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Custodia cautelare in carcere ed esecuzione della pena

di Riccardo De Vito
magistrato di sorveglianza Nuoro
Riflessioni sui recenti innesti normativi
Custodia cautelare in carcere ed esecuzione della pena

Premessa – Cautela e pena: tempi e luoghi di un pericoloso appiattimento – Custodia cautelare e prognosi sull’esecuzione della pena. Lo stato dell’arte prime della riforma – La straordinaria necessità e urgenza di modificare il comma 2-bis dell’art. 275 (ovvero, come la gatta frettolosa fece i gattini ciechi) – La disciplina dopo la legge di conversione: anatomia di un topolino? – Conclusioni e interrogativi

1. Premessa 

La “felice colpa” del sovraffollamento carcerario – certificato dalla celebre Torreggiani, ormai quasi un brand - ha messo a tema in modo definitivo e brusco la questione delle possibili connessioni tra la fase cautelare del procedimento penale di cognizione e l’esecuzione della pena.

In particolare, viene all’ordine del giorno il problema del rapporto (in termini, direi, anche quantitativi[1]) tra misura cautelare di tipo custodiale e pena detentiva, entità “fisicamente simmetriche” (Cass. SS. UU. 16085/2011) e funzionalmente distinte.

Prima ancora di affrontare il nodo cardine della vicenda – certamente attinente alla verifica della sussistenza e della portata nel nostro ordinamento di un divieto di applicazione della misura custodiale in caso di pena detentiva ineseguibile, verifica da condurre anche alla luce dei progetti di riforma in discussione in Parlamento e delle recenti novità introdotte con il decreto legge 92/2014, convertito con modificazioni nella legge 11 agosto 2014 n. 117 – , appare opportuno svolgere una breve premessa relativa al contributo che alla discussione su tali argomenti può essere offerto dal c.d. giudice di prossimità, ovvero dal magistrato di sorveglianza. È agevole osservare, infatti, che l’apporto del punto di vista di coloro i quali hanno esperienza quotidiana dell’ultimo segmento della vicenda giudiziaria penale (un angolo visuale che, in linguaggio cinematografico, è l’esatto controcampo di quello del giudice della cautela), oltre a essere utile in chiave teorica, appare significativo anche in chiave di ricognizione delle prassi.

E allora, sotto questo profilo, l’attenzione deve focalizzarsi in primo luogo su alcune consuetudini deleterie.

 

2. Cautela e pena: tempi e luoghi di un pericoloso appiattimento.

Viene subito alla mente che il contatto tra fase cautelare del processo ed esecuzione penale, agli occhi di chi entra nei locali di detenzione, è plasticamente raffigurato – in modo purtroppo sempre più frequente in ragione delle problematiche di sovraffollamento sistemico – dall’allocazione promiscua di condannati definitivi e imputati all’interno delle Case Circondariali, con buona pace dei principi di cui agli artt. 59 e 60 della legge di ordinamento penitenziario e, prima ancora, dell’art. 10 nr. 2 lett. a) Patto internazione dei diritti politici. Ne conseguono: frustrazione delle esigenze processuali sottese alla cautela, accentuazione del profilo afflittivo della custodia, mancata salvaguardia del principio costituzionale di non colpevolezza, genesi di un perfetto humus criminogenetico.

Si potrà obiettare che queste considerazioni attengono al puro fatto, non al dover essere. Di questi “fatti”, tuttavia, credo si debba tenere conto, posto che come magistrati operiamo nell’intelaiatura del codice, ma, soprattutto, dentro la cornice della realtà. Questa realtà, a quanto pare, deve ancora fare appieno i conti con l’obiettivo illuministico di “non gettare tutti dentro la stessa caverna”. 

L’altra considerazione importante, che può essere svolta prendendo le mosse dall’ultimo tratto di strada della macchina giudiziaria penale, attiene a un fenomeno ricorrente nella penalità di bassa e media gravità: l’espiazione intramurale di lunghe misure cautelari e l’espiazione nel c.d. circuito esterno di brevi residui di pena. Non è insolito, infatti, soprattutto nell’ambito della penalità dei marginali sociali, che i condannati arrivino liberi alla fase dell’esecuzione della pena e della decisione sulla misura alternativa, ma con alle spalle lunghi (e poco proporzionati) presofferti cautelari, vissuti in istituti sovraffollati e in assenza di ogni prospettiva di trattamento rieducativo (di necessità, stante la presunzione di non colpevolezza).

