Magistratura democratica
Leggi e istituzioni

Il punto sui reati dell’emergenza Covid

di Fabrizio Filice , Chiara Valori
giudici del tribunale di Milano

Il rapido succedersi di disposizioni normative anche in materia penale mette a dura prova l’interprete chiamato oggi a valutare le notizie di reato relative alle violazioni delle misure dettate per fronteggiare il rischio sanitario derivante dall’epidemia da Coronavirus dopo la Delibera del Consiglio dei Ministri del 31.1.2020, con cui è stato dichiarato lo stato di emergenza nazionale.
Si pongono dunque diversi temi di riflessione cui l’interprete deve dare risposta in riferimento ai casi che possono prospettarsi, alla luce dei principi costituzionali e senza tralasciare le esigenze di contrasto della pandemia. 

Il rapido succedersi di disposizioni normative anche in materia penale mette a dura prova l’interprete chiamato oggi a valutare le notizie di reato relative alle violazioni delle misure dettate per fronteggiare il rischio sanitario derivante dall’epidemia da Coronavirus dopo la Delibera del Consiglio dei Ministri del 31.1.2020, con cui è stato dichiarato lo stato di emergenza nazionale.
Conviene allora in primo luogo riassumere brevemente le disposizioni in materia. 
 
1. Le fonti normative

Con D.l. 23.2.2020 n. 6 (conv. in legge 5 marzo 2020 n. 13), all’art. 1, rubricato Misure urgenti per evitare la diffusione del COVID-19, infatti, era stato previsto:

«1. Allo scopo di evitare il diffondersi del COVID-19, nei comuni  o nelle aree nei quali risulta positiva almeno una persona per la quale non si conosce la fonte di trasmissione o comunque nei quali vi è un caso non riconducibile ad una persona  proveniente  da  un'area già interessata  dal  contagio  del  menzionato virus, le autorità competenti, ((con le modalità previste dall'articolo 3,  commi  1  e 2))[1], sono tenute ad adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all'evolversi della situazione epidemiologica. 
 2. Tra le misure di cui al comma 1, possono essere adottate anche le seguenti: 
    a) divieto di allontanamento dal comune o dall'area interessata da parte di tutti gli individui comunque presenti nel comune o nell'area; 
    b) divieto di accesso al comune o all'area interessata; […]
    h) applicazione della misura della quarantena con sorveglianza attiva[2] agli individui che hanno avuto contatti stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusiva; […]».
L’art. 2 prevedeva poi la possibilità per le autorità competenti di «adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell'emergenza, al fine di prevenire la diffusione dell'epidemia da COVID-19 anche ((fuori dei casi)) di cui all'articolo 1, comma 1».

L’art. 3 co. 4, infine, dettava: «Salvo che il fatto non costituisca più grave reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è punito ai sensi dell'articolo 650 del codice penale».

Con D.l. n. 19 del 25.3.2020 (convertito – con modifiche – con legge n. 35 del 22.5.2020), tuttavia, tale iniziale disposizione ha subito un radicale stravolgimento.

L’art. 4 co.1, sotto la rubrica «Sanzioni e controlli», prevede infatti: 
«1. Salvo che il fatto costituisca reato, il mancato rispetto  delle misure di contenimento di cui all'articolo 1, comma 2, individuate  e applicate con i provvedimenti adottati ((ai sensi  dell'articolo  2, commi 1 e 2, ))[3] ovvero dell'articolo 3, è  punito  con  la  sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a ((euro 1.000))  e  non  si  applicano  le  sanzioni  contravvenzionali   previste dall'articolo 650 del codice penale o da ogni altra  disposizione  di legge  attributiva  di  poteri  per  ragioni  di  sanità,   di   cui all'articolo 3, comma 3.».
E’ stato così espressamente esclusa dalla rilevanza penale (con la espressa introduzione però della clausola di salvaguardia) la violazione delle misure adottate «per contenere e contrastare i rischi sanitari derivanti dalla diffusione del virus COVID-19», ovvero, fra le altre, «a) limitazione della circolazione delle persone, anche prevedendo limitazioni alla possibilità di allontanarsi dalla propria residenza, domicilio o dimora se non per spostamenti individuali limitati nel tempo e nello spazio o motivati da esigenze lavorative, da situazioni di necessità o urgenza, da motivi di salute o da altre specifiche ragioni […] c) limitazioni o divieto di allontanamento e di ingresso in territori comunali, provinciali o regionali, nonché rispetto al territorio nazionale; d) applicazione della misura della quarantena precauzionale ai soggetti che hanno avuto contatti stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusiva o che ((entrano nel territorio nazionale)) da aree ubicate al di fuori del territorio italiano […]». 
Quanto al regime transitorio, l’art. 4 co. 8 prevede: «Le disposizioni del presente articolo che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto, ma in tali casi le sanzioni amministrative sono applicate nella misura minima ridotta alla metà. […]».
 
