Magistratura democratica
Osservatorio internazionale

Affirmative action: game over per la SCOTUS

di Elisabetta Grande
professoressa ordinaria di diritto comparato, Università del Piemonte Orientale

...e se non tutto il male venisse per nuocere? 

Con il solito blocco conservatore di sei giudici contro tre, il 29 giugno scorso la Corte Suprema federale statunitense ha decretato conclusa l’esperienza dell’affirmative action razziale nelle università degli Stati Uniti. La pronuncia[1], che ha coinvolto due fra i più antichi Colleges statunitensi -ossia la prestigiosissima università privata di Harvard e l’università pubblica della North Carolina-, non necessariamente si presenta però come l’espressione di un’ottica conservatrice. Il tema è infatti assai più complesso di quel che potrebbe a primo acchito apparire e conservatori e progressisti non sempre si sono trovati al riguardo su posizioni contrapposte.

Per capire cosa sta dietro la questione oggi affrontata dalla SCOTUS occorre partire da lontano, ossia almeno dalla famosa sentenza Brown v. Board of Education del 1954 che, grazie alla determinazione di un avvocato nero, poi assurto nientemeno che alla posizione di giudice della SCOTUS stessa -Thurgood Marshall- aveva rovesciato la famigerata dottrina di Plessy v. Ferguson, “separate but equal”, ordinando la desegregazione delle scuole statunitensi.   

Era stato quello un periodo di grandi conquiste sociali per i neri d’America e, mentre le Corti imponevano il busing all’interno dei distretti urbani (ossia lo scambio di bimbi e ragazzi bianchi e neri nelle scuole statali tramite il trasporto pubblico) e i pulmini gialli diventavano il simbolo della nuova integrazione etnica, anche le università, i Colleges americani, inauguravano la stagione delle affirmative actions. Si trattava di offrire ristoro a coloro che avevano subito enormi discriminazioni nel passato e di invertire quel trend di marginalizzazione delle minoranze che aveva fino ad allora caratterizzato gli studi superiori in America. Era, insomma, una questione di giustizia sociale quella che, a partire dal 1961 e soprattutto a seguito dell’assassinio di Martin Luther King il 4 aprile del 1968, aveva animato le proteste del movimento dei Civil Rights nei campus statunitensi e portato i Colleges americani a stabilire politiche di ammissione che privilegiassero le minoranze e in particolare i neri americani. Si trattava, per l’appunto, delle così dette affirmative actions, che nel 1969 avevano portato - secondo una statistica del New York Times di quell’anno - a un aumento delle ammissioni della minoranza nera nelle università dell’Ivy League del paese maggiore del 100 per 100 e, per esempio, a una crescita degli studenti neri alla Columbia University, nel cuore di Harlem, da 58 a 130 su 700 ammessi (tutti uomini perché le donne furono ammesse solo a partire dal 1980)(https://www.nytimes.com/2019/03/30/us/affirmative-action-50-years.html).

Molto presto, tuttavia, alla ratio della giustizia sociale quale fondamento delle affirmative actions si era affiancata una differente ragione a giustificazione della presa in considerazione della “razza” nell’ammissione alle università più selettive del paese: quella della diversity. La diversità delle etnie all’interno della popolazione studentesca cominciò ad essere valorizzata quale arricchimento educativo a vantaggio paradossalmente soprattutto dei bianchi, che avrebbero così potuto aprire i loro orizzonti a mondi culturali differenti dai loro.  

Una volta azzoppati gli aneliti di trasformazione sociale e annichiliti gli spiriti rivoluzionari dei neri americani – si pensi alla criminalizzazione e fruttuosa repressione del Black Panther Party-, nella nuova era post guerra fredda fu proprio la nuova ratio posta a base delle affirmative actions che permise alle stesse di sopravvivere, sia pure in una forma assai diversa rispetto a prima.

Già nel 1978, di fronte alle accuse di reverse discrimination mosse da un ragazzo bianco alle politiche di ammissione dell’Università della California che riservavano un certo numero di posti a studenti neri (16 per l’esattezza su 100 disponibili), la Corte Suprema nel famoso caso Regents of the University of California v. Bakke aveva negato - con una risicata maggioranza di 5 a 4- la costituzionalità delle quote riservate, lasciando però –grazie alla penna di Justice Powell- aperta la porta a una possibile considerazione da parte delle università della questione razziale o etnica, quale uno dei tanti fattori accettabili in nome dell’interesse a mantenere un corpo studentesco “diverso”. 

