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La non punibilità per la particolare tenuità del fatto. Minime riflessioni “a caldo”

di Simone Perelli
Consigliere della Corte d'appello di Torino
Non è difficile prevedere che il nuovo istituto, introdotto nel nostro ordinamento con il decreto legislativo n.28/2015, impegnerà intensamente la dottrina nei prossimi anni

1. Premessa.

Non occorre avere facoltà divinatorie per prevedere che la non punibilità per la particolare tenuità del fatto, introdotta nel nostro ordinamento con il decreto legislativo del 16-3-2015 n. 28, entrato in vigore il 2-4-2015, impegnerà intensamente la dottrina e la giurisprudenza nei prossimi anni.

Ciò perché si tratta di un istituto che, a differenza dei casi di non punibilità già esistenti nel codice penale (artt. 376, 384, 598, 599, 649 c.p.) ha carattere generale e, come tale, applicabile al ricorrere di determinate condizioni (di cui infra), ad una vastissima gamma di reati, individuati dal legislatore unicamente con il riferimento alla cornice edittale.

Infatti, è stata modificata la denominazione del titolo V del primo libro del codice penale che ora suona: “Della non punibilità per la particolare tenuità del fatto. Della modificazione, applicazione ed esecuzione della pena”.

L’art. 131 bis c.p. , di nuovo conio, prevede che tale istituto sia applicabile a tutti i reati puniti con pena detentiva non superiore a 5 anni, ovvero con pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena. In particolare, al ricorrere di questi reati, il fatto non risulta punibile quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133 comma 1 c.p., l’offesa sia di particolare tenuità e il comportamento risulti non abituale.

A differenza del fatto tipico inoffensivo, che non può qualificarsi come reato (art. 49, comma secondo, c.p.), la non punibilità in esame presuppone che il reato sia integrato in tutti i suoi elementi.

Dunque, per i seguaci della teoria bipartita, è necessario che sussista sia l’elemento oggettivo o materiale (comprensivo dell’elemento negativo dell’assenza di cause di giustificazione) sia l’elemento soggettivo o psicologico; per i sostenitori della teoria tripartita, deve ricorrere la sussistenza del fatto, la colpevolezza e l’antigiuridicità; mentre invece, per gli epigoni della teoria quadripartita, oltre al fatto, alla colpevolezza e alla antigiuridicità, deve sussistere anche la tipicità, ovvero – in altra variante – la meritevolezza o la necessità di pena.

Non so se la teoria quadripartita, in quest’ultima variante, riceverà nuova linfa da questa causa di non punibilità, quel che è certo è che, per la tensione che provoca con alcuni principi costituzionali di fondamentale importanza, la non punibilità in esame non potrà ricevere una disinvolta applicazione e, conseguentemente, non potrà avere un significativo impatto sui processi pendenti.

E’ evidente, infatti, come il non esercizio dell’azione penale per la particolare tenuità del fatto, nonostante la presenza di tutti gli elementi costitutivi del reato, comporta qualche problema di compatibilità con l’art. 112 Cost. e, quindi, con l’obbligatorietà dell’azione penale, che, com’è noto, è un principio posto a garanzia dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge oltre che dell’indipendenza del P.m. nell’esercizio delle proprie funzioni.

Come ha sancito la Corte Costituzionale (sent. n. 88 del 1991) l’obbligatorietà dell’azione penale è punto di convergenza di un complesso di principi basilari del sistema costituzionale, di tal che il suo venir meno potrebbe alterarne l’assetto complessivo.

Perciò, nei primi articoli comparsi sul tema, alcuni autori si sono interrogati sulla copertura costituzionale della non punibilità per particolare tenuità del fatto, in grado di spiegare e giustificare lo strappo all’art. 112 Cost.

Mi pare che la risposta più convincente a questo interrogativo sia quella che fa riferimento al diritto penale minimo, che rimanda all’art. 27 Cost. ovvero alla necessità che la pena tenda alla rieducazione del condannato e conseguentemente esclude l’esistenza di una esigenza rieducativa di fronte a fatti irrilevanti.

Secondo le più recenti acquisizioni giurisprudenziali, la configurazione di una condotta come reato, per i beni fondamentali sui quali incide la risposta sanzionatoria, richiede una valutazione di offensività e proporzionalità di per se stesse in grado di rendere compatibile la non punibilità con l’obbligatorietà dell’azione penale.

Invece, mi pare non del tutto appropriato richiamare l’esigenza di deflazione processuale poiché questa finalità, per quanto rilevante e di primaria importanza, non sottende un valore costituzionale in grado di bilanciare l’obbligatorietà dell’azione penale.

Va ancora detto che la causa di non punibilità in esame si differenzia dalla irrilevanza del fatto del procedimento minorile (art. 27 d.p.r. 448/88) e del procedimento di competenza del giudice di pace (art. 34 d.l.vo 274/2000) perché queste ultime sono costruite come condizioni di procedibilità, con differenti presupposti, quali l’occasionalità della condotta, il grado di colpevolezza, il pregiudizio che il procedimento potrebbe arrecare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato (art. 34 gdp) ovvero alle esigenze educative per il minorenne (art. 27).

 

2. Il contenuto.

Passando a esaminare, sia pure a grandi linee, il contenuto dell’art. 131 bis c.p che traccia la fisionomia dell’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto occorre partire dalla lettura della norma.

L’art. 131 bis c.p. così recita:

«Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale.

L’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità, ai sensi del primo comma, quando l’autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato sevizie o, ancora, ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all’età della stessa ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona.

