Magistratura democratica

Conflitti “a bassa intensità” e protezione complementare

di Martina Flamini

Il tema dei conflitti cd. “a bassa intensità” verrà esaminato attraverso l'analisi delle posizioni della giurisprudenza – di merito e di legittimità – per interrogarsi sulla rilevanza di tale condizione, relativa al Paese di origine dei richiedenti asilo, ai fini del riconoscimento della protezione complementare. Particolare attenzione verrà poi dedicata ai  profili dell’onere di allegazione e all’interferenza tra i predetti conflitti e la violazione grave e sistematica dei diritti umani.

1. Premessa / 2. I cd. conflitti “a bassa intensità” / 2.1. I conflitti a bassa intensità nella giurisprudenza di legittimità / 2.2. La giurisprudenza di merito sui conflitti a bassa intensità e sulla rilevanza delle violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani nel Paese d’origine nella nuova protezione speciale / 2.3. Il caso dell’Egitto / 3. L’allegazione relativa al rischio determinato dal conflitto armato a bassa intensità o dalla violazione grave e sistematica dei diritti umani / 4. Questioni aperte

 

1. Premessa

«La ratio della protezione umanitaria rimane quella di non esporre i cittadini stranieri al rischio di condizioni di vita non rispettose del nucleo minimo di diritti della persona che ne integrano la dignità di individuo»[1].

Le parole della Suprema corte, la riconducibilità del diritto alla protezione complementare alla categoria dei diritti umani fondamentali[2] e l’impossibilità di predeterminare le ragioni che ne giustificano il riconoscimento[3] rendono evidente l’esigenza di interrogarsi sulla possibilità di dare rilievo, ai fini di tale forma di protezione, anche alle condizioni del Paese d’origine del richiedente protezione, laddove le stesse si caratterizzino per una situazione di conflitto (di intensità minore rispetto a quello che giustifica il riconoscimento della protezione sussidiaria) o di grave violazione dei diritti umani. In entrambi i casi, infatti, i conflitti esistenti nell’area di provenienza della ricorrente o del ricorrente possono influire sul godimento dei diritti umani a causa dell’esposizione e della vulnerabilità delle persone nonché sulla capacità, possibilità e volontà dello Stato di fornire protezione. 

In particolare, gli effetti negativi dei conflitti, sebbene a bassa intensità[4], possono esacerbare la violenza o, viceversa, la violenza esacerbare tali effetti, rendendo in entrambi i casi lo Stato incapace di proteggere le vittime di tale violenza[5]. Molti di quelli definiti “conflitti congelati”, inoltre, manifestano un’alta propensione a ricadere in vere e proprie guerre civili, tendono a cristallizzare formazioni politiche definite come regimi “ibridi”, nei quali coesistono istituzioni spesso parastatali, manifestamente corrotte, e criminalità organizzata…

Nelle «Linee-guida in materia di protezione internazionale n. 12»[6], l’Alto commissariato delle Nazioni Unite – con considerazioni che ben possono essere tenute ferme anche nella valutazione del rischio in caso di cd. conflitti a bassa intensità – ha sottolineato come, nella valutazione del rischio, sia importante tenere in considerazione «il carattere mutevole di molte delle attuali situazioni di conflitto armato e di violenza» e i frequenti cambiamenti nel livello di violenza.

Tali elementi non possono che assumere una forte rilevanza anche ai fini della valutazione della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione complementare. 

Nel presente contributo ci si soffermerà, in particolare, sulle posizioni della giurisprudenza di merito e di legittimità relative alla rilevanza di quei conflitti che, per semplicità, chiameremo a bassa intensità, ai fini del riconoscimento della protezione complementare, per poi esaminare le questioni relative ai profili dell’allegazione e all’interferenza tra i predetti conflitti e la violazione grave e sistematica dei diritti umani.

 

2. I cd. conflitti “a bassa intensità”

Di conflitto “a bassa intensità” si parla quando, esclusi i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria ex art. 14, lett. c, d.lgs n. 251/2007[7], si accerti, all’esito dell’esercizio dei poteri-doveri di cooperazione istruttoria, una situazione di conflitto nel Paese d’origine del ricorrente che non soddisfa i requisiti previsti dalla norma citata. 

Al fine di integrare la fattispecie in esame, è necessaria la concomitante presenza di diversi elementi, quali (1) l’esistenza, nel luogo di eventuale rimpatrio, di un conflitto armato, sia esso di natura interna o internazionale, da cui deriva (2) una situazione di violenza indiscriminata, tale per cui (3) un civile risulti esposto a un rischio effettivo di danno grave e individuale alla vita e alla persona, in ragione della sua presenza nel territorio in questione. 