Come detto, tale fenomeno è riscontrabile con maggiore frequenza nell’ambito della devianza dei “poveri” (furti, ricettazioni, evasioni, rapine, violazione della disciplina in materia di stupefacenti), di quei soggetti che delinquono “secondo modelli di comportamento semplificato, codificati da sempre in qualsivoglia ordinamento, e facilmente accertabili”[2] e nei confronti dei quali vengono di norma irrogate pene compatibili con i limiti edittali delle misure alternative (salvo iperboli dosimetriche non certo rieducative, ma riscontrabili nelle prassi delle aule). Quella devianza alla quale bene si attagliano le clausole di stile di alcuni percorsi motivazionali in materia di pericolo di reiterazione del reato e di idoneità della sola misura custodiale (la famigerata “mancanza di fonti lecite da cui trarre reddito o mezzi di sostentamento”), ma che poi, quasi inevitabilmente, in fase esecutiva si riversa nei territori delle misure alternative.

L’impressione – qui la riflessione si colora immediatamente di significato politico – è che anche da parte nostra vi sia una certa assuefazione (magari anche solo a livello di sfondo psichico inconsapevole) all’idea che la misura cautelare coercitiva possa servire a soddisfare la domanda di giustizia di un’opinione pubblica sempre più portatrice di un’ossessione “patibolare” e ad anticipare funzioni, in particolare retributiva e general-preventiva, che non le sono proprie; la custodia in carcere come “sedativo alle paure collettive”[3], come punizione percepibile quando si è ancora “sul pezzo”, prima che sui fatti e sulle persone scenda la curva dell’oblio connessa all’abbandono dell’attenzione dei media.

Da tale assuefazione, radicata forse maggiormente nelle agenzia di polizia, la magistratura più avvertita si tiene ben lontana e non si devono mettere in ombra gli sforzi di moltissimi pubblici ministeri e giudici per esercitare il potere coercitivo cautelare in ottica self-restraint[4]. Il dato di fatto, tuttavia, almeno sui grandi numeri rimane in tutta la sua evidenza e palesa la necessità per il giudice della cautela di lavorare la materia delle misure anche con un occhio rivolto all’esecuzione della pena, al fine di evitare quelle prassi anticipatorie di cui si è detto.

E' lecito domandarsi, tuttavia, sino a che punto debba e possa spingersi la previsione di questo giudice al momento dell’applicazione della misura cautelare e come debba essere curato il “corso della vita” della carcerazione provvisoria.

 

3. Custodia cautelare e prognosi sull’esecuzione della pena. Lo stato dell’arte prima della riforma.

Il tema sinora è stato affrontato soprattutto sotto un duplice aspetto: divieto di disposizione della misura della custodia cautelare in caso di possibile concessione della sospensione condizionale della pena con la sentenza (art. 275, comma 2-bis, cod.. proc. pen.) e rispetto del principio di proporzione tra misura adottata e “entità della sanzione” (art. 275, comma 2, cod. proc. pen.).

L’ermeneutica dominante – condensata rispettivamente in Sezioni Unite 28. 10. 2010 n. 1235, Giordano e altri, e in Sezioni Unite 31. 3. 2011 n. 16085, Khalil – ha in maniera piuttosto condivisibile escluso che il giudice della cognizione si debba dedicare a scienze predittive o a calcoli matematici slegati dalle esigenze cautelari: lavori con gli arnesi normativi delle misure e con i saperi di cui dispone al momento. Da questa impostazione discendono due conseguenze pratiche: l’esclusione, in caso di applicazione della custodia in carcere, di un obbligo di motivare sulla prognosi relativa alla sospensione condizionale in caso di ritenuta sussistenza del pericolo di reiterazione del reato; l’illegittimità di un revoca per sopravvenuta carenza di proporzionalità su base puramente aritmetica - i due terzi della pena di cui all’art. 304 cod. proc. pen. - quando siano invece ancora intatte le esigenze cautelari che hanno dato luogo alla custodia[5].

