Magistratura democratica
Leggi e istituzioni

Questione carcere. Un’introduzione

di Riccardo De Vito
magistrato sorveglianza Nuoro
Un’introduzione per passare in rassegna le reti di significato e i fili ideali che si intrecciano in questo approfondimento monografico, tra passato e presente, bilanci e prospettive

1. Le domande

Quelli del luglio 1975 sono stati giorni importanti per il “pianeta carcere”. La legge 26.7.1975, n. 354, annuncia l’inizio di una nuova stagione, avviata – lo racconta Claudio Sarzotti in una delle riflessioni che proponiamo – nel segno della “scoperta” della Costituzione.

Si riallineano, in primo luogo, le gerarchie delle fonti e l’ordinamento penitenziario, sino ad allora disciplinato dal Regolamento del 1931, diviene oggetto di una coerente riforma attuata con legge ordinaria.

Oggi, nel 2015, siamo al quarantennale di quel testo legislativo. Quarant’anni di una narrazione giuridica che nel tempo si è accresciuta con robusti innesti normativi, i quali in alcuni casi hanno arricchito la trama del testo originario, altre volte ne hanno depotenziato la spinta innovatrice.

Non c’è occasione migliore di un compleanno per tentare un bilancio. Per provocare, anche, una riflessione e un dibattito approfonditi sullo stato dell’arte dell’“utopia punitiva” e provare, così, a rispondere ad alcune domande di importanza capitale. Nel corso di quarant’anni cosa abbiamo immesso nel panorama dell’esecuzione penale per combattere l’ideologia delle “chiavi da buttare”? Il “punire” è ancora puntualmente “sorvegliare”?[1]

 

2. Immergersi nella realtà

Le riflessioni di Giuseppe Borrè sul processo del lavoro valgono anche per il giudice, e più in generale per il giurista, che si occupa dell’esecuzione delle pene. Occorre accettare “l’impatto con la realtà”, far prevalere “il fatto sul diritto”, “il concreto sull’astratto”[2]. Serve, sopra ogni cosa, conoscere da vicino la concretezza del carcere.

Sono queste le ragioni che inducono ad aprire la riflessione sul quarantennale con quelle che, prendendo in prestito un titolo da Eduardo, abbiamo chiamato le voci di dentro.

L’intervento di Marcello Dell’Anna, ergastolano ostativo, consente di allungare lo sguardo sul “carcere vissuto”, ma non si tratta di approccio voyeuristico. Fornisce l’immagine nitida, viceversa, di cosa esattamente sia per la generalità dei reclusi il contesto detentivo. Dell’Anna è un uomo che «i cambiamenti normativi li ha vissuti sulla pelle» e la sua prosa investe i nervi del lettore. Il racconto dei giorni (e delle notti) trascorsi in carcere mette in risalto le ansie, le frustrazioni, le attese che i reclusi vivono nel paese delle meraviglie. Non stupisca l’impiego del titolo del libro di Carroll: se è vero che di meraviglie, in carcere, ce ne sono ben poche, è altrettanto certo che chiunque metta piede in un istituto di pena si accorge ben presto di un mondo “a scala diversa”.

Colpiscono, di questo brano, le scelte lessicali adottate per far percepire almeno il sentore dell’interno: riproduzione, ripetizione, reiterazione. Sono parole che danno la misura tangibile dell’istituzione totale, avvitata su se stessa, impermeabile all’esterno, di frequente resistente a ogni tentativo di riforma.

La descrizione delle privazioni, dei diritti calpestati e delle ansie quotidiane dei detenuti confermano quanta strada debba ancora essere percorsa perché il carcere possa divenire il terreno di una pena legale e umana. La narrazione dei protagonisti, del resto, trova schiacciante conferma in statistiche e numeri inesorabili: il costo medio sopportato dallo Stato per ogni detenuto è di circa 125 euro al giorno; di questi, soltanto 9,26 euro sono deputati al mantenimento della persona reclusa, cifra che comprende sia le spese per i tre pasti giornalieri (3,80 euro) sia le spese per il trattamento (5,46 euro, da cui vanno detratti i costi di trasporto e traduzione)[3].

Un quadro desolante, dunque, quello che si percepisce nel volgere lo sguardo sulla vita della popolazione reclusa, una vita – come scrive Fabio Gianfilippi, magistrato di sorveglianza – popolata da “cattivi sogni”.