Con riferimento al primo elemento, la Corte di giustizia, chiamata a esprimersi sull’interpretazione di «conflitto armato» e sull’applicabilità o meno della definizione comunemente utilizzata nell’ambito del diritto internazionale umanitario, con la sentenza Diakité del 30 gennaio 2014, C-285/12, al par. 28 ha chiarito che:

«si deve ammettere l’esistenza di un conflitto armato interno, ai fini dell’applicazione di tale disposizione, quando le forze governative di uno Stato si scontrano con uno o più gruppi armati o quando due o più gruppi armati si scontrano tra loro. Senza che sia necessario che tale conflitto possa essere qualificato come conflitto armato che non presenta un carattere internazionale ai sensi del diritto internazionale umanitario e senza che l’intensità degli scontri armati, il livello di organizzazione delle forze armate presenti o la durata del conflitto siano oggetto di una valutazione distinta da quella relativa al livello di violenza che imperversa nel territorio in questione». 

Rigettando, perciò, l’approccio seguito dal diritto internazionale umanitario, la sentenza in esame ha fornito indicazioni sugli elementi necessari a qualificare una esistente situazione di scontro come conflitto armato: è infatti necessario l’accertamento dell’esistenza di una contrapposizione armata tra due o più parti, rappresentate dalle forze dello Stato e gruppi armati o due o più gruppi armati operanti nel territorio e tra loro contrapposti[8]

Se la verifica del coinvolgimento delle forze armate dello Stato appare più evidente e immediata e generalmente non richiede ulteriore interpretazione, la definizione della Corte di giustizia permette ulteriori considerazioni sulla natura del secondo attore coinvolto, ossia il gruppo armato. L’allontanamento dai criteri propri del diritto internazionale umanitario implica il parallelo rifiuto di un approccio secondo cui il conflitto armato può essere qualificato come tale solo laddove raggiunga una determinata soglia di intensità o durata, o coinvolga gruppi armati con un preciso livello di struttura e organizzazione, lasciando al singolo organo giudicante il compito di elaborare ulteriormente le indicazioni fornite dalla Corte e applicarle al singolo caso in esame.

L’esistenza di un conflitto armato nel territorio di eventuale rientro del richiedente protezione deve, in ogni caso, essere integrata dalla simultanea presenza di un contesto di violenza generalizzata, sulla cui interpretazione la Corte di giustizia ha fornito indicazioni nella sentenza Elgafaji[9], chiarendo innanzitutto, al par. 34, che la «violenza in questione all’origine della minaccia» può essere qualificata come «indiscriminata», nei casi in cui essa si «estenda ad alcune persone a prescindere dalla loro situazione personale». 

L’elemento di “individualità” del rischio riguarda invece la situazione per cui, in ragione della gravità degli scontri e del livello di violenza raggiunto, la sola presenza della persona sul territorio, a prescindere dalla propria identità, la esporrebbe a una grave minaccia (Elgafaji, par. 35). 

Resta salva la possibilità che la protezione sia accordata anche in presenza di minore gravità della violenza, quando ricorrano i presupposti per l’applicazione della principio della cd. “scala progressiva”, in base al quale «tanto più il richiedente è eventualmente in grado di dimostrare di essere colpito in modo specifico a motivo di elementi peculiari della sua situazione personale, tanto meno elevato sarà il grado di violenza indiscriminata richiesto affinché egli possa beneficiare della protezione sussidiaria» (Elgafaji, punto 39; sentenza Diakité, punto 31).

Nella successiva sentenza del 10 giugno 2021 (CF, DN c. Repubblica federale di Germania, C901/19), la Corte di giustizia ha affermato, con riguardo alla nozione di «minaccia grave e individuale», che essa «deve essere oggetto di interpretazione estensiva» (punto 39) e ha precisato che l’applicazione sistematica, da parte delle autorità competenti di uno Stato membro, di un criterio come un numero minimo di vittime civili, ferite o decedute, al fine di determinare il grado di intensità di un conflitto armato, senza esaminare tutte le circostanze pertinenti che caratterizzano la situazione del Paese d’origine del richiedente la protezione sussidiaria, è contraria alle disposizioni della direttiva 2011/95 in quanto può indurre dette autorità a negare la concessione di tale protezione, in violazione dell’obbligo gravante sugli Stati membri di identificare le persone che hanno effettivamente bisogno di detta protezione (punto 44).

La giurisprudenza degli Stati membri ha, poi, condotto un’ulteriore elaborazione di quanto stabilito dalla Corte di giustizia con l’identificazione di alcuni indicatori che permettono di qualificare la natura e la portata della violenza indiscriminata. L’Upper Tribunal[10] del Regno Unito ha chiarito, per esempio, che i bombardamenti e le sparatorie, che pure abbiano obiettivi ben specifici, siano qualificati come «violenza indiscriminata» laddove espongano i civili presenti sul territorio al rischio di cd. “danno collaterale”. Lo stesso Tribunale ha, inoltre, affermato che il numero delle vittime non possa rappresentare l’unico criterio utilizzato per la valutazione del livello di violenza indiscriminata, in quanto lo stesso art. 15, lett. c della direttiva fa riferimento anche alla «minaccia alla persona», includendo pertanto eventuali significative lesioni fisiche, traumi mentali o minacce all’integrità fisica[11].

Ancora, il Consiglio di Stato francese[12] ha inserito, tra i possibili indicatori di violenza indiscriminata, gli attacchi e gli abusi commessi a danno della popolazione civile. 

