Magistratura democratica
Magistratura e società

Presentazione del volume “Prima che tutto torni buio”, di Nicola Curzio

di Daniele Colucci
consigliere della corte d'appello di Napoli

La presentazione del volume di Nicola Curzio, edito da Laterza, tenutasi a Capri, Sala comunale Pollio, il 13 ottobre 2023

E’ un grande onore per me trovarmi nella splendida cornice di Capri a parlare del testo di Nicola Curzio, dinanzi ai suoi genitori, Magistrati di altissimo profilo, vanto ed esempio per l’ordine giudiziario, e a tanti autorevoli Colleghi.

Io, essendo un po’ barese di adozione, sapevo dell’attività di critico cinematografico di Nicola sin da quando era in vita, ma non lo avevo mai seguito, non lo conoscevo di persona e di lui non avevo letto alcunché. Approcciarmi ora alla sue raffinate elaborazioni mi ha lasciato stupefatto, per la pregnanza dei contenuti e per gli orizzonti culturali che si sono aperti in chi, come me, fa un mestiere che approda su tutt’altri lidi, ove è sempre molto concreto il pericolo del tecnicismo che stronca l’humanitas.

Leggendo l’antologia di Nicola mi è sorto spontaneo un accostamento, ardito ma prepotente nella mia immaginazione, tra la sua figura e quella di Piero Gobetti. Probabilmente sono stato un po’ condizionato dal fatto che si tratta di due giovanissimi e brillanti intellettuali, entrambi troppo prematuramente strappati, pur in modi e contesti diversi, alla vita. Ma la mia comparazione è stata certamente indotta anche dall’avvertire un comune confluire nell’impegno civile di una critica lato sensu letteraria, teatrale per Gobetti (si, è stato anche un eccellente critico teatrale), cinematografica per Nicola.  

Piero e Nicola sono separati da circa un secolo, ma il diverso contesto storico-culturale non impedisce di unirli nel fluire del tempo, che non si manifesta solo come fatto fisico, ma anche come ripercorrere e riprodurre sensibilità e sentimenti di fronte al mai risolto mistero dell’uomo.

Il filo conduttore del pensiero critico di Nicola è a mio avviso ravvisabile proprio nel concetto di “tempo”.

Partiamo dalla definizione che del “tempo” ci offre lui stesso, nella sua tesi maturità del 2007, al Liceo Quinto Orazio Flacco di Bari, intitolata: Quid est tempus? (riportata nella postfazione del libro): «Ogni espressione del pensiero umano, sul piano artistico, letterario, scientifico, è stata sempre segnata dalla ricerca del senso del tempo; e se nelle opere di taluni il problema è stato affrontato direttamente, in quelle di altri può comunque cogliersi come sotteso: niente e nessuno può sfuggire al tempo. E nessuno ancora oggi è riuscito a definire il tempo in maniera assoluta e razionale, forse perché, così facendo, l’uomo scoprirebbe ciò che più di ogni altra cosa desidera sapere: il significato della sua esistenza».

Può sembrare una riflessione di un amaro sapore autobiografico ante litteram, in realtà Nicola si riallaccia alle più preganti riflessioni del pensiero del novecento, specificamente sul cinema, da Henry Bergson a Gille Deleuze.

Per quest’ultimo, grande filosofo del seconda metà del novecento, i cineasti “sono paragonabili a pensatori, più che ad artisti”, laddove le loro valutazioni superano il concetto fisico del tempo. Diceva Deleuze: «Quando il cinema fa la sua rivoluzione kantiana, quando cioè cessa di subordinare il tempo al movimento… allora l’immagine cinematografica diviene un’immagine-tempo, un’autotemporalizzazione dell’immagine».

Già nei primi anni del Novecento, Henri Bergson individua nel cinema una conferma della propria concezione del tempo come «durata reale», vale a dire come un continuum la cui realtà è irriducibile alla pura e semplice traduzione geometrica del tempo misurato dagli orologi.

Emergono, allora, nella stessa narrazione del e sul cinema, due idee del tempo.

Da un lato vi è la tradizionale, per noi illusoriamente più scontata, immagine del chronos, la cui caratteristica fondamentale, secondo Anassimandro, sarebbe la taxis, la capacità ordinatrice, l’imposizione di un ordine, al quale nessuna cosa in divenire può sottrarsi. Un tempo lineare e irreversibile.