Il comportamento è abituale nel caso in cui l’autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.

Ai fini della determinazione della pena detentiva prevista nel primo comma non si tiene conto delle circostanze, ad eccezione di quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale. In quest’ultimo caso ai fini dell’applicazione del primo comma non si tiene conto del giudizio di bilanciamento delle circostanze di cui all’articolo 69.

La disposizione del primo comma si applica anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante».

Va detto che la legge 67/2014, all’art. 1 comma 1 lettera m) ha conferito al governo la delega per «escludere la punibilità di condotte sanzionate con la sola pena pecuniaria o con pene detentive non superiori nel massimo a cinque anni, quando risulti la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento, senza pregiudizio per l’azione civile per il risarcimento del danno e adeguando la relativa normativa processuale penale».

Sulla base di questa delega vi è già chi dubita della legittimità costituzionale della tipizzazione effettuata dal legislatore delegato[1] che, contrariamente a quanto inteso dal legislatore delegante, più propenso a favorire l’applicazione di questo istituto da parte del giudice al ricorrere di una offesa di particolare tenuità e di un comportamento non abituale, di fatto, ha precluso la possibilità di giungere a questo epilogo per intere categorie di reati quando “ …l’autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato sevizie o, ancora, ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all’età della stessa ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona”.

Anche la definizione della non abitualità del comportamento, data dal legislatore delegato, sembra soffrire dello stesso problema laddove il legislatore delegato ha pensato di definire come abituale il comportamento posto in essere dall’autore dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero il comportamento di chi abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.  

Va ancora rilevato che il legislatore delegato prevede che le modalità della condotta e l’esiguità del danno o del pericolo debbano essere valutate ai sensi dell’art. 133 primo comma c.p. , quindi con riferimento alla natura, alla specie, ai mezzi, all’oggetto, al tempo, al luogo e a ogni altra modalità dell’azione, alla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato, all’intensità del dolo ovvero al grado della colpa.

Dunque, schematicamente, può affermarsi che per poter ritenere un reato non punibile per particolare tenuità occorre procedere a questo vaglio:

- in primo luogo si deve trattare di un reato punito con pena detentiva non superiore, nel massimo, a 5 anni di detenzione;

- in secondo luogo deve trattarsi di un reato la cui offesa sia di particolare tenuità, per l’esiguità del danno o del pericolo valutati  ai sensi dell’art. 133 comma 1 c.p. (dunque, avuto riguardo alla natura, alla specie ai mezzi ,all’oggetto, al tempo, al luogo e a ogni altra modalità dell’azione, alla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato, all’intensità del dolo ovvero al grado della colpa);

- in terzo luogo il comportamento deve risultare non abituale.

Come accennato, la norma indica poi le modalità di determinazione della pena detentiva, prevede alcune cause di esclusione della particolare tenuità e definisce l’abitualità del comportamento.

Circa le modalità di determinazione della pena va sottolineato che[2] questa norma non fa riferimento al reato tentato mentre, analogamente alle norme più ricorrenti, prevede che non si tenga conto delle circostanze, ad eccezione di quelle per le quali la legge prevede una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale.

Inoltre, altra peculiarità, qualora si debbano considerare le circostanze indicate, la norma prevede che non si possa tenere conto del giudizio di bilanciamento di cui all’art. 69 c.p.

Quest’ultima previsione non pone particolari problemi qualora ricorra una sola circostanza che prevede una pena di specie diversa da quella ordinaria ovvero ad effetto speciale: in questo caso si tratta di operare l’aumento massimo previsto, in caso di aggravante, ovvero la diminuzione minima consentita, in caso di attenuante, e poi verificare se la pena edittale così risultante rispetti, o meno, la soglia di 5 anni di pena detentiva.

Qualche problema sorge nell’eventualità in cui concorrano circostanze ad effetto speciale eterogenee. In questo caso come dovrà essere determinata la pena massima visto che non si può procedere al bilanciamento?

Probabilmente, in questi casi il problema si supererà, in concreto, richiamando l’insussistenza della particolare tenuità dell’offesa alla luce dei rigorosi parametri indicati dall’art. 133 comma 1° c.p. ovvero l’insussistenza del comportamento non abituale. Mentre, qualora (malauguratamente) dovessero ricorrere tutti i requisiti, la soluzione potrebbe scaturire dal calcolo del massimo della pena edittale, facendo applicazione delle circostanze aggravanti ad effetto speciale nella massima estensione e, successivamente, operando la minima riduzione consentita per la circostanza attenuante a effetto speciale.

Seguendo questo procedimento una detenzione finalizzata allo spaccio di “droghe leggere” (nuovamente punita ex art. 73 comma IV d.p.r.309/90), ancorché aggravata dall’art. 80 comma 1, rispetterebbe il limite edittale di 5 anni di reclusione, qualora ricorra la circostanza attenuante ad effetto speciale di cui all’art. 73 comma 7 d.p.r. 309/90[3].

Dico subito che questa soluzione suscita qualche perplessità dal momento che finisce per obliterare il limite edittale previsto dalla legge per la fattispecie non circostanziata (infatti l’art. 73 comma 4 d.p.r. 309/90  punisce la condotta con la reclusione fino a 6 anni), e, conseguentemente, per contrastare con la lettera della legge che esclude la non punibilità per i reati per i quali è prevista la pena detentiva  non superiore, nel massimo, a cinque anni. Laddove il predicato verbale utilizzato (“è prevista”) rinvia necessariamente alla pena comminata dalla legge e non già alla pena massima concretamente irrogabile dal giudice.

