Magistratura democratica
giurisprudenza di merito

PCT: due brevi pronunce su casella pec piena e deposito cartaceo non consentito

di Gianmarco Marinai
Giudice del Tribunale di Livorno.
Commento a Trib. Milano 20.4.2016 e Trib. Locri 12.7.2016

I due provvedimenti (Trib. Milano 20.4.2016 e Trib. Locri 12.7.2016), pur riguardando aspetti distinti, meritano di essere segnalati costituendo applicazioni (del tutto corrette) di alcuni principi cardine in tema di processo civile telematico.

Il Tribunale di Milano, con ordinanza del 20 aprile 2016, respinge l'istanza di "emettere nuovo decreto di fissazione dell’udienza di trattazione e del relativo termine per la notifica del reclamo e del medesimo provvedimento" avanzata da un avvocato che deduceva di aver appreso dell'avvenuta emissione di un decreto di fissazione di udienza solo successivamente alla scadenza del termine assegnato per notificare il ricorso-decreto alla controparte, "ad esito di un controllo effettuato a mezzo Consolle Avvocato", non avendo mai ricevuto la comunicazione da parte della cancelleria.

Anche tralasciando che è principio generale che non è previsto un onere di comunicazione al difensore del ricorrente, a cura della cancelleria, della data di fissazione della udienza, in quanto il giudice è tenuto solo al deposito del decreto, ma non anche a disporre la relativa comunicazione, mentre incombe sul ricorrente l'obbligo di attivarsi per prendere cognizione dell'esito del proprio ricorso (v. da ultimo Cass. civ. Sez. VI – ord. 08/06/2016, n. 11770), osserva il Tribunale che, dall’attestazione telematica tratta dal registro di cancelleria, è emerso che quest’ultima ha regolarmente e tempestivamente eseguito la comunicazione del decreto di fissazione di udienza nei confronti del legale dei reclamanti, ottenendo dal gestore di p.e.c. del destinatario ricevuta di mancata consegna con la causale «casella piena».

Il Tribunale cita, quindi, la norma dell’art. 16 del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179 (come convertito nella l. 17 dicembre 2012, n. 221 e s.m.i.), secondo cui nei procedimenti civili le comunicazioni (e le notificazioni) a cura della cancelleria devono effettuarsi «esclusivamente per via telematica» all’indirizzo p.e.c. risultante da pubblici elenchi o comunque accessibili alle pubbliche amministrazioni (comma 4); inoltre, se la comunicazione (o notificazione) tramite p.e.c. è impossibile «per cause imputabili al destinatario» essa si ha per effettuata mediante deposito in cancelleria (comma 6), essendo quest’ultima tenuta ad ovviare con l’uso di mezzi alternativi – quali l’invio di telefax o l’inoltro tramite ufficiale giudiziario a norma degli artt. 136 e 137 c.p.c. – all’impossibilità di usare la p.e.c. nel solo caso in cui ciò non dipenda da causa imputabile allo stesso destinatario (comma 8).

Ebbene, il tipico caso (preso ad esempio da tutti i commentatori dell'art. 16 citato) in cui la mancata comunicazione dipende certamente da causa imputabile al ricevente è proprio quello in cui la casella del destinatario è piena, essendo – ovviamente – onere dell'avvocato mantenere la casella di posta in condizioni di efficienza, in primis accedendovi regolarmente e spostando o cancellando i messaggi ricevuti, al fine precipuo di evitare che la casella, riempiendosi, non consenta l'accettazione di ulteriori messaggi di posta elettronica.

Analogamente, nessun onere grava sulla cancelleria di effettuare la comunicazione a mezzo telefax o ufficiale giudiziario, quando, ad esempio, la casella non sia più attiva, magari perché disattivata a seguito del mancato pagamento del relativo canone.

Va, peraltro, ricordato che la normativa ora citata è specificamente dettata per il processo civile telematico e dunque si applica esclusivamente alle comunicazioni/notificazioni effettuate dalla cancelleria alle parti del processo (avvocati, consulenti, ecc.): tali regole, invece, non valgono per le email PEC inviate tra privati (ad es. le notificazioni effettuate dall'avvocato o le diffide stragiudiziali): per tali messaggi di posta certificata, in assenza di normativa specifica che riconosca come avvenuta la comunicazione/notificazione in caso di (ricevuta di) mancata consegna per causa imputabile al destinatario, deve ritenersi non raggiunta la prova dell'avvenuta consegna del messaggio, che dovrà, pertanto, essere reinviato con altro mezzo.