A essa si affianca e contrappone il “sempre-essente”, secondo la definizione di Eraclito, per il quale il tempo esprime la durata indifferente al mutamento, l’eterna permanenza nel sempre uguale, la virtuale percorribilità in ogni direzione, senza alcun andamento prestabilito. Il tempo come incessante divenire caratterizzato da mancanza di una direzionalità univoca, dunque come possibilità di ripercorrere più volte a ritroso lo stesso percorso.

Il cinema, in tale contesto, diviene una parafrasi della coscienza e non è un caso che il termine “proiezione”, tipicamente cinematografico, venga dalla psicoanalisi, nella sua derivazione latina di “proicere”, “gettare avanti”, uno spazio-tempo che oltrepassa la corporeità. Nell’opera cinematografica il tempo è infatti qualitativo, più che quantitativo, non obbedisce rigidamente alla irreversibilità, non è irrevocabilmente incasellato in dimensioni fra loro nettamente distinte. Esso si contrae o si dilata, appare più “lungo” o più “breve”, a seconda delle circostanze e degli stati d’animo. Allo stesso modo, è possibile che passato e futuro si rovescino l’uno nell’altro, in una struttura circolare nella quale è impossibile distinguere nettamente l’inizio dalla fine, come non a caso avviene in numerosi film, paradigmaticamente in Pulp Fiction.

D’altronde, vi è un altro gigante del pensiero del novecento, Emmanuel Levinas, che in un diverso ambito pone un altrettanto originale rapporto tra umanità e temporalità, ove il lasso di tempo “diacronico” è un tempo che “eviene” tra noi e gli altri, al tempo degli orologi si contrappone il “frattempo”.

Nicola, dunque, rende centrali, nella sua dotta speculazione intellettuale espressa nella raccolta di scritti di cinema: Prima che tutti torni buio, il richiamo e la ricerca di un senso originale e diverso dello scorrere del tempo. E’ una tensione ricavabile in ogni recensione, di un film come di un libro sul cinema, e in ogni intervista o incontro curati da Nicola.

Vediamo, allora, alcuni passaggi, ove talvolta la tensione della ricerca del senso del tempo si intreccia anche con una marcata passione civile. E il suo messaggio è proprio quello di una rappresentazione cinematografica che ci consegna il trionfo di una diacronia, che può diventare profezia e sensibilità premonitrice, in un’era che sembra segnata dalla scacco della sincronia.

La nostra pandemia da Coronavirus è del 2020, prima alcuno immaginava un evento del genere, capace di bloccare la vita dell’umanità, pensavamo fossero evenienze legate a un passato non ripetibile.

Nicola recensisce nel 2015 il film Ananke, di Claudio Romano, che parla di un presente apocalittico, in cui l’umanità rischia l’estinzione proprio a causa di un’epidemia. Una coppia dopo un lungo vagare trova rifugio in un villaggio, nutrendosi con il latte di una capretta, di nome Ananke, che nell’antica Grecia era la Dea del destino. Osserva Nicola, agganciandosi a un riflessione di Marc Augé: «Non è un caso che i due protagonisti trovino rifugio in una costruzione in rovina: la vista delle rovine ci fa fugacemente intuire l’esistenza di un tempo che non è quello di cui parlano i manuali di storia o che i restauri cercano di richiamare in vita. E’ un tempo puro, non databile, assente da questo nostro mondo di immagini, di simulacri, e di ricostruzioni, da questo mondo violento le cui macerie non hanno più il tempo di diventare rovine. Un tempo perduto che l’arte riesce a ritrovare».    