Furono due decisioni del 2003, Grutter v. Bollinger e Graz v. Bollinger, a dare poi il colpo di grazia a ogni progetto di giustizia sociale che potesse realizzarsi attraverso politiche di affirmative actions. Con le due pronunce, infatti, se da un canto venne riaffermato il diritto della Law School del Michigan di prendere in considerazione la “razza” all’interno di un quadro olistico del candidato, quale cioè uno dei molti elementi su cui basarsi, furono però bandite le pratiche che attribuivano un certo numero di punti in più (20 per la precisione) ai candidati appartenenti alle minoranze.

La questione etnica divenne a quel punto influente davvero solo marginalmente, poiché da quel momento in poi fu la preparazione accademica dei candidati- bianchi, neri o latini che fossero- ad assumere un peso predominante. Per entrare nelle università selettive, quelle i cui laureati avrebbero avuto una carriera di successo, divenne infatti indispensabile non soltanto aver ottenuto voti particolarmente alti durante la propria carriera scolastica, ma anche aver superato molto bene un test standard chiamato SAT, la cui valutazione è a sua volta presa in considerazione dal sistema di ranking delle Università americane che -messe in competizione fra di loro in un quadro che non prevede un valore legale del titolo di studio- ambiscono ad avere la posizione più alta possibile nella graduatoria per poter ricevere maggiori riconoscimenti, più candidature eccellenti e maggiori introiti da chi si iscrive presso di loro.   

La preparazione scolastica, però, dipende dalla possibilità fornita a tutti -bianchi, neri, ispanici o asiatici che siano- di apprendere, ciò che ci riporta al tema se Brown v. Board of Education abbia effettivamente ottenuto il successo promesso in termini di integrazione scolastica e di capacità delle scuole statunitensi K-12 (dal kindergarden alla maturità, cioè) di offrire pari opportunità di formazione a tutti i ragazzi indipendentemente dal colore della pelle. Oggi il panorama non potrebbe essere più deludente. A quasi sette decenni di distanza da quella pronuncia, più della metà degli studenti delle scuole pubbliche - dal kindergarden all’ultimo anno di liceo - sono di fatto razzialmente segregati in distretti scolastici in cui più del 75% è esclusivamente bianco o esclusivamente non bianco. Non solo: i distretti scolastici dei quartieri bianchi più ricchi, finanziati soprattutto con soldi provenienti dalle tasse sulla casa (più alte le prime se di maggior valore le seconde) ricevono circa 23 miliardi di dollari in più di fondi pubblici rispetto alle scuole dei quartieri abitati dai neri e dagli ispanici - e dagli stessi frequentate - corrispondenti a 2.200 dollari in più per ogni studente (cfr. https://edbuild.org/content/23-billion#CA e https://www.nytimes.com/2019/02/27/education/school-districts-funding-white-minorities.html). Il risultato è un quadro di separateness and inequality, che da un canto contraddice pesantemente la pronuncia della Corte suprema del 1954 e dall’altro rende le scuole dei bimbi e ragazzi neri assai meno idonee ad una buona preparazione rispetto a quelle dei loro più agiati, e già avvantaggiati a livello familiare, coetanei bianchi.   

La mancata desegregazione delle scuole statunitensi è stata per un verso causata dalle controproducenti conseguenze del busing forzato degli studenti, imposto dalle Corti federali dopo Brown v. Board of Education e approvato nel 1971 dalla Corte suprema statunitense con Swann v. Charlotte-Mecklenburg Board of Education (per poi essere definitivamente cancellato nel 2002 con Belk v. Charlotte-Mecklenburg Board of Education). L’interscambio forzato di ragazzi fra scuole dei quartieri abitati da gruppi etnici differenti aveva, infatti, invogliato le famiglie bianche tanto a trasferirsi in distretti non urbani abitati prevalentemente, se non esclusivamente, da bianchi, quanto – avendone i mezzi- a mandare i propri figli a studiare presso le costosissime scuole private. Il suo insuccesso è, però, anche stato il risultato di una pronuncia della Corte Suprema, che nel 2007 con Parents v. Seattle School ha ritenuto contrario alla equal protection clause del XIV emendamento l’uso di un criterio di quote fondato sulla razza per stabilire la composizione del corpo studentesco nelle scuole superiori.  

