Magistratura democratica
Magistratura e società

Leggendo l’ultimo Lipari*

di Roberto Conti
Consigliere della Corte di cassazione
L’articolo offre al lettore alcune riflessioni maturate dopo la lettura dell’ultima opera di Nicolò Lipari − Il diritto civile tra legge e giudizio, Giuffrè, Milano, 2017 − cercando di cogliere conferme o smentite al pensiero dell’Autore in alcuni grandi arresti della giurisprudenza delle Sezioni Unite e di tratteggiare, soprattutto con riguardo al ruolo del giudice, alcuni orizzonti che non potranno essere trascurati per rispondere in maniera adeguata alle sempre più pressanti aspettative di giustizia.
Leggendo l’<i>ultimo</i> Lipari*

1.      Alcune ragioni per essere grati al volume di Lipari

La giustizia italiana deve essere molto grata all’ultima opera dell’ingegno del prof. Lipari.

L’attenzione riservata al ruolo del giudice in quest’opera è continua e crescente e chiama ancor di più la giustizia italiana a prove impegnative e complesse, come le definisce lo stesso Autore.

Il senso di questo intervento vuol essere per l’un verso descrittivo delle sensazioni che, accostandosi al libro di Lipari, prova un magistrato di mezz’età, che ha maturato per 26 anni l’esperienza di frontiera qual è quella di fare il giudice a tempo pieno e senza soluzione di continuità nei vari settori della giurisdizione ordinaria, prima di merito ed ora di legittimità. Questa, credo, del resto, dovesse essere l’idea degli organizzatori dell’incontro quando hanno pensato di coinvolgermi.

Per altro verso, credo che l’occasione offertami debba diventare momento necessariamente propositivo, attraverso l’individuazione di alcuni orizzonti che i tanti chiamati a ricoprire il ruolo del giurista – e soprattutto del giudice – ai nostri giorni non possono più tralasciare.

Importante è, anzitutto, l’invito del prof. Lipari a rileggere la Costituzione per coglierne fino in fondo la vena personalistica ed il patrimonio di valori con all’apice la dignità della persona, unico vero pre-diritto che sovrasta e innerva tutti gli altri. Esso si coniuga, quasi naturalmente, con il tema delle fonti, del loro pluralismo, ormai pienamente espresso dagli artt. 2, 3, 10, 11 e 117 della Costituzione, della necessità che la disomogeneità astratta che può emergere nella decisione del caso trova la sua “cura” nell’interpretazione affidata a chi è chiamato ad affrontare il caso come avvocato o a risolverlo, come giudice. Fonti che Lipari non coglie più come sacrario da venerare intatto, quanto come realtà plastica da verificare volta per volta nell’interpretazione che si proietta nella vita e diventa vita, storia della società nel tempo e nello spazio (p. 77, p. 100). Questo conduce l’Autore a ricostruire il sistema attraverso un lento, ma ineluttabile passaggio dalla centralità delle fonti alla centralità dell’interpretazione. Che poi, a me pare, diventi, centralità delle interpretazioni, se si guarda alla naturale vocazione del giudice ad essere all’un tempo chiamato a rileggere i dati normativi in chiave costituzionale, convenzionale e del diritto dell’Unione Europea, egli vestendo insieme, fuori da pianificazioni gerarchiche, questi “tre cappelli” quando maneggia il caso posto alla sua attenzione. Un interpretare, un trovare, un reperire[1] (Cass., S.U., n. 1946/2017), un ricercare (Cass., S.U., n. 22784/2012) che conduce, dunque, il giudice a trarre linfa dai principi[2], non più visti come ricavabili da norme particolari, ma nella loro dimensione elastica e potenziale, direttamente proveniente dal complesso e variegato sistema che va individuato attraverso operazioni ermeneutiche ben lontane dall’angusto piano dell’art. 12 delle preleggi al codice civile, come puntualmente ci ricorda ancora Lipari. Dimensione che traghetta il mondo al quale apparteniamo dallo jus positum allo jus in fieri e rende il processo il luogo elettivo nel quale individuare il principio capace di realizzare ed appagare al meglio i bisogni delle persone che chiedono giustizia, attraverso un’attività che impone al giudice, ricorda Lipari, di coniugare la tendenziale universalità dei diritti con la specificità delle situazioni storiche sempre mutevoli (p. 115). Il tutto attraverso le quotidiane operazioni di bilanciamento fra i diritti (p. 96), che assumono tratti e complessità sempre crescenti[3].

Quanto intrise di realismo risultano le espressioni del prof. Lipari quando evoca l’immagine del diritto che va progressivamente spostandosi dal momento potestativo e autoritario a quello applicativo (p. 21), al punto che è il principio interpretativo a determinare la vincolatività del precetto interno al concreto modo di svolgersi dell’esperienza giuridica (p. 22). Il fenomeno giuridico, o la situazione normativa[4], non può, continua il prof. Lipari, mai essere definito in una individuata oggettività perché va considerato «...stimolo e insieme esito, padre e ambiguamente figlio dell’attività precettiva e valutativa del soggetto».

La “sentenza tipo” che rispecchia il modo di fare giustizia dei tempi nostri è per Lipari quella Englaro, basata su principi (p. 91), vero e proprio paradigma di un modo di argomentare del giudice che guarda al diritto, anche in chiave comparatistica, come espressione dell’uomo nella sua complessità (p. 92) e che riempie le lacune attraverso la centralizzazione dei principi. Principi che si alimentano incessantemente attraverso le universali Carte dei diritti fondamentali e le Corti, nazionali e sovranazionali e che, inevitabilmente, spostano il baricentro dal diritto scritto verso la dimensione, il momento giurisdizionale (p. 108), di quello stesso diritto, attraverso un’opera di “reperimento” che li colloca al di fuori del diritto positivo (p. 109) per il loro contenuto assiologico di meta-valore, secondo quanto affermato da Cass., S.U., n. 14201/2008, pure ricordata dall’autore. Un avvertimento, a mio avviso fondamentale, non manca poi di fare Lipari quando ci ricorda che i principi non possono essere individuati secondo un criterio necessariamente maggioritario. Un’affermazione solo apparentemente marginale ma invece centrale nel pensiero dell’autore che incessantemente riconduce la figura del giudice a quella di colui che al contempo “sta in trincea” e rappresenta, in quanto chiamato ad affermare nel suo quotidiano operare i diritti fondamentali “ultima trincea”.