D’acchito, potrebbe sorprendere la simmetria tra le parole del detenuto e quelle del magistrato. Quel “sapere” del giudice, viceversa, è il portato della specificità del lavoro della magistratura di sorveglianza, vale a dire di uno dei settori dell’apparato giudiziario “meno curiale, più coinvolto nel sociale”[4], più vicino ai fatti e alle persone da conoscere e valutare.

Un sapere ottenibile a una sola condizione: che il magistrato di sorveglianza eserciti fino in fondo il compito – assegnatogli dalla riforma – di giudice di prossimità, senza il rifiuto del contatto con la realtà sulla quale la funzione deve incidere e senza il timore di prendere le distanze da quella logica (una volta dominante, funzionale alla difesa di una presunta neutralità della giurisdizione e oggi di nuovo in auge) in base alla quale «tanto maggiore era l’astrazione dal reale, tanto maggiore era la qualificazione del lavoro giudiziario»[5].

Occorre, al contrario, immergersi nella realtà.

Risaliti in superficie, oggi, può solo constatarsi quanto sia ampia la distanza tra il dire della riforma e l’essere del carcere.

Una distanza che molte figure professionali che ruotano attorno al penitenziario cercano con strenua fatica, ogni giorno, di ridurre.

Ornella Favero, giornalista e volontaria, offre una rappresentazione viva e coinvolgente di un particolare punto di vista: quello del volontariato, appunto. Attraverso la sua voce arrivano pensieri di altri detenuti, di quei vissuti che troppo spesso siamo abituati a pensare come «vite che non sono le nostre».

Lo iato tra il modello disegnato dal riformatore e quello realizzatosi in concreto, peraltro, ha trovato certificazione solenne nelle sentenze di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo e, in particolare, nell’ormai celebre Torreggiani c. Italia dell’8 gennaio 2013.

Senza mezzi termini, nel condannare l’Italia per la violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti, la Corte di Strasburgo ha sancito il tradimento della riforma. La Costituzione e la legge del ‘75 ci parlano di azione rieducativa e di una pena risocializzante, ma nel quotidiano ci troviamo a fare i conti con una pena strutturalmente inumana e illegale. Il destino della riforma sembra coincidere con il suo fallimento.

 

 

3. Storia e destino di una promessa

Ridare fiato alla scommessa dell’art. 27 della Costituzione – in base alla quale nessun uomo è perduto, come ci ricorda Franco Corleone, – è oggi una sfida culturale, prima ancora che politica e giuridica. In un’impresa del genere non ci si può avventurare senza ragionare sul «presente come storia»[6].

I fermenti intellettuali e il contesto ideologico che hanno accompagnato la “nascita” della riforma sono approfonditi nell’intervento di Claudio Sarzotti.

L’analisi guarda alla legge del 1975 come a un testo letterario, secondo la metodologia e gli esiti teorici del movimento della law as literature. Un approccio di notevole rilievo che, a partire dalle osservazioni sull’incipit della legge, chiarisce in maniera indubitabile le intenzioni del legislatore-narratore: far entrare la Costituzione nel carcere italiano. È a partire da questa “visione” delle cose, interessata a realizzarsi, che si possono capire alcuni snodi fondamentali dell’articolato: la diffidenza con la quale si guarda a uno dei personaggi in campo, ossia l’amministrazione penitenziaria (con metafora evangelica, Gozzini aveva detto che il vino nuovo era stato versato in otri vecchi); il tentativo di blindare in termini di diritti le posizione giuridiche soggettive dei detenuti; la creazione, infine, di un protagonista nuovo quale il magistrato di sorveglianza. Sono interventi strettamente interrelati, che si muovono nell’ambito dell’idea-chiave di giurisdizionalizzare la fase esecutiva per renderla il terreno dell’attribuzione al detenuto di diritti e risorse che ne favoriscano il rientro in società. L’esecuzione diventa percorso, work in progress che spezza il sigillo dell’immutabilità del giudicato e punta al costante riesame della pretesa punitiva per verificare il raggiungimento dell’obiettivo rieducativo, ottenuto il quale – lo ricorda la celebre sentenza della Corte costituzionale 204 del 1974 – punire non è più legittimo.