Secondo l’interpretazione dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, analogamente a quanto affermato dal Tribunale inglese, il termine «indiscriminato» comprende sia azioni non indirizzate a un preciso individuo, sia atti di violenza mirati a uno specifico oggetto o individuo i cui effetti possano, però, danneggiare altri[13]

Situazioni di conflitto che non presentino i caratteri appena descritti possono assumere rilevanza ai fini del riconoscimento di forme di protezione complementare.

 

2.1. I conflitti a bassa intensità nella giurisprudenza di legittimità

Da tempo, la Suprema corte ha sottolineato la rilevanza delle condizioni del Paese d’origine del richiedente anche ai fini del riconoscimento della protezione complementare. 

In particolare, nella nota sentenza n. 4455 del 2018, la Corte ha precisato che la generale violazione dei diritti umani nel Paese di provenienza costituisce «un necessario elemento da prendere in esame nella definizione del richiedente». Tale elemento, precisa la corte, «deve necessariamente correlarsi alla vicenda personale del richiedente, perché altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti, in contrasto col parametro normativo di cui all’art. 5, comma 6» del d.lgs n. 286/1998 (argomentazioni integralmente confermate dalle successive sez. unite, nn. 29459/2019 e 24413/2021).

Tanto premesso, con specifico riferimento alla rilevanza del conflitto a bassa intensità ai fini del riconoscimento della protezione nazionale, i giudici di legittimità (Cass., n. 26366/2020), pronunciatasi in seguito all’ordinanza interlocutoria del 29 maggio 2020, n. 10308, hanno affrontato specificamente la questione se, in situazioni di conflitto a bassa intensità, possa, perciò solo, essere riconosciuta la protezione umanitaria e l’hanno risolta in senso negativo. Tale pronuncia, in particolare, ha affermato che:

- l’accertamento delle condizioni per il riconoscimento del permesso di soggiorno fondato su ragioni umanitarie si basa sui seguenti presupposti: l’allegazione come gravi motivi di elementi derivanti dalla situazione sociale, politica o ambientale del Paese di provenienza del richiedente, pur non configuranti il pericolo di persecuzione o di danno grave, rilevanti ai fini della protezione internazionale, che incidano eziologicamente in modo individuale sulle condizioni personali di vita del richiedente;

- la valutazione della situazione vissuta nel Paese di accoglienza, rilevante come elemento di comparazione, a cui dare rilievo mediante un giudizio prognostico che fa ritenere che sussisterebbe una grave violazione dei diritti umani se il richiedente fosse rimpatriato.

Tanto premesso, la Suprema corte ha escluso ogni rilevanza oggettiva e autonoma alle situazioni di cd. conflitto a bassa intensità sociale ove difetti la specifica deduzione delle loro pregiudizievoli ripercussioni sulle condizioni di vita e sui diritti umani del ricorrente in patria, da prendere in considerazione nell’ambito del giudizio comparativo con il grado di integrazione effettiva sociale, culturale e lavorativa nel nostro Paese. È stato altresì ribadito che l’attribuzione di un rilievo autonomo e oggettivo alle ipotesi di conflitto a bassa intensità sociale si porrebbe in rotta di collisione con i principi affermati dalle sezioni unite, che prescrivono al giudice di operare un apprezzamento personale e individualizzato delle condizioni di vita in patria opportunamente bilanciato attraverso una valutazione comparatistica, che prenda in esame la situazione personale, relazionale e lavorativa del richiedente e il suo percorso di integrazione nel Paese di accoglienza.

Con ordinanza n. 5675/2021, la Suprema corte (dopo aver chiarito, alla luce delle sentenze della Corte di giustizia sopra richiamate, l’insussistenza di una condizione di violenza generalizzata da conflitto armato interno per lo Stato di Lagos, dal quale proveniva il ricorrente) ha escluso che possano giustificare il riconoscimento della protezione maggiore «episodici casi di violenza, per quanto efferata, (…) isolati casi di esecuzioni capitali, per quanto ripugnanti», generiche «violazioni di diritti umani» (che, per usare le parole della Corte, «renderebbe[ro] invero applicabile la lettera c) a buona parte dell’orbe terraqueo, eccezion fatta per le democrazie di stampo occidentale e poco altro (…), proteste, criminalità, rapimenti e violenza domestica e scontri tra bande, culti, gruppi politici e comunità». Tanto premesso, la Corte ha escluso la riconducibilità alla protezione sussidiaria dei conflitti a bassa intensità, qualificati come conflitti caratterizzati dall’uso «da parte dello Stato di forze militari applicate in modo selettivo (e perciò stesso non generalizzato ed indiscriminato) al fine di imporre il rispetto delle sue politiche o obiettivi, senza che la cosa si traduca in un vero e proprio conflitto armato».