Deve essere chiaro che l’interprete non ha inteso negare l’esistenza di un divieto di applicazione della custodia in caso di futura concessione del beneficio sospensivo della condanna, né mettere tra parentesi la necessità della costante verifica della proporzionalità della misura in esecuzione rispetto alla pena irroganda.

Le soluzioni adottate, tuttavia, hanno lasciato alla discrezionalità dell’autorità giudiziaria (non all’arbitrio) il complesso processo di “individualizzazione della coercizione cautelare” (Corte cost. 265/2010), reputando opportuno che i presupposti delle misure siano apprezzati e motivati dal giudice sulla base della situazione concreta e della autonoma pregnanza delle esigenze cautelari. Niente automatismi o meccanismi presuntivi, pertanto, i quali appaiono nefasti quando operano in chiave repressiva (come nel caso della disciplina della recidiva reiterata contenuta nella legge ex-Cirielli) e inadeguati alla realtà del processo quando vengono attivati a favore del “reo”.

La linea di tendenza sin qui seguita, tuttavia, sembra giunta a una sorta di capolinea in ragione dei recenti interventi normativi in materia di contrasto al sovraffollamento carcerario e, in particolare, delle novità apportate dal decreto legge 26 giugno 2014, n. 92, convertito con modificazioni nella legge 11 agosto 2014. N. 117. L’art. 8 del testo in questione, infatti, ha modificato l’art. 275, comma 2-bis, del codice di procedura penale attraverso l’introduzione di un ulteriore divieto di applicazione della custodia cautelare in carcere nel caso in cui il giudice ritenga che all’esito del giudizio la pena irrogata non sarà superiore a tre anni.

L’innovazione, pertanto, immette nel sistema un definitivo e “inedito collegamento tra la risposta cautelare e la fase esecutiva della sanzione” e impone al giudice di cognizione di gettare lo sguardo oltre il confine del giudicato.

In realtà, la disposizione ha avuto un conio travagliato e molta della sua portata dirompente è stata arginata con gli emendamenti apportati in sede di conversione. Si tratta, tuttavia, di un passaggio legislativo importante che, al di là delle valutazioni strettamente tecniche, merita un attento esame anche dal punto di vista delle conseguenze politiche.

 

4. La straordinaria necessità e urgenza di modificare il comma 2-bis dell’art. 275 (ovvero, come la gatta frettolosa fece i gattini ciechi).

Una formulazione letterale non proprio felice e alquanto laconica distingue la prima versione della norma, ricollegabile all’art. 8 del decreto legge 26 giugno 2014, n. 92: non può applicarsi la misura della custodia cautelare in carcere se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva da eseguire non sarà superiore a tre anni.

Il disposto va a collocarsi nell’ambito dell’art. 275, comma 2-bis, cod. proc. pen., subito dopo la statuizione che sbarra la strada all’applicazione della custodia cautelare in carcere in caso di concessione della sospensione condizionale della pena. Quest’ultima previsione, peraltro, viene estesa anche agli arresti domiciliari. Come noto, l’equiparazione era già stata metabolizzata a livello giurisprudenziale e appare evidente che il legislatore, mettendola nero su bianco, ha inteso soltanto  marcare la differenza con il divieto di nuovo conio.

Il 27 giugno 2014, pertanto, data di pubblicazione del decreto, poche cose erano chiare in materia di coercizione cautelare: niente carcere e domiciliari in caso di possibile concessione della sospensione condizionale della pena; niente custodia in carcere in caso di pena da eseguire inferiore ai tre anni.

Lo scopo perseguito dal legislatore è dichiarato nel preambolo del decreto: modificare l’art. 275, comma 2-bis, del codice di rito in modo da  rendere tale norma coerente con quella contenuta nell’art. 656 cod. proc. pen. La previsione contenuta in quest’ultimo articolo infatti, consente la sospensione dell’ordine di esecuzione delle pene detentive di regola non superiori a tre anni al fine di evitare il famigerato “assaggio di carcere” a quel condannato che, al momento del passaggio in giudicato della sentenza, si trovi in stato di libertà. Costui, chiamato a espiare porzioni di pena compatibili con quasi tutte le misure alternative (dall’affidamento in prova al servizio sociale alle varie ipotesi di detenzione domiciliare) e senza essere “gravato” dalla presunzione di pericolosità correlata al permanere della custodia al momento dell’esecutività della sentenza, ben potrà attendere da libero la decisione, verosimilmente positiva, del Tribunale di Sorveglianza in ordine alla concessione delle misure alternative.Il transito in carcere, in questi casi, è tutt’altro che rieducativo e conduce nel migliore dei casi al solo risultato di inflazionare la popolazione carceraria.