Se, dunque il momento giudiziale, nonostante i suoi rischi, esprime e sublima la positività del diritto (p. 37) il giudice, scrive ancora Lipari, è consapevole di operare su un terreno cedevole quando rende la sua decisione su temi rispetto ai quali non si è ancora formato un consolidato indirizzo di pensiero (p. 79).

2.     Sul ruolo del giudice nazionale

Il prof. Lipari usa, nel tinteggiare la figura del giudice e del suo ruolo, espressioni forti come trincea, coraggio, paura, complesso, delicato, pigrizia come «viziaccio in cui si è adagiato dal tempo dell’esproprio illuministico».

Si tratta di uno scenario teso a indagare l’agire del giudice, per l’un verso tutto a contatto con i fatti che, nella loro innata diversità e nella loro carnalità – per usare un’espressione cara a Paolo Grossi – vengono portati al suo cospetto – senza che alla base vi sia un suo atto volitivo – e, per l’altro, chiamato a maneggiare Costituzioni, Carte sovranazionali, pronunzie delle Corti (nazionali e non), fonti, giuridiche e non – soft law. Dunque un giudice che, chiamato a “resistere avanzando” pur tra evidenti difficoltà prodotte dalla nuova dimensione del diritto potrebbe, in realtà, decidere di soprassedere, di lasciare ad altri la mano, di non avventurarsi in territori selvaggi e spesso inesplorati.

Il contatto del giudice con principi elastici, clausole generali, vuoti normativi evoca scenari di solitudine che si prestano, quasi ineluttabilmente, a giudizi di valore radicali sul ruolo del giudiziario.

Giudizi per l’un verso rivolti a enfatizzare il carattere sostanzialmente “libero” e “creativo” dell’agire di un giudice sempre più protagonista, sempre più artista, sempre più legislatore, fino al punto di intravedere in questo attivismo senza regole seri pericoli per l’ordine democratico, risultando il giudice privo di quella legittimazione che sola potrebbe giustificare interventi sostanzialmente normativi.

Per altro verso, riflessioni tese a sottolineare l’ineludibilità della figura giudiziaria nell’attuale contesto storico perché essa stessa capace di – recte, tenuta a – offrire alle multiformi varietà che i casi della vita producono la “regola concreta” rispetto alla invocata tutela dei diritti positivizzati nelle Carte dei diritti in termini generali e che quasi mai il legislatore potrebbe ex ante ritagliare in termini tanto esatti rispetto alla dimensione fattuale delle vicende.

Un giudice che, in quest’ultima prospettiva, proprio perché “coraggioso”, non si dovrebbe fare intimidire dalle difficoltà che si ergono sulla strada delle tutele essendo proteso ad offrire risposte efficaci e precise ai diritti invocati.

Viene allora quasi spontaneo interrogarsi su quale realmente sia l’abito del giudice coraggioso e cosa sia richiesto esattamente ad un giudice perché questi appaia coraggioso.

Farsi interprete rigoroso della lettera della legge senza tralasciare l’intenzione del legislatore e dunque muoversi negli angusti spazi dell’art. 12 delle preleggi ovvero ricercare il senso complessivo che dalla stessa disposizione promana? Dare prioritario ed assoluto respiro, nell’interpretazione della legge, al canone costituzionale che tutto sovrasta ovvero modularne il significato alla luce delle spinte provenienti dalle Corti sovranazionali e/o dalle Corti straniere che in esso si posizionano giocando alla pari con la Costituzione? Essere artefice e difensore di una legalità legale o garante di una legalità giusta o giudiziale[5] e, per ciò stesso, orientata alla piena tutela dei diritti fondamentali anche quando in apparenza il legislatore è silente o, peggio legifera travolgendo i diritti magari delle persone più vulnerabili? Parametrare, fuori dalle lusinghe offerte dall’essere arbitro di una controversia destinata a produrre ripercussioni che vanno ben oltre la specificità del caso, la tutela a quel livello che la maggioranza del corpo sociale avverte comunemente come giusta o comunque identitaria, ovvero garantire, comunque e sempre, protezione ad una minoranza portatrice di diritti ancora non uniformemente riconosciuti, ma non per questo non meritevoli di protezione e, anzi, per questo stesso motivo bisognosi di quelle tutele rafforzate che meritano i più vulnerabili? Accostarsi, ancora, ad un esercizio della giurisdizione che riporta i principi – siano essi di matrice costituzionale e sovranazionale – nel campo dei comandi espressi dalla legge ovvero porre l’asticella sulla valenza generale del principio[6], capace di porre sotto il suo ombrello ipotesi che non risultano magari espressamente contemplate dal quadro giuridico espresso dal legislatore?

Quale sia e dove si collochi- sempre che risulti esistente – la verità non spetta a chi parla stabilirlo, ancorché risulti abbastanza chiaro il giardino ideale nel quale sentirei di collocarmi.

Nutro, peraltro, due certezze. La prima è rappresentata dal fatto che le critiche spesso esposte nei confronti del giudiziario sono prioritariamente correlate al tipo di soluzione creativa adottata. Intendo dire che i giudizi critici sull’operato del giudice e sul suo ruolo “creativo” sono spesso direttamente condizionati dalla “sostanza” della questione che egli esamina. Non sono, in altri termini, critiche sempre neutre, ma risentono molto dalla soluzione offerta dal giudice, al punto che se lo studioso anche più critico dell’attivismo giudiziario dovesse convincersi che la soluzione adottata sia “giusta” rispetto ad una vicenda data, lo stesso tenderà a non enfatizzare il problema di creatività, invece fortemente stigmatizzandolo quando la decisione di merito non piace[7].

L’ulteriore convincimento nasce dal fatto che nel mondo al quale appartengo professionalmente le opinioni e le prospettive sono fortemente contrastanti ed alimentano, pertanto, modi di esercitare la giurisdizione profondamente diversi, questi sì mettendo a repentaglio, a volte, il valore fondamentale dell’eguaglianza sul quale ho riflettuto in altra occasione[8].

Come che sia, l’idea del giudice nazionale – soprattutto se di ultima istanza o costituzionale – come portatore di “certezze” sembra in ogni caso inadeguata per disegnare l’attuale realtà che anima l’esercizio della giurisdizione.

