Magistratura democratica
Pillole di CGUE

Terzo quadrimestre 2023

Le più interessanti sentenze emesse nel terzo quadrimestre del 2023

Sommario: 1 Sanzioni “amministrative penali” -Ne bis in idem. - 2. Internet – Google e tiktok. - 3. Immigrazione – Frontex. - 4. Discriminazioni – Discriminazioni di genere – Discriminazioni religiose e velo islamico. - 5. Giudici – Promozione dei giudici – Rimozione dei giudici. - 6. Mandato d’arresto europeo. - 7. Organizzazione competizioni calcistiche e Superlega. - 8. Riconoscimento di sentenze che irrogano pene detentive. - 9. Cooperazione giudiziaria in materia penale. - 10. Covid19 e libera circolazione. - 11. Procedure di asilo. - 12. Contraffazioni e proporzionalità della pena. - 13. Tempo di lavoro e retribuzione. - 14. Bicicletta elettrica e copertura assicurativa. - 15. Videogiochi on line.

 

1. SANZIONI “AMMINISTRATIVE PENALI” – NE BIS IN IDEM

Sentenza del 14 settembre 2023 della Corte nella causa C-27/22, Volkswagen Group Italia e Volkswagen Aktiengesellschaft 

Il principio del ne bis in idem si applica alle sanzioni irrogate per pratiche commerciali sleali qualificate come sanzioni amministrative di natura penale. Tale principio esclude che possa essere avviato o proseguito un procedimento penale per gli stessi fatti, qualora esista una decisione definitiva pur di altro Stato membro. 

Nel 2016, l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato aveva irrogato alla Volkswagen (società e gruppo) una sanzione pecuniaria di EUR 5 milioni per pratiche commerciali scorrette nei confronti dei consumatori, consistenti, tra l’altro, nella commercializzazione di veicoli diesel contenenti un software che consentiva di alterare la misurazione dei livelli di emissioni di ossidi di azoto (NOx) in occasione dei test per il controllo delle emissioni inquinanti.

Per gli stessi fatti, anche la Procura di Braunschweig (Germania) si era attivata ed aveva irrogato alla società una sanzione pecuniaria di importo pari a EUR 1 miliardo, in ragione dell’illecito amministrativo colposo in relazione all’installazione del detto software in 10,7 milioni di veicoli diesel venduti nel mondo intero (di cui 700.000 erano stati venduti in Italia). 

La decisione tedesca era divenuta definitiva nel 2018, mentre la decisione italiana era impugnata innazi al giudice amministrativo, il cui giudizio era pendente innanzi al Consiglio di Stato italiano.

In quella sede, la Volkswagen aveva dedotto l'illegittimità sopravvenuta della decisione italiana per violazione del principio del ne bis in idem, principio sancito dall’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che vieta il cumulo sia di procedimenti sia di sanzioni aventi natura penale per gli stessi fatti e nei confronti di una stessa persona. 

A seguito di rinvio pregiudiziale dal giudice italiano, la Corte di Lussemburgo ha ritenuto che le sanzioni irrogate per pratiche commerciali sleali sono qualificabili come sanzioni amministrative di natura penale, in quanto, benché sia qualificata come sanzione amministrativa dalla normativa nazionale, una sanzione pecuniaria irrogata a una società dall’autorità nazionale competente in materia di tutela dei consumatori per sanzionare pratiche commerciali sleali costituisce una sanzione penale quando persegue una finalità repressiva e presenta, come nel caso, un elevato grado di severità. Ne consegue l’applicazione del principio del ne bis in idem, che osta ad una normativa nazionale che consente il mantenimento di una sanzione pecuniaria penale inflitta a una persona giuridica per pratiche commerciali sleali nel caso in cui essa abbia riportato una condanna penale per gli stessi fatti in un altro Stato membro, anche se detta condanna è successiva alla data della decisione che irroga tale sanzione pecuniaria ma è divenuta definitiva prima che la sentenza sul ricorso giurisdizionale proposto avverso tale decisione sia passata in giudicato. 

 

2. INTERNET – GOOGLE E TIKTOK  

Sentenza 9 novembre 2023  della Corte nella causa C-376/22, Google Ireland, Tiktok e a. 

Il principio del diritto dell’Unione europea della libera circolazione dei servizi della società dell'informazione e quello del controllo nello Stato membro di origine del servizio interessato esclude che, pur nell’ambito della lotta contro i contenuti illeciti su Internet, uno Stato membro possa imporre al fornitore di una piattaforma di comunicazione stabilito in un altro Stato membro obblighi generali e astratti.

Google Ireland, Meta Platforms Ireland e TikTok, tre piattaforme stabilite in Irlanda, operano, tra l’altro, anche in Austria. Nel 2021 l'Austria ha introdotto una legge che obbliga i fornitori nazionali ed esteri di piattaforme di comunicazione a predisporre meccanismi di dichiarazione e verifica dei contenuti potenzialmente illeciti e sottopone gli stessi al controllo di un'autorità amministrativa che può infliggere ammende fino a 10 milioni di euro in caso di violazione. 

Le predette società hanno impugnato le sanzioni irrogate loro in Austria, sostenendo che la legge austriaca è contraria  alla direttiva sui servizi della società dell'informazione. 

Interrogata su tale questione da un giudice austriaco, la Corte di giustizia ha evidenziato che la direttiva mira a tutelare la libera circolazione dei servizi della società dell’informazione tra gli Stati membri ed a tal fine prevede il principio del controllo nello Stato membro di origine. Ciò vale in linea generale e solo a condizioni rigorose e in casi specifici, previa notifica alla Commissione europea e allo Stato membro di origine, gli Stati membri diversi dallo Stato membro di origine del servizio possono effettivamente adottare provvedimenti in deroga al fine di garantire l'ordine pubblico, la tutela della sanità pubblica, la pubblica sicurezza o la tutela dei consumatori. Resta invece escluso che gli Stati membri diversi dallo Stato membro di origine del servizio in questione possano adottare provvedimenti di carattere generale e astratto applicabili indistintamente a qualsiasi prestatore di una categoria di servizi della società dell'informazione, in quanto ciò metterebbe in discussione il principio del controllo nello Stato membro di origine del servizio interessato e contravverrebbe al principio del riconoscimento reciproco. 