La norma, dunque, nasce con la palese e per alcuni versi apprezzabile finalità di escludere l’applicazione della custodia in carcere in caso di probabile esecuzione fuori dal circuito carcerario della sentenza di condanna. La logica sottesa è quella del contrasto al fenomeno del sovraffollamento.

Le certezze, tuttavia, quel 27 giugno, finivano qui.

Anche a voler mettere tra parentesi i dubbi generati dall’imprecisa formulazione letterale (con quell’inciso pena da eseguire che lasciava campo aperto ai calcoli più sofisticati e divinatori su presofferto, fungibilità, liberazione anticipata), è subito balzata agli occhi dei commentatori più attenti[6] un’arrischiata sovrapposizione tra i criteri che presiedono all’esercizio dell’azione cautelare e quelli che sovrintendono all’irrogazione della pena. In altri termini, il legislatore ha subordinato l’applicazione della misura coercitiva più grave a una prognosi sull’entità della pena da irrogare. Prognosi, però, che rimane impermeabile ai parametri dell’art. 274 cod. proc. pen.: con trattamento sanzionatorio attestato su una soglia inferiore ai tre anni, non vi è pericolo di reiterazione, di inquinamento probatorio o di fuga neutralizzabile attraverso la custodia in carcere.

Una tale presunzione legale di idoneità di misure diverse dalla custodia, correlata alla sola previsione del contenimento della pena entro certi limiti e svincolata dalla concretezza delle più diverse e pressanti esigenze cautelari, appare del tutto inedita nel nostro sistema. La stessa prognosi in tema di concessione della sospensione condizionale, infatti, oltre a dover tener conto dei limiti edittali previsti dall’art. 163 cod. pen., è strettamente condizionata, come si è detto in precedenza, dalla valutazione in ordine alla probabilità “che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati” (art. 164 cod. pen.).

Nello stesso ordine di ragionamenti, l’art. 656 del codice di rito presuppone al suo interno come fisiologica la possibilità del carcere in itinere anche nel caso di pene inferiori ai tre anni ed esclude la sospensione dell’ordine di esecuzione allorché il soggetto si trovi in stato di custodia cautelare al momento del passaggio in giudicato della sentenza (art. 656, comma 9, lett. b) cod. proc. pen.).

Il sistema era congegnato per tenersi: pressanti esigenze cautelari, legate soprattutto al pericolo di reiterazione del reato, potevano giustificare la custodia anche in caso di pene da irrogare inferiori ai tre anni e in tale evenienza, perdurando la misura più dura sino al passaggio in giudicato della sentenza, non era consentita sospensione dell’ordine di esecuzione, presumendosi una pericolosità incompatibile con le misure alternative.

L’innesto del nuovo divieto di custodia cautelare in carcere, viceversa, sembra voluto proprio per paralizzare l’applicazione di cui all’art. 656, comma 9, lett. b), cod. proc. pen.: niente più condannati a pene inferiori a tre anni in stato di custodia cautelare in carcere, niente più divieti di sospensioni.

La nuova presunzione pro reo, dunque, oltre a non tenere in debito conto quella che è la funzione e la natura del giudizio cautelare, entra in rotta di collisione anche con la stessa logica dell’art. 656 cod. proc. pen.

Si aggiunga poi che la disciplina in materia di esecuzione della pena stabilisce un trattamento più severo (art. 656, comma 9, lett. a), cod. proc. pen.) per gli autori di alcuni delitti – da quelli ricompresi nel novero dell’art. 4 bis ord. pen. a quelli previsti dagli artt. 423 bis, 572, secondo comma, 612 bis, terzo comma, 624 bis del codice penale – , nei confronti dei quali l’ordine di esecuzione della pena detentiva, quand’anche inferiore a tre anni, non può essere sospeso. La nuova normativa in materia di preclusione della custodia cautelare, viceversa, non conteneva alcune distinzione, impedendo l’applicazione della misura più severa per tutti i delitti in caso di stima sanzionatoria non superiore a tre anni.