Ancora più sconvolgente, per come il messaggio di Nicola in tal caso fenda il tempo e ci risulti rivolto oggi, e intendo oggi non genericamente come il tempo presente, ma proprio come queste settimane terribili che stiamo vivendo, è l’immagine che della guerra ci fornisce e raccoglie nell’intervista  del 2014 a Shinya Tsukamoto, regista del film, Nobi, nella versione occidentale Fires on the plain, in cui si racconta la storia di Tamura, soldato giapponese che nel 1945, a guerra finita, vaga in una dimensione senza spazio e senza tempo nelle Filippine, teso solo a tornare in patria. Sottolinea Nicola che si tratta di «un film di guerra anomalo perché il punto di vista è quello degli aggressori, di chi perpetra la violenza», ottenendo una risposta che esprime  un’astrazione dal tempo fisico, in realtà da tutto l’ambiente, anche geopolitico, circostante e al contempo una chiave di lettura dei conflitti che stiamo vivendo, dall’Europa al Medio Oriente: «Solitamente vediamo al cinema gente cattiva e gente buona, e in genere ci schieriamo dalla parte dei buoni che lottano contro i cattivi; ma se continuiamo a pensarla in questo modo, allora la guerra non finirà mai e andrà avanti ancora a lungo. In questo film ho voluto creare una situazione differente, dove un uomo si ritrova semplicemente solo e non capisce più chi siano i suoi nemici, da dove provengano, del perché vi siano queste bombe, chi sia a dare gli ordini, chi sia a comandare. Lui semplicemente si ritrova in questo luogo, senza capire cosa sta facendo e cosa sta accadendo intorno a lui».

Nicola utilizza la sua originale dimensione della storia, nel 2016, parlandoci di Medee Miracle, il film di Tonino De Bernardi, ove è invece la controfattualità a sconvolgere il tempo. Il mito di Medea (qui Irene Medea) viene riproposta in chiave contemporanea, la Colchide diventa la Romania, Corinto diviene una Parigi recente. In questa versione Medea non compie alcun infanticidio, si dona totalmente agli altri, rinunciando a Giasone e a ogni pretesa egoistica. Osserva, e mai presente appare più appropriato, Nicola: «Il film di De Bernardi si presta a diverse letture. Il mito di Medea cela al suo interno una profonda riflessione sulla figura dell’altro, dello straniero, e sul pregiudizio di cui spesso quest’ultimo è vittima. Medea – che è alterità per eccellenza: donna, sapiente, straniera – divine il capro espiatorio contro di cui si scaglia una società razzista e intollerante. Alla luce dell’odierno quadro sociopolitico europeo, Medee Miracle - realizzato nel 2007, assume una valenza tragicamente premonitrice». E conclude: «L’Europa deve aprirsi al mondo altrimenti le sue acque e le sue terre si macchieranno di sangue più di quanto non lo siano già. In questo senso il film di De Bernardi è di un’attualità sconcertante. La scena di Irene Medea davanti al giudice che le nega l’affidamento dei figli e le intima di tornarsene nel suo paese palesa esattamente questo. La Francia (l’Europa intera) si rifiuta di essere colonizzata in quanto paese storicamente (divinamente?) colonizzatore».

Un’originale narrazione del tempo traspare poi in Ventos de Agosto, del regista brasiliano Gabriel Mascaro. E’ la storia di due ragazzi, Shirley e Jeison, che si ritrovano nel pieno delle tempeste tropicali in un piccolo villaggio costiero e si innamorano. Osserva Nicola, nella sua recensione del 2014: «Il Mare e la terra, in Ventos de Agosto, sono i due poli entro cui si dimena quella forza invisibile e selvaggia, che attraversa e consuma l’immagine, e che il regista sogna di catturare: la forza trainante del vento. Territorio di confine  (e di passaggio) tra questi due luoghi è la spiaggia, dove si erge un piccolo cimitero dal quale ricompaiono i morti, disseppelliti dalla onde e scompaiono i vivi, inghiottiti dalle maree. Motore dell’azione è proprio il vento che porta con sé la vita e la morte». 

La critica di Nicola, allora, qui ci consegna una temporarizzazione degli eventi che si snoda in un intreccio senza sbocchi tra la perdita e la memoria, tra la il vento e il mare, che in ultima istanza culmina in un duello tra la vita e la morte, che da un lato sembra rappresentare una cifra premonitrice del drammatico destino che lo attendeva, dall’altro esprime quella ricerca del tempo non meramente o banalmente fisico e che oggi continua a farci dialogare con Nicola, perché noi e lui siamo parte di un unico ingranaggio dell’esistenza e dell’esistente, che mai si esaurisce e ciclicamente si riproduce.