Accanto alla tendenza all’universalizzazione delle decisioni che pure emerge esaminando talune pronunzie delle Corti sovranazionali e delle stesse Sezioni Unite della Corte di cassazione, pure evidenziata da Lipari (p. 43), si delinea con tratti marcati un’immagine quanto meno di una parte della giurisdizione nazionale costantemente in progress, proprio perché chiamata a misurarsi e prim’ancora a dialogare, in un ciclo continuo e mai conchiuso, con le altre Corti sovranazionali, quale parte attiva di un processo di concretizzazione in vivo – e non in vitro – dei diritti fondamentali, attraverso un’attività di tessitura che valorizza non soltanto i testi, ma anche i contesti; ciò con continui e rinnovati “dubbi” che solo apparentemente snaturano, se riferiti al ruolo e alle funzioni, le Corti supreme nazionali anzi esaltandone il peso, l’autorevolezza, la necessità di essere “all’altezza” dei compiti alle stesse imposti e di favorire comunque standard di protezione sufficientemente stabili.

Vi è, ci si chiede allora, un problema di legittimazione democratica dei giudici in questo modo di procedere. Vi è un rischio di incertezza e di diseguaglianza sotteso allo spostamento progressivo dal diritto scritto al diritto delle Corti?

Ma, per l’un verso, non è dall’esistenza dall’origine elettiva che può farsi discendere la giustizia della decisione e, per altro verso, la decisione giudiziale si calibra unicamente sul caso che viene all’esame del giudice e si sottopone al giudizio della comunità interpretativa, tendendo alla fine a stabilizzarsi, magari dopo ineliminabili risposte distoniche. Del resto, le universalizzazioni della giurisprudenza non possono comunque valere oltre il caso esaminato dalla giurisprudenza, valendo semmai solo in ipotesi di piena ed assoluta identità del caso che ha dato luogo al principio a quello scrutinato dal giudice.

In aggiunta, a me pare di poter dire che l’attivismo che ha caratterizzato il mondo giudiziario nel corso degli ultimi anni, al netto di possibili esasperazioni che pure potranno esserci state, spesso dipeso dal recepimento di input provenienti dalle Corti sovranazionali di Lussemburgo e Strasburgo e da innegabili vuoti normativi, ben lungi dall’essere espressione di arretramento culturale contribuisce ad inverare il senso delle democrazie occidentali dei nostri tempi, al contempo individuando alcuni canoni fondativi imprescindibili, per l’appunto rappresentati dal rispetto della dignità umana e dei diritti fondamentali della persona.

3.     Il richiamo all’etica del giudice

Forte appare il richiamo ad un’etica della funzione giudiziaria che il prof. Lipari fa, riportando le espressioni del Presidente della Corte costituzionale Grossi, allorché invita il giudice  a «...ritrovare in sé la consapevolezza etica e la forza psicologica che, unita alla sensibilità storica e alla sua sapienza tecnica, gli possano permettere di adempiere il munus arduo che la crisi dello Stato e delle sue fonti fa piombare sulle sue spalle», aggiungendo poi, in modo non meno significativo, che munus significa all’un tempo “dono” e “dovere”.

E allora, quanto al rapporto fra giudice e legge e, più in generale, agli ambiti dell’interpretazione delle norme interne e sovranazionali che, proprio in relazione alla tutela multilivello, disegnano questioni nuove, tutt’altro che agevoli da dipanare, non sembra potersi sottacere che gli scenari sopra tratteggiati pretendono tanto dall’ordine giudiziario, quanto dal potere legislativo, il rispetto dell’obbligo di fedeltà alla Repubblica sancito dall’art.54 Cost.

Il riferimento alla fedeltà impone al legislatore ed al giudice un reciproco rispetto dei valori repubblicani consacrati nella Costituzione.

E non par dubbio che solo se i rapporti fra i poteri saranno improntati a correttezza e lealtà, nel senso dell’effettivo rispetto delle attribuzioni a ciascuno spettanti (Corte cost., n.110/98) può essere possibile superare l’atavico conflitto fra politica e potere giudiziario.

Il giudice e il legislatore, in definitiva, hanno l’obbligo di contribuire in modo solidale, nei contesti normativi e fattuali storicamente dati, alla salvaguardia dell’ordinamento nell’identità dei suoi principi fondamentali, vicendevolmente riconoscendosi come attori insostituibili al servizio dei diritti delle persone. Ciò può costituire la base per la creazione di virtuosi e concentrici meccanismi di eticizzazione della pratica giudiziaria, come anche di giuridicizzazione dell’etica, attraverso la almeno tendenziale stabilizzazione di regole, frutto dell’opera lineare del legislatore e della concretizzazione del diritto scritto che il giudiziario riuscirà a realizzare nel caso concreto.

Per altro verso, non sembra nemmeno vero che in assenza dell’intervento del legislatore il giudice si dimostri infedele alla Repubblica allorché si mette al servizio delle domande di giustizia poste al suo vaglio, applicando al caso concreto il diritto, per come esso si sedimenta attraverso i principi cardine della Costituzione e delle Carte dei diritti fondamentali[9].

Quest’obbligo di fedeltà, d’altra parte, non può non considerare la particolarità del ruolo attribuito al giudice comune nel nostro sistema e il processo di progressiva emancipazione del giudice dalla legge positiva nazionale.

Tale emancipazione, ben lungi dall’essere frutto di arbitrio giudiziario[10], ha, all’evidenza, tratti diversi, ma univoci: a) la disapplicazione − senza mediazione alcuna con la Corte costituzionale − della legge interna contrastante con il diritto eurounitario; b) l’interpretazione costituzionalmente, eurounitariamente e convenzionalmente conforme; c) la possibilità di attivare il sindacato costituzionale ipotizzando la non manifesta infondatezza del contrasto con la Costituzione o con le norme convenzionali internazionali.

Si potrà certo dire che quanto qui sostenuto favorisce la frantumazione del precedente − anch’esso valore fondamentale del sistema − e fa da “anticamera” all’incertezza dei diritti alla quale, tuttavia, la stessa dottrina ha opportunamente affiancato il valore, parimenti essenziale per l’attuale contesto sociale, rappresentato dalla certezza dei diritti[11].

L’alternativa, come riconosce lo stesso Lipari, non può essere rappresentata da un ritorno del giurista al cd. nichilismo giuridico per il tramite del “salvagente della forma” rappresentato dalla mera verifica della correttezza delle procedure produttive volte alla formulazione degli enunciati (p. 183). Questa prospettiva, secondo l’opinione avversata da Lipari, è accarezzata soprattutto da coloro che intravedono nel graduale accreditamento dell’idea di creatività dell’interpretazione a scapito dell’atteggiamento dogmatico una vera e propria eclissi del diritto civile.