 

3. IMMIGRAZIONE – FRONTEX 

Sentenza del 6 settembre 2023  del Tribunale nella causa T-600/21,  WS e a. / Frontex 

La sentenza rigetta il ricorso per risarcimento danni proposto da alcuni rifugiati siriani nei confronti di Frontex dopo il loro respingimento dalla Grecia verso la Turchia.

Il caso riguardava diversi rifugiati siriani sono arrivati sull'isola greca di Milos nel 2016, quindi trasferiti sull’isola di Leros (ove avevano espresso l'intenzione di presentare una domanda di protezione internazionale), da dove, a seguito di un'operazione congiunta di rimpatrio condotta dall'Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (Frontex) e dalla Grecia, erano stati trasferiti in Turchia. 

I rifugiati hanno quindi proposto nei confronti di Frontex una domanda di risarcimento di danni materiali e morali (per 136 mila euro complessivi) dinanzi al Tribunale dell'Unione europea, asserendo che Frontex aveva violato i suoi obblighi in materia di tutela dei diritti fondamentali nell'ambito dell'operazione di rimpatrio (in particolare violando il principio di non respingimento, il diritto di asilo, il divieto di espulsioni collettive, i diritti dei minori, il divieto di trattamenti degradanti, il diritto ad una buona amministrazione e il diritto a un ricorso effettivo) ed impedito loro di ottenere la  protezione internazionale alla quale avevano diritto, tenuto conto della loro cittadinanza e della situazione in Siria all'epoca dei fatti. 

Il Tribunale europeo ha respinto la domanda in quanto Frontex ha soltanto il compito di fornire sostegno tecnico e operativo agli Stati membri, i quali invece restano i soli competenti a valutare la fondatezza delle decisioni di rimpatrio e ad esaminare le domande di protezione internazionale e dunque i soli legittimati ad eventuali ricorsi. 

 

4. DISCRIMINAZIONI - DISCRIMINAZIONE DI GENERE

Sentenza del 14 settembre 2023  della Corte nella causa C-113/22 | TGSS (Rifiuto dell’integrazione per maternità) 

Una prassi amministrativa consistente nel rifiutare in ogni caso di concedere un’integrazione della loro pensione di invalidità anche ai padri è contraria al diritto dell’Unione e costituisce una discriminazione fondata sul sesso.

Con sentenza del 12 dicembre 2019, Instituto Nacional de la Seguridad Social (Integrazione della pensione per le madri), C-450/18, la Corte di giustizia dell’Unione europea aveva già affermato che l’integrazione della pensione concessa dalla Spagna unicamente alle madri beneficiarie di una pensione di invalidità, qualora avessero due o più figli (biologici o adottati), ad esclusione dei padri che si trovassero in una situazione analoga, costituiva una discriminazione diretta fondata sul sesso, contraria alla direttiva 79/7/CEE del Consiglio, del 19 dicembre 1978, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale. 

Basandosi su tale sentenza, un cittadino spagnolo, padre di due figli, ha chiesto alla previdenza sociale del suo paese di riconoscere il suo diritto all’integrazione della prestazione in godimento per invalidità permanente assoluta, ma la sua domanda era stata respinta, al pari della sua domanda successiva di risarcimento danni da discriminazione.

La Corte superiore di giustizia della Galizia (Spagna) aveva quindi chiesto alla Corte di Lussemburgo se una prassi consistente nel rifiutare in ogni caso di concedere agli uomini l’integrazione della pensione di cui trattasi, finché non intervenga l’adeguamento della normativa spagnola discriminatoria alla sentenza della Corte del 12 dicembre 2019, costringendo questi ultimi ad agire in giudizio per richiederla, debba essere considerata come una discriminazione distinta dalla discriminazione posta in evidenza in detta sentenza e se, in caso affermativo, al’interessato spettasse un indennizzo supplementare. 

Con la sentenza in epigrafe, la Corte afferma che, qualora una discriminazione, contraria al diritto dell'Unione, sia stata constatata e finché non siano adottate misure volte a ripristinare la parità di trattamento, i giudici nazionali e le autorità amministrative nazionali sono tenuti a disapplicare qualsiasi disposizione nazionale discriminatoria, senza attendere che quest’ultima sia eliminata dal legislatore, accordando agli appartenenti del gruppo sociale svantaggiato, nel caso di specie i padri, lo stesso regime che viene riservato alle persone dell’altra categoria, nel caso di specie le madri. Secondo la Corte, la decisione di rifiuto costituisce una discriminazione ulteriore a quella di cui alla sentenza del 2019, poiché solo gli uomini devono agire in giudizio per avere il loro diritto all’integrazione della pensione di cui trattasi, ciò che li espone ad un termine più lungo per ottenere tale integrazione nonché a spese aggiuntive. 

Ne consegue che il giudice nazionale deve accordare un adeguato risarcimento del danno da discriminazione.

 

5. DISCRIMINAZIONI RELIGIOSE E VELO ISLAMICO

Sentenza del 28 novembre 2023 della Corte di Giustizia nella causa C-148/22, Commune d’Ans (Belgio)

Un ente pubblico può, a determinate condizioni, vietare ai propri dipendenti di indossare qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, religiose o filosofiche sul luogo di lavoro e tale regola,  se applicata in modo generale e indifferenziato, può essere giustificata dalla volontà di un Comune di organizzare un ambiente amministrativo totalmente neutro.

Il caso riguardava una dipendente del Comune di Ans (Belgio), che svolgeva la sua funzione di responsabile dell'ufficio principalmente senza contatto con gli utenti del servizio pubblico, ed alla quale era stato vietato di indossare il velo islamico sul luogo di lavoro. Poco dopo il Comune aveva modificato il proprio regolamento di lavoro e attualmente richiedeva ai propri dipendenti di osservare una rigorosa neutralità: è vietata qualsiasi forma di proselitismo e non è consentito indossare segni vistosi della propria appartenenza ideologica o religiosa ai dipendenti, ivi compresi quelli che non sono a contatto con gli utenti. L’interessata lamentava in giudizio innanzi al tribunale del lavoro di Liegi la violazione della sua libertà di religione e la discriminazione da lei subita e ne chiedeva la cessazione. Il tribunale si è chiesto se la regola di rigorosa neutralità stabilita dal Comune desse luogo a una discriminazione contraria al diritto dell'Unione e sollevato pregiudiziale comunitaria.