Per essere all’altezza di questa nuova narrazione, il carcere doveva essere trasformato: non più il monolite chiuso al mondo – aperto, al più, a qualche paternalistico supporto dall’esterno –, ma un luogo di legalità nel quale coinvolgere il consorzio civile. Secondo un moto, inoltre, che doveva essere pendolare: dalla società al carcere e dal carcere alla società. Occorreva, dunque, favorire i contatti con il “fuori”, spostare il baricentro sull’area penale esterna, sviluppare le misure alternative. In questo senso, la fisionomia della riforma del 1975 non sarebbe quella che oggi conosciamo senza i decisi passi in avanti segnati dall’approvazione della legge Gozzini del 1986.

In quale misura l’obiettivo sia stato raggiunto non è facile dirlo. Certo le galere non sono più quei luoghi di coercizione di anime e corpi del dopoguerra. Esistono, poi, esempi del “carcere che resiste”, di quel carcere che attraverso gli slanci di volontà degli operatori e la loro capacità di lavorare in rete è riuscito a dare buona prova di sé e a far vacillare l’immaginario di una violenza indomabile.

Come detto, tuttavia, nel 2015 ci troviamo a fare i conti con le condanne della Corte europea per i diritti dell’uomo per le condizioni inumane e degradanti assunte dalla detenzione in carcere nel nostro Paese. Non si può sfuggire, dunque, all’interrogativo sulle ragioni dello scarto tra la deontologia della legge e la piega dei fatti.

Franco Corleone e Pietro Buffa, ciascuno dal proprio particolare punto di osservazione, propongono una teoria di ragionamenti limpidi, senza cedere alla tentazione di una critica non accompagnata da suggerimenti di utilità.

Nell’analisi vengono in rilievo, in primo luogo, le scelte di una legislazione carcerogena che, cavalcando la propagazione di una paura spesso costruita su misura, ha declinato la politica della sicurezza in chiave esclusivamente penale. L’ondata di ricarcerizzazione (nitidamente rappresentata dalle leggi in materia di stupefacenti, di immigrazione, di recidiva, nonché dai numerosi “pacchetti sicurezza”) è coincisa con la fine della stagione dei diritti sociali e ha ridato linfa allo splendore dei castighi. Lo svuotamento delle camere di compensazione del conflitto sociale – lavoro, scuola, sanità, solo per citare le più rilevanti – è andato di pari passo con il riempimento delle stive delle galere attraverso l’incarcerazione dei poveri e degli esclusi. Si è assistito, in sostanza, all’attuazione scrupolosa di una logica di neutralizzazione selettiva importata da latitudini nordamericane e tradotta, come ha scritto un autore di genio, in una nostrana politica di spaghetti incapacitation[7]; una logica, quest’ultima, solo di recente temperata dagli interventi delle Corti, nazionali e internazionali, e dai provvedimenti di un legislatore messo con le spalle al muro dai ripetuti warnings della Corte Edu. 

Il carcere sovraffollato, inidoneo alla promozione dell’istanza rieducativa, ha poi altre cause, che gli interventi raccolti in questo numero mettono a fuoco: perenne trionfo delle scelte edilizie quantitative sulle opzioni architettoniche qualitative; assenza di strategie organizzative e gestionali; carenza di risorse materiali e loro esclusivo riversamento sul lato della custodia; mancanza di adeguato turn over di alcune figure professionali, difetti nella diffusione delle prassi virtuose. Tutta una serie di circostanze che, anche in ragione di quella “quotidianità” di cui ci parla Pietro Buffa nel suo intervento, sfuggono ormai anche ai rilievi critici.

La valutazione, poi, deve essere spostata sul terreno della coerenza del testo normativo, una coerenza ormai irrimediabilmente perduta a causa di un legiferare occasionale, ancorato alla contingenza, in alcuni casi pletorico e altre volte lacunoso.

Sotto questo profilo, un’analisi specifica – ricorrente in molti interventi, in primo luogo quello di Dell’Anna – è dedicata alle presunzioni assolute di pericolosità correlate alla commissione dei delitti ricompresi nell’elenco dell’art. 4bis Ord. pen. Una serie di preclusioni automatiche al progresso trattamentale che, al di là della sua discutibilità di fondo, si è estesa a dismisura, fino a toccare una criminalità che nulla ha a che fare con quella organizzata ed eversiva e fino a interessare istituti estranei alla logica della collaborazione. Preclusioni, poi, che contrastano con l’individualizzazione dei percorsi di risocializzazione e ledono, in fondo, lo stesso diritto al trattamento.

Ma quando si parla di diritti si inizia a entrare in un altro campo: ci si sposta dal terreno dei problemi per entrare in quello delle possibili (e difficili) soluzioni. Lo sguardo sul passato diventa visione sul futuro.