Ma un recupero della certezza del diritto per tale via, ci ricorda significativamente Lipari, altro non è che «certezza del nulla» (p. 184), se è vero che «nell’interpretazione s’incarna il diritto» (p. 186) essendo ormai «...superata la concezione che vede il diritto, in quanto uscito dalla “casa di produzione” del legislatore, come un prodotto finito che non ha dunque bisogno, per venire ad esistenza, del contributo dei “consumatori del prodotto”» (p. 187).

È dunque la costante dialettica tra testo e contesto che consente «...di cogliere la tensione ad un risultato di giustizia che certamente si colloca fra i valori massimamente condivisi da ogni collettività» (p. 187). Da qui il convincimento di Lipari per il quale «il civilista − ma direi io il giurista, in generale − deve sapere cogliere al di là di ogni pretesa alla certezza, l’impegno stimolante che si collega al passaggio da un sapere teoretico... ad un sapere pratico, che è impegnato continuamente a plasmare le sostanze normative in modo da renderle conformi al patrimonio positivizzato di valori» (p. 189).

4.    La sentenza Englaro ed il principialismo

L’opera di Lipari, si è detto, individua nella sentenza Englaro (Cass., n. 21748/2007) un esempio virtuoso di esercizio della giurisdizione.

Tale esempio, offre, ancora una volta, uno spunto di riflessione su quanto ancora oggi sia complesso e non sempre facilmente decifrabile il modo di esercitare la giurisdizione nel nostro Paese e con esso, in definitiva il modo di intendere il ruolo giudiziale.

Ed infatti, proprio tale sentenza è stata da una parte della dottrina – ed in verità non solo dalla dottrina – additata come esempio di travalicamento, attraverso il canone dell’interpretazione costituzionalmente orientata, dei compiti del giudice interno e dell’obbligo sullo stesso ricadente di applicare e non “creare” la legge. Essa consente, dunque, di focalizzare le critiche, aspre, che vengono mosse ad un uso che si assume “disinvolto” del canone ermeneutico dell’interpretazione costituzionalmente orientata.

Il giudice comune, secondo tale prospettiva, verrebbe a realizzare, attraverso il caso concreto, una vera e propria manipolazione, con l’arma dell’interpretazione, dei valori e dell’ordine di priorità in cui sono disposti saccheggiando orientamenti giurisprudenziali “altri” che poco o nulla avrebbero rilievo nell’ordinamento interno e giungendo a risultati frutto di preferenze soggettive e di intuizioni emozionali capaci, addirittura, di aggirare il comando legislativo ed il vincolo di soggezione alla legge, fino al punto di mortificare il significato proprio del controllo incidentale di legittimità costituzionale.

Le critiche, talvolta non compiutamente espresse, ma lasciate intendere, si sono in questo modo rivolte al fatto che, in assenza di una posizione espressa dal legislatore in ordine alla possibilità di intervento sulla vita altrui da parte di soggetti pur legati da vincoli di parentela oltre che sulla natura stessa dello stato vegetativo permanente e dell’alimentazione forzata, le decisioni dei giudici (di legittimità e di quelli di merito in sede di rinvio) avevano prodotto un vero e proprio (grave) straripamento del (potere) giudiziario, mistificando le regole della “scienza”, proiettate nel senso di riconoscere una pur limitata attività cerebrale anche nei soggetti che si trovano in tale sventurata condizione. Le decisioni del giudice sarebbero state, in definitiva, il frutto di un’indebita operazione di forzatura dei principi, ottenuta attraverso una altrettanto indebita lettura “aperta” della Costituzione e di altri strumenti internazionali, per di più compiuta facendo – irrituale – ricorso a precedenti giurisprudenziali di Corti straniere.

5.     Agli antipodi del principialismo. Cass., S.U., n. 24823/2015

L’esistenza di diversi approcci sulla portata dei principi nel “diritto vivente” della Cassazione trova esplicita conferma in una recente sentenza delle S.U. civili − n.24823/2015 − nella quale è venuta in discussione l’esistenza o meno del principio generale del contraddittorio preventivo in ambito tributario.

La vicenda ha visto contrapporsi, all’interno della Corte, due orientamenti. L’uno, in forza del quale il tema dell’estensione della regola del contraddittorio preventivo agli accertamenti cd. a tavolino, fondati su verifiche non compiute previo accesso nei locali del contribuente, si fondava sull’esistenza di un principio generale, immanente all’ordinamento anche per derivazione comunitaria, che impone l’osservanza del contraddittorio endoprocedimentale in rapporto a qualsiasi atto dell’Amministrazione fiscale lesivo dei diritti e degli interessi del contribuente, indipendentemente dal fatto che la necessità del contraddittorio sia specificamente sancita da norma positiva. L’altro, per converso tutto orientato a reclamare l’esistenza di una disposizione “di diritto positivo” che indicasse l’esistenza di un principio o clausola generale del contraddittorio procedimentale. In questa direzione, le S.U., propendendo per l’insussistenza del principio generale del contraddittorio procedimentale in campo tributario, escludono l’esistenza di una clausola generale, non potendosi trarre tale conclusione né dall’art.12, comma 7, legge n. 212/2000 né dalla ricorrenza, in campo tributario, di una pluralità di norme che prescrivono il contraddittorio endoprocedimentale in rapporto ad atti specifici. Elemento, quest’ultimo, che non può essere «...indice dell’esistenza, nell’ordinamento tributario, di una clausola generale di contraddittorio endoprocedimentale», invece assumendo valenza opposta a tale conclusione. Né le disposizioni costituzionali indicate come possibile base di un’interpretazione costituzionalmente orientata dall’ordinanza di rimessione n. 527/2015 (artt. 24 e 97 Cost.) sono apparsi alle S.U. pertinenti, poiché, «...l’esistenza di un generalizzato obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale in campo tributario non può essere direttamente ancorato agli artt. 24 e 97 Cost.».