Del tutto auspicabile, peraltro, appare un intervento chiarificatore da parte del legislatore che disciplini gli effetti della negligenza del destinatario: si pensi all'obbligo da parte delle imprese di mantenere un casella di PEC, che, però, rimane sostanzialmente privo di sanzione se non si stabilisce che la comunicazione deve sempre considerarsi come legalmente avvenuta qualora il messaggio non sia stato recapitato per colpa del destinatario.

L'ordinanza del Tribunale di Locri affronta, invece, le conseguenze dell'inosservanza della norma dell'art. 16-bis d.l. 179/2012 e cioè la sorte degli atti depositati in forma cartacea, nel vigore del regime di obbligatorietà del deposito telematico.

Nella fattispecie (anche se dalla lettura dell'ordinanza non è dato di comprendere come si sia svolta esattamente la vicenda) la parte convenuta eccepisce il "deposito irrituale" di una memoria 183 c. 6 n. 2 c.p.c. da parte dell'attore, avvenuto in forma cartacea anziché con deposito telematico.

E' incontestato che si trattava di un processo al quale si applica la disciplina dell'art. 16 bis d.l. 179/2012, secondo cui "il deposito […] ha luogo esclusivamente con modalità telematiche, nel rispetto della normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici".

Nonostante ciò, il deposito è avvenuto in forma cartacea, forse in conseguenza di un malfunzionamento della firma digitale dell'avvocato, al quale, però, il provvedimento in commento fa solo un fugace accenno.

Certo è che non è stato eccepito alcun malfunzionamento del sistema per causa non imputabile al depositante: il giudice, pertanto, non esamina la possibilità di un'eventuale remissione in termini (che, peraltro, non è dato sapere se sia stata o meno richiesta).

Il ragionamento del Tribunale, invece, si focalizza – del tutto correttamente – sulle conseguenze giuridiche dell'inosservanza della norma del d.l. 179/12.

L'avverbio "esclusivamente", contenuto nella norma dell'art. 16-bis cit., non può che essere interpretato (anche conformemente alla volontà del legislatore espressa nei lavori preparatori) nel senso che, nei casi previsti, quella telematica sia l'unica modalità ammissibile di deposito degli atti, escludendosi, così, che altre modalità (in primis, quella cartacea) siano conformi al modello e dunque ammissibili.

L'art. 121 c.p.c., infatti, limita il principio di libertà delle forme degli atti processuali al caso in cui la legge non richieda forme determinate, proprio come avviene nel caso di specie (e come bene mette in luce il Tribunale di Locri).

Come già sostenuto in altri interventi su questa rivista (v. da ultimo: http://www.questionegiustizia.it/articolo/la-cassazione-per-la-prima-volta-alle-prese-con-i-problemi-del-processo-civile-telematico_23-06-2016.php), mai come nel caso degli atti telematici (costituiti da null'altro se non da una serie ordinata di informazioni binarie) si rende necessaria la rigorosa applicazione dell'art. 121 c.p.c..

Se la forma non è rispettata, l'atto è nullo e la nullità si trae proprio dall'art. 121 e dall'art. 156 c. 2 c.p.c., non essendo presenti i requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo, salva – ovviamente − la possibilità di rinnovazione di cui all'art. 162 c.p.c. (sempre, però, che non siano scaduti termini perentori).

Non può essere, pertanto, condiviso il ragionamento di chi sostiene che l'atto erroneamente depositato in forma cartacea (essendo obbligatorio il deposito telematico) è suscettibile di sanatoria ex art. 156 c. 3 c.p.c., avendo raggiunto lo scopo (così Trib. Palermo 10 maggio 2016, relativamente all'atto di riassunzione di processo interrotto per intervenuto fallimento di una delle parti erroneamente depositato in forma cartacea), pena un'inammissibile interpretatio abrogans dell'art. 16-bis e del suo (chiaro) avverbio "esclusivamente".

In conclusione, non si può che ribadire l'auspicio che il legislatore intervenga quanto prima a razionalizzare il quadro normativo e a chiarire le principali questioni interpretative controverse,  magari integrando le norme sul processo telematico all'interno del codice di rito senza creare un autonomo corpus normativo dedicato al PCT.

 

26/09/2016
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