La scelta iniziale di non introdurre nella modifica dell’art. 275 cod. proc. pen. clausole di salvaguardia della custodia in carcere e i difetti di coordinamento con altre norme (in particolare, 280, comma 3, 276, comma 1 ter, cod. proc. pen., 284, comma 5 bis, cod. proc. pen.), inoltre, generavano una molteplicità di dubbi sul carattere assoluto della norma di favore introdotta dal legislatore, verosimilmente inderogabile anche in caso di trasgressione alle prescrizioni delle altre misure, inidoneità del domicilio, condanna per evasione nei cinque anni precedenti.

In conclusione, la straordinaria urgenza di procedere con decreto legge a rimodulare il rapporto tra potere coercitivo cautelare ed esecuzione della pena per estirpare la patologia del sovraffollamento aveva causato “effetti collaterali indesiderati”, ai quali soltanto la legge di conversione, di cui ora si tratterà, ha messo argine. Anche agli osservatori più garantisti, infatti, non è sfuggito che la custodia in carcere non può essere eliminata con una previsione astratta e indifferente alle urgenze concrete, spesso non altrimenti arginabili, del procedimento cautelare.

 

5. La disciplina dopo la legge di conversione: anatomia di un topolino?

Gli allarmi lanciati dalla dottrina e dalla magistratura associata circa i pericoli di un depauperamento eccessivo e ingiustificato del potere coercitivo cautelare hanno fatto in modo che il legislatore tornasse in qualche modo sui suoi passi. Le modifiche all’art. 275 del codice di procedura penale apportate della legge di conversione n. 117/2014 suonano ora così: salvo quanto previsto dal comma 3, e ferma restando l’applicabilità degli articoli 276, comma 1 ter, e 280, comma 3, non può applicarsi la misura della custodia cautelare in carcere se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni. Tale disposizione non si applica nei procedimenti per i delitti di cui agli artt. 423 bis, 572, 612 bis e 624 bis del codice penale, nonché all’art. 4 bis della legge 26 luglio 1975 n. 354 e successive modificazioni, e quando, rilevata l’inadeguatezza di ogni altra misura, gli arresti domiciliari non possano essere disposti per mancanza di uno dei luoghi di esecuzione indicati nell’art. 284, comma 1, del presente codice.

È sufficiente una lettura d’acchito della disposizione per rendersi conto che i sostanziali ritocchi apportati in sede di conversione hanno in gran parte ridimensionato la portata dirompente della norma prevista dall’art. 8 del decreto legge 92/2014.

Prima di ogni altra cosa il legislatore ha specificato l’oggetto della prognosi del giudice, il quale dovrà stimare la pena irrogata all’esito dal giudizio e non quella da eseguire. Il campo è stato così sgombrato dagli equivoci sugli irrealistici calcoli da effettuare per computare la pena residua.

L’elisione degli effetti più azzardati della norma originaria, poi, è stata conseguita sia con la previsione di clausole di salvezza sia con l’inserimento nell’ordinamento di un altro elenco di delitti trattati in modo più rigoroso. È dunque di nuovo possibile soddisfare esigenze cautelari con il carcere preventivo anche in caso di pene irrogate inferiori a tre anni – naturalmente, previa verifica di inidoneità della misure di grado minore –   ogni volta che si procede per determinati delitti (tra cui quelli indicati nell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., quelli ricompresi nel novero dell’art. 4-bis ord. pen. e, infine, quelli previsti dallo stesso art. 275, comma 2-bis, cod. proc. pen.), ogni volta che l’imputato assoggetto a misure coercitive inferiori trasgredisce alle prescrizioni correlate alle stesse e, infine, in tutti casi di indisponibilità di un domicilio idoneo a permettere lo svolgimento degli arresti domiciliari[7].

L’eccessivo depotenziamento dell’azione cautelare previsto nell’originaria formulazione della norma rende in parte ben accette le significative modifiche cui si è appena accennato.

