Magistratura democratica

L’uso dello spazio urbano fra questione proprietaria e accesso alla giustizia

di Maria Rosaria Marella

Dopo aver richiamato le sfide che il riconoscimento dei beni comuni pone al diritto, evidenziandone i limiti, e aver tracciato il perimetro della loro rilevanza giuridica, l’articolo si concentra sullo spazio urbano considerato come bene comune nella sua interezza e complessità. La lettura dello spazio urbano come commons non è tuttavia neutra dal punto di vista giuridico; al contrario essa solleva questioni tanto complesse quanto delicate che impattano direttamente sulla nozione di proprietà che si assuma come vigente nel sistema attuale. La nozione di comune (e di spazio urbano come commons) diventa, infatti, la parola chiave di una strategia che si oppone alla sistematica appropriazione del valore prodotto collettivamente dalla cooperazione sociale. La teoria e le pratiche del comune, in virtù di una rilettura del principio della funzione sociale della proprietà condotta alla luce della centralità assunta nel sistema dai diritti fondamentali, sottendono la possibilità che la proprietà possa essere disarticolata in un fascio di situazioni soggettive scomponibile e variamente allocabile, affinché delle utilità che essa genera nel contesto produttivo della metropoli possano godere anche soggetti diversi dal proprietario. In questa chiave, che si avvale dell’analisi giuridica delle esperienze italiane e internazionali di commoning urbano, i diritti collettivi di accesso e uso dei non proprietari si rivelano non meno centrali dello ius excludendi alios del proprietario, mettendo in crisi la stessa “compattezza” del dominio individuale.

L’articolo si conclude gettando uno sguardo sull’attività della Clinica legale di Perugia «Salute, Ambiente e Territorio», impegnata dal 2013 ad ampliare l’accesso alla giustizia in materia di commons urbani e rurali.

1. I beni comuni fra diritto e società

Si è parlato e si parla del diritto dei beni comuni come di una prospettiva possibile nel momento presente, a dispetto dell’indiscussa fortuna di cui gode oggi la proprietà, quale modello egemone di allocazione delle risorse[1]. Ma ci si potrebbe chiedere, e in effetti qualcuno si è chiesto, se questa sia anche una prospettiva auspicabile[2]. E ciò per due differenti ordini di motivi. In primo luogo per il rischio che la giuridificazione delle esperienze di autogoverno maturate intorno alla rivendicazione/conquista/creazione dei beni comuni[3] addomestichi le lotte che le sostengono fino a far loro perdere di forza propulsiva. In secondo luogo per la supposta impossibilità, politica, innanzitutto, di tradurre nel linguaggio del diritto vigente il comune, le spinte antiproprietarie, le esigenze di autorappresentazione - intesa come superamento della mediazione politica affidata alle istituzioni della rappresentanza - che si legano al commoning e alla gestione dei commons urbani, in particolare. Quest’ultimo punto di vista si lega per solito ad una visione del diritto come un insieme coerente di regole prodotte dal capitale per perpetuare se stesso e le forme di accumulazione e sfruttamento che gli sono proprie. Per questo motivo, sebbene il diritto non sia rimasto uguale a se stesso nell’ormai lunga vicenda che connota «la fase capitalistica della storia del mondo»[4], esso conserva pur sempre delle costanti che impedirebbero al comune di trovare compiutamente voce al suo interno. Fra esse la dicotomia pubblico/privato, che costituisce il grande spartiacque intorno al quale si organizza il diritto moderno. La stessa Costituzione repubblicana si limita a contemplare la proprietà pubblica e la proprietà privata. Per il Comune sembrerebbe dunque non esserci spazio. Se tuttavia si assume un altro punto di vista capace di mettere in crisi l’idea del diritto come un tutto coerente[5] è possibile far tesoro delle pratiche di decostruzione messe in opera dalla teoria critica e femminista[6] non solo per far cortocircuitare una distinzione che oggi soprattutto e, in particolare, nella produzione dello spazio urbano, perde di efficacia ordinante (la proprietà privata che diventa spazio pubblico, come nel centro commerciale, gli strumenti pubblicistici di pianificazione del territorio che vengono contrattati coi privati), ma anche per cogliere le opportunità che l’incoerenza e l’indeterminatezza delle regole giuridiche ci offrono. In questa diversa cornice possiamo allora cogliere come il comune si inserisca e si sviluppi in modo interstiziale fra pubblico e privato, nel pubblico e nel privato, per lo più senza trovare una qualificazione giuridica adeguata. Su questo sfondo le pratiche del comune si producono e diffondono in una tensione costante fra informalità e bisogno di formalizzazione e di riconoscimento.

