Magistratura democratica
Magistratura e società

Scoprire o creare il diritto? A proposito di un recente libro

di Enrico Scoditti
Consigliere della Corte di cassazione
Giudicare mediante il bilanciamento dei principi costituzionali o la concretizzazione di una clausola generale non corrisponde alla scoperta di un diritto preesistente, ma alla costruzione della disciplina del caso concreto; il giudice però assume la responsabilità del perseguimento della forma ideale di bilanciamento o dell’ideale di norma riposto nella clausola generale
Scoprire o creare il diritto? A proposito di un recente libro

Paolo Grossi ha raccolto in un volume appena apparso, dal titolo L’invenzione del diritto[1], i suoi interventi degli ultimi anni nel campo più vicino alla sua funzione di giudice costituzionale. La trama che percorre l’intero spettro dei saggi è quella della posizione dell’interprete di fronte al diritto, e segnatamente il diritto costituzionale e il diritto civile. La definizione d’interpretazione che emerge è quella del rinvenire, il trovare dell’invenire latino. L’invenzione del diritto non corrisponde alla creazione del diritto, ma alla sua ricerca e rinvenimento. Essa riguarda tutti coloro che sono addetti al diritto, non solo i giuristi, teorici e pratici, ma anche i legislatori, perché luogo di reperimento del diritto è il mondo dei fatti, come dimostra la stessa invenzione della Costituzione per Grossi. L’interprete del diritto è dunque colui che scopre il diritto. Non siamo qui lontani dal primato del riconoscimento del diritto, rispetto alla sua posizione, su cui insiste costantemente Nicolò Lipari. Il richiamo alla scoperta del diritto acquista un particolare significato in un tempo in cui la giurisprudenza è chiamata ad un’opera che a molti appare creativa del diritto. Il lavoro quotidiano del giudice è sempre più intessuto di principi e clausole generali, i primi da bilanciare e le seconde da concretizzare. Si tratta di attività quanto mai lontane dalla tradizionale sussunzione del caso concreto nella fattispecie astratta su cui generazioni di giuristi si sono formate. Anche il rapporto con la norma cosiddetta a fattispecie non è più quello di una volta perché sovente la fattispecie è interpretata mediante il ricorso a principi, che non sono quelli generali da cui quella norma è tratta, ma principi costituzionali, o sovranazionali, e dunque prima dell’intervento della sussunzione è il bilanciamento che fa capolino nell’attività dell’interprete.

L’universo di principi e clausole generali evoca per i più una concezione creativa della giurisprudenza. Natalino Irti si è fatto promotore negli anni recenti del tema della perdita di calcolabilità e prevedibilità di un diritto che, emancipatosi dai vincoli della norma a fattispecie, è esposto al soggettivismo dell’interprete. Il diritto senza fattispecie stabilisce per Irti un contatto immediato (senza per l’appunto la mediazione della fattispecie) fra il caso e i valori soggettivi dell’interprete, con l’inevitabile perdita della prevedibilità delle decisioni. Quando il giudice bilancia i principi costituzionali o concretizza le clausole generali non scopre un diritto preesistente ma crea il diritto. Nella statuizione del giudice non si rispecchia un’entità obiettiva ma appare una nuova creazione, la quale per definizione è imprevedibile. Le decisioni dei giudici sono il risultato casuale di fattori come “ciò con cui il giudice ha fatto colazione”, secondo uno degli slogan del realismo giuridico americano del secolo scorso, per il quale il diritto non è né più né meno ciò che i giudici scrivono nelle loro sentenze e compito della teoria è riuscire a prevederli. Al di là del creazionismo spinto che emerge da una battuta del genere di quella citata, è vero che nel pensiero giuridico ha sempre prevalso una concezione creativa del giudicare quando messo in diretta relazione con principi e clausole generali. L’espressione che si adopera è quella dell’esercizio di un potere discrezionale. Discrezionalità è parola distonica rispetto al diritto perché richiama l’esercizio di un potere libero nel fine, qual è quello dell’autorità politica, e che trova nel diritto solo il limite che ne fissa le condizioni di legittimità. Il giudice provvede all’attuazione del diritto e non all’esercizio di un potere (discrezionale) nei limiti del diritto. Per quanto dissonante rispetto all’attuazione del diritto, discrezionalità è tuttavia l’espressione più ricorrente nella letteratura quando si guarda all’applicazione giudiziale delle clausole generali. Siamo agli antipodi rispetto al paradigma della scoperta del diritto.