Altra parte della giurisprudenza di legittimità, invece, non esclude la rilevanza dei conflitti in esame ai fini del riconoscimento della protezione complementare. In particolare, in più occasioni la Corte ha affermato che, nel giudizio comparativo, può rilevare anche una situazione generalizzata di violazione di diritti umani ovvero di conflitto, ancorché di livello minore rispetto a quello rilevante per la sussidiaria, da valutare comparativamente (Cass., nn. 2039/2021 e 22274/2021).

 

2.2. La giurisprudenza di merito sui conflitti a bassa intensità e sulla rilevanza delle violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani nel Paese d’origine nella nuova protezione speciale

I tribunali di merito, in applicazione del disposto dell’art. 5, comma 6 del d.lgs n. 286/1998 (antecedente alle modifiche introdotte dal dl n. 113/2018 e, poi, dal dl n. 130/2020), in più occasioni hanno riconosciuto la protezione umanitaria a ricorrenti in ragione dell’esistenza di un conflitto a bassa intensità nel Paese d’origine. Si pensi, in particolare, ai richiedenti provenienti dalla regione della Casamance, dalla Guinea Conakry, da alcune parti del Mali (quando ancora il conflitto armato interno non aveva raggiunto l’intero Paese) e dalla Costa d’Avorio[14].

In seguito alle modifiche normative del 2020[15], l’art. 19, comma 1.1, vieta il respingimento di una persona verso uno Stato «qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura o a trattamenti inumani o degradanti (...) nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell’esistenza in tale stato di violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani». Detta norma comprende, da un lato, un’ipotesi di divieto cd. “relativo” di respingimento (art. 19, comma 1.1, seconda parte, Tui); dall’altro lato, contempla un’ipotesi di divieto cd. “assoluto” di respingimento (art. 19, comma 1.1, prima parte, Tui).

Le due ipotesi differiscono nei loro elementi essenziali. Il divieto di «allontanamento» nella indicata ipotesi di «violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare» non opera quando esso «sia necessario per ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica, nonché di protezione della salute nel rispetto della Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951, resa esecutiva dalla legge 24 luglio 1954, n. 722, e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea». 

Diversamente, le ipotesi di non respingimento previste dalla prima parte dell’art. 19.1.1 Tui hanno carattere assoluto e, dunque, non è possibile operare il bilanciamento sopra richiamato e previsto soltanto dalla seconda parte della norma. 

Inoltre, ai fini della applicazione del divieto assoluto di respingimento, è sufficiente l’esistenza di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani nel Paese di origine del richiedente, non dovendosi procedere ad alcuna verifica della sussistenza di una vita privata e familiare.

La giurisprudenza di merito, chiamata a interpretare la nuova norma, ha continuato ad attribuire rilevanza, ai fini del riconoscimento della protezione speciale, alla situazione di conflitti nel Paese d’origine del richiedente, sebbene gli stessi non presentino i requisiti necessari per il riconoscimento della protezione sussidiaria.

In particolare, il Tribunale di Genova[16] ha espressamente affermato che dovrà ritenersi a rischio di trattamenti degradanti in caso di rimpatrio – e a prescindere dall’astratta configurabilità dei presupposti per la protezione sussidiaria – colui che provenga da un Paese in cui si verificano violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani (in particolare, una tale forma di protezione è stata riconosciuta ai ricorrenti provenienti dalla Costa d’Avorio e dalla Guinea). In presenza di un tale rischio, al ricorrente dovrà essere riconosciuta quella che i giudici genovesi qualificano come «protezione speciale assoluta», da contrapporre alla cd. «protezione speciale relativa» prevista dal terzo e quarto periodo del medesimo art. 19.

Ad avviso del Tribunale di Bologna[17], il citato art. 19, comma 1.1, differisce nella valutazione del rischio rispetto a quello necessario a integrare i presupposti del timore di danno grave rilevante per la protezione sussidiaria. In particolare, secondo i giudici bolognesi, a differenza della disposizione di cui all’art. 2, lett. g, d.lgs n. 251/2007, l’assenza del requisito della effettività del rischio richiamato dall’art. 19 porta a ritenere sufficiente un rischio sì personalizzato, ma con un grado di concretezza meno intenso rispetto a quello richiesto per la protezione internazionale, e ciò in coerenza con l’indicazione successiva secondo cui la valutazione dei fondati motivi di rischio di trattamenti inumani va fatta tenendo conto anche dell’esistenza di generali violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani. Le predette argomentazioni hanno portato il Tribunale di Bologna a riconoscere la protezione speciale a un ricorrente proveniente dalla capitale della Costa d’Avorio, in ragione dell’esistenza, soprattutto negli ultimi mesi, di violazioni gravi e frequenti di diritti umani fondamentali causalmente riconducibili alla situazione di instabilità aggravatasi a seguito delle elezioni del 2020. 

Il rischio di essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti conseguente a un rimpatrio nella regione di Gujranwala (a confine con il Kashmir pakistano) giustifica, ad avviso del Tribunale di Brescia[18], il riconoscimento della protezione speciale. Nel provvedimento esaminato (che giunge al riconoscimento della protezione speciale esaminando comunque anche il profilo relativo all’integrazione in Italia), in particolare, si rileva come la provenienza da un territorio contiguo a una zona di guerra integri una condizione di vulnerabilità oggettiva, caratterizzata dal rischio di subire un pregiudizio rispetto a beni giuridici fondamentali (tra i quali l’incolumità personale).