Inevitabilmente critico, viceversa, deve essere  il giudizio sul metodo scelto. Va in primo luogo osservato che la selezione dell’ennesima categoria di delitti da assoggettare a un doppio binario anche in tema di misure cautelare, oltre a esporsi a censure in termini di legittimità costituzionale, contribuisce a rendere il sistema sempre più eterogeneo e di difficile lettura. Viene naturale chiedersi quale attitudine alla “controspinta criminosa” possa avere un diritto penale che nel suo complesso è composto da eccezioni più che da norme.

Rimangono poi del tutto intatte le perplessità inerenti la sovrapposizione tra parametri per la scelta della misura (art. 274 cod. proc. pen.) e criteri per la determinazione del trattamento sanzionatorio (art. 133 cod. pen.). In sostanza, il giudice della misura, oltre a dover valutare la costellazione indiziaria e le esigenze di cui all’art. 274 cod. proc. pen., dovrà interrogarsi, già in sede di indagini o di direttissima, sulla gravità del reato e sulla capacità a delinquere del reo per ipotizzare una pena che, nel caso di dovesse attestare sotto i tre anni, precluderebbe l’applicazione della custodia cautelare indipendentemente dalla gravità delle esigenze cautelari medesime.

Va sottolineato che i dubbi appena esposti rimangono ormai confinati ai soli delitti esclusi dalla black list, circostanza questa che dovrebbe anche circoscrivere il rischio che l’affrettato meccanismo normativo escogitato per deflazionare la popolazione carceraria esiti in risultati opposti, dando luogo a spinte verso l’alto nella determinazione dei trattamenti sanzionatori per consentire comunque il ricorso alla misura custodiale in caso di pericula in libertate. In questa deplorata evenienza il prezzo più alto, ancora una volta, verrebbe pagato dai devianti dell’area della marginalità, che corrono il serio pericolo di vedere le pene per alcuni reati – quelli assoggettati all’operatività del nuovo articolo 275, in genere trattati in direttissime – spinte verso l’alto, ben oltre i minimi edittali.

Proprio con riferimento al “processo dei poveri”, poi, occorre muovere all’intervento riformatore un ultimo appunto critico, inerente all’opzione di salvaguardare la possibilità di applicare la custodia in carcere anche in caso “di mancanza di uno dei luoghi di esecuzione indicati nell’art. 284, comma 1”. Con un po’ più di coraggio il legislatore, anziché optare per il ritorno in carcere in caso di mancanza di dimora e sanzionare di fatto la miseria,  avrebbe potuto cogliere l’occasione per introdurre nell’ordinamento quei “luoghi non custodiali di dimora sociale” ipotizzati dalla proposta della commissione Palazzo in materia di riforma del sistema sanzionatorio penale[8], utili a consentire l’espletamento di una misura domiciliare anche nei confronti dei non possidenti.

L’analisi sin qui svolta, comunque, consente ora di trarre delle conclusioni sul senso complessivo dell’innovazione normativa, anche in un’ottica più generale di politica criminale.

 

6. Conclusioni e interrogativi.

Il consistente intervento di ortopedia normativa posto in essere al momento della conversione del decreto legge autorizza ad azzardare che l’operatività del nuovo art. 275, comma 2 bis, cod. proc. pen. rimarrà confinata a poche ipotesi residuali. Tale conclusione appare ragionevole anche in considerazione dei paralleli interventi legislativi in materia di innalzamento dei limiti edittali idonei a consentire l’applicazione della custodia in carcere. Di pari passo, è lecito stimare che l’incidenza della norma sul flusso dei soggetti in ingresso negli istituti di pena non sarà affatto consistente.

L’ “inedito” collegamento instaurato tra fase cautelare ed esecuzione della pena, tuttavia, induce alcuni riflessioni (e qualche interrogativo) sulla strada intrapresa dal legislatore, non solo in materia di procedimento cautelare, per tentare di trarre la penalità fuori dalla secche di una logica binaria che al reato contrappone sempre (o quasi sempre) il carcere.

In quest’ottica, occorre muovere da un’interpretazione complessiva e politicamente orientata non solo del testo legislativo in materia di misure cautelari, ma di tutte le ultime riforme adottate o messe in cantiere dal Parlamento in materia di penalità detentiva e di alternative al carcere. In altre parole, ancora una volta è necessario uno sguardo che abbracci sia l’ambito della cautela sia l’ambito dell’esecuzione.