Per il resto, residua la sanzione penale per la sola violazione delle ipotesi di "quarantena obbligatoria" per i soggetti positivi.
Lo stesso art. 4, al comma 6, prevede infatti: «Salvo che il fatto costituisca violazione dell'articolo 452 del codice penale o comunque più grave reato, la violazione della misura di cui all'articolo 1, comma 2, lettera e), è punita ai sensi dell'articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n.1265, Testo unico delle leggi sanitarie, come modificato dal comma 7»[4].
Vale allora la pena di riportare anche l’espressa previsione dell’art. 1 co. 2 lett. e), che nel testo originario del decreto dettava: «divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena perché risultate positive al virus».
In sede di conversione del decreto, tuttavia, il legislatore ha introdotto un inciso di evidente rilievo ai fini della individuazione dei presupposti della condotta penalmente rilevante. Con legge n. 35 del 22.5.2020, infatti, la misura è stata così precisata: «e) divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena ((applicata dal sindaco quale autorità sanitaria locale)) perché risultate positive al virus». 

Prima della approvazione della citata legge di conversione, tuttavia, il Governo era già intervenuto con un nuovo decreto legge, teso a disciplinare la c.d. “fase 2”, ovvero quella che – secondo gli auspici di allora – avrebbe dovuto accompagnarci verso l’uscita dal periodo emergenziale.

Con D.l. n. 33 del 16.5.2020 è stata infatti decretata la cessazione di tutte le misure limitative della circolazione all’interno del territorio regionale adottate ai sensi del d.l. 19/2020, mentre l’art. 1 ha disciplinato le nuove misure che possono essere adottate per limitare gli spostamenti delle persone a livello interregionale (co. 3) o verso l’estero (co. 4 e 5).

Al comma 6 dell’art. 1 il nuovo decreto prevede: «E' fatto divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora alle persone sottoposte alla misura della quarantena per provvedimento dell'autorità sanitaria in quanto risultate positive al virus COVID-19, fino all'accertamento della guarigione o al ricovero in una struttura sanitaria o altra struttura allo scopo destinata». 

L’art. 2 ribadisce l’applicabilità delle sole sanzioni amministrative per le violazioni delle disposizioni del decreto e, al co. 3, detta: «((Salvo che il fatto costituisca reato punibile ai sensi dell'articolo 452)) del codice penale o comunque più grave reato, la violazione della misura di cui all'articolo 1, comma 6, è punita ai sensi dell'articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265».

Ancorché la condotta sia descritta in modo sostanzialmente sovrapponibile a quanto già indicato nel d.l. 19 (ovvero la violazione della sola c.d. “quarantena obbligatoria”) ed identica sia la sanzione prevista, dunque, diversi sono i suoi presupposti e la determinazione della sua durata. 

E’ infatti espressamente previsto che la sottoposizione alla misura avvenga «per provvedimento dell’autorità sanitaria» ed è altresì specificato che ciò vincoli il destinatario «fino all’accertamento della guarigione o al ricovero in struttura sanitaria o altra struttura allo scopo destinata» (ancorché non sia ben precisato cosa si intenda per “guarigione” e cosa accada in caso di allontanamento dal luogo di ricovero).

Al comma 7 è poi disciplinata la misura della “quarantena precauzionale” per coloro che abbiano avuto contratti stretti con soggetti positivi.

Il d.l. n. 33 è stato successivamente convertito con legge n. 74 del 14/7/2020, senza modifiche in parte qua.

I successivi decreti hanno introdotto la differenziazione regionale in base al rischio epidemiologico (v. d.l. n. 149 del 9.11.2020 n. 149, poi abrogato dalla legge 18 dicembre n. 176) ed hanno diversamente disciplinato le limitazioni agli spostamenti per il periodo natalizio (v. d.l. n. 158 del 2.12.2020 e 172 del 18.12.2020), per i primi mesi del nuovo anno (v. d.l. n. 1 del 5.1.2021 e n. 2 del 14.1.2021) e per il periodo pasquale (v. d.l. n. 30 del 13.3.2021), riproponendo le medesime sanzioni per comportamenti analoghi.

E’ infatti previsto che la violazione delle disposizioni ivi dettate sia «sanzionata ai sensi dell'articolo 4 del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 maggio 2020, n. 35». 

Il richiamo è dunque espressamente fatto alle sanzioni previste dall’art. 4, ovvero (quanto alla fattispecie penale, disciplinata al co. 6) alla locuzione «è punita ai sensi dell'articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265, Testo unico delle leggi sanitarie, come modificato dal comma 7»; appare invece improprio il rimando alla prima parte di detto comma, descrittiva della condotta (ovvero alla parte in cui è previsto che la sanzione consegua alla «violazione della misura di cui all'articolo 1, comma 2, lettera e)»), posto che gli stessi decreti indicano autonomamente in cosa consista la condotta illecita.

 

2. Le violazioni della disciplina emergenziale

Si pongono dunque diversi temi di riflessione cui l’interprete deve dare risposta in riferimento ai casi che possono prospettarsi, considerando la disciplina vigente al momento del fatto e quella successivamente introdotta, alla luce dei principi generali che governano il fenomeno della successione di leggi nel tempo.
 
a) La violazione delle misure diverse dalla “quarantena obbligatoria”: alcuni punti critici

Come detto, l’art. 3 comma 4, Decreto legge n. 6 del 23 febbraio 2020 stabiliva che: «salvo che il fatto non costituisca più grave reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento è punito ai sensi dell’articolo 650 del codice penale».
Il riferimento all’art 650 c.p., quindi, avrebbe dovuto comprendere, nell’intenzione originaria, la violazione di tutte le misure di contenimento, senza distinzione tra i divieti di circolazione variamente declinati e l’isolamento domiciliare per i soggetti risultati positivi al Covid-19.  