Segregati di fatto in scuole da poveri e per poveri, in cui i docenti devono affrontare situazioni personali spesso molto difficili, i ragazzi generalmente meno abbienti delle minoranze etniche – in particolare nere - arrivano all’appuntamento con il SAT inevitabilmente meno preparati degli studenti bianchi, generalmente più abbienti. Questi ultimi, anche se con una carriera accademica meno brillante dei loro coetanei, hanno inoltre più spesso i mezzi per sostenere le spese di una delle tante preparazioni a pagamento dell’esame richiesto per l’ammissione. Non è dunque una sorpresa scoprire che in base a uno studio del 2018 –riferito al 2013- gli studenti i cui genitori guadagnavano fra i 40.000 e gli 80.000 dollari l’anno, e che differivano di pochissimo in termini di media dei voti ottenuti nella loro carriera scolastica (grade point average, GPA) rispetto a quelli i cui genitori guadagnavano più di 200.000 dollari, all’esame del SAT conseguivano invece punteggi molto più bassi dei secondi (https://eric.ed.gov/?id=ED582459). 

L’eliminazione nel tempo da parte della SCOTUS di una seria corsia preferenziale per le minoranze, in termini di quote riservate o di maggior punteggio di partenza, e la possibilità di fare uso del criterio “razziale” solo in via subordinata rispetto al punteggio del SAT -come uno dei tanti fattori, cioè, da prendere in considerazione insieme a molti altri- ha dunque relegato l’operatività delle affirmative actions a un piano di “diversità” puramente simbolico. Non si è più trattato di riparare all’ingiustizia sociale di chi, povero e nero, era rimasto per troppo tempo fuori dal percorso di eccellenza delle università più prestigiose degli Stati Uniti, bensì di ammettere in via sussidiariamente privilegiata chi non fosse di pelle bianca, ma provenisse comunque dal mondo delle élites, che in termini di esperienza economico-sociale non ha certamente nulla di diverso rispetto agli altri studenti. 

I dati relativi all’estrazione sociale degli studenti delle università di Harvard e della North Carolina, i cui programmi di affirmative actions sono stati dichiarati incostituzionali dalla SCOTUS con la sentenza appena emessa, la dicono lunga. Ad Harvard quasi tre quarti degli studenti neri, latini e nativo-americani ammessi agli studi fanno parte del quinto percentile socio-economicamente più alto all’interno del corrispondente gruppo etnico e provengono da famiglie con redditi superiori alla mediana nazionale (https://studentsfor.wpenginepowered.com/wp-content/uploads/2018/06/Doc-416-3-Kahlenberg-Errata.pdf). Nell’intero corpo studentesco di quell’università, poi, gli studenti provenienti dalle famiglie con i redditi più alti sono quindici volte più numerosi di quelli provenienti da famiglie con i livelli di reddito più bassi e gli studenti che provengono dall’1% più ricco sono tanti quanti quelli che provengono dal 60% più povero (https://www.nytimes.com/interactive/projects/college-mobility/harvard-university; cfr. anche https://www.nber.org/papers/w23618). Analogamente nell’università della North Carolina, uno studio condotto da Raj Chetty del 2017 chiarisce come gli studenti provenienti dal quinto percentile più ricco fossero 16 volte più numerosi di quelli provenienti dal quinto percentile più povero. La stessa ricerca aveva inoltre posto in luce come più in generale nelle università dell’Ivy League gli studenti appartenenti al percentile più alto, quello dell’1%, avessero 77 volte più possibilità di essere ammessi rispetto a coloro le cui famiglie guadagnavano meno di 30.000 dollari l’anno (cfr. https://www.nber.org/papers/w23618 e https://www.theatlantic.com/education/archive/2019/03/privileged-poor-navigating-elite-university-life/585100/). 

Ecco perché togliere di mezzo le affirmative actions oggi non significa necessariamente assumere una posizione anti liberale e di destra, ma provare a immaginare un’integrazione sociale di classe, che superi la questione del colore della pelle e faccia perno sulla condizione socio-economica degli studenti per permettere ai meno abbienti di accedere anche loro agli olimpi del sapere da cui verranno lanciati verso il successo professionale. 