Lungo questa traiettoria appare possibile avvalorare l’oggettiva concludenza dei seguenti interventi normativi: introduzione dell’esecuzione presso il domicilio delle pene inferiori a diciotto mesi e stabilizzazione definitiva di tale misura, nella quale il legislatore – pur lasciando margini di valutazione e discrezionalità al magistrato di sorveglianza – è categorico nel tenore letterale (la pena è eseguita presso il domicilio, cfr. l. 199/2010 e successive modifiche, nonché decreto legge146/2013, convertito in legge 10/2014); innalzamento a quattro anni del tetto di pena per fruire dell’affidamento in prova ai servizi sociali (ancora decreto  146/2013); messa a punto di una legge delega di ridefinizione del sistema sanzionatorio (l. 67/2014) volta a introdurre la reclusione e l’arresto domiciliari quali pene esclusive per i reati puniti con pena non superiore a tre anni e facoltativa per delitti per punti con pena tra tre e cinque anni; introduzione (l. 67/2014) della sospensione del procedimento con messa alla prova dell’adulto per delitti puniti con pena non superiore a quattro anni; aumento della soglia edittale legittimante la custodia cautelare a cinque anni (decreto legge 78/2013, convertito in l. 94/2013).

Se si ponesse in essere un tentativo di leggere la cifra complessiva di tali interventi, al di là del loro affastellarsi a volte eccessivamente caotico, se ne potrebbe forse ricavare l’auspicabile via di uscita da un sistema di repressione penale “carcere-centrico”. È indubbio, infatti, che il legislatore stia perseguendo una logica che conduce al divieto, o quanto meno alla limitazione, della risposta carceraria nei confronti dei reati di minore e media gravità.

Ciò significa che, almeno nel campo della criminalità di minore allarme sociale e in alcuni (ancora limitati) casi, l’incarcerazione non sarà più la reazione legittima – sia in sede cautelare sia in sede esecutiva – al pericolo di reiterazione dei reati, indipendentemente da quanto intenso ed elevato tale pericolo possa essere.

La svolta correlata al ridimensionamento della penalità carceraria appare quanto mai opportuna, tenuto conto degli elevati tassi di recidiva ingenerati dalla risposta segregazionista, dell’inciviltà del fenomeno del sovraffollamento e dell’incidenza pressoché nulla della repressione carceraria sul senso di sicurezza collettivo.

La bontà e l’utilità della scelta, tuttavia, si misureranno sulla capacità effettiva del sistema di bilanciare un tasso minore di afflizione della risposta penale con un grado maggiore di efficacia  della stessa.

In questa direzione, l’obiettivo auspicabile è quello di riconquistare un effetto  deterrente della minaccia penale non attraverso l’incremento dei castighi, ma attraverso il recupero dell’effettività degli stessi. Ogni politica che tenti di affrontare il problema della criminalità con risposte “extramurarie” deve inevitabilmente fare i conti con la necessità di riempire di contenuto le sanzioni e le misure alternative, di immettere risorse in esse e, più in generale, di investire in campo sociale. Riedificare anche nel campo della penalità le mura di uno stato sociale efficiente appare obiettivo di fondamentale importanza non solo in chiave preventiva, ma anche in chiave  repressiva. Si tratta, insomma, di far in modo che alle prospettive di decarcerizzazione si accompagni la costruzione di una nuovo tool kit della risposta sanzionatoria ricco di contenuti, di professionalità, di risorse.

La sfida, toccando il corpo vivo della sensibilità dell’opinione pubblica, non potrà non passare anche attraverso una riappropriazione del fare giustizia da parte della comunità e attraverso la riattivazione di quei rapporti sociali orizzontali di controllo che possono coagularsi nelle nuove e in parte già sperimentate forme della mediazione penale e della giustizia riparitiva.

I ragionamenti sin qui svolti toccano soltanto – in estrema e ipercondensata sintesi – alcuni punti rilevanti del rapporto tra fase cautelare e fase esecutiva, esaminati anche nella prospettiva di una riforma penale che sembra in parte avviata. Molti altri temi dovrebbero occupare la nostra attenzione, ma non è questo il momento per squadernarli.