 

4. L’officina del futuro: diritti, reinserimento, giudici

I diritti fondamentali dei detenuti possono forse costituire il punto di partenza per immaginare un modello di “penitenziario” e di esecuzione della pena concretamente plasmato sul disegno costituzionale delineato nell’art. 27.

Ce lo ricorda, a partire da una lectio su Antigone, Patrizio Gonnella, il quale pone l’accento sulla dignità umana come levatrice di un processo di riforma che sappia tenere insieme un concetto forte di legalità della pena e una visione deideologizzata e laica di reinserimento sociale.

È sul terreno dei diritti, infatti, che si è manifestata la crisi della riforma del ‘75. La “retorica rieducativa” – declinata spesso in termini di mero correzionalismo e fatta vivere all’interno di strutture prive di risorse e sovraffollate – non è stata in grado di agire come limite efficace ad una pena detentiva che, giorno per giorno, diveniva sempre più inumana. Solo la presa d’atto della mancanza dello spazio vitale, sancita dalla Corte di Strasburgo – gli ormai famosi 3 metri quadrati –, ha squarciato il velo dell’ipocrisia. Ma il tradimento dei diritti all’interno dei penitenziari, salvo le pur importanti e meritorie situazioni di eccellenza, va oltre lo spazio vitale minimo; ne sono interessati i basilari diritti alla salute, all’istruzione, al lavoro, all’affettività.

Un “ambiente sociale” di questo tipo non favorisce alcuna “effettività rieducativa” ed evidenzia in tutta la sua gravità quello che Grazia Zuffa, in un trascinante intervento sulle differenze di genere, chiama il paradosso del carcere riabilitativo. È proprio l’“ottica della differenza femminile” a fornire esempi per ri-declinare il trattamento in chiave democratica e laica, per sostituire alcune logiche della premialità con quelle dei diritti e, infine, per restituire soggettività e responsabilità ai reclusi.

Perché ci siano diritti, però, ci deve essere un giudice.

Gli interventi di Glauco Giostra, Marco Ruotolo, Carlo Fiorio danno conto del “cammino” dei diritti nel mondo del carcere e della strada fatta per dotare il magistrato di sorveglianza di strumenti idonei a garantire l’effettività delle proprie decisioni. La recente introduzione all’interno del nostro ordinamento di rimedi giurisdizionali preventivi e compensativi a tutela dei diritti dei detenuti (artt. 35-bis e 35-ter Ord. pen.), se da un lato rappresenta l’“ammissione autentica” di una tutela sinora approssimativa delle posizioni giuridiche soggettive, dall’altro costituisce un’occasione da non sprecare. Pur con tutte le peculiarità e le problematiche di tali istituti – Fabio Gianfilippi ne fornisce una sintesi chiara – appare evidente che la magistratura di sorveglianza, coltivandoli, potrà implementare il proprio ruolo di presidio della legalità e di un carcere costituzionale.

L’auspicio è quello di non fermarsi ai tre metri quadri, ma di andare oltre, in modo che non sia solo la superficie a disposizione a segnare «il margine di disumanità del castigo»[8].

L’accentuazione del profilo della tutela dei diritti, infatti, deve rimanere indenne da prospettive riduzioniste. Avverte del rischio, nel suo intervento, Glauco Giostra, che fornisce «una diagnosi diametralmente opposta a quella di chi ascrive l’odierno degrado alla definitiva sconfitta di oltre mezzo secolo di funzione rieducativa della pena e ritiene che d’ora innanzi sarebbe bene abbandonare i suoi chimerici orizzonti per dedicarsi, più realisticamente, a rendere il carcere rispettoso della legalità penitenziaria».

Esplicitare un’idea di pena che tenga insieme diritti e percorsi di reinserimento sociale è impegno culturale arduo, ma ineludibile. Gli interventi degli autori già menzionati – Giostra, Ruotolo, Fiorio – ne tracciano i campi d’azione partendo dall’esame approfondito e critico del disegno di legge delega in materia penitenziaria al vaglio del Parlamento.

C’è, comunque, un punto di osservazione privilegiato per verificare l’effettivo approdo – normativo, ma in primo luogo culturale – a quel nuovo modo di intendere la pena di cui si è parlato; un punto di vista che si può guadagnare mettendosi dalla parte del lavoro. Il diritto al lavoro, infatti, rappresenta in concreto una delle cerniere più importanti tra il discorso sulla legalità costituzionale del carcere e la prospettiva della risocializzazione reale. L’intervento di Marcello Bortolato, pertanto, è interamente dedicato al lavoro dei detenuti, alle forme che storicamente ha assunto e alle caratteristiche che potrebbe manifestare in un avvenire prossimo.