E’ questa per esempio la prospettiva di uno degli expert witnesses, Richard D. Kahlenberg (autore di The Remedy: Class, Race and Affirmative Action, 1996), che ha sostenuto gli Students for Fair Admissions nella causa contro i programmi di affirmative action delle università di Harvard e della North Carolina. Sempre a fianco di coloro che hanno condotto battaglie di sinistra, Kahlenberg, è convinto che l’abbandono delle azioni positive fondate sul colore della pelle possa avere effetti positivi in termini di giustizia sociale. Mettere uno contro l’altro i bianchi e i neri è, infatti, la strategia di dominio del divide et impera, vecchia come il cucco, capace di creare conflittualità fra gli economicamente più deboli in modo da impedire loro di apprezzare quanto hanno in comune. L’abbandono di programmi di affirmative actions di tipo “razziale”, che creano astio e risentimento fra i bianchi (anche poveri) nei confronti dei neri (ricchi), che per il colore della loro pelle entrano all’università al posto di un bianco (anch’esso ricco), potrebbe invece condurre alla loro sostituzione in via generalizzata con politiche di accesso privilegiato fondate su criteri differenti. Consentire un vantaggio nell’ammissione universitaria agli studenti che all’interno delle proprie famiglie di origine si laureano per primi (c.d. first generation students) o ai migliori della propria classe di liceo indipendentemente dal livello di preparazione raggiunta, prevedere un più facile passaggio dai Community Colleges (università per studenti meno abbienti) alle università prestigiose, rinunciare ad avvantaggiare i figli dei c.d. alumni (ossia di coloro che essendo stati in precedenza studenti presso le stesse Università le finanziano) e abbandonare definitivamente il SAT quale criterio per valutare l’ammissibilità degli studenti, sono alcuni fra di essi. Si tratta di parametri in parte utilizzati proprio negli Stati in cui da tempo le affirmative actions sono state bandite quali politiche di accesso privilegiato delle minoranze etniche nelle università, come in California ad esempio. Con il risultato che oggi UC Berkeley e UCLA – fra le 25 più prestigiose università statunitensi secondo lo US News & World Report- vedono la più alta diversità in termini etnici nella loro popolazione studentesca, ma soprattutto la più alta percentuale di studenti che essendo socio-economicamente disagiati hanno ottenuto le borse di studio federali, i così detti Pell Grants (cfr. Kahlenberg, in https://www.theatlantic.com/ideas/archive/2022/10/supreme-court-harvard-affirmative-action-legacy-admissions-equity/671869/). 

Che aiutare i meno abbienti ad accedere alle università più prestigiose (il cui costo è fra l’altro sempre più esorbitante e può arrivare fino a 80.000 dollari l’anno) significhi anche aumentare la possibilità per le minoranze etniche di entrarvi non è, d’altronde, certo un mistero, giacché le due categorie assai spesso coincidono (basti pensare che la ricchezza mediana delle famiglie nere americane è dalle 8 alle 10 volte inferiore a quella delle famiglie bianche!). Emblematico è lo studio effettuato dallo stesso Khalenberg insieme all’economista della Duke University Peter Arcidiacono, così come articolato di fronte alla Corte Suprema nelle rispettive deposizioni come periti di parte. Lo studio dimostra come la sostituzione del criterio razziale delle affirmative actions e di quello che permette ai figli degli alumni di avere un accesso privilegiato con uno che promuova i candidati che provengono da famiglie socio-economicamente svantaggiate accrescerebbe ad Harvard il numero di studenti delle minoranze razziali e triplicherebbe quello degli studenti di prima generazione (cfr. https://www.dissentmagazine.org/online_articles/a-new-path-to-diversity e https://affirmativeactiondebate.org/expert-reports-in-the-harvard-case/) .

La speranza è dunque che la decisione odierna di una Suprema Corte conservatrice produca il paradossale effetto progressista di stimolare un’inversione di rotta nelle politiche di ammissione universitaria statunitensi, che privilegino finalmente la classe sulla razza, giacché indipendentemente dal loro colore della pelle i meno abbienti sono tutti uguali ed hanno ugualmente bisogno di essere aiutati.

Il vero ostacolo alla fonte, tuttavia, sembra essere rappresentato dalla carenza di fondi pubblici allocati tanto alle scuole pubbliche del paese -cui spetterebbe il compito di preparare culturalmente tutti i ragazzi, neri, bianchi, poveri o ricchi che siano- quanto alle università statali o private not for profit che, laddove non abbiano come Harvard consistenti finanziamenti privati, sono costrette per sopravvivere a privilegiare gli studenti che pagano bene, piuttosto che quelli che non pagano o a cui devono dare borse di studio ( si veda sul punto Paul Tough, What College Admissions Offices Really Want, https://www.nytimes.com/interactive/2019/09/10/magazine/college-admissions-paul-tough.html) . 

Perché negli Stati Uniti il sogno della mobilità sociale possa tornare ad essere una realtà occorre, insomma, qualcosa di più e di diverso da ciò che si sta facendo oggi. Occorre, cioè, a monte invertire quella rotta che al welfare sta vieppiù sostituendo il warfare (più a fondo in proposito, mi permetto di rinviare a https://volerelaluna.it/mondo/2023/06/09/stati-uniti-ancora-una-volta-la-crisi-la-pagano-i-poveri/). 


 
[1] Students For Fair Admissions, Inc. v. President And Fellows Of Harvard College e Students For Fair Admissions V. University Of North Carolina, Et Al. (600 U. S. ____ 2023). 

04/07/2023
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