Vedremo che cosa dirà la giurisprudenza, fermo restando che, come accennato, (fortunatamente) non sarà facile che ricorra questa ipotesi, poiché non sarà facile che l’ammissione o l’esclusione della non punibilità dipenda solamente dal margine edittale in discorso.

Di più facile soluzione mi pare essere il problema del calcolo della pena per il delitto tentato. Benché non espressamente menzionato dalla norma, non può trascurarsi il dato ormai pacificamente acquisito che il tentativo è un titolo autonomo di reato, dotato di una propria oggettività giuridica e una propria struttura, sicché è giocoforza concludere che per calcolare la pena edittale massima del delitto tentato occorre avere riferimento alla pena massima prevista per il delitto consumato, ridotta di un terzo.

Pertanto, una volta accertato che il reato rientra nel limite edittale previsto dalla legge, occorre verificare se per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133 primo comma c.p., l’offesa sia di particolare tenuità.

In questo passaggio vengono in rilievo, tra l’altro, la gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa e l’intensità del dolo ovvero il grado della colpa.

Dunque, mi pare consequenziale ritenere che, laddove il danno o il pericolo cagionato alla p.o. non sia trascurabile, ben difficilmente si possa concludere per la particolare tenuità dell’offesa.

Poi, come accennato, occorre escludere che l’autore abbia agito per motivi abietti o futili (qui entra in gioco addirittura il movente dell’autore) ovvero abbia agito con crudeltà o abbia adoperato sevizie, o, ancora, abbia profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in ragione dell’età della stessa ovvero che dalla condotta siano derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona.

Dunque, per volontà del legislatore delegato, per una vasta gamma di reati, viene ermeticamente chiusa la porta di accesso alla non punibilità per particolare tenuità del fatto.

Va ancora rilevato che, stando a quanto osservato da alcuni commentatori, tali preclusioni operano anche senza la necessità di una espressa e formale contestazione della circostanza aggravante ovvero senza la formale contestazione della fattispecie di reato che preclude questo epilogo, essendo sufficiente che tali circostanze ostative emergano dalla lettura degli atti ovvero dall’istruzione dibattimentale.

Fatta questa verifica occorre ancora accertare che il comportamento non sia abituale.

Come si è visto, si tratta di un criterio già previsto nella legge delega mediante il quale il legislatore ha inteso differenziare la non punibilità in esame dalla esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto prevista per i reati di competenza del g.d.p. (art. 34 d.l.vo 274/2000), ovvero dai casi di pronunzia di sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, prevista nel procedimento a carico di persone minorenni (art. 27 d.p.r. 448/88).

Infatti, nei procedimenti del giudice di pace ovvero nei confronti dei minorenni si fa riferimento all’occasionalità della condotta e non già alla più vasta categoria del comportamento non abituale.

Poi lo stesso legislatore complica un po’ le cose dando la definizione del comportamento non abituale.

Primo problema. Si tratta di una definizione meramente enunciativa o tassativa?

La relazione sembra propendere per la prima opzione, stando alla maggior parte dei commentatori si dovrebbe invece concludere per la natura tassativa di questa enunciazione, siccome maggiormente rispettosa del principio di legalità.

In ogni caso, tralasciando le categorie del delinquente abituale, professionale o per tendenza che non presentano particolari difficoltà (fermo restando che deve trattarsi di una condizione già giudizialmente accertata e rispetto alla quale non sia intervenuta la riabilitazione), questa norma risulta di non immediata comprensione nelle parti successive.

Non può dubitarsi che la legge voglia precludere la non punibilità nei confronti di chi abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità.

Da questa proposizione si traggono due conseguenze certe: non può fruire di questo istituto il recidivo specifico, ma neppure l’indagato o l’imputato che sia stato archiviato o prosciolto per particolare tenuità del fatto per reati della stessa indole di quello per cui si procede.

Conseguentemente, anticipando in questa sede una considerazione che scaturisce dalle norme successive, per poter dare effettività a questa preclusione occorre che anche i decreti di archiviazione per particolare tenuità del fatto siano iscritti nel certificato penale[4].

L’ultima proposizione è quella che riconduce al comportamento abituale i reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.

Una esegesi di tipo sistematico della disposizione, porta a ritenere preferibile una lettura disgiuntiva della proposizione, sicché, al solo ricorrere di uno di questi comportamenti deve escludersi la particolare tenuità del fatto.

Stando ai primi commenti i comportamenti abituali e reiterati rinviano ai reati abituali ovvero ai delitti nei quali la reiterazione delle condotte integrano un elemento costitutivo del reato (art. 612 bis c.p.).

Qualche difficoltà maggiore si incontra nella definizione del concetto di condotte plurime. Alcuni commentatori ritengono che le condotte plurime lascino fuori dal raggio di azione della non punibilità sia i reati che si compongano di una pluralità di condotte, sia le condotte plurime che diano luogo ad un reato complesso ovvero a più fattispecie di reato, collegate o meno da un fine (es. 61 n. 2 c.p. aggravante teleologica), ovvero unificate dal vincolo della continuazione.

Secondo un autorevole autore[5] questa indicazione potrebbe fare riferimento alle condotte concorsuali (eventuali o necessarie), ossia un reato che presenta un’unica offesa nonostante una pluralità di condotte. Secondo questo autore tale previsione celerebbe l’intento del legislatore “di impedire che l’art.114 c.p., una circostanza attenuante di evanescenza metafisica, possa trasformarsi in una causa di punibilità mondanamente reale”.