La Corte di Giustizia nella citata sentenza ha ricordato in linea generale che una norma interna stabilita da un datore di lavoro che vieta sul luogo di lavoro soltanto l’uso di segni di convinzioni personali, in particolare filosofiche o religiose, che siano vistosi e di grandi dimensioni può costituire una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78, nei casi in cui il criterio relativo all’uso di tali segni sia inscindibilmente legato a una o più religioni o convinzioni personali determinate (ciò che però nel caso non risultava), una norma come quella detta non costituisce una siffatta discriminazione diretta ove riguardi indifferentemente qualsiasi manifestazione di tali convinzioni e tratti in maniera identica tutti i dipendenti dell’impresa, imponendo loro, in maniera generale ed indiscriminata, segnatamente, una neutralità di abbigliamento che osta al fatto di indossare tali segni: infatti, dice la Corte, poiché ogni persona può avere una religione o convinzioni religiose, filosofiche o spirituali, una norma di tal genere, a condizione che sia applicata in maniera generale e indiscriminata, non istituisce una differenza di trattamento fondata su un criterio inscindibilmente legato alla religione o a tali convinzioni personali.

Per quanto riguarda la questione se tale divieto costituisca una discriminazione indiretta, poi, sebbene esso sia apparentemente neutro, non si può escludere che possa in realtà colpire maggiormente una determinata categoria di persone, come i dipendenti del Comune che osservano determinati precetti religiosi che impongono loro un particolare abbigliamento e segnatamente le lavoratrici che indossano un velo a causa della loro fede musulmana; la discriminazione indiretta invero è configurabile qualora venga dimostrato che l’obbligo apparentemente neutro che tale norma contiene comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono a una determinata religione o ideologia.

Conformemente all’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), punto i), della direttiva 2000/78, una siffatta differenza di trattamento non costituisce tuttavia una discriminazione indiretta qualora sia oggettivamente giustificata da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari (sentenze del 15 luglio 2021, WABE e MH Müller Handel, C 804/18 e C 341/19; e del 13 ottobre 2022, S.C.R.L. (Abbigliamento con connotazione religiosa), C 344/20).

La Corte quindi, per quanto riguarda la condizione relativa all’esistenza di una finalità legittima, rileva che il divieto ha lo scopo di attuare il principio di neutralità del servizio pubblico, il quale troverebbe il suo fondamento giuridico negli articoli 10 e 11 della Costituzione belga, nel principio di imparzialità e nel principio di neutralità dello Stato.

In tale contesto, secondo la Corte, in relazione alla discrezionalità propria delle amministrazioni, sarebbe oggettivamente giustificata da una finalità legittima, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), punto i), della direttiva 2000/78, sia una politica di «neutralità esclusiva» che una pubblica amministrazione (che imponga ai suoi dipendenti, al fine di instaurare al suo interno un ambiente amministrativo totalmente neutro), sia la scelta a favore di un’altra politica di neutralità, quale un’autorizzazione generale e indiscriminata a indossare segni visibili di convinzioni personali, in particolare filosofiche o religiose, anche nei contatti con gli utenti, oppure un divieto di indossare siffatti segni limitato alle situazioni che implicano tali contatti.

Secondo la Corte, infatti, la direttiva 2000/78 stabilisce soltanto un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, che lascia un margine di discrezionalità agli Stati membri e, se del caso, ai loro enti infrastatali, consentendo loro di tenere conto del contesto loro proprio, in considerazione della diversità dei loro approcci quanto allo spazio che intendono concedere, al loro interno, alla religione o alle convinzioni filosofiche nel settore pubblico. 

La decisione si distanzia così a questo punto della motivazione dalle conclusioni dell’Avvocato generale, che aveva sottolineato la necessità di tenere in considerazione l’assenza in Belgio di un obbligo legislativo o costituzionale che imponga ai dipendenti di un Comune il rispetto di una neutralità esclusiva e, dall’altro lato, l’autorizzazione incondizionata a indossare segni di convinzioni filosofiche o religiose in altre città del Belgio. 

Il margine di discrezionalità così riconosciuto agli Stati membri e, se del caso, ai loro enti infrastatali, in mancanza di consenso a livello dell’Unione, deve tuttavia andare –prosegue la sentenza- di pari passo con un controllo, che spetta ai giudici nazionali e dell’Unione, consistente, in particolare, nel verificare se le misure adottate, a seconda dei casi, a livello nazionale, regionale o locale siano giustificate in linea di principio e se siano proporzionate (par. 34).

 La Corte ha poi precisato che, ove sia perseguita un obiettivo di «neutralità esclusiva», lo stesso è legittimo solo se realmente perseguito in modo coerente e sistematico nei confronti dell’insieme dei dipendenti e se si limiti allo stretto necessario: infatti, dice la Corte (par. 39)   che la finalità legittima consistente nell’assicurare, attraverso una politica di «neutralità esclusiva» un ambiente amministrativo totalmente neutro può essere perseguita efficacemente solo se non è ammessa alcuna manifestazione visibile di convinzioni personali, in particolare filosofiche o religiose, quando i lavoratori sono a contatto con gli utenti del servizio pubblico o sono a contatto tra loro, poiché il fatto di indossare qualsiasi segno, anche se di piccole dimensioni, compromette l’idoneità della misura a raggiungere l’obiettivo asseritamente perseguito e rimette così in discussione la coerenza stessa di tale politica. Inoltre, secondo la sentenza, spetterà inoltre al giudice del rinvio, alla luce di tutti gli elementi caratteristici del contesto in cui tale norma è stata adottata, procedere a una ponderazione degli interessi in gioco tenendo conto, da un lato, dei diritti e dei principi fondamentali in questione, ossia, nel caso di specie, il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione garantito all’articolo 10 della Carta dei diritti fondamentali, il quale ha come corollario il divieto di qualsiasi discriminazione fondata sulla religione sancito all’articolo 21 della stessa e, dall’altro lato, del principio di neutralità in applicazione del quale la pubblica amministrazione interessata mira a garantire, mediante detta norma limitata al luogo di lavoro, agli utenti dei suoi servizi e ai membri del suo personale un ambiente amministrativo privo di manifestazioni visibili di convinzioni personali, in particolare filosofiche o religiose.