Il diritto dei beni comuni si fa spazio proprio in questi interstizi. E in questi termini apre ad un orizzonte di possibilità. La sua percorribilità politica e il suo appeal si legano di fatto al riconoscimento della capacità del diritto di distribuire potere (economico, sociale, simbolico) nelle forme che gli sono consone e con gli strumenti che gli sono propri. A cominciare dall’operazione di qualificazione giuridica di una risorsa come bene comune, su cui tornerò a breve. In sostanza, del diritto dei beni comuni ha senso parlare nella misura in cui esso corrisponda – sia, cioè, funzionale – ad un progetto di empowerment. È in questa luce che il rapporto fra lotte per il comune e diritto può essere riproposto. Come è stato opportunamente notato, tutta la fascinazione di cui le visioni spontaneiste sono capaci non esime dal fare «adeguatamente i conti con un passaggio istituzionale ineludibile: il riconoscimento giuridico di una destinazione propria a tali beni, procedimento tecnico che in taluni momenti della storia interviene con quella forza decisoria che le lotte politiche e le nuove acquisizioni conoscitive sono in grado di suscitare e le costruzioni formali provvedono poi a tutelare. Contrariamente a un certo marxismo dal sapore tralatizio, la “forma” giuridica non spegne, ingannandola, la prassi sociale, ma ne rappresenta un’articolazione di pari livello e sovente più attrezzata»[7].

Non per questo i limiti del diritto vanno sottaciuti: continuamente il giurista avvertito fa i conti con il suo stesso disincanto verso il diritto come sistema di ingegneria sociale. E resta pur sempre viva la preoccupazione di non delegare al diritto gli obiettivi dell’azione politica. Per tacere del fatto che non poche volte lo stesso dialogo fra diritto e pratiche del comune indica la via dell’informalità come strategia preferibile al riconoscimento attraverso la formalizzazione giuridica. Ciò accade ad esempio quando sia il diritto di proprietà la forma deputata al riconoscimento legale di un uso collettivo di risorse date, per lo più urbane[8].

Tuttavia proprio il tema dei beni comuni ha messo in chiaro come la forma dominicale non sia affatto ineludibile nella disciplina del godimento in comune delle risorse. In proposito possiamo davvero far ricorso all’ottimismo della ragione e affermare che il diritto privato vigente non è unicamente informato all’individualismo proprietario[9]. Ancor più radicalmente dobbiamo riconoscere che la stessa fondatezza dell’espressione “individualismo proprietario”, al di là della sua indiscussa efficacia retorica, è messa in dubbio dalla irriducibile indeterminatezza delle regole giuridiche e dunque dalla loro strutturale ambivalenza e flessibilità. La storia delle forme giuridiche di appartenenza – quella più antica e quella più recente – mostra che il dominio individuale, anche all’apice della sua celebrazione quale fulcro dell’organizzazione sociale, è sempre stato inciso, contrastato e/o controbilanciato da diritti d’uso collettivo riconosciuti a vario titolo (dalle res publicae, sacrae o religiosae del diritto romano[10] agli usi civici[11]) ovvero dall’interesse pubblico o generale nelle sue varie declinazioni. La stessa “compattezza” del dominio individuale è stata sottoposta a critica, quindi disarticolata in un fascio di situazioni soggettive (bundle of rights)[12] scomponibile e variamente allocabile a soggetti diversi dal proprietario[13]. E dunque non ci sono ragioni che impediscano oggi, nell’era della globalizzazione neoliberale del diritto, di pensare forme di accesso e godimento in comune delle risorse. In particolare, forme di cooperazione che passino attraverso la relazione con le cose comuni e si articolino sul terreno giusprivatistico[14].

La più efficace definizione giuridica dei beni comuni si deve alla ormai celebre Commissione Rodotà, insediatasi presso il ministero della Giustizia nel 2007 per riscrivere quella parte del codice civile dedicata ai beni pubblici (Capo II del Titolo I del Libro III del Codice civile), la quale li ha individuati come quei beni che, a prescindere dall’appartenenza pubblica o privata, si caratterizzano per un vincolo di destinazione, essendo funzionali alla realizzazione dei diritti fondamentali di tutte e tutti, delle generazioni presenti e di quelle future. L’opera di qualificazione e classificazione propria del giurista ha sin qui condotto pertanto a identificare i beni comuni con quelle risorse

  1. strettamente correlate alla comunità di riferimento e, in un certo senso, costitutive della comunità stessa e dei legami sociali al suo interno;
  2. gestite – o da gestirsi – collettivamente, o quanto meno in modo partecipato;
  3. a prescindere dal titolo di appartenenza formale (proprietà pubblica o privata).

Una tale definizione prescinde dunque da dati naturalistici e si presta ad accogliere gli esiti delle pratiche sociali di creazione/individuazione del comune.