 

2.3. Il caso dell’Egitto

Un recente provvedimento del Tribunale di Milano[19] offre l’occasione per una riflessione sulla rilevanza della violazione sistematica e grave dei diritti umani, anche in conseguenza di quelli che, fino ad ora, abbiamo chiamato conflitti a bassa intensità.

In via generale, occorre premettere che possiamo annoverare, a mero titolo esemplificativo e senza alcuna pretesa di completezza, tra i diritti fondamentali da cui può ritenersi scaturire un obbligo di tutela, per lo Stato: il diritto alla vita (art. 27, ultimo comma, Cost.; art. 1 Cedu; art. 6 Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici; Corte cost., nn. 54/1979 e 35/1997); il diritto alla non discriminazione (art. 3 Cost.; art. 26 Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici); il diritto all’identità personale (Corte cost., n. 332/2000); il diritto al nome (Corte cost., n. 13/1994); il diritto alla salute (art. 32 Cost.; Corte cost., nn. 319/1999 e 252/2001); il diritto all’identità e alla libertà sessuale (Corte cost., nn. 161/1985 e 561/1987); il diritto all’identità di coscienza (Corte cost., nn. 467/1991 e 334/1996); il diritto alla libertà di contrarre matrimonio (Corte cost., nn. 27/1969, 345/2011, 245/2011; art. 23 Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici); il diritto all’abitazione (Corte cost., n. 404/1988); il diritto alla libertà e alla sicurezza personali (Corte cost., nn. 215/1973, 105/2001, 222/2004; art. 13 Cost.; art. 5 Cedu; art. 10 Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici); il diritto a non subire trattamenti inumani o degradanti (art. 3 Cedu; art. 7 Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici); il diritto a non essere ridotto in schiavitù (art. 4 Cedu; art. 8 Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici); il diritto a non subire torture (Convenzione di New York del 10 dicembre 1984 contro la tortura, ratificata con legge n. 498/1988); il diritto all’unità familiare e alla vita privata (artt. 29, 30, 31 Cost.; art. 8 Cedu; art. 17 Patto internazionale diritti economici, sociali e culturali del 1966; art. 13 Convenzione Oil n. 143/1975, ratificata con legge n. 158/198; Corte cost., nn. 28/1995, 203/1997, 376/2000, 202/2013); il diritto del minore alla protezione (art. 31 Cost.; Corte cost., n. 198/2003; Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989; art. 24 Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici); il diritto all’istruzione obbligatoria (art. 34 Cost.); il diritto di difesa, sia attiva che passiva (artt. 24, 25, 26 e 113 Cost.; Corte cost., nn. 120/1967, 109/1974, 492/1991, 198/2000, 227/2000, 257/2004, 254/2007, 276/2008; art. 14 Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici; art. 13 Cedu); il diritto alla libertà e segretezza di corrispondenza e comunicazione (art. 15 Cost.; Corte cost., n. 366/1991); il diritto alla libertà di pensiero (art. 21 Cost.; Corte cost., n. 168/1971; art. 18 Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici); i diritti previsti dal Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (adottato dall’Assemblea generale Onu il 16 dicembre 1966, entrato in vigore il 3 gennaio 1976 e ratificato in Italia con legge n. 881/1977).

Nel caso portato all’attenzione dei giudici meneghini, il ricorrente, a sostegno delle domande proposte, aveva allegato fatti estranei rispetto ai fattori di inclusione nelle protezioni maggiori (in particolare, aveva riferito che era stato costretto a fuggire dall’Egitto per il timore di essere ucciso dai familiari della ragazza con la quale aveva intrattenuto una relazione). Esclusa la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, il Tribunale è passato a verificare se la situazione attualmente presente in Egitto sia caratterizzata dall’esistenza di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani, tali per cui sussistono fondati motivi di ritenere che, in caso di rimpatrio forzato, il ricorrente rischi di subire trattamenti inumani e degradanti.

In adempimento del dovere di cooperazione sullo stesso gravante, il Tribunale ha esaminato le più accreditate e aggiornate fonti di informazione, dalle quali è emerso che l’attuale situazione dell’Egitto mette in luce «molteplici criticità sul rispetto dei diritti fondamentali nel Paese». In particolare, sono state documentate uccisioni illegali, detenzioni arbitrarie di massa, uso della tortura e di punizioni crudeli e degradanti. Risultano provate, inoltre, forti limitazioni delle libertà civili (compresa la libertà di stampa, di espressione da parte della società civile e delle minoranze, di assemblea e di riunione) e della libertà di movimento. Continue, inoltre, le discriminazioni nei confronti delle persone Lgbti (in più occasioni arrestate e maltrattate).