Alla luce delle considerazioni che precedono, la sentenza dichiara che l’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 dev’essere interpretato nel senso che una norma interna di un’amministrazione comunale che vieta, in maniera generale e indiscriminata, ai membri del personale di tale amministrazione di indossare in modo visibile, sul luogo di lavoro, qualsiasi segno che riveli, in particolare, convinzioni filosofiche o religiose, può essere giustificata dalla volontà di detta amministrazione di istituire, tenuto conto del proprio contesto, un ambiente amministrativo totalmente neutro, purché tale norma sia idonea, necessaria e proporzionata rispetto a tale contesto e tenuto conto dei diversi diritti e interessi in gioco.

 

5. GIUDICI- PROMOZIONE DEI GIUDICI 

Sentenza del 7 settembre 2023 della Corte nella causa C-216/21,  Asociaţia “Forumul Judecătorilor din România” 

La promozione di giudici ad un organo giurisdizionale superiore, basata su una valutazione della loro attività e della loro condotta da parte dei membri di tale organo giurisdizionale, è compatibile con il diritto dell’Unione, a condizione che i requisiti sostanziali e le modalità procedurali della nomina escludono ogni dubbio quanto all’indipendenza e all’imparzialità dei giudici interessati, una volta che essi siano stati promossi.

L’associazione «Forum dei giudici della Romania» e un soggetto privato hanno contestato in giudizio la riforma della procedura di promozione dei giudici agli organi giurisdizionali superiori, approvata nel 2019 dal Consiglio superiore della magistratura della Romania, che ha sostituito le precedenti prove scritte con una valutazione dell’attività e della condotta dei candidati da parte del presidente e dei membri dell’organo giurisdizionale superiore interessato; la commissione giudicatrice deve comunque motivare le sue valutazioni e il candidato interessato può contestarle dinanzi alla Sezione per giudici del CSM. 

Adita dalla Corte d’appello di Ploiești in merito alla valutazione di compatibilità di detta riforma con il principio di indipendenza dei giudici, la Corte di Lussemburgo europea ha dichiarato che il diritto dell’Unione non osta, in linea di principio, a che la promozione di giudici ad un organo giurisdizionale superiore sia fondata su una valutazione della loro attività e della loro condotta da parte di una commissione composta dal presidente e dai membri di detto organo giurisdizionale superiore. 

Tuttavia, i requisiti sostanziali e le modalità procedurali che presiedono all’adozione delle decisioni di promozione devono essere tali da non poter far sorgere, nei singoli, dubbi legittimi quanto all’indipendenza e all’imparzialità dei giudici di cui trattasi, una volta che gli interessati siano stati promossi. Spetta alla Corte d’appello di Ploiești verificare se tale concentrazione di poteri sia atta ad offrire, nella pratica, di per sé o in combinazione con altri fattori, alle persone che ne beneficiano la capacità d’influenzare l’orientamento delle decisioni dei giudici interessati e a creare così una mancanza di indipendenza o un’immagine di parzialità di questi ultimi che sia idonea a ledere la fiducia che la giustizia deve ispirare nei singoli in una società democratica e in uno Stato di diritto. 

   

RIMOZIONE DEI GIUDICI 

Sentenza del 7 settembre 2023  della Corte nella causa C-162/22,  Lietuvos Respublikos generalinė prokuratūra 

La direttiva «relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche» osta a che dati raccolti a fini di lotta alla criminalità grave siano utilizzati nell’ambito di indagini per condotte illecite di natura corruttiva nel settore pubblico. 

Nel caso che ha dato origine alla pronuncia, un procuratore di una procura lituana è stato rimosso dalle sue funzioni dalla Procura generale lituana, a seguito di procedimento disciplinare volto a sanzionare condotta con la quale aveva illegittimamente fornito informazioni a un indagato e al suo avvocato; la detta condotta illecita era stata addebitata a tale procuratore sulla base di dati conservati dai fornitori di servizi di comunicazione elettronica. 

All’esito di impugnazione della sanzione, il giudice amministrativo lituano aveva sollevato pregiudiziale comunitaria, chiedendo alla Corte di valutare se l’utilizzo di dati che consentono di identificare l’origine e la destinazione di una comunicazione telefonica a partire dal telefono fisso o mobile di un indagato in procedimenti relativi a condotte illecite costituisce un’ingerenza ingiustificata nei diritti fondamentali sanciti dal diritto dell’Unione. 

La Corte nella sentenza in epigrafe ha precisato in linea generale che, in tema di condizioni di accesso ai dati relativi alle comunicazioni elettroniche previste nella direttiva Direttiva 2002/58/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 luglio 2002, relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche, solo la lotta contro reati gravi può giustificare ingerenze nei diritti fondamentali sanciti dagli articoli 7 e 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. 

Secondo la decisione, solo la lotta alle forme gravi di criminalità e la prevenzione di minacce gravi alla sicurezza pubblica sono idonee a giustificare ingerenze gravi nei diritti fondamentali, come quelle che comporta la conservazione dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione, mentre, sulla base del principio di proporzionalità, siffatte ingerenze non sono consentite nell’ambito di un’indagine su condotte illecite di natura corruttiva.

Dunque, secondo la sentenza, la suddetta direttiva non consente che i dati personali relativi al traffico e all’ubicazione conservati da fornitori in applicazione di una misura adottata nell’ambito della lotta alla criminalità grave e messi a disposizione delle autorità competenti a fini di lotta alla criminalità grave, non possono essere successivamente trasmessi ad altre autorità e utilizzati ai fini della lotta contro condotte illecite di natura corruttiva, che sono di importanza minore rispetto all’obiettivo della lotta alla criminalità grave. 