Il successivo d.l. n. 19 del 25 marzo 2020 ha però distinto le due ipotesi e, all’articolo 4, ha previsto per il mancato rispetto delle misure di contenimento della circolazione esclusivamente una sanzione amministrativa (con espressa clausola di specialità della sanzione amministrativa ed esclusione dell’operatività dell’articolo 650 c.p.).

Non pare dunque esservi spazio residuo per l’operatività della contravvenzione citata, anche alla luce della disposizione transitoria introdotta dallo stesso art. 4 co. 8 d.l. n. 19/2020, laddove prevede l’applicazione retroattiva delle «disposizioni del presente articolo che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative», peraltro ridotte alla misura della metà del minimo edittale.

Piuttosto, potrebbe porsi la questione, già ampiamente dibattuta, della deroga al principio di irretroattività delle sanzioni amministrative posto all’art. 1 della Legge n. 689 del 1981; deroga al contempo ispirata, per i casi pregressi, a un criterio di contemperamento (l’applicazione della sanzione in misura ridotta).

Si tratta di un sistema – quello della retroattività in deroga della sanzione, applicata, però, in misura ridotta – già sperimentato con l’art. 8 del decreto legislativo n. 8 del 2016, in base al quale le disposizioni del decreto che sostituivano sanzioni penali con sanzioni amministrative si applicavano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto stesso, ma in tali casi le sanzioni amministrative erano applicate nella misura minima ridotta alla metà.

Tale opzione legislativa non è, evidentemente, a rischio immediato di illegittimità costituzionale avendo notoriamente il principio di irretroattività delle sanzioni amministrative una copertura esclusivamente legale, e quindi derogabile, e non anche costituzionale; si può discutere, certo, se vi sia un nucleo minimo di copertura costituzionale del principio di legalità valevole, soprattutto in una lettura europeistica che tenga conto dei criteri Engel enucleati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, per tutte le norme genericamente afflittive e non solo per quelle penali in senso stretto.

Al momento, però, non sembrano delinearsi concrete prospettive di estensione di tale minimum, via giurisprudenza costituzionale, al vincolo di irretroattività della sanzione.

La Corte costituzionale, infatti, con la sentenza n. 134 del 2019, ha espressamente circoscritto il tema delle garanzie minime in materia di sanzioni amministrative alla conoscibilità del precetto e alla prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie.

Ancora più chiaramente, con la sentenza n. 109 del 2017, la Corte, nel dichiarare inammissibili alcune questioni di legittimità costituzionale sollevate proprio in ordine all’articolo 8 del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8, segnatamente con rifermento all’applicazione retroattiva, seppure in misura ridotta, delle sanzioni amministrative (i.e. il modello dello schema seguito dal d.l. 19/2020), ha esplicitamente escluso la correttezza dell’assunto secondo il quale l’illecito amministrativo, che il legislatore distingue con ampia discrezionalità dal reato, appena sia tale da corrispondere, in forza della citata giurisprudenza Engel della Corte di Strasburgo, ai criteri di qualificazione della “pena”, debba automaticamente subire l’attrazione del diritto penale dello Stato aderente, con conseguente saldatura tra il concetto di sanzione penale a livello nazionale e quello a livello europeo.

E ha infine concluso per l’inammissibilità della questione osservando, tra l’altro, che gli obblighi imposti al giudice penale innanzi al quale pende un procedimento avente ad oggetto un reato depenalizzato si arrestano alla trasmissione degli atti all’autorità amministrativa competente per l’irrogazione della sanzione amministrativa sostitutiva di quella penale; sì che anche il sindacato di costituzionalità della sanzione amministrativa  esula dalla sfera di cognizione del giudice penale per essere attratto in quella – solo eventuale – del giudice dell’opposizione al provvedimento sanzionatorio; dictum, quest’ultimo, che si rivela fondamentale anche ai fini odierni, in quanto costituisce un espresso divieto già stanziato dalla Corte costituzionale alla sollevazione, da parte del Giudice penale in sede di trasmissione degli atti all’autorità amministrativa, di eventuali questioni di costituzionalità sulla sanzione amministrativa stessa. 

b) La violazione della “quarantena obbligatoria” per i soggetti positivi al virus

Come si è visto, l’art. 4 co. 6 d.l. 19/2020, prevede che «la violazione della misura di cui all'articolo 1, comma 2, lettera e) sia punita ai sensi dell'articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n.1265»; l’art. 2 co. 3 d.l. n. 33/2020 prevede analoga conseguenza per «la violazione della misura di cui all'articolo 1, comma 6».

Va allora in primo luogo evidenziato come il rinvio alla disposizione del Testo Unico sulle leggi sanitarie sia integrale e non solo quoad poenam, dovendosi invece ritenere che il legislatore abbia voluto intervenire nella descrizione della condotta tipica estendendo la portata della contravvenzione anche a casi che, diversamente, avrebbero potuto ingenerare dubbi interpretativi.