In conclusione, per le S.U., l’esistenza di un principio generale non può affermarsi «in assenza di specifica disposizione». Il sostrato della decisione delle S.U. emerge in modo nitido in alcuni passaggi motivazionali, laddove si afferma che «...Tutti i parametri normativi di riferimento portano, dunque, recisamente ad escludere che, sulla base della normativa nazionale, possa, in via interpretativa, postularsi l’esistenza di un principio generale, per il quale l’Amministrazione finanziaria, anche in assenza di specifica disposizione, sia tenuta ad attivare, pena la nullità dell’atto, il contraddittorio endoprocedimentale ogni volta che debba essere adottato un provvedimento lesivo dei diritti e degli interessi del contribuente. D’altro canto, a siffatta interpretazione “...osterebbe, altresì, la circostanza che, ove vi accedesse, l’interprete – attesa anche l’eterogeneità della disciplina predisposta per le varie ipotesi di contraddittorio tipizzate – non potrebbe sottrarsi al compito (non congeniale alla funzione) di ricostruire, per le ipotesi non specificamente regolate (e, dunque, mute sul punto), le modalità di concreto esercizio del diritto scaturente dal principio affermato e delle conseguenze della relativa violazione”».

Nemmeno poteva valere l’esistenza di un principio del contraddittorio endoprocedimentale in ambito comunitario, esso riguardando soltanto i tributi “armonizzati”. Le S.U. danno atto che in quell’ordinamento detto canone era andato assumendo le fattezze di un «principio fondamentale dell’ordinamento Europeo», dapprima per via pretoria ad opera della Corte di giustizia e, quindi, attraverso l’art. 41 della Carta di Nizza-Strasburgo. Ciononostante, l’esistenza di una divaricazione netta fra ordinamento eurounitario – applicabile per i tributi cd. Armonizzati – e ordinamento interno – che concerne i tributi non armonizzati – viene risolto richiamando il principio della “competenza”, in ragione del quale per i tributi “non armonizzati”, l’obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, «...sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi in cui tale obbligo sia previsto da specifica norma di legge». Per converso, nel campo dei tributi “armonizzati” (che, inerendo alle competenze dell’Unione, sono investiti dalla diretta applicazione del relativo diritto) l’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale assume, invece, rilievo generalizzato. La dicotomia esistente non crea alcun vulnus nell’ordinamento, né la duplicità del regime giuridico dei tributi “armonizzati” e di quelli “non armonizzati” in tema di contraddittorio endoprocedimentale «può essere realizzato in via interpretativa». Anzi, per l’assorbimento della dicotomia «...non può, dunque, che attendersi dal Legislatore».

Ecco così disvelarsi la diversità di approccio della pronunzia sul contraddittorio rispetto alla sentenza Englaro[12].

Orbene, le S.U. del 2015 in tema di contraddittorio endoprocedimentale non negano affatto l’esistenza di principi fondamentali nell’ordinamento, purché essi si fondino sulla legge positiva, così inscrivendosi in una corrente di pensiero risalente e assai ben sostenuta in ambito dottrinario[13] che, tuttavia, non sembra fare adeguatamente “i conti” con l’evoluzione del diritto prodotta dall’avvento della Costituzione sul piano interno e da quell’Europa “giuridica” che ha trovato nella giurisprudenza della Corte di giustizia e della Corte europea dei diritti dell’uomo le basi di un «ordine giuridico complesso, che si vuole scandito in più strati e che si vuole soprattutto poggiante su uno strato profondo, radicale, dove i valori diventano principi e i principi consentono il riconoscimento di diritti fondamentali»[14].

6.    “Andata e ritorno” al principialismo. Cass., S.U., n. 1946/2017 e il diritto alla conoscenza delle origini del figlio adottato

Difficile, dunque, delineare quale sia il “diritto vivente” della Cassazione sulla valenza dei principi e sulla nozione stessa di interpretazione.

Basti, ancora, riflettere sulla recente presa di posizione delle S.U. in tema di diritto alla conoscenza delle origini, dopo l’intervento di Corte cost., n.278/2013, a sua volta determinato dalla sentenza Godelli c. Italia resa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

In tale occasione le S.U. hanno dovuto verificare gli effetti prodotti da una sentenza additiva di principio resa dalla Corte costituzionale che demandava espressamente al legislatore il compito di introdurre «...apposite disposizioni volte a consentire la verifica della perdurante attualità̀ della scelta della madre naturale di non voler essere nominata e, nello stesso tempo, a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all’anonimato, secondo scelte procedimentali che circoscrivano adeguatamente le modalità̀ di accesso, anche da parte degli uffici competenti, ai dati di tipo identificativo, agli effetti della verifica di cui innanzi si è detto».

Le Sezioni Unite − Cass., S.U., 25 gennaio 2017 n. 1946 − nell’affrontare il tema dell’inerzia del legislatore rispetto alle indicazioni offerte dalla Corte costituzionale hanno affermato il seguente principio di diritto nell’interesse della legge. In tema di parto anonimo, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013, ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò  con modalità  procedimentali, tratte dal quadro normativo e dal principio somministrato dalla Corte costituzionale, idonee ad assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità  della donna; fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l’anonimato non sia rimossa in seguito all’interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità.

Per le Sezioni Unite «...la circostanza che tale pronuncia di incostituzionalità̀ consegni l’addizione ad un principio, senza introdurre regole di dettaglio self-executing quanto al procedimento di appello riservato, e si indirizzi espressamente al legislatore affinché, previe le necessarie ponderazioni e opzioni politiche, ripiani la lacuna incostituzionale e concretizzi le modalità̀ del meccanismo procedimentale aggiunto, non esonera gli organi giurisdizionali, in attesa che il legislatore adempia al suo compito, dall’applicazione diretta di quel principio, né implica un divieto di reperimento (corsivo aggiunto) dal sistema delle regole più idonee per la decisione dei casi loro sottoposti». Quest’attività di reperimento, in via giurisprudenziale, dal quadro normativo generale esistente e dal principio somministrato dalla Corte costituzionale, della regola del caso suscettibile di permettere un seguito integrativo dell’ordinamento lacunoso in attesa dell’intervento legislativo, deriva ulteriormente «...dalla necessità di ricercare una coerenza con la piena attuazione dei diritti di matrice convenzionale e di interpretare, in quest’ambito, il diritto interno in senso conforme alla CEDU e alle pronunce della Corte Europea». In questa prospettiva, il mancato sforzo ermeneutico diretto a cogliere nell’ordinamento, nell’attesa dell’intervento del legislatore, le condizioni di effettività e di operatività del principio formulato dalla sentenza additiva della Corte costituzionale, «...determinerebbe anche un deficit di tutela riguardo ad un diritto fondamentale riconosciuto dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, risolvendosi nel mantenimento di una situazione di violazione analoga a quella constatata dalla CEDU, situazione che invece il giudice nazionale deve prevenire».