Quel che allora va detto è che secondo il secolo che è alle nostre spalle, e sotto il cui cono d’ombra noi ancora ci troviamo, la concezione prevalente del giudicare, quando non è limitato all’applicazione di norme a fattispecie, è quella della creazione del diritto. La giurisprudenza nell’Europa continentale non è intesa come fonte di diritto, non è deputata alla formulazione di norme, ma quando incontra principi e clausole generali opera con una discrezionalità di fatto che la porta a formulare la regola del caso concreto. Non dunque una creazione in senso formale, ma la posizione di fatto della regola. Di qui tutte le preoccupazioni per i costi in termini di prevedibilità e calcolabilità delle decisioni giudiziali. Il tentativo più possente nella teoria giuridica del secolo scorso di mantenere il giudicare nell’orbita della scoperta del diritto è stato quello di Ronald Dworkin. Pur nell’ambito di una concezione aggiudicatrice del diritto, coerentemente all’ambiente di common law in cui è stata generata, l’impresa teorica di Dworkin è stata quella di concepire il lavoro del giudice come ricerca della sintonia con la miglior interpretazione della prassi giuridica della comunità. Mediante l’inserimento attivo nella catena dei precedenti, di cui è composta la giurisprudenza, il giudice è in grado di fornire la “risposta giusta”. La critica realista non ha mancato di osservare che Dworkin non considera l’inadeguatezza delle normali capacità cognitive e morali dell’interprete rispetto all’interpretazione come presentazione del diritto nella sua luce migliore. Il disincanto realista guarda alla debolezza umana, ma non coglie un lato della teoria dworkiniana, e cioè quello dell’assunzione di un criterio di ragione, per Dworkin riposto nella storia della comunità, cui adeguarsi nella ricerca del diritto. In realtà Dworkin dà un nome al giudice in grado di porre la risposta del diritto nella luce migliore, lo chiama Ercole, non a caso.

Contro l’ambizione dell’interpretazione giuridica ad operare come scoperta del diritto, in grado di fornire la risposta giusta, c’è in definitiva buona parte del Novecento, il secolo nel quale si è persa la fiducia nell’oggettività dei valori ed ogni idea di ragione è stata relativizzata. “La verità non è un presupposto, ma il prodotto della particolare prospettiva dell’interprete” è il messaggio della secolarizzazione radicale che è immediatamente alle nostre spalle. Dopo il disincanto novecentesco è quasi naturale affermare che il giudice, al momento di bilanciare i principi o concretizzare le clausole generali, non fa altro che seguire «il demone che tiene i fili della sua vita», per riprendere le celebri parole di chiusura de Il lavoro intellettuale come professione di Max Weber. È qui il dominio del soggettivismo dei valori che sembra dare un colpo mortale alla prevedibilità del diritto. Il massimo che il Novecento ha concesso, rispetto al soggettivismo dell’interprete, è stata l’esigenza di trasparenza fatta valere da Gadamer, secondo il quale il problema fondamentale dell’interpretazione è la consapevolezza da parte dell’interprete medesimo dei propri pregiudizi allo scopo di poterli controllare e rendere pubblici.

Al demone di Weber preferiamo il “velo d’ignoranza” rispetto ai propri valori che, seguendo John Rawls, l’interprete deve indossare. È necessario prendere congedo dal Novecento e dalle sue filosofie ed entrare nel nuovo secolo. Il rawlsiano velo d’ignoranza è la metafora di un ritorno all’idea di ragione, in un’epoca che soffre drammaticamente della perdita dell’ancoraggio a criteri universali di razionalità. Si tratta in definitiva di tornare alle origini della ragione moderna, in quel passaggio fondativo del Moderno nel quale la ragione, da essere specchio della natura e pura rappresentazione del modo di essere della realtà, si è trasformata in ragione normativa. Con Kant la ragione è diventata ideale di ragione, idea-limite come tale inattingibile ma ciò nondimeno operante quale criterio regolativo cui l’attore deve mirare ad uniformarsi. Ercole non è un dato di fatto, ma un ideale cui ambire.

Robert Brandom, una delle personalità più interessanti del panorama filosofico contemporaneo, ha ricondotto i due paradigmi della creazione e della scoperta del diritto ai due lati che sono entrambi presenti nell’attività del giudicare, rispettivamente quello dell’autorità e quello della responsabilità[2]. Il giudice, quando bilancia principi o concretizza norme elastiche, non scopre un diritto preesistente, ma costruisce la disciplina relativa alla singola controversia, coerentemente al lato del giudicare che esprime l’autorità. Egli assume tuttavia una responsabilità, si appella all’ideale bilanciamento dei principi in relazione alle circostanze del caso o all’ideale regolazione contenuta nella clausola generale, i quali non sono una realtà attingibile ma l’ideale regolativo dell’attività del giudicare. La scoperta del diritto ha luogo nei limiti di questo appello all’ideale. Il giudice assume inoltre una responsabilità nei confronti di chi l’ha preceduto, riconoscendone l’autorità, giacché giudicare per principi o clausole generali non è concepibile senza il riferimento alla catena dei precedenti. È un’altra forma di calcolabilità e prevedibilità del diritto che viene in rilievo, basata sul gioco delle similitudini e differenze rispetto al caso concreto che funge da precedente. Il giudice non segue pertanto il demone che tiene i fili della sua vita ma si uniforma all’imperativo della liberazione dalle credenze soggettive e del perseguimento della forma ideale. Il velo d’ignoranza è il sigillo dell’indipendenza del giudice anche da sé stesso. Decidere una controversia mediante i principi vuol dire assumere una responsabilità, che consiste nell’orientare il proprio agire interpretativo nella direzione di un’idea-limite, quella del bilanciamento ideale. Giudicare, in fondo, non è distante dall’ascesi.



[1] P. Grossi, L’invenzione del diritto, Editori Laterza, Roma-Bari, 2017.

[2] R. B. Brandom, A Hegelian Model of Legal Concept Determination: The Normative Fine Structure of the Judges’ Chain Novel, in G. Hubbs – D. Lind (a cura di), Pragmatism, Law, and Language, New York, 2014, Routledge, p. 39.

07/11/2017
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