egli sarebbe giudicato secondo i principi convenzionali. In tali circostanze, la Corte non vede la necessità di indicare tale misura. 208. Tuttavia, non è accettabile che il richiedente sia lasciato nell’incertezza sulle modalità di ripristino dei suoi diritti. Essa ritiene che la natura stessa delle violazioni constatate non offra alcuna reale scelta per quanto riguarda le misure individuali per porvi rimedio, se non dire che, tenuto conto delle circostanze del tutto eccezionali del caso e dell’urgenza di porre fine alle violazioni degli artt. 6 e 8 della Convenzione, lo Stato convenuto deve garantire la reintegrazione del ricorrente come giudice della Corte suprema nel più breve tempo possibile» (tdA).

Davanti al Comitato dei ministri in composizione diritti umani (CMDH) è aperta una procedura di monitoraggio rinforzato, che concerne sia il caso esaminato che casi concernenti la violazione del diritto dei giustiziabili a un giudice indipendente e imparziale – si vedano, per l’Ucraina, oltre ai citati Sovtransavto Holding e Salov, i casi Belukha (2006) e Feldman e Banca di Sloviansk (2017) –. Nel corso degli anni, i progetti di riforma relativi al sistema giudiziario, al Csm, al procedimento disciplinare, al sistema di formazione, ai meccanismi per la valutazione di professionalità dei magistrati presentati dalle autorità ucraine, sono stati in significativa misura guidati dalle indicazioni, risoluzioni e raccomandazioni del Segretariato del CdE e del CMDH (comunicazioni e piani d’azione del Governo, comunicazioni di organizzazioni non governative, decisioni del CMDH sono tutte consultabili online sul sito delle esecuzioni – si veda, alla voce «HUDOC EXEC»: www.coe.int/en/web/execution).

Merita sottolineare che le riforme adottate in Ucraina sono anche il risultato del supporto della Commissione di Venezia e della cooperazione con il Consiglio d’Europa attraverso il progetto «Support to the implementation of the judicial reform in Ukraine».

4. Indipendenza e imparzialità dei sistemi giudiziari, Stato di diritto e abuso di potere

L’art. 18 Cedu è posto a baluardo contro l’uso distorto delle limitazioni ai diritti e alle libertà convenzionali, pur previste dagli artt. 5 e 8-11, e in generale contro limitazioni imposte per finalità diverse da quelle previste dalla Convenzione.

Se si riflette sulla funzione strumentale all’attuazione dei diritti sostanziali delle norme processuali e sul ruolo della magistratura nell’applicazione di queste norme, emerge con chiarezza la possibilità che, attraverso regole di procedura e discipline dello status del magistrato pur formalmente ineccepibili, siano perseguite finalità contrastanti con la protezione dei diritti umani, finanche inderogabili. In questa prospettiva, resa particolarmente realistica dalle evoluzioni ordinamentali di alcuni Paesi del Consiglio d’Europa e dell’Unione europea, l’art. 18 offre alla Corte un prezioso strumento per comprendere e colpire quelle riforme che, incidendo sulla nomina, sulla carriera o sulla destituzione del giudice ovvero riducendo l’area del controllo giudiziario su atti (in specie, di polizia) limitativi delle libertà fondamentali, di fatto riducono la protezione dei diritti umani convenzionalmente garantiti.

L’applicazione dell’art. 18 è ancora limitata nella giurisprudenza della Corte (una sintesi efficace ne è fornita nella «Guida» predisposta dall’Ufficio del giureconsulto della medesima), ma se ne possono già valutare le potenzialità nonché i profili problematici.

La sentenza Merabishvili c. Georgia [GC], ric. n. 72508/13, 28 novembre 2017 (un caso in cui il ricorrente, ex-Primo ministro divenuto capo dell’opposizione, denunciava l’uso politico e per fini distorti della detenzione preventiva, in particolare allo scopo di escluderlo dalla scena politica), contiene un approfondito excursus della giurisprudenza della Commissione e della Corte, l’enucleazione dei punti da chiarire, la fissazione di principi tendenzialmente consolidati. La sentenza è complessa e, in questa sede, non si può che rinviare alla sua lettura, limitandosi a sintetizzarne alcuni approdi, senza pretesa di esaustività.

Sull’applicazione dell’art. 18, la Corte precisa che:

«come l’art. 14, l’art. 18 non ha un campo di applicazione indipendente e autonomo; esso può essere applicato solo in combinato disposto con un articolo della Convenzione o dei suoi protocolli che enuncia uno dei diritti e delle libertà che le Alte Parti Contraenti si sono impegnate a riconoscere alle persone che rientrano nella loro giurisdizione o che definisce le condizioni alle quali tali diritti e libertà possono essere derogati; peraltro, la norma non si limita a chiarire la portata delle clausole restrittive, ma vieta espressamente alle Alte Parti Contraenti di limitare i diritti e le libertà convenzionali per scopi diversi da quelli previsti dalla Convenzione stessa; in tal senso, essa ha un campo di applicazione autonomo; l’esame separato di una richiesta ai sensi di questa disposizione è giustificato solo se l’allegazione che una restrizione è stata imposta per uno scopo non convenzionale si rivela un aspetto fondamentale del caso; le ipotesi di finalità legittime per le quali gli artt. 8-11 della Convenzione consentono di interferire con l’esercizio dei diritti che garantiscono sono tassative; le finalità e le motivazioni legittime, pur essendo tassativamente previste, sono definite e interpretate dalla Corte con ampia flessibilità, concentrandosi principalmente sulla questione, strettamente connessa all’esistenza di una finalità legittima, se la restrizione sia necessaria o giustificata, vale a dire se sia basata su motivi pertinenti e sufficienti e se sia proporzionata alle finalità o ai motivi per i quali è autorizzata. Tali finalità e motivazioni costituiscono i criteri per valutare la necessità o la giustificazione della restrizione; una restrizione può essere compatibile con la disposizione della Convenzione che la autorizza se persegue uno degli scopi previsti da tale disposizione e, allo stesso tempo, essere contraria all’art. 18 in quanto persegue principalmente un altro scopo non previsto dalla Convenzione, vale a dire perché emerge uno scopo diverso predominante – viceversa, se lo scopo previsto dalla Convenzione è lo scopo principale, la restrizione non viola l’art. 18, pur perseguendo anche un altro scopo; la predominanza di uno scopo dipende da tutte le circostanze del caso; nella sua valutazione al riguardo, la Corte terrà conto della natura e del grado di riprovevolezza della presunta finalità non convenzionale. Essa terrà, inoltre, presente che la Convenzione è intesa a salvaguardare e promuovere gli ideali e i valori di una società democratica governata dallo Stato di diritto» (tdA).

Tale essendo la portata applicativa della norma, il punto critico diviene quello della prova del fine distorto e cioè dell’abuso di potere.

Il caso Birsan c. Romania (ric. n. 79917/13, 25 febbraio 2016) riguardava la perquisizione illegittima nell’abitazione dei ricorrenti, un giudice della Corte Edu protetto da immunità e la moglie, giudice della Corte di cassazione rumena, accusata di traffico di influenze illecite (trafic d’influence). I due avevano allegato che, attraverso la perquisizione, era stato perseguito un fine non convenzionale. Nella sentenza, la seconda sezione affermava:

«[V]a ricordato che gli Stati godono di una presunzione di buona fede [Tymoshenko (...), § 294] e che, sebbene tale presunzione non sia inconfutabile, il semplice sospetto che le autorità si siano rese colpevoli di abuso di potere non è sufficiente a rovesciarla (...). Il ricorrente, che invoca l’art. 18, deve essere in grado di fornire prove dirette e incontestabili a sostegno delle sue affermazioni [OAO Neftyanaya Kompaniya Yukos c. Russia (...); cfr. anche, in particolare, Khodorkovskiy c. Russia (...), §§ 255-256 e 260, e Khodorkovskiy e Lebedev c. Russia (...), §§ 899 e 903)]. Tuttavia, i richiedenti non forniscono alcuna prova che suggerisca che le autorità (...) abbiano abusato della loro autorità applicando una restrizione autorizzata dalla Convenzione per uno scopo diverso da quello per cui è stata concepita» (tdA, corsivo aggiunto).

In Merabishvili c. Georgiamuta la prospettiva. La Corte afferma che devono essere seguite le regole ordinarie di prova (negando implicitamente l’esistenza di quella presunzione che pure ha base nel Trattato istitutivo del Consiglio d’Europa), che così descrive:

« a) l’onere della prova non ricade su nessuna delle due parti, in quanto la Corte Edu esamina tutti gli elementi di prova in suo possesso, indipendentemente dalla loro provenienza, e, se necessario, ottiene d’ufficio altre prove; b) non è possibile applicare rigidamente il principio affermato della incumbit probatio, secondo il quale l’onere della prova di un’accusa incombe sulla parte che la sostiene, soprattutto quando il ricorrente ha difficoltà al reperimento della prova medesima; c) sebbene si basi su prove che le parti producono spontaneamente, la Corte chiede regolarmente ai ricorrenti e ai governi convenuti di fornire prove che possano corroborare o confutare le accuse formulate dinanzi a essa. Se il governo convenuto non risponde alla richiesta, la Corte non può obbligarlo, ma se non spiega in modo soddisfacente il suo rifiuto, può trarne le conclusioni; d) lo standard di prova utilizzato è quello della prova “oltre ogni ragionevole dubbio”. Tuttavia, questo criterio non coincide con quello utilizzato in alcuni sistemi giuridici nazionali. In primo luogo, tali prove possono risultare da un corpus di indizi o di presunzioni che sia sufficientemente serio, accurato e coerente. In secondo luogo, il grado di certezza necessario per giungere a una conclusione è intrinsecamente legato alla specificità dei fatti, alla natura delle accuse formulate e al diritto convenzionale in questione; e) la Cor