 

6. MANDATO D’ARRESTO EUROPEO

Sentenza del 21 settembre 2023 della Corte di Giustizia europea “Juan”, nella causa C-164/22

Il divieto della doppia incriminazione non sembra ostare all’esecuzione di un mandato d’arresto europeo nei confronti del responsabile di un sistema piramidale fraudolento messo in atto in Spagna e in Portogallo.

Un cittadino spagnolo svolgeva contemporaneamente il ruolo di presidente del consiglio di amministrazione di una società portoghese interamente controllata da una società spagnola, e di presidente del consiglio di amministrazione della società controllata. 

L’attività principale di entrambe le società era la commercializzazione di prodotti d’investimento che dissimulava un sistema piramidale fraudolento, poiché consentiva alla società portoghese di sperimentare una crescita e un’espansione eccezionali dalla mera adesione massiccia di privati a tali prodotti d’investimento. 

A seguito dell’intervento, dapprima delle autorità giudiziarie spagnole, e poi di quelle portoghesi, le due società cessavano le loro attività, ed il presidente del consiglio di amministrazione veniva condannato a pena detentiva per i reati di truffa aggrava e riciclaggio di denaro dalla Autorità Giudiziaria spagnola.

Durante l’espiazione in carcere della pena, il cittadino spagnolo, veniva condannato anche dall’autorità giudiziaria del Portogallo la quale emetteva nei suoi confronti un mandato d’arresto europeo.

Il destinatario del mandato di arresto lamentava l’ineseguibilità tanto del MAE quanto della sentenza emessa dalla Autorità Giudiziaria portoghese per una presunta violazione del principio del ne bis in idem, sostenendo che i fatti all’origine della sentenza spagnola fossero gli stessi che avevano formato oggetto della sentenza portoghese.

La Corte centrale spagnola rifiutava l’esecuzione di detto MAE e investiva della questione la Corte di giustizia. 

Quest’ultima, nel ribadire che il principio del ne bis in idem si applica solo quando i fatti di causa sono identici, non ne riscontrava nella fattispecie la sussistenza dei presupposti applicativi. Sebbene, infatti, il modus operandi delle due società fosse il medesimo in entrambi i Paesi membri, le attività fraudolente erano state messe in atto attraverso persone giuridiche diverse, ed anche in tempi differenti.

 

Sentenza del 21 dicembre 2023 della Corte di Giustizia europea nella causa C-261/22, GN 

La consegna di una persona ricercata non può essere rifiutata per il solo fatto di essere madre di minori in tenera età.

La Corte è chiamata a pronunciarsi sulle condizioni e sui limiti entro cui un Paese membro possa rifiutare la consegna di una persona condannata dall’autorità giudiziaria di altro Paese membro. 

Il caso riguarda una donna condannata in Belgio per i delitti di tratta di esseri umani e di agevolazione dell’immigrazione clandestina, nei confronti della quale il giudice belga, aveva emesso un mandato d’arresto europeo ai fini dell’esecuzione di tale pena.

Quest’ultima veniva rintracciata ed arrestata a Bologna (Italia), in stato di gravidanza ed in compagnia del figlio di tre anni.

Il Giudice italiano, non avendo ottenuto a parte del giudice belga informazioni relative alle modalità di esecuzione della pena, rifiutava la consegna, fondando tale diniego ritenendo preminente la salvaguardia dell’interesse del minore convivente.

La Corte di cassazione italiana ha chiesto, pertanto, alla Corte di Giustizia europea se in tali fattispecie il giudice nazionale fosse legittimato, ed eventualmente a quali condizioni, a rifiutare l’esecuzione del mandato d’arresto europeo.

Tra gli Stati membri vige il principio di fiducia reciproca, in virtù del quale deve ritenersi, presuntivamente, che le condizioni di detenzione di una madre di minori in tenera età nello Stato membro emittente del mandato d’arresto europeo sono adeguate a una situazione di questo tipo.

Nella sentenza in commento, la Corte di Giustizia europea, ha affermato che il giudice nazionale, in linea generale, non possa rifiutarsi di dare esecuzione a un MAE per il solo motivo che la persona ricercata è la madre di minori in tenera età con lei conviventi.

La consegna può, tuttavia, essere eccezionalmente rifiutata, qualora siano soddisfatte due condizioni: in primo luogo, deve esistere un rischio concreto di violazione del diritto fondamentale della madre al rispetto della sua vita privata e familiare e dell’interesse superiore dei suoi figli minori, a causa di carenze sistemiche o generalizzate in ordine alle condizioni di detenzione delle madri di minori in tenera età e di cura di tali minori nello Stato membro emittente del MAE, e, in secondo luogo, devono sussistere motivi seri e comprovati di ritenere che, tenuto conto della loro situazione personale, gli interessati corrano detto rischio a causa di tali condizioni.

 

7. ORGANIZZAZIONE DI COMPETIZIONI CALCISTICHE – SUPERLEGA

Sentenza del 21 dicembre 2023 della Corte di Giustizia europea nella causa C-333/21, European Superleague Company

Sono contrarie al diritto dell’Unione le norme FIFA e UEFA che subordinano alla loro preventiva approvazione qualsiasi nuovo progetto calcistico interclub, come la Superlega, e che vietano a club e giocatori di giocare in tali competizioni.

Un gruppo di 12 squadre di calcio europee, tramite la società spagnola European Superleague Company, intendeva attuare un nuovo progetto di competizione calcistica, denominato Superlega. 

La FIFA e la UEFA si sono opposte al progetto, minacciando di imporre sanzioni ai club e ai giocatori che avessero inteso parteciparvi.

La European Superleague Company ha quindi intentato un'azione legale contro la FIFA e la UEFA dinanzi al Tribunale commerciale di Madrid (Spagna), sostenendo che le loro norme sull’approvazione dei concorsi e sullo sfruttamento dei diritti dei media sono contrarie al diritto unionale.