Partendo da qui è allora possibile ordinare l’eterogeneità dei beni comuni secondo la seguente tassonomia[15]: 1) le risorse materiali come l’acqua e l’ambiente, il patrimonio culturale ed artistico del Paese, ecc.; 2) le risorse immateriali – la conoscenza e le sue applicazioni, le creazioni artistiche, i saperi tradizionali e le culture popolari, le informazioni genetiche, ecc. – oggi interessate da un imponente fenomeno di “recinzione” (the second enclosure movement[16]) attraverso le varie forme di proprietà intellettuale (diritto d’autore, brevetto, ecc.) che ne consentono l’appropriazione esclusiva, e di converso rivendicate (si pensi alle varie pratiche di resistenza contro l’enclosure poste in essere in rete) come risultato della produzione collettiva; 3) lo spazio urbano, bene comune per eccellenza in quanto “cosa umana per eccellenza”[17], prodotto della cooperazione sociale, spazio nel quale l’andamento delle nostre vite si definisce[18], oggetto di uno spossessamento che è frutto della partnership fra pubblico e privati e fonte di disgregazione sociale, di costruzione di identità svantaggiate, di distruzione di spazi di democrazia[19]; 4) infine le infrastrutture (dalle strade, a internet, alla ricerca di base), in quanto funzionali alla produzione di altri beni e utilità, e le istituzioni erogatrici di servizi pubblici finalizzati alla realizzazione di diritti fondamentali come l’istruzione e la salute: dunque università, scuola, sanità, ecc.[20]

Molti dei profili ora toccati, dal carattere conflittuale dell’individuazione dei beni che si qualificano come comuni, al ruolo e all’efficacia della loro tutela giuridica, fino alla possibile (dis)articolazione della proprietà nel sistema giuridico vigente, riguardano con particolare intensità gli urban commons, ovvero lo spazio urbano stesso inteso come commons.

2. Lo spazio urbano come commons e la questione proprietaria

Il tema degli urban commons solo di rado è stato oggetto di trattazioni organiche da parte dei giuristi “benicomunisti” nostrani[21]. Il dibattito anglo-americano dedica invece una ricca letteratura – anche giuridica – agli urban commons: le piazze, le strade, i parchi, i giardini pubblici sono pacificamente riconosciuti come commons, in quanto facenti parte di quello spazio pubblico in cui la pubblica opinione ovvero la partecipazione politica democratica ha preso forma. Questo punto di vista è peraltro in linea con la definizione di beni comuni che abbiamo adottato: innegabilmente lo spazio pubblico è funzionale al libero svolgimento della personalità umana e all’esercizio dei diritti fondamentali. Sulla base di queste premesse si giustifica anche la presa in cura dei suddetti commons da parte di gruppi di cittadini ove le amministrazioni locali non lo facciano o non lo possano fare: si tratta peraltro di una condizione diffusa che ha generato ovunque nel Nord del mondo i cd. orti urbani, usualmente in condizioni di informalità, ovvero ha dato luogo a gestioni partecipate istituzionalizzate come le park conservancies negli Stati Uniti[22].

Tuttavia la forza trasformativa del discorso dei beni comuni riesce a esprimersi compiutamente solo se la prospettiva si amplia e si assume l’intero spazio urbano come commons. Le città, come si diceva, sono dopo tutto prodotti umani e collettivi. Differenti visioni sociologiche e filosofiche della città – rectius: della metropoli – dall’idea della metropoli come luogo principale di produzione del valore[23] alla sua identificazione con il dispositivo biopolitico per antonomasia[24], confortano e arricchiscono la nostra lettura dello spazio urbano come commons. Se assumiamo lo spazio urbano come il teatro dei conflitti sociali che si accendono intorno all’appropriazione del valore prodotto collettivamente dalla cooperazione sociale, la nozione di comune (e di spazio urbano-commons) diventa la parola chiave di una strategia che si oppone all’accumulazione per spossessamento[25], ovvero alla cattura di valore che attraversa le dinamiche produttive/riproduttive dentro la metropoli[26].

Ovviamente la lettura dello spazio urbano come commons non è neutra neppure dal punto di vista giuridico. Al contrario essa solleva questioni tanto complesse quanto delicate che impattano direttamente sulla nozione di proprietà che si assuma come vigente nel sistema attuale. Questioni che in questa sede possono soltanto essere accennate[27]. In primo luogo è legittimo chiedersi se la stessa concettualizzazione dello spazio urbano complessivamente inteso e delle sue porzioni – ad es. i quartieri – quali commons sia compatibile con l’esistenza medesima della proprietà urbana e con il suo regime. L’assunzione di questo punto di vista comporta sul piano strettamente giuridico la possibilità che la proprietà possa essere disarticolata in un fascio di diritti variamente assortiti e attribuibili affinché delle utilità che genera nel contesto produttivo della metropoli possano godere anche soggetti diversi dal proprietario[28]. Per comprendere il tipo di ricadute dell’adozione di tale ipotesi ricostruttiva si pensi alle occupazioni “illegali” di immobili lasciati in stato di abbandono da proprietari assenteisti ovvero dagli stessi sottratti alla loro destinazione culturale o altrimenti collettiva per scopi speculativi - dinamiche oggi assai comuni nei nostri contesti urbani. Oppure ai fenomeni di gentrificazione che comportano la cattura del valore culturale (l’atmosfera) creato dagli originari residenti e la sua riduzione a merce liberamente scambiabile nel mercato immobiliare, secondo una dinamica normalmente osservabile in gran parte dei nostri centri storici e nei quartieri ex popolari o ex operai di città come Roma, Milano, Torino. Ebbene può la qualificazione dello spazio urbano come bene comune comportare la compressione delle prerogative dominicali sino a sottrarre al proprietario il potere di destinare il proprio bene a un certo uso o non-uso quando questo contrasti con la realizzazione dei diritti fondamentali altrui? O può condurre addirittura a scorporare il diritto alla rendita dal bundle of rights, quando essa è chiaramente una forma di cattura del valore prodotto dalla cooperazione sociale[29]? Qui insieme con lo schema ricostruttivo prescelto è ovviamente in ballo anche la funzione della proprietà urbana quale fattore determinante delle relazioni sociali nella metropoli.