Ecco qui emergere con forza la necessità del giudice comune di dare “applicazione” ed attuazione al principio fissato dalla Corte costituzionale attraverso un’opera di reperimento della regola più idonea al caso concreto che è parimenti condizionato dall’esigenza di offrire tutela a valori che trovano ulteriore protezione a livello convenzionale. Quando il giudice costituzionale fa luogo ad una pronunzia additiva di principio, consegna la sua indicazione contemporaneamente al legislatore perché adotti le regole opportune al fine di attuarla ed al giudice affinché, nel frattempo, possa estrarre dal principio somministrato dalla Corte la regola buona per il caso, considerando altresì il quadro normativo generale esistente (nel caso di specie, l’art. 28 della legge sulle adozioni nella parte non intaccata dalla sent. n. 278/2013). Le S.U. hanno così somministrato una tutela che la Corte costituzionale non aveva potuto essa stessa riconoscere, producendo una regola con valenza precaria (in attesa dell’intervento del legislatore) attuativa dei principi fissati dalla Corte costituzionale e dalla Corte Edu malgrado l’inerzia del legislatore. Ecco, così realizzarsi la carica d’innovatività (o, diciamo pure, di “normatività”[15]) insita nella pronunzia del giudice comune che ha modo di spiegarsi (intervenendo quest’ultimo sull’istanza di giustizia della parte privata), ponendosi in piena linea di continuità con la decisione della Corte costituzionale che, nella circostanza, si era limitata alla mera indicazione del principio. Il risultato raggiunto, che ha una chiara valenza inventiva, per dirla con Grossi, viene altresì giustificato anche nella dichiarata prospettiva di non vanificare «...la spinta propulsiva che deriva dalla convergenza di fondo, pur nel diverso percorso argomentativo, tra il precedente della Corte di Strasburgo e l’esito dell’incidente di costituzionalità». Ed è questa convergenza/integrazione fra garanzie internazionali e costituzionali dei diritti umani realizzata nell’interpretazione offerta dalle Sezioni Unite a confermare la bontà e lungimiranza di quanto aveva preconizzato Corte cost. n. 388/1999, puntualmente ricordata anche da Lipari nel suo libro (p. 119).

Ancora una volta, un approccio assai aperto del giudice di ultima istanza sulla portata dei principi e sul ruolo del giudiziario tutto rivolto a garantire il massimo della tutela possibile a chi si rivolge alla giustizia[16].

7.     A mo’ di conclusione

L’opera di Lipari ha dunque consentito un veloce ripasso di alcune recenti pronunzie della Corte di cassazione, chiamata a garantire la nomofilachia in un contesto obiettivamente complesso.

Esce uno spaccato in parte frammentato e probabilmente condizionato molto dai casi sottoposti all’esame della stessa Corte che, credo di potere dire sommessamente, non sia tanto diverso da quello che ha accolto l’opera che qui presentiamo nel mondo accademico, essa offrendosi alla comunità interpretativa con la forza di chi, dopo avere rimodellato le categorie giuridiche del diritto civile, oggi svolge un ulteriore e quasi naturale passo in avanti. Questo materiale il giurista del nostro tempo è chiamato dunque a maneggiare con competenza e abilità, purché si tenga bene a mente che non si tratta di un nuovo che avanza sbilenco, sgangherato e malfermo ma, tutto al contrario, di un mondo complesso, articolato, elastico basato su valori, su sostanza. Elastico ma non vago, precisa opportunamente Paolo Grossi[17], essendo tale sistema tutto orientato a garantire a ogni persona la sua dignità.

Per tali ragioni tanto la sentenza Englaro quanto Cass., S.U., n. 1946/2017 − forse non occasionalmente redatte dalla mano del medesimo estensore − sembrano rappresentare un buon paradigma laddove confermano che il giudice, di fronte al “silenzio” del legislatore, non può rimanere inerte rispetto ad una domanda di giustizia, ove questa sia giustificata e tutelata dal quadro dei principi scolpiti all’interno del sistema – integrato nel senso appena descritto – non essendogli consentito un non liquet.

Rispetto all’assenza di un humus comune e condiviso il giudice non deve né può indietreggiare o deflettere dal ruolo e dalla funzione che questi svolge allorché emergano, in termini sufficientemente chiari e prevedibili, dei principi di base che trovano la loro naturale collocazione all’interno delle Carte dei diritti fondamentali, per come vivificate dai rispettivi diritti viventi[18].

Le due pronunzie sopra ricordate, in definitiva, mostrano il volto di un giudice capace di affrontare “casi difficili” e di colmare le “lacune del diritto” (Cass., S.U., n. 22251/2017) senza pregiudizi, senza pre-orientamenti, con grande attenzione alla comparazione e ai diritti fondamentali anche di matrice sovranazionale e convenzionale, proprio perché consapevoli di quanto i fenomeni della globalizzazione rendano necessario un approccio aperto rispetto a temi che toccano l’essenza della persona. Tutto questo senza tralasciare le radici del contesto nazionale nel quale il giudice è chiamato ad operare, ma nemmeno perdendo di vista la dimensione universale che certi valori tendono progressivamente ad acquisire.

Esse si sposano e fanno sistema con il pensiero di Lipari e Grossi, trovando in questi due grandi pensatori del nostro tempo linfa e alimento e, forse, confermando per davvero che quello del giudice è «...un ruolo rilevantissimo, giacché egli è diventato il più autentico garante della crescita di un ordinamento giuridico, della sua perenne storicità e, pertanto, della sua salutare coerenza al divenire sociale»[19].

Alla fine, ma non per ultimo, vorrei rivolgere un invito forte e accorato alla comunità interpretativa della quale molto parla il prof. Lipari a guardare con una lente più vicina al reale l’attuale stato della giustizia italiana.

Passando dal piano teorico a quello pratico dell’esercizio delle funzioni giurisdizionali, non deve sottostimarsi il disagio sempre più crescente avvertito da chi, svolgendo detto mestiere ed avendo abbastanza chiara la complessità del diritto comprende, per il fantomatico “fattore tempo”, di non (potere) offrire un prodotto adeguato alla nozione di iuris prudentia che pure incarna e di non essere nelle condizioni di svolgere in modo adeguato alla difficoltà delle vicende il proprio ruolo.