L’iniziativa determinava la proposizione ad opera del Tribunale di Madrid, l’11 maggio 2021, di un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE volto ad accertare la sussistenza di una delibera di associazione di imprese anticoncorrenziale o di un abuso di posizione dominante, da parte di UEFA e FIFA, quali titolari di diritti economici e televisivi e del potere di impedire che vengano organizzate competizione concorrenti, in violazione degli articoli 101 e 102 TFUE.

La Corte di Giustizia, senza entrare nel merito del progetto Superlega, si è dunque espressa in ordine alla compatibilità del sistema UEFA e FIFA di preventiva autorizzazione delle competizioni organizzate da soggetti terzi, oltre che di partecipazione di società e tesserati a tali competizioni, con gli artt. 56, 101 e 102 TFUE. 

Inoltre, la sentenza analizza la compatibilità del sistema FIFA di commercializzazione dei diritti relativi alle competizioni calcistiche, organizzate da FIFA e UEFA, con gli artt. 101 e 102 TFUE.

La Corte ha, in primo luogo, osservato che le norme relative all’approvazione preventiva delle competizioni calcistiche adottate da FIFA e UEFA, sebbene idealmente sostenute dal perseguimento di obiettivi legittimi, in concreto conferiscono alle medesime il potere di controllare e definire le condizioni di accesso al mercato di riferimento per qualsiasi impresa potenzialmente concorrente, assecondando una finalità anticoncorrenziale che risulta vieppiù rafforzata dalle norme sulla partecipazione delle società e dei tesserati a tali competizioni e dalle relative sanzioni, stante l’assenza di restrizioni, obblighi e controlli che ne possano garantire la trasparenza, l’oggettività, la precisione e il carattere non discriminatorio.

Di conseguenza, tali norme determinano la violazione del divieto previsto dall’Art. 101, par. 1, TFUE, avendo ad oggetto la restrizione della concorrenza, nella misura in cui consentono a UEFA e FIFA di impedire a qualsiasi impresa che intenda organizzare una competizione potenzialmente concorrente di accedere alle risorse disponibili sul mercato, vale a dire i club e ai calciatori.

Ad analoghe conclusioni è giunta la Corte affrontando il tema della compatibilità del sistema UEFA e FIFA di preventiva autorizzazione e relative sanzioni con gli articoli del Trattato in tema di libera prestazione dei servizi ex art. 56 TFUE.

Le norme sulla partecipazione alle competizioni calcistiche delle società e dei tesserati, infatti, ostacolano tanto la possibilità per qualsiasi impresa terza di organizzare e commercializzare competizioni calcistiche tra club sul territorio dell’Unione europea, quanto la opportunità per qualsiasi società di calcio professionistica europea di partecipare a tali competizioni, nonché più in generale la possibilità per qualsiasi altra impresa di fornire servizi connessi all’organizzazione o alla commercializzazione di tali competizioni.

La Corte di Giustizia, inoltre, ha affermato la sostanziale incompatibilità del sistema FIFA di commercializzazione dei diritti relativi alle competizioni calcistiche, organizzate da FIFA e UEFA, con gli artt. 101 e 102 TFUE.

Ed infatti, i club partecipanti alle competizioni FIFA e UEFA sono privati della titolarità originaria dei diritti connessi allo sfruttamento commerciale delle competizioni calcistiche, escludendo qualunque altra alternativa al modello proposto.

 

8. RICONOSCIMENTO DI SENTENZE CHE IRROGANO PENE DETENTIVE

Sentenza del 9 novembre 2023 della Corte di Giustizia europea Staatsanwaltschaft Aachen/M.D. n. 819/21 

L’autorità competente dello Stato membro di esecuzione può rifiutare di riconoscere e di eseguire la sentenza di condanna penale pronunciata da un giudice di un altro Stato membro, qualora essa disponga di elementi che indichino l’esistenza, in tale Stato membro, di carenze sistemiche o generalizzate del diritto ad un processo equo, segnatamente per quanto riguarda l’indipendenza degli organi giurisdizionali, ed esistano seri motivi per ritenere che tali carenze possano aver avuto un’incidenza concreta sul procedimento penale cui  la  persona  interessata  è  stata  sottoposta.

Il caso riguardava M.D., un cittadino polacco abitualmente residente in Germania e condannato in Polonia ad una pena detentiva per i reati di sottrazione fraudolenta e falso documentale.

Il Giudice polacco emetteva nei suoi confronti un mandato d’arresto europeo, in forza del quale lo stesso veniva arrestato in Germania.

Qui la Procura di Aquisgrana chiedeva alla Sezione per le esecuzioni penali del Tribunale regionale, giudice del rinvio, di accogliere la domanda di riconoscimento e di esecuzione della sentenza e dell’ordinanza emesse dal Tribunale polacco e disporre, nei confronti di  M.D.,  una pena detentiva di sei mesi, risultando a suo parere soddisfatte le condizioni richieste per l’esecuzione.

Il Tribunale di Aquisgrana, quindi, ha chiesto alla Corte di Giustizia europea se possa rifiutarsi di dichiarare esecutiva in Germania la pena detentiva inflitta nei confronti di M.D. in Polonia, in ragione della violazione, da parte di quest’ultimo Stato membro, dell’articolo 47, secondo comma, della Carta e dell’articolo 2 TUE, poiché dagli elementi a disposizione sarebbero emerse carenze sistemiche o  generalizzate del  sistema giudiziario polacco, in termini di indipendenza ed imparzialità dei giudici, alle  date  della  sentenza e  dell’ordinanza delle quali si è chiesta l’esecuzione.

L’art. 8 della decisione quadro 2008/909 stabilisce che l’autorità di esecuzione è, in linea  di principio, tenuta ad accogliere la domanda di riconoscimento di una sentenza e di esecuzione  di una condanna ad una pena detentiva o ad una misura privativa della libertà personale pronunciate in un altro  Stato membro, potendo rifiutare di darvi seguito solo per i motivi tassativamente elencati all’articolo 9 della medesima decisione quadro.