Invece, la dottrina che si è sin qui pronunciata ritiene che il concorso formale di reati non sia ostativo alla non punibilità, poiché non rientra tra i casi, normativamente previsti, di comportamento abituale.

 

3. Modifiche al codice di procedura penale.

Il decreto legislativo in esame contiene solo due articoli (artt. 2 e 3) che modificano il codice di procedura penale e un terzo articolo che modifica alcuni articoli del T.U. sul casellario giudiziale (art. 4).

Va premesso che, in ambito processuale, l’intervento legislativo si è limitato a modificare i casi di archiviazione e di proscioglimento prima del dibattimento, nonché a coniare l’articolo 651 bis c.p.p., inserito nel Libro X dell’esecuzione, destinato a regolare l’efficacia della sentenza di proscioglimento in esame nel giudizio civile o amministrativo di danno.

Dico subito che questi limitati interventi di modifica del codice di rito, non possono essere richiamati per portare acqua al mulino di chi sostiene la natura processuale della non punibilità ovvero la necessità di una pronuncia - nella fase processuale - di una sentenza di non doversi procedere, ai sensi degli artt. 469 e 529 c.p.p.

La natura sostanziale di questa causa di non punibilità comporta invece, al termine del processo, una vera e propria assoluzione ai sensi dell’art. 530 c.p.p.

Su questo punto mi pare che si registri una ampia convergenza di opinioni.

Del resto, l’art. 530 c.p.p. già prevede la possibilità che il giudice pronunzi sentenza di assoluzione quando il reato è stato commesso da persona non punibile, sicché non è stato necessario per il legislatore intervenire sul tessuto di questa norma per rendere possibile questo epilogo (viceversa, l’art. 529 c.p.p. non consente la pronunzia della sentenza di non doversi procedere, prevista esclusivamente  per l’inesistenza di una condizione di procedibilità).

Infatti, le prime sentenze di merito che hanno fatto applicazione della non punibilità per particolare tenuità del fatto, circolate in rete, hanno richiamato la formula assolutoria di cui all’art. 530 c.p.p., in omaggio alla natura sostanziale dell’istituto (natura sostanziale già affermata dalla Corte di Cassazione sez. 3, sent. del 8-4-2015, dep. il 15-4-2015, n. 15449).

Da una lettura combinata delle norme processuali contenute nel decreto legislativo in esame deve concludersi che, per giungere all’archiviazione del procedimento ovvero alla pronunzia della sentenza di proscioglimento prima del dibattimento, è necessario instaurare una interlocuzione - anche - con la persona offesa dal reato, benché tale confronto non vincoli in alcun modo la decisione del giudice[6].

L’archiviazione per la particolare tenuità del fatto non presenta particolari problemi di tipo processuale, salvo il fatto che quando il P.m. voglia archiviare il procedimento per questa ragione deve dare sempre avviso all’indagato e alla persona offesa avvertendoli che, nel termine di 10 giorni possono prendere visione degli atti e presentare opposizione, indicando, a pena di inammissibilità, le ragioni del dissenso.

Se l’opposizione non è inammissibile il giudice è tenuto a fissare udienza e a sentire (nuovamente) le parti, prima di potersi pronunciare sulla richiesta.

L’epilogo del procedimento indicato dal comma 1 bis dell’art. 411 c.p.p. è il seguente: può accogliere la richiesta, ovvero restituire “gli atti al P.m., eventualmente provvedendo ai sensi dell’art. 409 commi 4 e 5 c.p.p.”.

Ergo, a differenza degli altri casi di archiviazione, nei quali il procedimento si conclude con l’accoglimento della richiesta ovvero con l’ordinanza di nuove indagini o di imputazione coatta, in questo caso il procedimento può terminare anche con la mera restituzione degli atti al pubblico ministero per non accoglimento della richiesta (di contro, non sussistono preclusioni ad una archiviazione del procedimento per infondatezza della notizia di reato ovvero per mancanza di una condizione di procedibilità, in ipotesi, sollecitate dall’indagato nell’opposizione o nel corso dell’udienza).

Riguardo a questo procedimento alcune voci critiche si sono levate a sottolineare la ristrettezza del termine (10 giorni) concesso alle parti per prendere visione degli atti e presentare motivata opposizione, tuttavia, fermo restando che il termine non può non decorrere per ciascuna parte che dal ricevimento dell’avviso, è pacifico che si tratti di termine non previsto a pena di inammissibilità, pertanto, ove l’opposizione venga presentata anche dopo tale termine il giudice, ove non abbia ancora provveduto sulla richiesta di archiviazione, deve prenderla in esame.

Circa il proscioglimento prima del dibattimento, come accennato, il legislatore ha modificato l’art. 469 c.p.p. prevedendo l’inserimento del comma 1 bis dopo il primo comma tale; norma così recita:

«La sentenza di non doversi procedere è pronunciata anche quando l’imputato non è punibile ai sensi dell’art. 131 bis del codice penale, previa audizione in camera di consiglio anche della persona offesa, se compare» .

La prima considerazione che balza all’evidenza è che, in questo caso, è previsto l’interpello anche della persona offesa, alla quale però, a differenza del pubblico ministero e dell’imputato, non è conferito il potere di condizionare la decisione del giudice (mentre com’è noto, per il proscioglimento di cui al primo comma, è necessaria la non opposizione del P.m. e dell’imputato).

Posto che la sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto comporta una valutazione assai penetrante sulla sussistenza dei requisiti di cui all’art. 131 bis c.p., difficilmente il giudice sarà in grado di prendere una motivata decisione sulla base dei pochi atti comunemente inseriti nel fascicolo del dibattimento.