L’art. 260 cit., nella versione aggiornata al DL 33/20, prevede infatti che «Chiunque non osserva un ordine legalmente dato per impedire l'invasione o la diffusione di una malattia infettiva dell'uomo è punito con l'arresto da 3 mesi a 18 mesi e con l'ammenda da euro 500 ad euro 5.000».

La prima questione da affrontare è quindi quella della natura giuridica dell’ordine legalmente dato per impedire l'invasione o la diffusione di una malattia infettiva dell'uomo.

In passato la Cassazione aveva precisato che «ai fini della applicabilità dell'art. 260 R.d. 27 luglio 1934 n. 1265, per stabilire se un determinato provvedimento possa essere qualificato come ordine occorre riferirsi al suo contenuto intrinseco e al suo aspetto formale, tenendo presente che costituiscono ordini i provvedimenti con i quali la P.a. Impone obblighi di dare, di fare o di non fare (in applicazione di detto principio la Cassazione ha ritenuto che le Disposizioni di cui al d.m. 14 novembre 1973 sulla vendita dei molluschi e concernenti i comportamenti da osservare per impedire il sorgere o il propagarsi del colera vadano inquadrati nella categoria degli ordini)»[5].

E’ stato ulteriormente precisato che «l'art 260, quando sanziona l'inottemperanza agli ordini dati per impedire l'invasione o la diffusione di una malattia infettiva dell'uomo, si riferisce non soltanto a situazioni di malattia in atto, ma altresì a situazioni di malattia già cessata e/o di malattia di cui si teme l'insorgenza»[6].

Le due connotazioni impresse dalla norma all’ordine – quella di essere legalmente dato e quella essere finalizzato a impedire l'invasione o la diffusione di una malattia infettiva dell'uomo - devono essere trattate in stretta correlazione tra loro: nel senso che la ‘base legale’ dell’ordine non solo può, ma deve (e ciò proprio in virtù della espressa previsione dei due decreti), essere rintracciata nella normativa specificamente adottata per contenere il rischio epidemico e quindi avendo riguardo all’art. 1 co. 2 lett. e d.l. n. 19/2020 per la c.d. “fase 1” e all’art. 1 co. 6 d.l. 33/2020 per la c.d. “fase 2”; si tratta infatti di una disposizione necessaria e sufficiente a integrare la ‘base legale’ richiesta dalla norma perché adottata ai sensi di un procedimento legislativo, quello della decretazione d’urgenza, ammesso dalla Costituzione.

Inoltre, il rintraccio della ‘base legale’ dell’ordine nella normativa specificamente adottata per contenere il rischio pandemico - sulla base di un continuo e serrato confronto con la comunità scientifica, nelle persone dei consulenti del Ministro della salute e del Comitato tecnico scientifico, nominati ad hoc - assicura che la finalità dell’ordine sia proprio quella di impedire l'invasione o la diffusione di una malattia infettiva dell'uomo.

Le specificazioni contenute nei decreti Covid si innestano dunque su una disposizione normativa siffatta e alla luce di ciò devono essere necessariamente interpretate.

Come si è visto, l’iniziale previsione del d.l. n. 19/2020 prevedeva l’applicazione dell’art. 260 T.U. Leggi sanitarie senza il requisito dell’avvenuta applicazione del divieto con provvedimento del Sindaco; in sede di conversione, tuttavia, detta disposizione è stata così modificata: «divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena, applicata dal sindaco quale autorità sanitaria locale, perché risultate positive al virus» (i.e. articoli 1, comma 2, lett. e), e 4, comma 6, D.L. 19/2020, come modificato in sede di conversione da L. n. 35 del 22 maggio 2020).

Successivamente il D.L. n. 33/2020, entrato in vigore il 16.5.2020 e successivamente convertito senza modificazioni sul punto in L. n. 74 del 14.7.2020, ha invece previsto,  all’art. 1, comma 6: «E' fatto divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora alle persone sottoposte alla misura della quarantena per provvedimento dell'autorità sanitaria in quanto risultate positive al virus COVID-19, fino all'accertamento della guarigione o al ricovero in una struttura sanitaria o altra struttura allo scopo destinata».

Entrambe le disposizioni risultano ancora vigenti e, essendo dirette a sanzionare la violazione di misure adottate in epoca diversa e con differenti modalità, non appaiono fra loro incompatibili.

E’ evidente che, nel periodo compreso tra il 25 marzo 2020 (data di entrata in vigore del D.L. 25/3/2020 n. 19) ed il 16 maggio 2020 (data di entrata in vigore del d.l. n. 33/2020) potrà integrare reato non solo la violazione delle ordinanze generali dettate «per impedire l'invasione o la diffusione di una malattia infettiva dell'uomo», ma anche la violazione del divieto di allontanarsi dalla propria abitazione disposto con provvedimento del Sindaco, così come richiesto con le modifiche introdotte in sede di conversione al d.l. 19. In questa seconda ipotesi, in difetto di provvedimento sindacale, pare difettare il presupposto del reato, ovvero la sussistenza del divieto violato, con conseguente applicazione dell’art. 2 u.c. c.p.