In realtà, a dispetto della forza persuasiva della narrativa dominante, le rivendicazioni politiche dei movimenti sociali che si traducano in occupazioni di luoghi fisici o le iniziative di comunità locali che altrimenti contestino la legittimità di certi comportamenti proprietari possono tradursi in pretese giuridiche fondate giacché in tutti gli ordinamenti esistono meccanismi legali – la tutela dell’affidamento, la tutela del possesso, l’usucapione, ecc. – in grado di tenere nella debita considerazione l’investimento di una comunità nella manutenzione, cura, gestione di un bene altrui. In virtù di tali dispositivi le manifestazioni di attivismo sociale apparse in un primo momento come illecite sono ricondotte dentro l’alveo della legalità delle forme di appartenenza[30]. Di converso, il principio della funzione sociale della proprietà previsto dall’art. 42 della Costituzione italiana conduce a ritenere illegittime quelle condotte proprietarie attuate in spregio all’interesse generale, sicché un proprietario che abbia lasciato un immobile in stato d’abbandono non dovrebbe ricevere tutela contro una sopravvenuta occupazione “virtuosa”, cioè contro un’attività di cura che restituisca l’uso del bene alla collettività, accrescendo il benessere sociale[31]. Il tenore dell’art. 838 cc da una parte, la figura dell’abuso del diritto, dall’altra, forniscono consistenti indizi circa i reali confini del sistema e la congruenza di condotte che si pongano prima facie al di fuori di esso. Particolarmente ove la funzione sociale della proprietà sia vista in relazione alla realizzazione degli altrui diritti fondamentali, la qualificazione di un bene quale bene comune giustifica il riconoscimento di diritti collettivi di accesso e uso[32]. Ciò è quanto maggiormente ricorre quando l’attivismo sociale si traduce in azioni che si propongano come obiettivo la restituzione alla collettività di risorse urbane precedentemente sottratte all’accesso pubblico, magari per effetto della gestione pubblico-privatistica del suolo urbano.

Più in generale, l'attraversamento dello spazio urbano-commons, che è di fatto attraversamento di beni sottoposti a regimi dominicali diversi, pubblicistici e privatistici, mette in gioco la dialettica fra esclusione e inclusione consustanziale al diritto di proprietà[33]. La teoria e le pratiche del comune hanno infatti rimesso in circolo diritti di accesso che in un recente passato erano stati analizzati esclusivamente quali limiti negativi del diritto di proprietà[34] senza per ciò stesso condurre alla concettualizzazione di una soggettività collettiva che ne sia titolare in quanto protagonista della cooperazione sociale. L'adozione di una nuova prospettiva consente invece di smontare il meccanismo regola/eccezione e considerare il diritto (collettivo) di accesso dei non proprietari non meno centrale dello ius excludendi alios del proprietario nella struttura del dominio. Tutta una serie di ipotesi previste dal codice civile, dalle leggi speciali, da norme di altri ordinamenti, nonché di elaborazioni giurisprudenziali ci parlano dello ius deambulandi, modernamente definito right to roam, che si declina come accesso alla natura, ma anche alla cultura, come ci ricorda l'illustre precedente “urbano” di Villa Borghese[35]. Tanto non solo interroga le facoltà del proprietario privato, a cominciare dal suo potere di escludere, ma anche l'esercizio dei poteri di governo del territorio dell’autorità pubblica, a partire dalla pianificazione urbanistica affidata ai governi locali. Se infatti i diritti d’uso pubblico su beni privati previsti dall’art. 825 cc e il ritorno alle pratiche “d’uso civico” – proposto in ambiente urbano da alcune delibere del Comune di Napoli concernenti l’utilizzo di immobili di proprietà pubblica[36] – ci ricordano che non solo la proprietà rurale, ma anche quella urbana è potenzialmente accessibile proprio per il fatto di essere urbana, cioè inserita in un contesto complesso che è il prodotto di un fare ed abitare collettivo, molta normativa ordinaria tende invece a riproporre un’idea quasi ottocentesca di proprietà, accompagnata da un’intensificazione dei processi di valorizzazione del territorio tutta neoliberale[37]. La tendenza a re-incorporare lo jus aedificandi dentro lo statuto proprietario che si esprime nella più recente legislazione denominata “piano casa” e il corrente regime di liberalizzazione delle licenze commerciali finiscono col confliggere con le più consolidate letture della funzione sociale della proprietà urbana, attribuendo al proprietario poteri molto ampi in ordine alla possibilità tanto di apportare modifiche strutturali all’immobile quanto di definirne la destinazione d’uso. Una rinnovata “assolutezza” del diritto di proprietà che consente al titolare di incidere in maniera significativa sulla fisionomia e la funzionalità di un intero circondario o quartiere e, dunque, sulla qualità della vita degli altri residenti e/o fruitori a diverso titolo di quell’area, al di fuori di qualsiasi progetto pubblico di pianificazione urbanistica. Va altresì notato che l’assottigliamento dei limiti alla proprietà urbana riscontrabili in certa legislazione si salda con la diffusione dei progetti di rigenerazione promossi da partnership pubblico-private che tanta parte hanno nell’innescarsi di dinamiche di gentrificazione di interi quartieri urbani, con l’esito finale di produrre una sorta di segregazione urbana trasversale radicata nella distribuzione dei titoli di proprietà, giacché ovunque la città è definita, trasformata e fruita dai proprietari in misura alquanto diversa rispetto ai non proprietari. In questo quadro un altro vettore di frizione fra accessibilità collettiva e gestione pubblico-privatistica delle città si deve alla crescente mercificazione dello spazio urbano, sempre più diffusamente occupato da luoghi di consumo, di cibo e bevande in particolare[38], che tendono a identificare l’accesso ai luoghi con il consumo di merci fino a rendere il secondo precondizione del primo.