È proprio la dimensione sempre di più sovranazionale del diritto a richiedere, infatti, non soltanto elevati standard di professionalità, ma anche tempi di studio e di sedimentazione adeguati.

Allora l’invito che mi sento di rivolgere in questa sede soprattutto a quei settori dell’Accademia che in modo mirabile e straordinario, ai miei occhi, descrivono e delineano il “modello di giudice” da perseguire e nel quale io mi identifico è che essi si facciano carico di uno sforzo ulteriore e dunque di verificare “in vivo”, e non solo “in vitro”, se le loro analisi siano concretamente applicabili all’attuale sistema della giustizia interna, alla quantità del contenzioso ed ai mezzi offerti per gestirlo nella giurisdizione di merito come in quella di legittimità.

Questa notazione finale non vuole essere una rivendicazione a lavorare meno, essendo ormai evidente che gli standard di produttività dei magistrati sono tutti sotto controllo e non consentono, salvo qualche rara eccezione, possibilità di enclave dorate.

È, piuttosto, piena consapevolezza che l’assenza di condizioni lavorative adeguate, oltre a snaturare il sistema giustizia, non può che favorire il ritorno a quel modo burocratico e notarile della giurisdizione al quale il giudice potrebbe vedersi costretto − o che potrebbe anche soltanto sfruttare come alibi − per non soccombere e rimanere incagliato nelle maglie di un sistema disciplinare che, a volte, appare arcigno e repressivo nei confronti dei più virtuosi e laboriosi.

La speranza è dunque che nell’agenda degli studiosi, di qualunque estrazione e orientamento, entri prepotentemente il “tema giustizia” non soltanto nella sua dimensione più virtuosa, qual è quella che oggi abbiamo provato a disegnare, ciascuno secondo la propria prospettiva, ma anche in quella più terrena e apparentemente meno interessante ed appagante del sistema giustizia nel suo concreto esplicarsi all’interno delle aule giudiziarie, andando in questo modo oltre i leading case e le sentenze modello per capire se il “modello di giudice” che andiamo tratteggiando e pennellando è davvero quello che si incontra nelle aule di giustizia.

Un’analisi di questo tipo appare oggi indispensabile e non può essere riservata al circuito di chi si occupa di organizzazione giudiziaria e di organici o alle scelte politiche del momento, ma impone proprio ai settori trainanti dell’Accademia una presa di coscienza forte sulle condizioni del “sistema giustizia”, senza la quale quel ruolo del giudice del quale giustamente tanto si discute rischia di rimanere come un quadro di un pittore fiammingo, chiuso nel caveau di qualche collezionista d’arte preoccupato di accaparrarsi ciò che più bello al mondo e di proteggerlo dall’incuria, senza che quell’opera possa essere, come invece deve, messa al servizio del pubblico, delle persone, della gente e dei loro bisogni.

Questa è, ovviamente, soltanto una provocazione che richiederebbe ben altro approfondimento e che, tuttavia, in un alto consesso come questo mi sento, da piccolo giudice, di lanciare, sperando che qualcuno ne colga la portata, in apparenza blanda, ma in effetti, ai miei occhi, tanto travolgente quanto lo è l’opera del prof. Lipari.

 

 


* Intervento svolto alla presentazione del volume di Nicolò Lipari (Il diritto civile tra legge e giudizio, Giuffrè, 2017) svoltasi presso l’Università Lumsa di Palermo il 9 novembre 2017.

[1] Su tale espressione insiste particolarmente P. Grossi, L’invenzione del diritto, Laterza, Bari-Roma, 2017, p. 115 e p. 127, specificamente ricordando Cass., S.U., n.1946/2017, della quale si dirà diffusamente in seguito. Vds., sul volume appena ricordato, E. Scoditti, Scoprire o creare il diritto? A proposito di un recente libro, in questa Rivista on line, 7 novembre 2017.

[2] Sul ruolo dell’interpretazione nell’individuazione dei principi vds T. Mazzarese, Interpretazione della costituzione. Quali i pregiudizi ideologici?, in A. Donati , A. Sassi (eds.), Fondamenti etici del processo. Vol. 1 di Diritto privato. Studi in onore di Antonio Palazzo, Utet, Torino, 2009, pp. 439 ss.

[3] Cfr. Cass., S.U., 9 dicembre 2015, n. 24822: «...La tecnica del bilanciamento avviene attraverso vari steps: a) primo step: il sacrificio di un bene deve essere necessario per garantire la tutela di un bene di preminente valore costituzionale (per esempio, certezza e stabilità delle relazioni giuridiche); b) secondo step: a parità di effetti, si deve optare per il sacrificio minore; c) terzo step: deve essere tutelata la parte che non versa in colpa; d) quarto step: se entrambe le parti non sono in colpa, il bilanciamento avviene imponendo un onere di diligenza − o, comunque, una condotta (attiva o omissiva) derivante da un principio di precauzione − alla parte che più agevolmente è in grado di adempiere. Non esiste una soluzione generalizzata per tutte le norme e per tutti i casi. Con la tecnica del bilanciamento la Corte costituzionale (ma lo stesso procedimento logico lo adotta la Corte Edu) costruisce una norma traendola dalla disposizione di legge. Il giudice ordinario per compiere una interpretazione costituzionalmente orientata deve procedere allo stesso modo: - esaminare una singola disposizione; - individuare i beni in conflitto; - compiere un giudizio di bilanciamento secondo i passaggi logici sopra indicati; - infine, estrarre la norma dalla disposizione. È proprio nella natura della tecnica del bilanciamento che una soluzione normativa valida per una disposizione non sia valida per un’altra: proprio perché nel giudizio di bilanciamento è ben possibile che in un caso normativo si dia preminente tutela al notificante e in altro caso normativo (cioè in riferimento ad un’altra disposizione: parliamo − inutile dirlo − di norme e non di casi pratici specifici) si dia tutela al notificato».

[4] A. Ruggeri e A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, Giappichelli, Torino 2014, pp. 93 ss.

[5] Vds., da ultimo, in modo più ampio su tale dicotomia (apparente) ancora A. Ruggeri, Rapporti interordinamentali  e conflitti tra identità costituzionali  (traendo spunto dal caso Taricco), in www.penalecontemporaneo.it, 2 ottobre 2017. Per un ulteriore completamento delle riflessioni espresse nel testo sia consentito il rinvio a R. Conti, Alla ricerca degli anelli di una catena, reperibile a questo link http://www.dirittoequestionipubbliche.org/page/2015n15-1/0000DQsommario.pdf.