A partire dal 16 maggio 2020, tuttavia, il nuovo decreto n. 33 ha disciplinato autonomamente (senza richiamare l'articolo 1, comma 2, lett. e), del D.L. 19/2020) la misura della quarantena obbligatoria, individuando come competente ad applicarla la l'Autorità sanitaria in genere (e quindi A.T.S.) e non più il Sindaco.

Sempre il D.L. n. 33/2020  ha inoltre autonomamente disciplinato anche l'inosservanza della quarantena, all'art. 2 comma 3, richiamando le stesse pene già previste D.L.19/2020, cioè l’articolo 260 T.U. Legge sanitarie, cit., come modificato, quoad poenam, dall’articolo 4, comma 7, D.L. 19/2020, con clausola di sussidiarietà espressa per la fattispecie di epidemia colposa: «Salvo che il fatto costituisca reato punibile ai sensi dell'articolo 452 del codice penale o comunque più grave reato, la violazione della misura di cui all'articolo 1, comma 6, è punita ai sensi dell'articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265».

Non pare dunque possibile ritenere che la seconda disposizione sia da intendere come implicitamente abrogativa della prima, né – tantomeno – che la seconda debba essere interpretata assumendo come canone il disposto della prima, perché se è vero che la legge di conversione del d.l. n. 19 è stata approvata dopo la pubblicazione del d.l. n. 33, è altrettanto vero che la legge di conversione del d.l. n. 33 è ancora successiva ad entrambe e non ha modificato la disciplina in vigore dal 16 maggio dello scorso anno.

E’ quindi possibile concludere che, dalla data di entrata in vigore del D.L. 33/2020 (il 16.5.2020), la violazione della quarantena obbligatoria integri il reato di cui all’art. 260 cit. - sempre che non ricorrano, nel caso concreto, gli estremi per contestare il reato di epidemia colposa - anche laddove la stessa sia stata disposta con un provvedimento dell’A.T.S., il quale non necessariamente (non essendo previsto dalla legge) deve avere forma scritta, ma può anche consistere in un avviso orale dato con comunicazione telefonica o tramite il medico curante.  

Non solo. A ben vedere non vi sarebbe ragione per escludere che costituiscano ordini legalmente dati anche le ordinanze del Ministero della Salute con cui, a partire dalla dichiarazione dello stato di emergenza, sono state impartite le disposizioni tese a prevenire il rischio di contagio.

Anzi proprio le due citate caratteristiche normative primarie dell’ordine legale – le ricordiamo: quella di essere legalmente dato e quella essere finalizzato a impedire l'invasione o la diffusione di una malattia infettiva dell'uomo - se non escludono, forse addirittura impongono di dare rilievo alla legge istitutiva del servizio sanitario nazionale,  n. 833 del 23 dicembre 1978, nella parte in cui, all’articolo 32, dispone che il Ministro della sanità (oggi della salute) può emettere ordinanze di carattere contingibile e urgente in materia di igiene e sanità pubblica e di polizia veterinaria, con efficacia estesa all'intero  territorio nazionale o a parte di esso comprendente più regioni; e, poco oltre, che analoga facoltà spetta al Presidente della Giunta regionale o al Sindaco.

Come si vede, il potere di ordinanza contingibile e urgente in materia di sanità pubblica è previsto, in presenza dei relativi presupposti di urgenza e di rischio per la salute pubblica, in via concorrente in capo al Ministro della salute, al Presidente della Giunta regionale e al Sindaco, sì che non si comprende perché la nozione di “ordine legale” in tali materie, che ontologicamente si correla a tale potere di ordinanza, debba invece  essere aprioristicamente circoscritto in capo al Sindaco quando l’ultimo dato normativo in ordine cronologico, cioè la legge di conversione del d.l. 33, ha espressamente eliminato tale limitazione (introdotta in sede di conversione al precedente d.l. 19) con l’evidente intenzione di emendare una disposizione originaria nella quale era sfuggito il difetto di coordinamento con l’articolo 32 della Legge sul Servizio sanitario nazionale e che, oltretutto, a fronte dell’aumento esponenziale dei casi di persone contagiate, aveva ben presto rivelato la sua inattuabilità anche dal punto di vista pratico.

Del resto, il Ministro della Salute ha emanato nel corso dell’ultimo anno diverse circolari e ordinanze proprio in materia di isolamento, quarantena, obblighi di soggetti positivi asintomatici e sintomatici, con riguardo ai tempi e alle condizioni del rientro in comunità; in particolare le seguenti:

- n. 6607 del 29 febbraio 2020 (avente per oggetto Parere del Consiglio Superiore di Sanità: definizione di Paziente guarito da COVID-19 e di paziente che ha eliminato il virus SARS-CoV-2);

- n. 11715 del 3 aprile 2020 (avente per oggetto Pandemia di COVID-19 – Aggiornamento delle indicazioni sui test diagnostici e sui criteri da adottare nella determinazione delle priorità. Aggiornamento delle indicazioni relative alla diagnosi di laboratorio);

- n. 18584 del 29 maggio 2020 (avente per oggetto Ricerca e gestione dei contatti di casi COVID-19 (Contact tracing) ed App Immuni);

- n. 30847 del 24 settembre 2020 (avente per oggetto Riapertura delle scuole. Attestati di guarigione da COVID-19 o da patologia diversa da COVID-19 per alunni/personale scolastico con sospetta infezione da SARS-CoV-2).