La definizione dello spazio urbano come bene comune si pone dunque come programma politico di governo collettivo del territorio. Ed è in primo luogo diretta a interpretare la città come luogo di conflitti fra usi dello spazio e fra forme di vita che lo abitano.

3. Beni comuni urbani e analisi distributiva

Sul piano giuridico il conflitto, come già si è visto, è essenzialmente fra opposte concezioni della proprietà. Fra una proprietà totem o feticcio, sempre uguale a se stessa, circondata da una rinnovata aura quasi-sacrale – mentre bisognerebbe riconsiderare la sua artificialità, il suo carattere contingente, il suo essere costruzione sociale e prodotto di battaglie economiche-, e una proprietà che è piuttosto lo strumento con cui il diritto statale organizza le relazioni sociali a partire dal livello più basso – la proprietà, per dire, di un’automobile – fino al livello in cui la posta in gioco è più rilevante, mettendo in costante tensione il diritto del proprietario di escludere e gli altrui diritti di accesso e uso[39].

Questa seconda concezione della proprietà è quella rispecchiata nelle pratiche del comune di continuo messe in campo dall’immaginazione sociale. Pratiche che contendono spazio alle facoltà del proprietario, pubblico o privato, sperimentando all’interno della struttura stessa del dominio nuove forme di uso e di gestione condivisa dell’accesso. Prendono così forma dei commons urbani aperti a una comunità ben più ampia di quella che direttamente li prende in carico, capaci pertanto di redistribuire utilità, soddisfare bisogni essenziali e creare legami sociali oltre gli angusti confini del singolo comitato di cittadini o del piccolo rione.

In Italia ciò è quanto è stato in concreto sperimentato grazie a esperienze importanti e altamente “immaginative” come il Teatro Valle Occupato a Roma, e l’Ex-Asilo Filangieri a Napoli. Ma in realtà, in moltissime città del nord del mondo, proprio dove la valorizzazione capitalistica del suolo urbano è più intensa, l’immaginazione e l’attivismo sociale danno costantemente luogo a esperienze di godimento e gestione condivisi dei beni urbani che sfociano nella creazione di vere e proprie istituzioni del comune e possono trovare idonea veste giuridica attraverso gli strumenti dell’autonomia privata. È il caso dei Community Land Trusts, nati negli Stati Uniti come forme dell’abitare alternative tanto al mercato immobiliare quanto all’edilizia residenziale pubblica in reazione ai fenomeni di segregazione urbana – razziale e di classe – che entrambi tendono a generare[40]. Queste esperienze, declinate in vario modo a seconda delle forme tecniche prescelte[41] ed ora importate anche in paesi non-trust, come il Belgio e la Francia, si avvalgono di congegni giuridici alquanto sofisticati che giocano proprio sulla scomposizione delle facoltà dominicali e la loro distribuzione fra soggetti diversi. L’obiettivo è quello di sottrarre il bene casa alle logiche del mercato immobiliare evitando la speculazione e mantenendo costante e sostenibile il costo dell’abitare grazie anche ad una redistribuzione controllata della rendita. In alcune declinazioni di questo abitare comunitario e cooperativo, i titoli proprietari sono ulteriormente redistribuiti o, meglio, attribuiti esclusivamente al soggetto collettivo, mentre ai singoli assegnatari delle abitazioni spetta soltanto un diritto d’uso. Il risultato perseguito è non soltanto quello di creare enclave di affordable housing in grado di contrastare il diffondersi delle dinamiche di gentrification, ma anche di dar vita a comunità inclusive e fluide[42].