Per completare la panoramica, non si può dimenticare che parlare del futuro del carcere significa anche parlare di un futuro oltre il carcere. È un’ottica che pervade molti interventi di questa analisi monografica e che trova la più immediata espressione nel titolo del brano di Livio Pepino: Qualcosa di meglio del carcere.

In questo stesso ambito, Marco Bouchard propone un percorso, di notevole suggestione e denso di rifrangenze realistiche, nel territorio della giustizia riparativa. Ci si addentra, così, nelle molteplici esperienze di una giustizia alternativa che responsabilizza il “colpevole” e lo rende soggetto protagonista della propria riabilitazione. Con vantaggi in termini sociali: per la vittima, sinora esclusa da un modello tradizionale di esercizio della pretesa punitiva che la estromette dal rapporto Stato-condannato; per la comunità, anche, che fruisce dei vantaggi in termini di prevenzione generale e di accertamento della verità.

Nel percorrere il sentiero che porta “fuori dalle mura” abbiamo bisogno di esempi. In questa direzione, lo sguardo si volge fine dell’istituzione manicomiale e all’ultima tappa di questo percorso: la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. La riflessione, pertanto, non poteva non toccare il campo della segregazione della follia e quell’ideologia dei “matti da legare” che, per tanto tempo, si è accompagnata alle “chiavi da buttare”.

L’intervento di Antonella Calcaterra, nel delineare il necessario ripensamento dei percorsi di cura che deve scaturire dalla riforma delle misure di sicurezza, ipotizza una serie di strumenti per “restituire soggettività” ai malati all’interno di progetti di inclusione sociale svolti sul territori. Sono concetti validamente esportabili.

 

5. L’antologia

Questa riflessione sul carcere e sull’esecuzione penale si chiude con un’antologia.

Nessuno muove da se stesso, come avvertono gli studiosi delle idee, e anche quest’approfondimento monografico ha alle sue spalle storie di pensiero, analisi sedimentate, visioni ragionate. Ne proponiamo alcune delle più importanti e affascinanti.  Sono, in primo luogo, il segno di un’attenzione costante riservata al mondo del carcere da parte della magistratura progressista. Ma sono anche molto di più: interventi paradigmatici per le tematiche che affrontano e per il metodo con cui le approcciano. Riflessioni di magistrati, certo, ma con lo sguardo fisso nella realtà; pensieri che costituiscono il portato di un impegno di lunga data per fare del carcere un luogo conforme a Costituzione.

Iniziamo con i ragionamenti di due protagonisti della scena della sorveglianza e della progressiva giurisdizionalizzazione dell’esecuzione penale, Igino Cappelli e Sandro Margara.

Entrambi i brani ci riportano a una sfera di pensiero comune, che fa del carcere, prima di tutto, una questione sociale. In quest’ordine di idee, il modello di carcere cui si aspira non è disgiunto dal modello di “città” da costruire, ostile oppure solidale.

Ciascun lettore potrà percorrere i brani di questi autori con il proprio ritmo e il proprio bagaglio di idee e aspettative, nonché fare soste nei punti panoramici preferiti. Si accorgerà, comunque, che ogni domanda sul carcere e sulla pena riconduce a un interrogativo fondamentale, riassumibile nelle parole di Sandro Margara: «quale giustizia e quale esistenza».

L’intervento di Edmondo Bruti Liberati, invece, ci riporta ai momenti della gestazione della “legge Gozzini”, un testo normativo innestatosi in maniera talmente profonda nel tessuto della legge del 1975 che ancora oggi, nel linguaggio comune e a volte in quello giornalistico, parlare di “Gozzini” significa parlare tout court di ordinamento penitenziario. 

La narrazione dell’iter legislativo sprigiona, senza dubbio, valore in termini di storiografia delle norme, ma rivela molto di più. Vengono alla luce molti aspetti rilevanti, frecce direzionali per futuro: il ruolo politico e non burocratico di un Csm che, eletto con modalità proporzionali, era in grado di rappresentare le istanze e le sensibilità di tutta la magistratura; l’idea di un disegno riformatore che, prendendo le mosse dalla contingenza, sapesse guardare a tempi migliori; il confronto fruttuoso tra politica e magistratura e tra dottrina e prassi, plasticamente rappresentato dall’istituzione, in sede di Consiglio superiore della magistratura, della prima Commissione mista[9].