La CGUE ha tuttavia affermato che l’articolo 3, paragrafo 4, e l’articolo 8 della decisione quadro 2008/909 devono essere interpretati nel senso che l’autorità competente dello Stato membro di esecuzione può rifiutare di riconoscere e di eseguire la sentenza di condanna penale pronunciata da un giudice di un altro Stato membro, anche qualora essa disponga di elementi che indichino l’esistenza, in tale Stato membro, di carenze sistemiche o generalizzate del diritto ad un processo equo, segnatamente per quanto riguarda l’indipendenza degli organi giurisdizionali, ed esistano seri motivi per ritenere che tali carenze possano aver avuto un’incidenza concreta sul procedimento penale cui la persona interessata è stata sottoposta. 

Incombe all’autorità competente dello Stato membro di esecuzione valutare la situazione esistente nello Stato membro di emissione fino alla data della condanna penale della quale vengono chiesti il riconoscimento e l’esecuzione.

 

9. COOPERAZIONE GIUDIZIARIA IN MATERIA PENALE

Sentenza del 9 novembre 2023 della Corte di Giustizia europea BK c. Bulgaria nella causa C-175/22 

Gli articoli 6, paragrafo 4, della direttiva 2012/13/UE, 3 e 7 della direttiva 2016/343/UE nonché 47, secondo comma, della CEDU non consentono che un giudice di merito nazionale possa adottare una qualificazione giuridica dei fatti diversa da quella inizialmente adottata dal pubblico ministero, senza la tempestiva informazione dell’imputato in ordine alla nuova qualificazione, e senza offrire a tale persona la possibilità di esercitare i diritti della difesa in modo concreto ed effettivo in relazione a tale nuova imputazione concernente un caso di riqualificazione.

A B.K., ufficiale di polizia bulgara, veniva contestato il reato di concussione mediante condotta estorsiva con abuso d’ufficio (punito con la reclusione da 3 a 14 anni) e rinviato a giudizio innanzi al Tribunale bulgaro.

Nel corso del giudizio, l’interessato chiedeva che i fatti contestati venissero riqualificati nella fattispecie di truffa (sanzionata in modo più mite), non potendo essere considerati commessi nell’ambito delle sue funzioni, in quanto tipicamente rientranti nell’alveo di competenze del pubblico ministero e non dell’ufficiale di polizia.

Il Tribunale investiva quindi la Corte di Giustizia, chiedendo se il diritto dell’Unione consenta al giudice nazionale di riqualificare in sentenza l’originaria imputazione, attribuendo ai fatti una qualificazione giuridica diversa da quella indicata nell’atto d’imputazione.

La Corte, con la pronuncia in commento, ha affermato il principio secondo cui la riqualificazione dei fatti è sì possibile, ma solo a condizione che l’imputato sia messo in condizione di predisporre efficacemente la propria difesa in modo concreto ed effettivo anche in ordine alla nuova qualificazione giuridica del fatto, e senza che alla predetta richiesta di riqualificazione proveniente dallo stesso imputato possa attribuirsi carattere confessorio.

 

10. COVID-19 E LIBERA CIRCOLAZIONE

Sentenza del 5 dicembre 2023 della Corte di Giustizia europea “Nordic info” nella causa C-128/22 

In una situazione di pandemia, uno Stato membro può vietare i viaggi non essenziali verso altri Stati membri classificati come zone ad alto rischio sulla base della situazione sanitaria ivi presente. Può anche imporre alle persone che entrano nel suo territorio l’obbligo di sottoporsi a test diagnostici e di osservare una quarantena. Tali regole, tuttavia, devono essere motivate, chiare, precise, non discriminatorie e proporzionate.

I fatti di causa hanno origine dall’introduzione, da parte del governo belga, di misure limitative della libertà di circolazione per contrastare la pandemia di Covid-19.

Il 12 luglio 2020, infatti, la Svezia veniva inclusa nella lista degli Stati in “zona rossa” e la Nordic INFO BV, agenzia di viaggi stabilita in Belgio (la “Nordic Info”), cancellava tutti i viaggi lì diretti per l’intera stagione estiva. Già il 15 luglio la Svezia veniva trasferita tra gli Stati in “zona arancione”, verso e dai quali i viaggi erano solo sconsigliati. 

La Nordic Info proponeva quindi un’azione di responsabilità davanti al Tribunale di primo grado di Bruxelles nei confronti dello Stato belga, per ottenere il risarcimento del danno causato dall’introduzione delle misure e dalla variazione dei codici colore.

Con il rinvio pregiudiziale, dunque, il giudice belga ha chiesto alla Corte di esprimersi in ordine alla compatibilità delle norme interne limitative della libertà di circolazione con la Direttiva 2004/38/CE e con il Regolamento UE 2016/399 nel contesto di un’emergenza sanitaria.

Con la sentenza in commento, la Corte ha chiarito che una normativa di uno Stato membro che vieti di effettuare viaggi non essenziali da detto Stato verso altri Stati membri, classificati come zone ad alto rischio, non è contraria al diritto dell’Unione, se giustificata da ragioni di sanità pubblica attinenti alla lotta contro la pandemia di COVID-19. Parimenti, sempre nel contesto di un’emergenza sanitaria, uno Stato membro può imporre a coloro che entrano nel suo territorio di sottoporsi a test diagnostici e di osservare un periodo di quarantena, purché nel rispetto dei canoni di proporzionalità e non discriminazione.

 

11. PROCEDURE DI ASILO

Sentenza del 30 novembre 2023 della Corte di Giustizia europea nelle cause riunite C-228/21, C-254/21, C-297/21, C-315/21 e C-328/21 

Gli Stati membri devono fornire ai richiedenti asilo tutte le informazioni sulla procedura, anche in occasione di una seconda domanda di asilo.

Il giudice dello stato membro non può valutare diversamente il rischio di subire trattamenti ex art 4 della Carta già valutato da altro stato membro, salvo verifichi l’applicabilità dell’art 3 comma 2 del regolamento riferibile anche a carenze nelle procedure di asilo che riguardino solo determinate categorie di persone.