Per ovviare a questo limite sono comparse alcune opzioni interpretative.

Dico subito che, sulla base di una lettura sistematica delle norme e delle conseguenze di cui talune interpretazioni sono foriere, non mi pare condivisibile la tesi di chi propugna l’acquisizione del fascicolo del P.m. (alla stregua di un patteggiamento), sia pure al limitato fine di poter decidere se sussista, o meno, la non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p. e così addivenire al proscioglimento prima del dibattimento.

A fronte del meritorio intento acceleratorio, finalizzato a chiudere quanto prima il processo con una sentenza di non doversi procedere, sta l’eccentricità di una decisione che, ove avesse un epilogo negativo, potrebbe determinare l’insorgenza di una nuova causa di incompatibilità, nei confronti del giudice “contaminato” dalla lettura degli atti di indagine, con evidente disfunzione per l’organizzazione degli uffici e, conseguentemente, per una beffarda quanto non imprevedibile eterogenesi dei fini, un serio ostacolo alla rapida definizione del processo.

Dunque, a mio parere, è meglio non avventurarsi lungo i sentieri di una interpretazione analogica non necessaria e limitarsi ad utilizzare gli atti contenuti nel fascicolo processuale. Se sulla base di essi non si potrà pervenire ad una pronuncia predibattimentale poco male, in quanto la non punibilità potrà - eventualmente - essere recuperata dopo l’instaurazione del dibattimento non necessariamente dispendioso in termini di tempo e di risorse[7].

A questo punto occorre affrontare il tema della possibilità, o meno, di richiamare l’art. 129 c.p.p. per pronunciare la non punibilità per la particolare tenuità del fatto.

Come sappiamo il legislatore (contrariamente a quanto inizialmente previsto nello schema di decreto legislativo presentato dal governo alle Camere) non è intervenuto a modificare l’art. 129 c.p.p. per inserivi questa possibilità.

La maggior parte dei commentatori, anche alla luce del mutamento di prospettiva del legislatore, ritengono che tale norma non possa essere richiamata per la non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p.

Questa tesi è però contrastata dalla dall’Ufficio del Massimario della Cassazione[8].

Secondo la relazione dell’Ufficio del Massimario, la Cassazione, anche nella sua più autorevole composizione, ha più volte espressamente ammesso la rilevabilità di cause di non punibilità con sentenza pronunciata ex art. 129 c.p.p., pur evitando di prendere posizione sulla corretta formula da adottare (C.Cass. S.U. 29-5-2008, n. 40049, Guerra, Rv. 240814).

Anche più recentemente i giudici di legittimità hanno ritenuto rilevabile d’ufficio dal giudice adito con richiesta di applicazione pena la causa di non punibilità prevista dall’art. 384 c.p. e, conseguentemente, legittima la sentenza di proscioglimento di cui all’art. 129 c.p.p. (C.Cass. sez. 6, 6-12-2012, n. 48765, Ricciardi, Rv. 254104).

Non solo. In altra sentenza la Cassazione ha espressamente osservato che “non sembra di ostacolo a questa soluzione il dettato dell’art. 129 comma 2 c.p.p., dal momento che la formula

«perché il fato non costituisce reato» è stata sempre intesa come comprendente anche le cause di non punibilità; e d’altronde, una interpretazione diversa comporterebbe, così come sostiene il ricorrente, fondati dubi sotto il profilo della legittimità costituzionale, traducendosi in una disparità di trattamento difficilmente compatibile sotto il profilo della logica e della razionalità" (così C.Cass. sez. 6, 1-3-2001 n. 15955, Fiori, Rv. 218875).

L’Ufficio del Massimario ricorda ancora che in altre decisioni la Corte di Cassazione ha ritenuto possibile rilevare d’ufficio, nel giudizio di legittimità, l’esistenza di cause di non punibilità con la formula “perché il fatto non costituisce reato” e annullare senza rinvio la sentenza di condanna così adottando un dispositivo espressamente previsto dall’art. 129 c.p.p. [9]

Questa chiave di lettura, a mio parere, risulta preferibile, anche dal punto di vista sistematico, perché consente di richiamare l’art. 129 c.p.p. anche per la causa generale di non punibilità per particolare tenuità del fatto, sia pure nell’ambito delle specifiche norme che regolano l’epilogo proscioglitivo delle varie fasi e dei diversi gradi del processo, in conformità alle indicazioni di principio fornite dalle S.U. della Cassazione (con la sent. 25-1-2005 n. 12283, De Rosa, Rv. 230529), che, per l’appunto, hanno sottolineato come questa norma non sia fonte autonoma di situazioni potestative, ma si limiti a enunciare una regola di condotta rivolta al giudice che, di fronte a una riconosciuta causa di non punibilità, deve adottare la corrispondente decisione allo stato degli atti, senza che possa trovare spazio una qualsiasi altra attività non essenziale.

Semmai, un serio ostacolo all’operatività dell’art. 129 c.p.p. può ravvisarsi nella necessità di avviare una interlocuzione con l’imputato e la persona offesa.

Ma - a ben vedere - questo contraddittorio, sia pure virtuale, è (quasi) sempre assicurato nelle varie fasi processuali nelle quali il giudice è autorizzato a pronunciare sentenza ai sensi dell’art. 129 c.p.p.

Il caso più problematico è, infatti, rappresentato dalla richiesta di emissione di decreto penale di condanna (art.  459 comma 3 c.p.p.). In questo caso la pronuncia di una sentenza di proscioglimento, ex art. 129 c.p.p., per la causa di non punibilità in esame, non è possibile non potendosi instaurare un contraddittorio, neppure virtuale,con l’imputato e la persona offesa.