Quest’ultimo è un punto nodale quando si parla di beni comuni urbani e, ancor più, della città stessa come commons, e impone di interrogarsi sulla consistenza degli effetti redistributivi che l’azione collettiva è in grado di generare in ambito urbano. La ricca gamma degli urban commons di cui la letteratura giuridica e sociologica, in particolare nordamericana, ci parla, sollecita qualche necessaria distinzione fra le diverse esperienze di commoning. È infatti importante riconoscere che non tutti i commons urbani hanno la medesima capacità trasformativa con riguardo alle relazioni di potere che attraversano la metropoli. Tuttavia una certa retorica della comunità si accompagna di frequente al discorso sui beni comuni tendendo a dipingere l’attivismo dei cittadini nei quartieri, il fai-da-te, le iniziative volte alla cura di porzioni di spazio o al ripristino del decoro urbano come buoni in sé. Le condizioni per un rilancio dell’azione delle comunità nella gestione dello spazio urbano sono in realtà poste dalle modalità stesse in cui si articola il governo neoliberale del territorio. Com’è noto, oggi la governance delle città è nei fatti affidata a partnership pubblico/privato che assumono coloriture e funzioni diverse a seconda degli obiettivi che perseguono e del tipo di spazio che di volta in volta gestiscono. In alcuni casi al ritirarsi del pubblico dal governo diretto del territorio corrisponde il profitto del gruppo privato e qui allora prevale la formalizzazione dell’affare in assetti giuridici adeguati che prevedono il trasferimento della proprietà del suolo urbano o invece soltanto un titolo formale di godimento. Dallo shopping mall a molti esempi di common interest communities (Cic) i meccanismi legali sottostanti sono più o meno di questo tenore. In altri casi, invece, i tagli al bilancio dei governi locali producono semplicemente l’affidamento di fatto della proprietà pubblica alla buona volontà dei cittadini, che talora si organizzano spontaneamente per prendersene cura con modalità che restano molto spesso nell’informalità. È questo il contesto in cui fioriscono ad es. i community gardens, gli orti urbani, ma anche le park conservancies come nel caso di Central Park, a Manhattan[43]. In un sistema giuridico come il nostro, questa eventualità viene riconosciuta, se non incentivata, a livello costituzionale attraverso i meccanismi della cd. sussidiarietà orizzontale (art. 118, 4° co. Cost.); il che significa che la gestione spontanea e condivisa di un parco cittadino da parte di una comunità non si pone di per sé fuori dal modello gestionale basato sulla partnership pubblico/privato, ma ne rappresenta semmai una modalità meno costosa (per il pubblico).

Nel discorso dominante, del resto, l’attivismo delle comunità svolge comunque un ruolo salvifico rispetto al degrado e al malessere sociale che caratterizza certe aree, cosicché non è infrequente che i programmi pubblici di rigenerazione urbana individuino nelle comunità locali i partner ideali nel perseguimento del comune obiettivo di ripristinare il decoro di un quartiere. Quel che si trascura è che queste stesse dinamiche sono tali da contribuire alla creazione di aree di segregazione sociale (e razziale) e a sollecitare nelle comunità la tendenza a chiudersi e a escludere i non residenti. Anche perché il successo dei programmi di rigenerazione, tanto pubblici quanto gestiti in partnership dal governo locale e dall’iniziativa dei cittadini, è molto spesso affidato al livello reddituale dei residenti. In molti casi, dunque, la partecipazione e il commoning non producono alcun effetto redistributivo; al contrario rafforzano le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza fra quartiere e quartiere. Ciò anche per effetto della capacità “naturale” della proprietà di assorbire le esternalità positive trasformandole in rendita: un parco pubblico più bello aumenterà ulteriormente il valore di mercato degli immobili privati circostanti tenendo ben lontani i gruppi sociali meno abbienti che non possono permettersi di acquistarli o prenderli in locazione. Il che dimostra una volta di più che le comunità non sono tutte uguali e la retorica comunitaria non è di per sé capace di innescare il cambiamento. Al contrario l’organizzazione delle comunità può talora dar luogo a nuove “recinzioni” dello spazio urbano favorendo l’omogeneità sociale al loro interno e disincentivando mobilità e scambi.