Alla luce dei predetti elementi, il Tribunale di Milano ha concluso che, data l’esistenza di sistematiche e gravi violazioni dei diritti umani in Egitto, sussistano fondati motivi di ritenere che, in caso di rimpatrio, il ricorrente rischi di subire trattamenti inumani e degradanti, ai sensi del citato art. 19, comma 1.1.

La decisione in esame rivela come la situazione del Paese d’origine del ricorrente – caratterizzata da un conflitto cd. a bassa intensità o da una grave violazione dei diritti umani, che da quel conflitto, peraltro, ben può derivare – rappresenti un dato che non può non essere attentamente valutato. In particolare, la grave e sistematica violazione dei diritti umani – che comporta la lesione di molteplici libertà democratiche, protette dall’art. 10 della Costituzione – integra un elemento che il giudice – prendendo in esame aspetti diversi da quelli considerati ai fini della protezione e in adempimento del dovere di cooperazione sullo stesso gravante – non può non esaminare, ai fini della valutazione dei presupposti per il riconoscimento della protezione complementare. 

 

3. L’allegazione relativa al rischio determinato dal conflitto armato a bassa intensità o dalla violazione grave e sistematica dei diritti umani

Le considerazioni appena svolte evocano il tema dell’onere di allegazione[20]: in particolare, il giudice è tenuto a esaminare la condizione “oggettiva” del Paese d’origine anche laddove la parte non specifichi che la condizione di conflitto a bassa intensità o che la violazione grave e sistematica dei diritti umani abbia impedito proprio a quel ricorrente l’esercizio di determinati diritti?

L’art. 3, comma 1, d.lgs 19 novembre 2007, n. 251 (relativo all’esame dei fatti e delle circostanze contenenti previsioni coincidenti con quelle di cui all’art. 4, par. 5 della direttiva 2011/95/UE) disciplina il dovere di cooperazione gravante sul richiedente, prevedendo che chi invoca protezione sia tenuto a presentare, unitamente alla domanda, tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la domanda. Solo il ricorrente, infatti, è in possesso delle informazioni relative alla sua storia personale, ai rapporti con la famiglia d’origine, al contesto sociale dal quale proviene, al livello di scolarizzazione, alle attività lavorative eventualmente svolte, all’eventuale coinvolgimento in partiti politici, al proprio orientamento sessuale, al credo religioso, al viaggio affrontato per giungere nel Paese nel quale ha presentato la domanda di protezione. Sono questi, pertanto, gli elementi che il ricorrente è tenuto a «presentare» quando propone una domanda di protezione, internazionale e complementare.

In merito al contenuto dell’onere di allegazione nelle tre forme di protezione, nella giurisprudenza di legittimità si sono registrati orientamenti difformi. Secondo un primo orientamento (Cass, nn. 21123/2019 e 7622/2020), infatti, ai fini del giudizio reso in tema di protezione umanitaria, dovrebbero essere allegati necessariamente fatti diversi rispetto a quelli dedotti per le altre forme di protezione.

Secondo un diverso orientamento, invece, sebbene i presupposti applicativi delle tre forme di protezione, così come normativamente definiti, siano diversi, i fatti storici possono sovrapporti tra loro, determinando la possibilità che a fondamento della domanda di protezione complementare ben possa essere allegato il medesimo rischio allegato con riferimento alle protezioni maggiori (Cass., nn. 1104/2020, 8819/2020, 22274/2021, 5524/2021).

Con specifico riferimento al tema in esame, la già citata Cass., n. 2039 del 2021, aderendo al secondo orientamento, ha precisato che il ricorrente, a fondamento della domanda di protezione umanitaria, possa allegare anche un rischio determinato da un conflitto armato “a bassa intensità”, ovvero una violazione diffusa dei diritti umani fondamentali non prevista, per “gravità” e “frequenza” nella definizione normativa di atto persecutorio, di cui all’art. 7 d.lgs n. 251/2007. L’allegazione da parte del richiedente dovrà proiettare un «riflesso individualizzante» rispetto alla vita precedente del richiedente protezione, non potendosi ritenere pertinenti né rilevanti allegazioni generiche sulla situazione del Paese di provenienza del richiedente in ordine alla condizione di pericolosità interna, che siano scollegate dalla situazione soggettiva. 

Ancora sullo specifico tema dell’allegazione, secondo altra parte della giurisprudenza di legittimità, le caratteristiche della protezione complementare e le sue differenze rispetto alle due protezioni maggiori giustificano la diversa rilevanza attribuita alle oggettive condizioni del Paese d’origine. In particolare, Cass., n. 25734/2021 ha affermato che «in tema di protezione umanitaria l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del suo riconoscimento, occorre operare la valutazione comparativa della situazione oggettiva, oltre che eventualmente soggettiva, del richiedente asilo con riferimento al Paese di origine sub specie della libera esplicazione dei diritti fondamentali della persona, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza – pur senza che abbia rilievo esclusivo l’esame del livello di integrazione, se isolatamente ed astrattamente considerata» (c.vo aggiunto; nello stesso senso anche Cass., n. 21394/2021).