Invece, questo ostacolo non pare insormontabile con riferimento alla sentenza di applicazione pena pronunciata in fase di indagine, a condizione che sia dato avviso dell’udienza  anche alla persona offesa.

Oltre tutto, la possibilità di ricorrere all’art. 129 c.p.p. anche per la causa di non punibilità in esame consente di superare l’impasse nella quale verrebbe a trovarsi il procedimento di applicazione pena, allorché al giudice venisse solamente riconosciuto il potere di rigettare la richiesta per incongruità della pena (potere, quest’ultimo, di cui nessuno dubita possa essere esercitato, qualora il giudice ravvisi la ricorrenza della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto).

Ciò posto, nessun problema è dato ravvisare sotto questo profilo con riferimento all’udienza preliminare e al giudizio abbreviato ivi instaurato ovvero introdotto in seguito al decreto di giudizio immediato: in entrambi i casi la persona offesa è resa edotta essendo destinataria di avviso.

Invece, nessuna sentenza di proscioglimento, come è noto, può essere pronunciata dal giudice di primo grado sulla richiesta di giudizio immediato, ergo la causa di non punibilità in esame non può essere dichiarata in questa fase, analogamente a qualsiasi altra causa di proscioglimento.

Qualche problema sorge invece nel caso in cui, nel corso delle indagini, ovvero in seguito a decreto penale di condanna, l’imputato formuli la richiesta di oblazione.

Se sussistono le condizioni per l’ammissione all’oblazione dubito che il giudice possa pronunciare sentenza di assoluzione per particolare tenuità del fatto.

Invero, se la richiesta è formulata nel corso delle indagini, in mancanza di apposita richiesta del P.m. , il giudice non può emettere un decreto di archiviazione, neppure dopo avere convocato le parti in camera di consiglio[10].

In caso di opposizione a decreto penale, come sappiamo, il giudice deve limitarsi a decidere sulla domanda di oblazione e ad adottare i provvedimenti conseguenti[11]. Dunque, neppure in questo caso potrebbe pronunciare sentenza di assoluzione quale che sia la causa.

Ma, al di là delle preclusioni processuali, a mio parere, una richiesta di oblazione, al ricorrere delle condizioni per il suo accoglimento, deve prevalere sulla dichiarazione della non punibilità per particolare tenuità del fatto.

Militano a favore di questa conclusione sia gli effetti più favorevoli per l’imputato (che, evidentemente, preferisce pagare una ammenda piuttosto che rischiare l’iscrizione della sentenza o del decreto di archiviazione nel certificato penale di condanna), sia - e soprattutto - l’interesse generale: l’oblazione è in grado di definire con maggiore celerità il procedimento conseguendo i positivi effetti dell’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato (art. 162 bis c.p.), oltre al pagamento di una somma di denaro, spesso tutt’altro che irrisoria, e alla rifusione delle spese processuali.

Anche in sede di giudizio direttissimo non vedrei particolari difficoltà, di tipo processuale, a definire il processo con una pronuncia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a condizione che la persona offesa sia stata citata e messa in condizione di interloquire.     

Certamente, questa evenienza dovrebbe essere residuale, in quanto dovrebbe limitarsi al caso in cui l’imputato nel corso dell’interrogatorio abbia reso confessione (art. 449 comma 5 c.p.p.), perché gli altri casi di giudizio direttissimo sono preclusi[12] dal fatto che, al ricorrere di una causa di non punibilità (ivi compresa quella per particolare tenuità del fatto), l’arresto non è consentito (art. 385 c.p.p.) e non è possibile l’adozione di alcuna misura cautelare (art. 273, comma 2, c.p.p.).

 

4. Diritto transitorio e impugnazioni.

Trattandosi di istituto di natura sostanziale favorevole all’imputato è pacifico che, in conformità a quanto prevede l’art. 2 comma 4 c.p., la causa di non punibilità in discorso possa essere dichiarata anche ai fatti commessi prima del 2-4-2015, ai processi pendenti.

Nel periodo transitorio sorgono alcune ulteriori difficoltà, peraltro non insormontabili, dovute al fatto che il legislatore anche questa volta ha trascurato le questioni di diritto intertemporale.

Intanto, mi pare scontato che nel periodo transitorio l’istituto in esame possa essere applicato anche nei giudizi di appello ovvero nel giudizio di legittimità, a prescindere dal devolutum.

Bene farebbe il difensore dell’imputato che intendesse sollecitare questo epilogo processuale a depositare motivi nuovi, nella cancelleria del giudice dell’impugnazione, almeno 15 giorni prima dell’udienza (art. 585 comma 4 c.p.p.), onde mettere in condizione il giudice dell’impugnazione di focalizzare per tempo la sussistenza, o meno, delle condizioni previste dall’art. 131 bis c.p. ; tuttavia, anche una richiesta formulata in udienza non potrebbe essere liquidata con l’inammissibilità per la semplice ragione che il giudice dell’impugnazione è obbligato, per fini di legalità superiore della giurisdizione, a pronunciarsi non solo d’Ufficio ma anche al di là dei punti oggetto dei motivi proposti, o inscindibilmente connessi, nel caso di applicazione di una legge penale più favorevole ex art. 2 c.p.

Infatti, la Corte d’Appello di Torino ha già fatto applicazione, sia pure in modo sporadico, di questo istituto nei giorni scorsi (presso la mia sezione, ad oggi, sono state riformate due sentenze di condanna con assoluzione dell’imputato per questa causa di non punibilità).