Il progetto trasformativo che sta dietro il pensare lo spazio urbano come bene comune trova invece rispondenza laddove l’attivismo sociale si traduca in azioni che si propongano come obiettivo la restituzione alla collettività di risorse urbane sottratte all’accesso pubblico e siano in grado di generare commons urbani aperti alla moltitudine delle singolarità a prescindere da legami di carattere proprietario o associativo, dunque risorse comuni capaci di redistribuire utilità, soddisfare bisogni essenziali e creare legami sociali oltre gli angusti confini del singolo comitato o della piccola comunità.

Infatti, le dinamiche redistributive fra aree urbane diverse possono innestarsi solo in una dimensione collettiva dinamica, fluida e inclusiva nella quale alla cura dei beni comuni corrisponda innanzitutto il riconoscimento del diritto di ognuno di non essere escluso nei confronti di amministrazioni locali, comunità e gruppi. Questa prospettiva può essere autenticamente promettente purché siano soddisfatte alcune condizioni: sia garantita l’effettività della partecipazione ai processi decisionali includendo tutti i possibili interessati; la produzione e distribuzione di welfare “dal basso” legata alla gestione dei beni comuni trovi riconoscimento sociale e possibilmente giuridico; sia preservata, infine, l’informalità delle occupazioni urbane e delle gestioni in comune ove ciò maggiormente convenga, e, per converso, sia data loro adeguata veste giuridica, ove vi siano le condizioni di fattibilità e opportunità.

Due “regole di chiusura” sono poste a salvaguardia dell’accesso e dell’uso dello spazio urbano a vantaggio di tutti: il rispetto dei diritti fondamentali di chi voglia abitarlo o attraversarlo, e la funzione sociale della proprietà che – come recita la Costituzione brasiliana – diventa funzione sociale della città stessa.

4. Beni comuni urbani e accesso alla giustizia: il ruolo della Clinica legale «Salute, Ambiente e Territorio»

La salvaguardia dei beni comuni e del carattere inclusivo dello spazio urbano deve fare i conti, a ben vedere, oltre che con gli intenti ‘esclusivi’ di certe politiche economiche e urbanistiche, anche con le difficoltà incontrate dai singoli e dalle comunità nell’avvicinarsi alla giustizia per rivendicare i loro diritti di accesso ed uso. Da una parte, tali diritti si collocano su terreni esplorati raramente dai professionisti del diritto e dagli amministratori pubblici, sottendendo istanze non distintamente ancorate agli istituti classici dell’ordinamento civile; dall’altra, la disomogeneità dei soggetti cui i diritti si riferiscono impedisce spesso una loro efficace difesa sul piano giuridico o sociale.

A questa e altre intrinseche difficoltà cerca di ovviare l’attività di un’istituzione come la Clinica legale[44] «Salute, Ambiente e Territorio» di Perugia, la quale ha – in questo unica nel panorama nazionale – fra gli scopi primari proprio quello di ampliare l’accesso alla giustizia in materia di commons urbani e rurali. Dopo una lunga fase di progettazione, la Clinica è stata introdotta nel curriculum del Corso di laurea magistrale in giurisprudenza nel 2013. Da allora si è confrontata con diversi casi concernenti il diritto di accesso su beni privati e la governance dello spazio urbano, fornendo articolati pareri giuridici ai propri clienti e talvolta contribuendo alla loro assistenza in giudizio. L’attività della clinica è votata alla collaborazione paritaria fra studenti e docenti e ad un approccio necessariamente interdisciplinare, laddove coinvolge competenze di natura privatistica, pubblicistica, comparatistica, amministrativistica e internazionalistica[45]. A voler riportare alcuni casi esemplari trattati dalla Clinica legale di Perugia, si può cominciare dalla richiesta di consulenza proveniente dal Comune di Umbertide e relativa alla disciplina delle strade vicinali, ovvero le strade di proprietà privata sottoposte ad un particolare regime di accesso pubblico. Il Comune si trovava a fare i conti con la crescente prassi, perpetuata da proprietari privati, di chiudere dette strade al libero accesso adducendo motivi legati alla sicurezza o alla perdita del carattere di vicinalità. La circostanza stava provocando gravi incomodi alla popolazione, impedendo l’accesso a fonti d’acqua o a siti di interesse storico-archeologico (su tutti una tomba etrusca) e mortificando anche la fruibilità turistica del territorio. La clinica ha dunque licenziato un parere che ben manifesta la sua propensione alla sperimentazione e la sua vicinanza al valore dell’inclusività. Partendo dalla già citata sentenza della Cassazione di Roma sul caso Villa Borghese (1887), gli studenti hanno ripercorso un iter – per lo più negletto dalla visione dominante – lungo il quale una parte della giurisprudenza e della dottrina ha costruito il diritto collettivo di accesso a taluni beni privati. Più in generale, poi, si è esaminata la genealogia del diritto di proprietà al fine di porne in rilievo la funzione sociale, i limiti e il rapporto con i diritti fondamentali, guardando allo ius excludendi non più come valore assoluto collegato alla proprietà, ma bensì come una facoltà dominicale a intensità variabile. Soddisfatto per la consulenza ricevuta, il Comune di Umbertide è tornato a chiedere il supporto giuridico della Clinica anche nell’anno corrente, questa volta in relazione agli usi civici del fungatico e del tartufatico e alla possibilità per i privati di limitarne la prosecuzione. Nel 2015 la Clinica legale ha avuto l’opportunità di cimentarsi anche nella produzione di un draft normativo, allorché la Commissione permanente Affari istituzionali del Consiglio comunale di Perugia le ha chiesto di contribuire alla stesura del Regolamento comunale sui Beni Comuni.