Da ultimo, la circolare riepilogativa n. 0032850 del 12.10.2020 della Direzione generale dalla prevenzione e della programmazione sanitaria presso il Ministero della Salute.

Si tratta di provvedimenti amministrativi certamente riconducibili alla situazione del citato articolo 32, e che prescrivono espressamente la separazione delle persone infette dal resto della comunità per la durata del periodo di contagiosità, in ambiente e condizioni tali da prevenire la trasmissione dell’infezione.

Sì che parrebbe metodologicamente più corretto rinvenire il proprium dell’“ordine legalmente dato” in capo a tali provvedimenti ministeriali, rispetto ai quali la comunicazione individuale dell’A.T.S., o del medico curante, nelle forme variamente utilizzate (sms, mail, avviso telefonico) può assumere un portato informativo del proprio status di paziente infetto, in presenza del quale si attiva il suddetto ordine di isolamento.

Il che, del resto, collima pienamente con la giurisprudenza originaria in materia di articolo 260, che si è sopra citata e in base alla quale, per l’appunto, la nozione di ordine va riferita al suo contenuto intrinseco e al suo aspetto formale, tenendo presente che costituiscono ordini tutti i provvedimenti con i quali la p.a. impone obblighi di dare, di fare o di non fare. 

c) Le ipotesi di epidemia colposa

Per espressa previsione di legge, viene indicata come residuale l’ipotesi di cui agli artt. 438, 452 c.p. (delitti colposi contro la salute pubblica in relazione al delitto di epidemia), in forza della clausola di sussidiarietà espressa contenuta nell’incipit del comma 6 dell’enunciato («salvo che il fatto costituisca violazione dell’art. 452 del codice penale o comunque più grave reato»).

 

3. La compatibilità con i principi costituzionali

I primi commenti alla nuova disciplina ne hanno poi evidenziato il possibile contrasto con i principi costituzionali.

Non sembra tuttavia convincente la tesi che vorrebbe ricondurre l’ordine de quo al genus dei provvedimenti restrittivi della libertà personale di cui all’art. 13 Cost., in quanto non è la libertà personale del singolo a essere oggetto di restrizione, bensì la sua possibilità di circolare, e ciò solo in quanto portatore di un germe patogeno di cui si vuole, appunto, limitare al massimo la diffusione in un contesto di pandemia conclamata: il che pare propriamente integrare una compressione alla libertà di circolare ai sensi e per gli effetti dell’articolo 16 della Cost., il quale testualmente prevede:

«Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza».

Non sembra quindi coerente con l’intero sistema della normativa emergenziale, tarata sul contenimento del contagio e, di riflesso, sul contenimento della circolazione e dell’interazione sociale che ne rappresentano il principale veicolo di trasmissione, la distrazione del provvedimento di quarantena dalla sua sede propria - che è quella  della limitazione della libertà di circolazione per un  periodo limitato di tempo determinato dalla condizione di positività al virus –, per ricondurla invece al tipo restrittivo della libertà personale, il quale appare del tutto eterogeneo al contesto e agli strumenti normativi utilizzati; con riflessa incoerenza, anche, dell’evocato ricorso alla riserva di giurisdizione che peraltro, quand’anche attuata, non potrebbe del resto aggiungere alcuna valutazione discrezionale del Giudice rispetto alla mera constatazione dello stato di positività al virus già attestato dall’autorità sanitaria.

Inoltre, un ulteriore argomento decisivo può trarsi dalla natura di reato di pericolo comune - sia pure con diverse gradazioni - alle due fattispecie incriminatrici in campo.

Il reato di epidemia colposa è reato commissivo[7] a forma vincolata che, nel più ampio contesto dei delitti contro l’incolumità, si atteggia a reato di pericolo concreto, dovendosi accertare una condotta concretamente diffusiva dell’agente patogeno, posto che l'evento tipico del reato consiste in una malattia contagiosa che, per la sua spiccata diffusività, si presenta in grado di infettare, nel medesimo tempo e nello stesso luogo, una moltitudine di destinatari, recando con sé, in ragione della capacità di ulteriore espansione e di agevole propagazione, il pericolo di contaminare una porzione ancor più vasta di popolazione[8].

Quanto al reato di cui all’art. 260 cit. esso si pone sullo stesso crinale del pericolo di diffusione dell’agente patogeno ma arretra evidentemente la tutela, anticipandola - secondo lo schema tipico dei reati di pericolo indiretto, o presunto - a uno stadio antecedente alla diffusione del virus via interazione sociale, come è appunto a dirsi per la mera circolazione del soggetto positivo: che è condotta suscettiva di creare un pericolo di interazione sociale, la quale a sua volta crea un pericolo di diffusione del virus (i.e. lo schema del “pericolo di un pericolo” proprio dei reati  di pericolo presunto, anche definiti “reati ostativi”).  

E’ quindi chiaro che la commissione di tali condotte non intende punire la violazione in sé e per sé del divieto di circolazione, bensì mira ad evitare una condotta attiva che, in progressione graduale (dalla mera circolazione nelle strade pubbliche sino ad arrivare a condotte propriamente interattive con altre persone) avvicina sempre di più il rischio della diffusione del virus.