La stessa Corte di Cassazione, oltre alla sentenza della 3^ sezione (n. 15449 del 8-4-2015, Mazzarotto), alcuni giorni or sono ha applicato questa causa di non punibilità annullando la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione, benché dalla sentenza potessero evincersi i presupposti per l’applicazione della causa di non punibilità (si trattava di tentato peculato per il quale lo stesso giudice aveva qualificato il fatto come di particolare tenuità, ai sensi dell’art. 323 bis c.p., e applicato la circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 4: vds. Corte di Cass. sez. 6, sent. del 26-5-2015, depositata l’11-6-2015, n. 24750/15).

Riguardo al giudizio di appello voglio ancora accennare al fatto che, com’è noto, per questo grado di giudizio non è possibile pronunciare sentenza predibattimentale (che, oltre tutto, renderebbe problematico superare la necessità della previa interlocuzione con l’imputato e la persona offesa), in quanto il rinvio di cui all’art. 598 c.p.p. alle norme che disciplinano il giudizio di primo grado non comprende l’art. 469 c.p. (la giurisprudenza della Cassazione è, su questo punto, assolutamente costante e granitica, per tutte: C.Cass. sez. 2, del 4-10-2012 dep. il 30-10-2012 n. 42411, Napoli, Rv. 254351).

Inoltre, contrariamente a qualche opinione circolata in rete, non è possibile - a mio avviso - riformare la sentenza impugnata, pronunciando sentenza di assoluzione per particolare tenuità del fatto e parallelamente confermare le statuizioni civili.

Pur capendo le ragioni di equità, giustizia sostanziale ovvero di economia processuale e di sistema, non mi convince l’applicazione analogica dell’art. 578 c.p.p.

Questa è una norma eccezionale, destinata ad operare esclusivamente per i casi di estinzione del reato per amnistia o per prescrizione, sicché non può essere utilmente richiamata anche in caso di assoluzione per particolare tenuità del fatto.

Orbene, non v’è dubbio che - sul punto - una differente soluzione (quale quella invocata ovvero quella prevista per l’applicazione pena) sarebbe stata preferibile, anche per non costringere la povera persona offesa, costituitasi parte civile, a ritornare alla “casella del via”, in un estenuante e costoso iter processuale, oltre tutto senza neppure il ristoro delle spese processuali, ma questa esigenza di equità sostanziale e di coerenza sistematica non può essere recuperata in via interpretativa applicando analogicamente norme di carattere eccezionale.

Oltre tutto, mediante l’introduzione dell’art. 651 bis c.p.p., il legislatore ha espressamente previsto che:

«La sentenza penale irrevocabile di proscioglimento pronunciata per particolare tenuità del fatto in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del prosciolto e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel procedimento penale» [13].

Mentre nessuna eccezione ha formulato il legislatore per le sentenze irrevocabili di proscioglimento pronunziate in grado di appello, sicché è giocoforza concludere per l’applicazione, anche in questo caso, dell’art. 651 bis c.p.p. senza possibilità (neppure nel periodo transitorio) di far salve le statuizioni civili pronunziate in primo grado all’esito del giudizio di condanna.

 

5. Compatibilità con la condizione di procedibilità del giudice di pace e del processo minorile.

Restano ancora da affrontare varie questioni, a cominciare dalla compatibilità di questo istituto con le condizioni di procedibilità, cui si è fatto cenno, previste per i reati di competenza del giudice di pace, ovvero nel processo minorile.

Si deve dire che (guarda caso) sul punto si registra una certa varietà di opinioni.

I primi commentatori[14] tendono a risolvere il problema facendo ricorso al principio di specialità e, per questa via, a escludere l’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p. ai processi celebrati dal giudice di pace ovvero ai reati commessi dai minori.

Alcuni Uffici sembrano seguire la strada opposta (es. il Tribunale dei minorenni di Milano).

E’ evidente che, indipendentemente dalla soluzione che si voglia privilegiare, sorgono problemi di difficile soluzione.

Azzardo a dire che, per il processo minorile, mi pare più compatibile con il sistema processuale affermare che, nonostante l’art. 27 d.p.r. 448/88, residui uno spazio per l’applicazione dell’art. 131 bis c.p. (come sostiene il T.M. di Milano), anche per evitare il paradosso di dover pronunciare una sentenza di condanna a carico dell’imputato minorenne, sol perché non sussistono i presupposti per una sentenza di non luogo a procedere o di assoluzione per irrilevanza del fatto, nonostante siano integrati tutti i requisiti per una sentenza di assoluzione ai sensi dell’art. 131 bis c.p.

Queste considerazioni, ispirate alla ragionevolezza e alla necessità di evitare quanto più possibile ingiustificate discriminazioni ai danni degli imputati minorenni, presentano qualche aspetto problematico in più per i reati di competenza del giudice di pace.

Per questi reati, infatti, il rischio è quello di creare una sostanziale abrogazione dell’art. 34 del d.l.vo 274/2000, atteso che tutti i reati di competenza del giudice di pace hanno una cornice edittale che rientra, a maggior ragione, nella previsione di  cui all’art. 131 bis c.p.

Abrogazione che, tuttavia, non è stata prevista dal decreto legislativo n. 28/15 (e neppure dalla legge delega 28-4-2014 n. 67).