In questa sede si è solo tentato di individuare alcune linee di sviluppo della complessa materia, navigando a vista e tenendo con sé l’unica certezza che una grande irregolare della cultura italiana ammetteva: quella del dubbio[9].

 


[1] Come noto la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’uomo dell’8 gennaio 2013, Torreggiani e altri c. Italia, nel sottolineare il trattamento inumano e la sistematica violazione dell’art. 3 CEDU correlati al tasso di sovraffollamento,  ha messo in evidenza l’alta percentuale di detenuti in attesa di giudizio nell’ambito della popolazione carceraria. Al 30 aprile 2014, la cifra dei detenuti non definitivi ammonta a 19.855. Un’analisi scientificamente attendibile di tale dato statistico – utile anche sotto il profilo delle conclusioni politiche che se ne possono trarre – deve porre l’accento sul fatto che la cifra indicata comprende sia i detenuti in attesa di prima giudizio (10.389) sia i detenuti non definitivi appellanti e ricorrenti (5. 589 i primi, 1.469 i secondi).  Non è questa la sede per entrare nel merito della discussione circa l’opportunità di rendere immediatamente esecutive le sentenze di primo grado, ma occorre osservare che in altri Paesi con rito accusatorio puro (Gran Bretagna, per rimanere in ambito europeo) le sentenze di primo grado sono immediatamente esecutive, con ascrizione dei detenuti alla cifra dei condannati tout court e potere discrezionale del giudice dell’impugnazione di rilascio nella pendenza della fase di appello.

I dati risultano parzialmente mutati sulla base dell’ultimo aggiornamento disponibile, dalla cui risultanze è dato evincere che i detenuti non definitivi ammontano a 17.169, su un totale di 54.252 detenuti. All’interno di tale cifra, il dato relativo ai detenuti in attesa di giudizio ammonta a circa 9.252 individui.

[2] In questi termini, E. Fassone, Carcere e criminalità: il cittadino interroga le prigioni, Esperienze, 1976, p. 56.

[3] Così M. Ceresa Gastaldo, “Tempi duri per i legislatori liberali”, in Diritto Penale Contemporaneo, 10 luglio 2014 (reperibile su www.penalecontemporaneo.it).

[4] Di particolare pregio appare la circolare del Procuratore della Repubblica di Milano Edmondo Bruti Liberati in data 15 gennaio 2013 che, dopo un riflessione sui moniti della Torreggiani in materia di ricorso alle misure alternative al carcere, così conclude: “Sono certo che tutti i magistrati della Procura della Repubblica di Milano terranno nel massimo conto, sia in tema di misure cautelari che in fase di esecuzione, gli auspici della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo”.

[5]  Sul punto deve segnalarsi che il documento conclusivo della Commissione di studio in tema di ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione - la c.d. Commissione Giostra  - ha proposto la previsione di una autonoma causa di estinzione della misura cautelare una volta che questa abbia raggiunto la soglia dei due terzi. In particolare modo viene proposta un modifica dell’art,. 300, comma 4, cod. proc. pen. in questo senso: “La custodia cautelare perde efficacia quando è pronunciata sentenza di condanna, ancorché sottoposta a impugnazione, se la durata della custodia già subita non è inferiore ai due terzi della pena irrogata”.

[6] In questo senso le riflessioni più approfondite si trovano in F. Viganò, “Una norma da eliminare: l’art. 8 del d.l. 92/2014”, 7 luglio 2014, in Diritto Penale Contemporaneo (reperibile su www.penalecontemporaneo.it) e nel parere del CSM sul testo del decreto adottato con delibera consiliare del 30 luglio 2014

[7] Rimane un problema di coordinamento con la norma di cui all’art. 284, comma 5, cod. proc. e con quella di cui all’art. 391, comma 5, cod. proc. pen. La lacuna, non colmata dalla legge di conversione, dovrà essere affrontata dall’interprete.

[8] Il riferimento è allo schema per la redazione di principi e criteri diretti di delega legislativa in materia di riforma del sistema sanzionatorio penale (dicembre 2013) redatta dalla commissione insediata presso il Ministero della Giustizia e presieduta dal prof. Palazzo.

[9] G. Sapienza, Le certezze del dubbio, Torino, 2013.

08/10/2014
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