Sulla diversa rilevanza dei fatti da valutare da parte del giudice ai fini del riconoscimento della protezione complementare (e sul conseguente diverso atteggiarsi del dovere di cooperazione dell’autorità giurisdizionale), è tornata anche Cass., n. 5524/2021, che ha precisato come, in relazione al riconoscimento della protezione umanitaria, la valutazione concerne sia la persona del richiedente che il suo contesto di origine, da valutare in forma ponderata rispetto al livello di integrazione raggiunto in Italia, ma non necessariamente alla ricerca di eventuali profili di rischio di danno alla sua persona o alla sua incolumità, bensì in vista di una più completa protezione del nucleo essenziale dei suoi diritti e delle sue prerogative personali.

 

4. Questioni aperte

Nella valutazione della rilevanza di situazioni di conflitti a bassa intensità nel Paese d’origine, utili spunti di riflessione sono offerti dalle «Considerazioni legali sulle richieste di protezione internazionale presentate nel contesto degli effetti negativi dei cambiamenti climatici e dei disastri» dell’Unhcr[21]. Tale strumento, infatti, sebbene relativo a domande volte a ottenere il riconoscimento della protezione maggiore, rivela come le condizioni oggettive e generalizzate presenti nel Paese d’origine dei richiedenti possano assumere un’influenza diretta nella valutazione di una specifica domanda individuale, fornendo così preziose indicazioni anche per l’esame delle domande volte a ottenere il riconoscimento della protezione complementare (in situazioni diverse da quelle relative ai cambiamenti climatici)[22]

In particolare, nelle «Considerazioni» ora citate si osserva come esista uno stretto rapporto tra cambiamenti climatici e diritti umani: detti cambiamenti, infatti, possono interagire con conflitti e violenza, rendendo così lo Stato incapace di proteggere le vittime di tale violenza. Si osserva, inoltre, che quando «lo Stato non è disposto a garantire un accesso non discriminatorio a cibo a prezzi accessibili, può sorgere in particolari popolazioni un fondato timore di essere perseguitate ai sensi della Convenzione del 1951. Tali situazioni possono anche ostacolare l’accesso fisico ed economico al cibo e, più in generale, ai mezzi di sussistenza per le popolazioni che dipendono dalle risorse naturali per il proprio sostentamento e la propria sopravvivenza. Il rischio di violazioni dei diritti umani che si configurano come persecuzioni è molto concreto in presenza di insicurezza alimentare. Anche le ideologie politiche o religiose e le differenze sociali ed etniche possono creare o aggravare un fondato timore di persecuzione per ragioni di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale od opinioni politiche».

Così richiamata l’attenzione sulla necessità di guardare anche alla condizione oggettiva del Paese d’origine (afflitto da imponenti cambiamenti climatici o, per quel che rileva in questa sede, da conflitti a bassa intensità), non può non farsi un ultimo cenno al recente intervento normativo sulla protezione speciale. In particolare, il decreto legge n. 20 del 10 marzo 2023, recante «Disposizioni urgenti in materia di flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri e di prevenzione e contrasto all’immigrazione irregolare», intervenendo nuovamente sui presupposti per il riconoscimento della protezione complementare, al primo comma dell’art. 7 dispone che: «All’articolo 19, comma 1.1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, il terzo e il quarto periodo sono soppressi». Tale modifica, lasciando impregiudicata (a meno di successivi interventi nella legge di conversione), la prima parte del citato art. 19, comma 1.1, sembrerebbe non riguardare le condizioni di vulnerabilità conseguenti al rischio di rimpatrio in un Paese afflitto da un conflitto di intensità minore rispetto a quello rilevante per la protezione sussidiaria o caratterizzato da violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani.

In attesa di esaminare le prime applicazioni da parte delle commissioni territoriali e delle sezioni specializzate, non può non osservarsi come, a prescindere da qualsiasi intervento normativo del legislatore ordinario sulle condizioni di esercizio della protezione complementare, la valutazione sulla violazione dei diritti umani fondamentali e l’impedimento delle libertà democratiche (che anche da un conflitto a bassa intensità potrebbero conseguire) dovrebbe comunque essere compiuta alla luce del rispetto del principio di non-refoulement e dell’art. 10, comma 3 della Costituzione (atteso che di tale norma, immediatamente precettiva, come da tempo osservato dalla giurisprudenza di legittimità[23], anche la protezione nazionale rappresenta una forma di attuazione).

 

 

1. Cass., n. 5524/2021.

2. In questo senso le sezioni unite, nella nota sentenza n. 19393 del 2009:
«i motivi di carattere umanitario debb[o]no essere identificati facendo riferimento alle fattispecie previste dalle convenzioni universali o regionali che autorizzano o impongono al nostro Paese di adottare misure di protezione a garanzia dei diritti umani fondamentali e che trovano espressione e garanzia anche nella Costituzione, non solo per il valore del riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo in forza dell’art. 2 Cost., ma anche perché, al di là della coincidenza dei cataloghi di tali diritti, le diverse formule che li esprimono si integrano, completandosi reciprocamente nell’interpretazione (Corte cost., n. 388/1999)».