E’ evidente che anche in questo caso si pone un problema di ragionevolezza e di tenuta del sistema ma è possibile sostenere che per i reati di minor gravità, di competenza del giudice di pace, che  sono puniti con pene differenti da quelle indicate nel codice penale, con vistosi strappi anche rispetto al riconoscimento dei comuni benefici di legge, non sia del tutto irragionevole ritenere applicabile unicamente la condizione di non procedibilità di cui all’art. 34 d.l.vo 274/2000, al ricorrere delle condizioni ivi previste[15].

 

6. Responsabilità amministrativa degli enti.

Circa la disciplina della responsabilità amministrativa degli enti (d.l.vo 231/2001) va detto che i primi commentatori sostengono che la causa di non punibilità in esame riverbera i suoi effetti anche nel procedimento a carico dell’ente allorché il fatto non punibile sia il reato presupposto (artt. 24-26 d.lvo 231/01) sul quale si fonda la responsabilità amministrativa dell’ente.

Questa conclusione riposa sul tenore dell’art. 8 stesso d.l.vo che, nel disciplinare l’autonomia della responsabilità dell’ente (per i casi in cui l’autore del reato non sia stato identificato ovvero non sia imputabile ovvero il reato sia estinto per una causa diversa dall’amnistia), non prevede l’assoluzione dell’imputato perché non punibile per particolare tenuità del fatto e conseguentemente fa venir meno la punibilità dell’ente per l’illecito amministrativo dipendente da reato.

 

7. Fase esecutiva

Infine, con riferimento alla fase esecutiva, per ora, la maggior parte dei commentatori esclude che la causa di non punibilità in esame, alla stregua di qualsiasi altra causa di non punibilità, possa essere fatta valere in sede esecutiva con riferimento a sentenze di condanna ormai passate in giudicato.

                                                                            

                                                                                          



[1] vds. Alberto Cisterna, pag. 69 Guida al Dir. n. 15/15;

[2] a differenza dell’art. 157 c.p. e di quanto prevede l’art. 4 c.p.p. per la determinazione della competenza (richiamato anche dall’art. 266) nonché delle altre norme processuali che indicano il procedimento da seguire per calcolare la pena, quale l’art. 278 c.p.p.;

[3] Infatti, all’esito di questo calcolo, la pena detentiva massima sarebbe di quattro anni e sei mesi;

[4] ragione per la quale ritengo preferibile questa interpretazione rispetto a quella di chi, sulla base di una lettura sistematica dell’art. 3 lett. f) d.p.r. 313/2002, che contempla unicamente i provvedimenti giudiziari definitivi, esclude l’iscrizione nel casellario del decreto di archiviazione sulla base del fatto  che non si tratta di provvedimento giudiziario passibile di diventare definitivo.

[5] Tullio Padovani, Guida al dir. n. 15/15 pag. 22;

[6] a differenza del procedimento di competenza del giudice di pace, ove l’interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento osta all’archiviazione del procedimento, ovvero alla pronuncia della sentenza: art. 34 d.l.vo 274/2000.

[7] Tanto maggiore in caso di consenso delle parti all’acquisizione degli atti di indagine ai sensi dell’art. 493, comma 3, c.p.p.;

[8] vds. la relazione scritta di Antonio Corbo e Giorgio Fidelbo;

[9] così C.Cass. sez. 6, 8-1-2003, n. 11874, Cavaleri, Rv. 224259, Rv. 224259 in relazione all’applicazione d’Ufficio, sulla base dell’art. 609 comma 2 c.p.p., della causa di non punibilità di cui all’art. 384 c.p, in quanto immediatamente desumibile ex actis ; nonché C.Cass. sez. 6, sent. 18-2-2014, Greco, Rv. 259110, la quale ha affermato l’applicabilità d’ufficio della medesima causa di non punibilità con riferimento al reato di favoreggiamento;

[10] Al più, potrebbe limitarsi a rigettare la richiesta di oblazione restituendo gli atti al P.m. rilevando la sussistenza dei presupposti per dichiarare l’indagato non punibile per particolare tenuità del fatto, senza che – ovviamente – il P.m. sia vincolato a questa valutazione, con l’ulteriore conseguenza che questa decisione finirebbe per cagionare una singolare regressione o stasi del procedimento;

[11] ivi compresa la sentenza di cui all’art. 129 c.p.p per intervenuta estinzione del reato in seguito a oblazione, caso unico nel quale il giudice per le indagini preliminari, dopo l’emissione del decreto penale, può pronunziare sentenza ai sensi dell’art. 129 c.p.p., come statuito dalle S.U. della Corte di Cass. con la sentenza 25 marzo – 4 giugno 2010 n. 21243 e ribadito dalla Corte Costituzionale con la recente sentenza n. 14 del 2015 (con la quale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 464 comma 2 c.p.p.).

[12] rectius: dovrebbero essere preclusi;

[13] La stessa efficacia è prevista da questa norma, al comma successivo,  per la sentenza pronunziata in seguito a giudizio abbreviato, salvo che vi si opponga la parte civile che non abbia accettato quel rito.

[14] Tra cui T. Padovani , cit.;

[15] A favore di questa tesi può essere richiamata, ex multis, la recente sentenza della Corte di Cassazione, che tra l’altro, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 60 del l.vo 28-8-2000 n. 274, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 24 della Cost., nella parte in cui esclude, per i reati di competenza del giudice di pace, l’applicabilità della sospensione condizionale della pena, in quanto la scelta del legislatore di privilegiare, per ragioni di politica criminale, il principio di effettività della sanzione penale, non concreta, nella specie, alcun irragionevole trattamento discriminatorio né compromette il diritto di difesa (vds. Corte di cass. sez. 2 sent. 28850 del 8-5-2013, Rv. 256354).

10/07/2015
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