Il futuro dell’Unione europea: democrazia e rule of law
Il convegno affronta una tematica di un’importanza cruciale e decisiva per il futuro dell’Unione dei suoi Stati membri.
Stiamo attraversando una fase politico-istituzionale nella quale sono emersi fattori decisamente preoccupanti, che rischiano di minare alle fondamenta le basi stesse dello Stato costituzionale di diritto; si tratta di tendenze che non riguardano solo alcuni Paesi dell’Unione europea da anni oggetto di attenzione (si pensi, in particolare, all’Ungheria e alla Polonia), ma anche Stati che un tempo erano definiti “democrazie stabilizzate”, nei quali si assiste all’adozione di atti normativi che non possono non sollevare gravi interrogativi, critiche e preoccupazioni.
In questo senso, indicazioni di grande interesse emergono dalla relazione sullo Stato di diritto riferita al 2023, nella quale si afferma che «lo Stato di diritto affianca la democrazia e i diritti fondamentali come valori fondanti dell’Unione. Comune a tutti gli Stati membri, esso costituisce un fondamento dell’identità dell’Unione ed è un fattore centrale per la stabilità politica e la prosperità economica dell’Europa».
I dati relativi all’Italia sono contenuti nell’apposito capitolo alla relazione, nella quale sono indicati problemi che, purtroppo, non appaiono centrali nel dibattito politico o appaiono affrontati in modo pericolosamente generico o demagogico.
Si pensi, solo per citare alcuni esempi, a tematiche come quella dell’efficacia del sistema giustizia, a fronte di continue riforme che hanno generato, per alcuni profili, una caotica successione di norme e di istituti che stanno mettendo a repentaglio la certezza stessa del diritto. Sullo sfondo vi sono, poi, le problematiche dell’indipendenza della magistratura, con riferimento allo statuto costituzionale del pubblico ministero e alle modalità di designazione dei componenti del Csm, che potrebbero essere oggetto nell’immediato futuro di proposte di revisione costituzionale presentate dal Governo.
Con riferimento ai mezzi di comunicazione, credo sia sufficiente evidenziare quanto affermato nella sintesi premessa al capitolo. Pur dando atto di un assetto normativo definito solido ed efficace, si evidenzia che «esiste un quadro giuridico per la protezione dei giornalisti, ma essi continuano a subire diverse forme di intimidazione, quali attacchi, minacce e molestie, anche online. In particolare, l’aumento del numero di azioni legali strategiche tese a bloccare la partecipazione pubblica nei confronti dei giornalisti preoccupa diversi portatori di interessi. È stata avviata una riforma relativa al regime della diffamazione e alla protezione del segreto professionale e delle fonti giornalistiche».
Nel capitolo relativo al nostro Paese, si fa riferimento alla normativa anticorruzione, anch’essa oggetto prima di interventi animati da una ratio di contrasto assai radicale e, per questo, non priva di aspetti discutibili (si pensi alla legge cd. “spazzacorrotti” e ai suoi eccessi, soprattutto quanto alla disciplina penalistica) e poi di interventi correttivi animati da una ratio diversa, se non opposta.
Si parla altresì di finanziamento ai partiti e della disciplina delle donazioni: a distanza di dieci anni dall’entrata in vigore del dl n. 149/2013, vi è da chiedersi quale sia il rendimento istituzionale di una normativa che, eliminando la contribuzione diretta alle forze politiche, ha finito per consegnarle a un sistema di finanziamento privato, con tutti i limiti conseguenti. Questa considerazione non intende in alcun modo rimpiangere la disciplina pregressa, che presentava aspetti a sua volta assai discutibili: tuttavia, anziché correggere le storture di un modello di finanziamento pubblico fatto proprio dalla normativa pregressa, il legislatore, in preda a suggestioni demagogiche, ha assecondato un “salto di corsia” che ha finito per indebolire ancora di più il già fragile e autoreferenziale sistema politico nel nostro Paese.
L’allegato allude poi alla disciplina dei conflitti di interesse, in ordine alla quale la legge Frattini ha mostrato tutta la sua inadeguatezza, mentre anche con riferimento ai codici di condotta adottati da Camera e Senato sussistono non pochi dubbi circa la loro efficacia. Manca, inoltre, ancora una legge organica sul fenomeno del lobbying.
Infine, anche con riferimento all’ultima parte dell’allegato, intitolata «Altre questioni istituzionali relative al bilanciamento dei poteri», emergono alcune gravi criticità.
Manca, in particolare, una strategia tesa a favorire strumenti di partecipazione dei cittadini alle decisioni pubbliche (anche avvalendosi di strumenti tecnologici), che risulterebbero utili soprattutto in una stagione di elevato astensionismo elettorale.
Particolarmente grave appare poi il fatto che, al 1º gennaio 2023, l’Italia doveva ancora dare esecuzione a 59 sentenze-guida della Corte europea dei diritti dell’uomo (una in più rispetto all’anno precedente).
Ciò detto, la relazione sullo Stato di diritto evidenzia criticità più o meno diffuse anche negli altri Paesi dell’Unione, pur dando atto anche dei miglioramenti che, soprattutto in alcuni settori, sono riscontrabili.
Come è scritto nell’art. 2 del TUE, «L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini».
Questi principi costituiscono il DNA dell’Unione e, si potrebbe dire, la ragione stessa della sua esistenza. Ma tali principi debbono essere perseguiti parallelamente anche dagli Stati membri.
Stato di diritto e rule of law costituiscono infatti due pilastri fondamentali. In questo senso, è di importanza cruciale una seria riflessione sulle criticità (non poche) e sulle sfide aperte alla vigilia delle prossime elezioni europee.
Purtroppo, è assai probabile che questi temi non saranno affrontati dalle diverse forze politiche in campagna elettorale. Vi è infatti – e non da oggi – la tendenza e, insieme, la tentazione di concepire le elezioni europee come consultazioni di “secondo ordine”, nelle quali cioè si tende a misurare il consenso delle forze politiche in un’ottica puramente nazionale, discutendo di tematiche interne ai singoli Paesi. In proposito, paradigmatica mi pare la scelta di non pochi leader del nostro Paese di candidarsi alle europee, ben sapendo che non andranno mai a ricoprire la carica di parlamentare europeo.
In tal modo, rimarranno sullo sfondo le sfide che l’Unione europea dovrà affrontare anche sul terreno di una auspicabile riforma della sua architettura istituzionale.
Viceversa, occorrerebbe un serio dibattito sul futuro delle istituzioni europee, non animato da una fredda ingegneria istituzionale, ma impostato a partire dalle sue radici, efficacemente sintetizzate nel preambolo al Trattato UE, nel quale si allude alle «eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa, da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e dello Stato di diritto».