Dal che si evince come la violazione dell’ordine legalmente dato non sia che un presupposto della condotta, recte: non è che un effetto del reale presupposto della condotta che è da ravvisarsi nella condizione di positività al virus del soggetto agente; sì che, anche volendo per un momento interpretare la nozione di “ordine legalmente dato” come necessariamente aderente alla tipologia restrittiva della libertà personale, come tale sottoposto alla duplice garanzia di riserva (juris et jurisdictionis) dell’art. 13 Cost., e volendo conseguentemente immaginare un sindacato incidentale del Giudice penale, di illegittimità di tale ordine per violazione della riserva di giurisdizione, questo non comporterebbe automaticamente l’irrilevanza penale della condotta.

Infatti, da un lato, l’ordine, anche se inidoneo a integrare una restrizione vincolante della libertà personale, resterebbe comunque “legalmente dato” dall’Autorità sanitaria e, dall’altro lato, il soggetto agente che, consapevole della propria condizione di positività, circolasse per le pubbliche vie, realizzerebbe comunque una condotta che, indipendentemente dalla natura giuridica dell’ordine violato, è ex se suscettiva di creare un progressivo  stato di pericolo di ulteriore diffusione dell’agente patogeno. Sì che la violazione dell’ordine legalmente dato rappresenta solo un presupposto della condotta che trova peraltro la sua ratio nell’accertata positività al virus, solo in presenza della quale l’Autorità sanitaria può emettere il divieto. 

Accertata quindi la natura di reato di pericolo indiretto, o presunto, dell’art. 260 cit., e di reato di pericolo concreto del delitto di epidemia colposa, di cui agli artt. 438 e 452 c.p., nonché acclarata la sostanziale indifferenza di entrambe le fattispecie incriminatrici alla natura giuridica del divieto di circolazione violato, si ritiene che il vero banco di prova della legittimità costituzionale di queste norme – e in generale di tutte  le norme che configurano reati di pericolo, vieppiù di tipo indiretto - sia rappresentato dal principio costituzionale di proporzione, ricavabile dagli articoli 3 e 25 della Costituzione, ad evitare il rischio che un’eccessiva anticipazione della tutela, cui si correla la possibilità di sanzionare condotte concretamente inoffensive del bene giuridico protetto, possa far risultare in linea di principio sproporzionato il ricorso alla pena.

Ecco allora che è indispensabile che il bene giuridico in gioco sia di rango elevatissimo e che la condotta vietata non sia troppo “remota” dal bene protetto.

Non è un caso che la sede di elezione preferenziale di tale categoria incriminatrice sia quella dei delitti contro l’incolumità, cui appartiene il delitto di epidemia e ai quali può agevolmente ricondursi anche la disposizione speciale dell’art. 260, per evidente analogia del bene giuridico protetto.

Questa categoria di reati protegge beni giuridici di capitale importanza, in questo caso la salute: direttamente correlata al diritto fondamentale alla salute, costituzionalmente declinato (art. 32 Cost.) come «diritto dell’individuo e interesse della collettività», al che ne consegue, sotto il profilo penalistico, l’atteggiarsi a bene giuridico individuale e, al contempo, collettivo e di tipo diffuso.

Quanto all’ulteriore anticipazione della tutela, problema che si pone per il solo articolo 260, è chiaro che nel valutare la proporzione di tale anticipazione, l’attività interpretativa del giudice dovrà essere condotta alla luce del contesto concreto in cui la norma è destinata a “vivere” e operare: un contesto che è quello pandemico, che da un anno a questa parte non è mai cessato, ha alternato fasi crescenti (come quella attuale) e fasi calanti dell’epidemia, e ha causato ad oggi, solo in Italia, più di 100.000 morti.

In questo contesto l’anticipazione della tutela non pare affetta da vizi di irragionevolezza o di sproporzione, e il fondamento scientifico che sorregge l’azione legislativa sgombra il campo anche da sospetti di arbitrarietà dell’agire legislativo.   

Quanto alla condotta sanzionata, che consiste pur sempre in una circolazione deliberata dell’agente infetto, e quindi dell’agente patogeno, essa non appare affatto “remota” dal bene giuridico protetto, alla luce dell’altissimo livello di contagiosità, in primo luogo per via respiratoria ma anche per contatto e su superficie, che caratterizza l’agente patogeno in oggetto.  

 

4. Qualche conclusione, senza pretesa di esaustività

E’ indubbio che il contesto pandemico, e le enormi difficoltà del suo governo giuridico, abbiano imposto, in certo qual senso, una “torsione” al sistema delle fonti di produzione del diritto[9], avendo la rapidissima e inarrestabile diffusione del virus  imposto ai governi (non solo, ma per affinità ordinamentale qui si citano solo quelli) europei un sistema di produzione normativa in continua evoluzione a seconda dell’andamento dei contagi e delle indicazioni degli organismi scientifici (tra i principali, Organizzazione Mondiale della Sanità, Istituto Superiore di Sanità, Agenzia europea medicinali-EMA, Agenzia Italiana Farmaco), con l’ulteriore mediazione di consulenti governativi e comitati tecnico-scientifici nominati ad hoc.