Alcune persone originarie dei Paesi del Medio-Oriente avevano chiesto asilo dapprima in altri Stati membri e poi in Italia. Poiché tali altri Stati membri avevano accettato di riprendere in carico i richiedenti, conformemente al regolamento Dublino III1,l’Italiaaveva disposto il loro trasferimento. 

La decisione era stata impugnata innanzi al giudice italiano, che ha interrogato la Corte, chiedendo se un richiedente che ha presentato una seconda domanda di asilo debba, come in occasione della sua prima domanda, ricevere l’«opuscolo comune» d’informazione sulla procedura e sui suoi diritti e obblighi, e beneficiare altresì di un colloquio personale. 

Nella pronuncia in commento, la Corte ha chiarito che la consegna dell’opuscolo comune informativo e lo svolgimento di un colloquio personale sono imposti durante la procedura d’asilo a tutti gli Stati membri, tanto nell’ambito di una prima domanda di asilo, quanto nell’ambito di una domanda successiva.

Tuttavia, il secondo giudice non è tenuto a prendere in esame il rischio di respingimento indiretto, se non nei casi in cui constati carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti nel primo Stato membro.

 

12. CONTRAFFAZIONI E PROPORZIONALITA’ DELLA PENA

Sentenza del 19 ottobre 2023della Corte di Giustizia europea “G.ST.T.” nella causa C-655/21 

Una pena minima di cinque anni di reclusione in caso di contraffazione di un marchio può risultare sproporzionata.

La qualificazione della contraffazione di un marchio tanto come reato quanto come illecito amministrativo non comporta la violazione del principio di legalità. Tuttavia, la previsione di una pena minima di cinque anni di reclusione per tutti i casi di uso non consentito di un marchio nel commercio, che non tenga conto delle eventuali specificità delle circostanze in cui tali reati sono commessi, viola il principio di proporzionalità della pena.

 

13. TEMPO DI LAVORO  E RETRIBUZIONE

Sentenza del 19 ottobre 2023 della Corte di Giustizia europea “Lufthansa CityLine” nella causa C-660/20

La previsione di una remunerazione maggiorata per il superamento di un certo numero di ore di lavoro non può andare a svantaggio del lavoratore a tempo parziale.

La Lufthansa CityLine ha previsto che i lavoratori con contratto a tempo parziale, per poter godere di una remunerazione suppletiva, debbano raggiungere una soglia minima di ore lavorate, equivalente a quella prevista nei contratti dei lavoratori a tempo pieno.

La Corte federale del lavoro tedesca, investita una controversia tra la Lufthansa CityLine ed un suo pilota, ha chiesto alla Corte se ciò costituisca una discriminazione vietata ai sensi del diritto dell'Unione.

Nella sentenza in commento, la Corte di Giustizia ha chiarito che la previsione di un’unica soglia minima per l’attivazione di una remunerazione supplementare, identica sia per i lavoratori a tempo parziale che per quelli a tempo pieno, dà luogo a un trattamento meno favorevole dei piloti a tempo parziale ed è perciò contraria al diritto dell’Unione, poiché impone per questi ultimi un servizio di ore di volo più lungo rispetto ai piloti assunti a tempo pieno, a meno che tale trattamento sia giustificato da una ragione obiettiva.

 

14. BICICLETTA ELETTRICA E COPERTURA ASSICURATIVA

Sentenza del 12 ottobre 2023 della Corte di Giustizia europea “KBC Verzekeringen” nella causa C-286/22

Una bicicletta ad assistenza elettrica non rientra nell'obbligo di assicurazione degli autoveicoli in quanto non è azionata esclusivamente da una forza meccanica.

La Corte di cassazione belga, in una controversia relativa al risarcimento del danno da sinistro stradale che aveva provocato la morte di un cittadino belga che circolava a bordo di una bicicletta ad assistenza elettrica, ha interrogato la Corte di Giustizia affinché chiarisse se il conducente di bicicletta ad assistenza elettrica dovesse essere considerato un utente debole della strada (con conseguente diritto a un risarcimento automatico, secondo la legislazione interna), ovvero dovesse essere trattato alla stregua di un conducente di un comune autoveicolo.

La Corte, con la sentenza in commento, ha così chiarito che la direttiva 2009/103/CE sulla responsabilità civile derivante dalla circolazione di autoveicoli, deve essere interpretata nel senso che una bicicletta il cui motore elettrico si limita unicamente a facilitare la pedalata e che dispone di una funzione che limita la velocità massima senza pedalare a 20 km/h, ove tale funzione può essere attivata solo dopo uso della forza muscolare, non rientra nella nozione di veicolo.

 

15. VIDEOGIOCHI ONLINE

Sentenza del 27 settembre 2023 del Tribunale della Unione europea “Valve Corporation / Commissione” nella causa T-172/21

Il geoblocco di chiavi di attivazione per la piattaforma Steam violale norme sulla libera concorrenza dell'Unione.

Nel 2021 la Commissione europea ha sanzionato il gestore di una piattaforma, per aver introdotto in alcuni videogiochi per pc sulla piattaforma Steam la tecnologia geoblocking, che limitava l'accesso ai contenuti Internet in base alla posizione geografica dell'utente.

Il Tribunale, adito su ricorso del gestore sanzionato, ha confermato la decisione della Commissione, osservando che il geoblocking non aveva lo scopo di tutelare i diritti d'autore degli editori dei videogiochi per PC, ma era utilizzato allo scopo di sopprimere le importazioni parallele di tali videogiochi e di mantenere alti i margini di profitto e altri importi di royalty, ossia la forma di compenso percentuale che un autore ottiene per l'utilizzo da parte di terzi di una sua opera di ingegno.

D’altra parte, le norme poste a tutela del diritto d’autore non si estendono fino al punto di garantire la più alta remunerazione possibile adottando comportamenti che creano differenze di prezzo artificiali tra i mercati nazionali, bensì unicamente di sfruttare commercialmente la messa in circolazione o la messa a disposizione degli oggetti protetti, concedendo licenze a fronte del pagamento di un corrispettivo.

[**]

Francesco Buffa, consigliere della Corte di cassazione

Salvatore Centonze, avvocato del Foro di Lecce

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