Emerge, anche, il quadro di un’epoca in cui, come è stato più volte rimarcato da autorevole penologia contemporanea, lo “spazio” tra polity e policy era tale da consentire alla politica di non inseguire con riforme occasionali ogni vessillo della paura inalberato dall’opinione pubblica a seguito dell’emergenza di turno. Si può attingere ancora qualcosa di buono, dunque.

Vi sono poi – se ne è già accennato – le considerazioni di Livio Pepino sulla necessità di un impegno per “superare” il carcere. Al di là della prospettiva abolizionista, i ragionamenti svolti consentono di allargare lo sguardo a tutte le forme di detenzione, ivi comprese quelle integrate dalla permanenza nei Centri di identificazione ed espulsione, che potremmo definire “fuori dall’ordinamento”. Vi è, in questo brano, un rilievo che preme mettere in evidenza: il tentativo di eradicare l’idea che una richiesta di “maggiore legalità” debba coincidere con una domanda di “più carcere” e, in fondo, la convinzione che il concetto di legalità debba essere promosso a tutto tondo, senza limitarsi alla penalità.

Chiudiamo, infine, con l’interrogativo di Francesco Maisto: il carcere è riformabile? Questione centrale, sottesa a tutti i ragionamenti di questo approfondimento monografico e che, per dirla con Foucault, nasce con il carcere stesso.

Termina con un interrogativo, pertanto, quest’analisi del campo dell’esecuzione della pena che propone, accanto a ipotesi di soluzione dei problemi, domande e alcuni dubbi. Del resto, come ripeteva Vico, il dubbio è cellula generatrice di civiltà e il carcere di questo Paese, dopo l’epoca del sovraffollamento e delle condanne europee, di una nuova stagione di civiltà ha bisogno.

 

VAI AL NUMERO 2/2015  

 


[1] La constatazione della riduzione della pena a pura sorveglianza è sviluppata in S. Margara, Sorvegliare e punire: storia di 50 anni di carcere, in Questione Giustizia, 5, 2009, p. 89.

[2] G. Borrè, Il processo del lavoro: le ragioni di una specialità necessaria, in L. Pepino, (a cura di), L’eresia di Magistratura democratica. Viaggio negli scritti di Giuseppe Borrè, Milano, Angeli, 2001. Citato in C. Ponterio, R. Sanlorenzo, E lo chiamano lavoro…, Torino, Gruppo Abele, 2014

[3] Le considerazione sui costi della pena detentiva sono tratte da L. Manconi, S. Anastasia, V. Calderone, F. Resta, Abolire il carcere, Milano, Chiarelettere, 2015

[4] In questo senso G. De Cataldo, Carcere e diritto alla salute, in Questione Giustizia, 4, 1987, p. 848.

[5] Così S. Margara, La magistratura di sorveglianza tra un carcere da rifiutare e una riforma da attuare, in Magistratura democratica, Il carcere dopo le riforme, Milano, 1979

[6] L. Canfora, Il presente come storia. Perché il passato ci chiarisce le idee, Milano, Rizzoli, 2014.

[7] M. Pavarini, The spaghetti incapacitation. La nuova disciplina della recidiva, in G. Insolera (a cura di), La legislazione penale compulsiva, Padova, Cedam, 2006.

[8] Ancora M. Pavarini, Vivere in meno di tre metri quadrati, reperibile su www.assemblea.emr.it. In maniera significativa, l’Undicesimo rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia, si intitola Oltre i tre metri quadri, in Antigone, 4, 2014

[9] Da quel momento in poi la Commissione mista è divenuta una costante per affrontare i problemi della magistratura di sorveglianza. Di recente, altra commissione mista per lo studio dei problemi della Magistratura di sorveglianza è stata istituita con delibera Csm del 4 maggio 2011. La relazione finale, dal titolo, Sovraffollamento: una proposta per affrontare l’emergenza, può leggersi in Quaderni del Csm, anno 2013, n. 160. La Commissione mista è stata poi ricostituita con delibera 30 luglio 2013 e la relazione finale, ricca di elaborazioni con importanti risvolti pratici, è stata adottata con delibera Csm 16 luglio 2014.

08/07/2015
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