E la replica infinita dell’essere è la dimensione al centro della recensione di Nicola, del 2017, del libro Metamorfosi dei corpi mutanti, dell’architetto e critico cinematografico romano Alessandro Cappabianca, che, partendo da due pellicole (L’uomo lupo di George Waggner del 1941 e il suo remake Wolfman di Joe Johnston del 2010), si avventura in un interessante percorso tra creature cinematografiche e la loro propensione a "divenire altro". Scrive Cappabianca nel libro: «La prima metamorfosi operata dal cinema è quella di trasformare i corpi in spettri senza volume, capaci di riapparire anche dopo la propria morte e condannati a ripetere gli stessi gesti». Qui si inserisce la critica di Nicola, che ancora una volta puntualmente contiene il richiamo a una dimensione del tempo che sconfigge la morte, pur delineandoci il carattere talvolta illusorio della vita: «Il cinema ha il potere di assicurare la sopravvivenza assoluta, a patto però di rendere i soggetti filmati dei simulacri  e di costringerli a un’infinita reiterazione di pose, battute, espressioni, movenze, qualcosa che deriva in primo luogo dalla natura meccanica del mezzo cinematografico. Tale condizione, tuttavia, non implica necessariamente la mera riproposizione dell’identico: pur nella ripetizione...il film può comunque divergere, essere altro da sé. Tutto dipende ... dalla pregnanza del testo, dalla sua verità. Un gesto è vero quando ha la capacità di aprirsi, restando identico … In questo oceano ormai sconfinato, le immagini si riproducono continuamente, e così sopravvivono. Dal finale emergono figure già viste in precedenza, sebbene appaiono spesso mutate nelle forma». Nicola poi, sollecitato dal testo, si addentra anche in meandri nuovi, al di là del dualismo del tempo che intreccia e confonde la vita e la morte. Con l’avvento dell’elettronica hanno fatto irruzione nel cinema soggetti creati elettronicamente, al computer, forse di per sé insensibili o diversamente sensibili al tempo. Dice Nicola: «Uno scenario invero sempre più comune. Anche in questo caso ci troveremmo di fronte a dei simulacri? Simulacri di cosa esattamente? Che poi, in fondo, è un altro modo per chiedersi: ma gli androidi sognano pecore elettriche?».

E’ un’analisi amara, che mette in crisi la stessa dimensione dell’uomo, che in ultima istanza allontana dalla ricerca del senso del tempo, perché il cinema è comunque legato all’uomo in carne e ossa, deve avere la «capacità di raccontare il dolore e la solitudine, l’ineluttabilità del tempo , la ricerca del senso» (così Nicola nella recensione, del 2013, de A vida invisivel, di Vitor Gonçalves).

E’ questo, per Nicola, anche l’essenza del messaggio di Inherent Vice, film di Paul Thomas Anderson, che recensisce nel 2015. Shasta Fey chiede aiuto a Larry Doc Sportello, suo ex, per prevenire un complotto contro il suo attuale amante. In esso «torna non il passato ma la sua immagina fantasmatica. Qualcosa cioè che appartiene tanto al ricordo quanto all’immaginazione e che sulla tela dello schermo cinematografico prende forma, si definisce, diventa presente: una dolce (meccanica) illusione, provocata e sostenuta da un desiderio che si mimetizza nel sottobosco della narrazione… memoria e fantasia si confondono nell’affabulazione di un racconto….Inherent Vice è un film sullo scorrere del tempo. Eppure non c’è modo di evitare il tempo, il mare del tempo, il mare del ricordo e della dimenticanza… così fluisce la vita, e ciò che resiste è la nostalgia, desiderio di tornare. Nel finale, lo sguardo illuminato di Doc sembra anticipare l’arrivo del vuoto, mentre un’espressione indecifrabile gli compare sul volto: il ricordo segna l’eternità di un momento. Un’ultima immagine di noi due soli, insieme, PRIMA CHE TUTTO TORNI BUIO e quel che resta sia solamente il rumore del mare». 

Ci sarebbe ancora molto da commentare, ogni raccolta dell’antologia presenta spunti diversi e originali, pur nel filo conduttore della ricerca del senso del tempo.  Posso dire che leggere Prima che tutti torni buio mi ha commosso, per la profondità dei suoi contenuti culturali e perché mi ha fatto dialogare, cosa che capita solo quando la narrazione incrocia e cattura l’emozione, con il suo autore, per me diventato un caro amico. E grazie a quanto ho da lui imparato sul senso della vita e della morte nello scorrere del tempo, so che Nicola non è andato via, visto che la nostra amicizia è iniziata proprio ora. Cogliendo «l’eternità di un momento, PRIMA CHE TUTTO TORNI BUIO».

16/12/2023
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