[6] Vds., ancora Cass., S.U., n. 24822/2015, cit.

[7] L. Ferrajoli, Trattamenti sanitari forzati, in Ragion Pratica, 32, 2009, 357, a proposito della vicenda Englaro della quale si tornerà a breve a discutere.

[8] Vds., volendo, R. Conti, La giurisdizione del giudice ordinario e il diritto UE, in Le trasformazioni istituzionali a sessant’anni dai Trattati di Roma, a cura di A. Ciancio, 2017, p. 75.

[9] Temi già in passato affrontati in altra sede alla quale si rimanda vds., volendo, R. Conti, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il ruolo del giudice, Aracne, Roma, 2011; id., I giudici e il biodiritto. Un esame concreto dei casi difficili e del ruolo del giudice di merito, della Cassazione e delle Corti europee, Aracne, Roma, 2015; id, Il sistema di tutela multilivello e l’interazione e l’interazione tra ordinamento interno e fonti sopranazionali, in Questione Giustizia Trimestrale, 4/2016.

[11] A. Ruggeri, Sistema di fonti o sistema di norme? Le altalenanti risposte della giurisprudenza costituzionale, in “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti, XVI, Studi dell’anno 2012, Torino, 2013, p. 518: «…Ci si avvede così che nulla può dirsi a priori circa il modo con cui una fonte si pone davanti ad altre fonti e viene pertanto a trovare ricetto nel sistema; tutto, piuttosto, può dirsi solo a posteriori, per il modo con cui le norme dalle fonti prodotte si riportano le une alle altre e tutte assieme a “fatti” e valori. La gerarchia, insomma, in ultima istanza si fa e senza sosta rinnova, fissandosi per le esigenze di un’esperienza data, davanti al giudice (e, segnatamente, avuto riguardo alle vicende delle fonti di primo grado, davanti al giudice costituzionale), la certezza del diritto convertendosi ed interamente risolvendosi in certezza dei diritti, vale a dire, a conti fatti, nella effettività della loro tutela, la massima possibile alle condizioni oggettive di contesto».

[12] Si tratta di un’assolutamente legittima prospettiva che fa il paio con un indirizzo secondo il quale l’interpretazione di una disposizione secondo il dato letterale e quello logico-sistemico «...non significa... che la contestualizzazione abbia una incidenza tale da consentire l'elisione, ovvero l'inversione ... del senso di un inequivoco dettato letterale. In claris non fit interpretatio: se la lettera della norma è inequivoca, l'interpretazione non può che recepirne appunto il significato letterale, senza che l'interprete possa avvalersi di altre norme, presenti nello stesso testo normativo o in altri testi pertinenti, allo scopo di “sfigurare” il significato letterale, per sostituirlo con un significato che ne è l'opposto. L'inserimento di una singola norma nel sistema che regola la materia, infatti, non può condurre ad una disapplicazione della singola norma stessa. L'interpretazione è uno strumento percettivo e recettivo, non correttivo e/o sostitutivo della voluntas legis: nell'ipotesi in cui la norma in esame non risulti coerente con il sistema in cui è inserita, la soluzione non può ravvisarsi in un “fai-da-te” del giudice-interprete che si risolve in un'intrusione nella sfera di attribuzioni del legislatore... bensì nel suscitare l'intervento del giudice delle leggi, quanto meno in riferimento al principio della ragionevolezza (art. 3 Cost.). Parimenti, la cd. interpretazione costituzionalmente orientata non può legittimare una lettura creativa della norma che ne sopprima in modo assoluto l'inequivoco significato letterale, l'evolutiva sintonizzazione alla normativa superiore potendo essere effettuata dal giudice solo qualora la lettera del testo normativo lasci spazi di compatibilità, diversamente dovendosi comunque ricorrere al vaglio della Corte Costituzionale» (Cass. n. 12144/2016).

[13] Corrente di pensiero ricordata da P. Grossi, L’invenzione del diritto, cit., p. 93.

[14] P. Grossi, L’invenzione del diritto, cit., p. 99.

[15] A. Ruggeri, in molti scritti e, tra questi, Linguaggio della Costituzione e linguaggio delle leggi: notazioni introduttive, in Itinerari, Studi dell’anno 2015, Torino, p. 484, nota 20.

[16] Ha insistito più volte sul “metaprincipio” della massimizzazione della tutela A. Ruggeri, da ultimo in Incontri e scontri tra Corte di giustizia e giudici nazionali: quali insegnamenti per il futuro?, in www.federalismi.it, pagg.7,19 e 20.

[17] P. Grossi, L’invenzione del diritto, cit., p. 118.

[18] In questa prospettiva meritano di essere condivise le espressioni usate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 1/2013, allorché si afferma che «...in tutte le sedi giurisdizionali (e quindi non solo in quella costituzionale) occorre interpretare le leggi ordinarie alla luce della Costituzione, e non viceversa. La Carta fondamentale contiene in sé principi e regole, che non soltanto si impongono sulle altre fonti e condizionano pertanto la legislazione ordinaria – determinandone la illegittimità in caso di contrasto – ma contribuiscono a conformare tale legislazione, mediante il dovere del giudice di attribuire ad ogni singola disposizione normativa il significato più aderente alle norme costituzionali, sollevando la questione di legittimità davanti a questa Corte solo quando sia impossibile, per insuperabili barriere testuali, individuare una interpretazione conforme». Per tale motivo «...La conformità a Costituzione dell’interpretazione giudiziale non può peraltro limitarsi ad una comparazione testuale e meramente letterale tra la disposizione legislativa da interpretare e la norma costituzionale di riferimento. La Costituzione è fatta soprattutto di principi e questi ultimi sono in stretto collegamento tra loro, bilanciandosi vicendevolmente, di modo che la valutazione di conformità alla Costituzione stessa deve essere operata con riferimento al sistema, e non a singole norme, isolatamente considerate. Un’interpretazione frammentaria delle disposizioni normative, sia costituzionali che ordinarie, rischia di condurre, in molti casi, ad esiti paradossali, che finirebbero per contraddire le stesse loro finalità di tutela».

[19] P. Grossi, L’invenzione del diritto, cit., p. 129.

11/11/2017
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