Questo sistema – icasticamente definito «filiera normativa Covid-19»[10] – consiste nella concatenazione produttiva tra fonti normative “agili” (decretazione d’urgenza) e fonti sub-legislative (deliberazioni del Consiglio dei ministri dichiarative dello stato di emergenza ai sensi del Codice della protezione civile; decreti del Presidente del consiglio dei ministri – DPCM e ordinanze ministeriali) in continuo “dialogo” e in rapida successione tra loro; ne costituisce un esempio proprio lo sviluppo dell’apparato sanzionatorio che si è cercato di ricostruire, anche nella sua teoria diacronica, in questo breve contributo.

In generale, e in particolare per il settore penale, non ci sembra un’opzione realmente sostenibile quella di leggere ostinatamente tale sistema di produzione normativa con la  lente costituzionale del prima della pandemia, in quanto ciò condurrebbe inevitabilmente alla conclusione dell’impossibilità di un efficace contrasto della pandemia stessa  all’interno della cornice costituzionale, se non facendo ricorso al meccanismo estremo di sospensione della Costituzione correlato alla deliberazione dello stato di guerra ai sensi dell’articolo 78[11].

Il che, a livello politico, equivale a una sconfitta dello stato democratico alla prova del contagio e all’implicito riconoscimento della necessità di una modifica costituzionale volta a introdurre un analogo stato di emergenza per ragioni di salute pubblica o, più specificamente, per il contesto pandemico; quando i rischi di una tale conclusione politica potrebbero essere, è evidente, ben maggiori dei benefici.

Oltretutto, con specifico riguardo al settore penale, riteniamo, alla luce delle considerazioni sopra esposte, che la corretta implementazione delle deroghe “tenui” – si potrebbe parlare, in proposito, di uno stato di “emergenza leggera” – già contenute all’articolo 16 della Costituzione sia necessaria e sufficiente a contenere misure eccezionali anche di tipo restrittivo, se giustificate da evidenze di efficacia, senza assorbire il rischio di una loro strutturazione definitiva.

Anzi, come ha giustamente sottolineato il Comitato nazionale per la bioetica, bisognerebbe sempre mettere bene in chiaro, sia a livello di interpretazione giuridica che di comunicazione mediatica, il carattere di eccezionalità di tali misure e la conseguente inidoneità a costituire precedenti per contesti storici diversi da quello che stiamo vivendo[12].


 
[1] Il testo in grassetto e tra parentesi è stato inserito in fase di conversione.

[2] L’Ordinanza del Ministero della Salute del 21.2.2020 aveva già previsto: «1. E' fatto obbligo alle Autorità sanitarie territorialmente competenti di applicare la misura della quarantena con sorveglianza attiva, per giorni quattordici, agli individui che abbiano avuto contatti stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusiva COVID-19». Nella primissima fase, dunque, la quarantena era riservata ai “contatti stretti”, mentre con circolare del Ministero della Salute – Dipartimento Generale della Prevenzione Sanitaria del 22.2.2020 era stabilito che «i casi confermati di COVID-19 devono essere ospedalizzati». 

[3] In grassetto e tra parentesi le modifiche apportate in fase di conversione.

[4] Il comma 7 prevede infatti: «((Al primo comma)) dell'articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n.1265, Testo unico delle leggi sanitarie, le parole “con l'arresto fino a sei mesi e con l'ammenda da lire 40.000 a lire 800.000” sono sostituite dalle seguenti: “con l'arresto da 3 mesi a 18 mesi e con l'ammenda da euro 500 ad euro 5.000”».  

[5] Cfr. Cass. Sez. 6, Sentenza n. 3128 del 22/01/1982 Ud.  (dep. 20/03/1982 ) Rv. 152899 - 01.

[6] Cfr. Cass. Sez. 6, Sentenza n. 8755 del 27/04/1978 Ud.  (dep. 30/06/1978 ) Rv. 139556 - 01.

[7] La Cassazione evidenzia che «non è configurabile la responsabilità a titolo di omissione in quanto l'art. 438 cod. pen., con la locuzione «mediante la diffusione di germi patogeni», richiede una condotta commissiva a forma vincolata, incompatibile con il disposto dell'art. 40 co. 2 c.p., riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera»; cfr. Cass. Sez. 4, n. 9133 del 12/12/2017 Rv. 272261 - 01.

[8] Cass. Sez. 1, n. 48014 del 30/10/2019, Rv. 277791.

[9] Si veda, tra i numerosi contributi in materia, Antonio Ruggeri, Il disordine delle fonti e la piramide rovesciata al tempo del Covid-19, in Consulta online, 9 Dicembre 2020.

[10] Cfr. Marina Calamo Specchia, Alberto Lucarelli e Fiammetta Salmoni, Sistema normativo delle fonti nel governo giuridico della pandemia. Illegittimità diffuse e strumenti di tutela, in AIC, Rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, n. 1/2021 del 23.2.2021.

[11] Cfr. Marina Calamo Specchia, Alberto Lucarelli e Fiammetta Salmoni, cit., § 7.

[12] Si veda in questo senso, il parere del Comitato nazionale per la bioetica presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, Covid-19: salute pubblica, libertà individuale, solidarietà sociale, § 4.

01/04/2021
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