3. Da tempo, la Corte di cassazione ha chiarito che i motivi umanitari in forza dei quali viene rilasciato il permesso di soggiorno costituiscono un catalogo aperto (Cass., n. 26566/2013), che include non solo le condizioni di “vulnerabilità”, ma anche la mancanza delle condizioni minime per condurre un’esistenza dignitosa (che consenta la possibilità di soddisfare i bisogni e le esigenze ineludibili della vita personale).

4. Per un tentativo di corretto inquadramento dei cd. conflitti a bassa intensità, si rinvia all’intervento di L. Raineri in occasione del seminario «Dalla protezione umanitaria alle novità del dl n. 130 del 2020. Cosa è cambiato?», organizzato da Questione giustizia il 22 febbraio 2023 (Corte di cassazione, Aula Giallombardo, www.questionegiustizia.it/articolo/evento-prot-um), disponibile in video sul canale Youtube della Rivista: www.youtube.com/watch?v=n6AR_bDdaXo&list=PLXfm-acsZZ9AadTqz5LT6gm5CFNZgtGZU&index=4 [32’-49’].

5. Si esprime in questo modo l’Unhcr nelle Considerazioni legali sulle richieste di protezione internazionale presentate nel contesto degli effetti negativi dei cambiamenti climatici e dei disastri, 1° ottobre 2020 (www.unhcr.org/it/wp-content/uploads/sites/97/2023/01/legal-considerations-ITA-003Final.pdf), sulle quali si tornerà in seguito.

6. Unhcr, Domande di riconoscimento dello status di rifugiato legate a situazioni di conflitto armato e violenza nell’ambito dell’articolo 1A(2) della Convenzione del 1951 e/o del suo Protocollo del 1967 relativi allo status dei rifugiati e alle definizioni regionali di rifugiato, 2 dicembre 2016 (www.unhcr.org/it/wp-content/uploads/sites/97/2021/03/UNHCR-Linee-Guida-N-12-Situazioni-di-conflitto-armato-2016.pdf).

7. Tale norma considera «danno grave»: «la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale».

8. Per un esame del tema della determinazione dell’intensità della violenza prodotta dal conflitto armato, cfr. A. Guerrieri, La valutazione dell’intensità degli scontri ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria «lettera c», in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 2/2022, pp. 28-73.

9. Sent. 17 febbraio 2009, C-465/07.

10. UKUT, HM and others (Article 15(c)) Iraq CG v. the Secretary of State for the Home Department, [2012] UKUT 00409(IAC), United Kingdom: Upper Tribunal (Immigration and Asylum Chamber), 13 novembre 2012 (www.refworld.org/cases,GBR_UTIAC,50a650522.html).

11. Ivi, par. 241.

12. Conseil d’État, Office français de protection des refugies et apatrides/Baskarathas, n. 320295, 3 luglio 2009 (www.refworld.org/pdfid/4a5756cd2.pdf).

13. Unhcr, Safe at Last? Law and Practice in Selected EU Member States with Respect to Asylum-Seekers Fleeing Indiscriminate Violence, luglio 2011 (www.unhcr.org/protection/operations/4e2d7f029/safe-law-practice-selected-eu-member-states-respect-asylum-seekers-fleeing.html).

14. Cfr. Trib. Firenze, 22 maggio 2019.

15. N. Zorzella, La nuova protezione speciale introdotta dal d.l. 130/2020. Tra principio di flessibilità, resistenze amministrative e problematiche applicative, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 2/2021, pp. 130-154; G. Travaglino, La protezione umanitaria tra passato e futuro, ivi, n. 1/2022, pp. 96-139.

16. Decreto del 10 novembre 2021.

17. Decreto del 25 novembre 2021.

18. Decreto del 31 marzo 2021.

19. Decreto del 21 dicembre 2022.

20. Per un’attenta disamina degli oneri di allegazione nel processo volto al riconoscimento della protezione internazionale, vds. I. Pagni, La tutela giurisdizionale in materia di protezione internazionale tra regole del processo ed effettività del diritto alla protezione, in Questione giustizia online, 8 febbraio 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/la-tutela-giurisdizionale-in-materia-di-protezione-internazionale-tra-regole-del-processo-ed-effettivita-del-diritto-alla-protezione).

21. www.unhcr.org/it/wp-content/uploads/sites/97/2023/01/legal-considerations-ITA-003Final.pdf.

22. P. Bonetti, La protezione speciale dello straniero in caso di disastro ambientale che mette in pericolo una vita dignitosa, in Rivista trimestrale di diritto penale dell’ambiente, n. 2/2021, pp. 48-82 (https://lexambiente.it/Rivista/11-2021/fascicolo_2-2021.pdf).

23. Per una ricostruzione della giurisprudenza di legittimità sull’articolo 10, comma 3, Cost., vds. M. Acierno, Il diritto del cittadino straniero alla protezione internazionale: condizione attuale e prospettive future, in P. Morozzo della Rocca (a cura di), Immigrazione, asilo e cittadinanza, Maggioli, Rimini, 2021, pp. 84-87.