Il gruppo incaricato si è dato come obiettivo quello di affiancare ad una virtuosa imitazione dei regolamenti già approvati da altri Comuni (in particolare Bologna, Siena, Ivrea, Chieri e Orvieto), alcuni elementi di originalità necessari ad un maggiore ancoraggio alle peculiarità della città di Perugia, sede universitaria nonché notabile borgo medievale. L’impegno del gruppo di lavoro ha voluto attribuire particolare valore (e legittimazione) a quelle “pratiche del comune” con cui i cittadini, dal basso, difendono il patrimonio infrastrutturale, naturalistico e culturale del proprio territorio, in ciò identificando un elemento costitutivo dei propri diritti fondamentali e sociali. Per fare ciò gli studenti hanno approfondito le problematiche relative allo spazio urbano e le norme nazionali e internazionali relative alla gestione e alla tutela dei beni culturali.

In linea con la volontà del cliente, la proposta finale ha dunque tenuto conto dell’esigenza di favorire una più attiva partecipazione dei cittadini alla gestione e alla fruizione dei beni comuni urbani, anche prendendo a modello alcuni testi normativi particolarmente avanzati in fatto di democrazia partecipativa. Si sono dunque disciplinate, in definitiva, le proposte di collaborazione dei cittadini alla gestione, alla cura e alla valorizzazione dei beni comuni e degli spazi pubblici.

La proposta di Regolamento è stata presentata da alcuni componenti della Law clinic in una seduta speciale della commissione Affari istituzionali del Consiglio comunale di Perugia, ed è attualmente nel suo iter di approvazione.

È ancora del 2015 il parere che la Clinica legale ha prodotto, su richiesta del Sindaco di Perugia, riguardo la possibilità di porre in essere interventi di sostegno al diritto all’abitare tramite il recupero di immobili di proprietà pubblica. In generale, il Sindaco lamentava l’aggravarsi dell’emergenza abitativa nel capoluogo umbro, causa di una crescente tensione sociale fra quegli strati di popolazione che non riescono né a sostenere i costi del mercato privato né ad accedere all’edilizia residenziale pubblica. Nel documento finale, particolarmente elaborato, la Clinica ha allora prospettato sia interventi da attuare nel breve periodo (illustrando le caratteristiche tecnico-giuridiche di congegni quali Social housing, Sponsorizzazione e Albergo diffuso) sia soluzioni di medio e lungo periodo (tra cui gli strumenti del Community Land Trust e delle Limited Equity Coop).

Il tema dello spazio urbano come bene comune, infine, è emerso prepotente nel delicato caso riguardante la Piazza Nuccitelli Persiani, sita nel noto quartiere Pigneto di Roma. In tale circostanza la Clinica legale sta provando ad affiancarsi alle rivendicazioni di un comitato di quartiere impegnato a scongiurare l’ennesima apertura (stavolta nel vero cuore della piazza) di un esercizio commerciale di somministrazione di alimenti e bevande. L’iniziativa imprenditoriale, infatti, rischia di compromettere l’effettiva e piena fruibilità della Piazza da parte dei residenti, i quali, già da anni, si fanno carico della gestione e della manutenzione dell’area urbana, organizzandovi tra l’altro numerose attività di aggregazione sociale.

La resistenza alla gentrification, la tutela contro le immissioni e il doveroso contingentamento delle licenze sono allora fra gli argomenti che la Clinica sta utilizzando per incoraggiare un più equo bilanciamento fra libertà di impresa e diritto alla città, e quindi diritto alla tutela di quei (già limitati) spazi urbani accessibili dal cittadino in maniera non condizionata dall’obbligo del consumo o del soddisfacimento di standard di natura censitaria.

Se la Clinica legale «Salute, Ambiente e Territorio» si inserisce fra gli attori che, per nulla senza difficoltà, cercano di ridisegnare la gestione e la fruizione degli spazi per reagire alla crescente tendenza allo spossessamento, essa può ben essere considerata a sua volta un bene comune, impegnata com’è a diffondere il sapere giuridico oltre i suoi classici confini. La Clinica legale, così come sperimentata nelle esperienze ora descritte, attualizza la nozione di bene comune più aggiornata e militante proprio perché la sua funzione non sta semplicemente nel garantire l’uso e la gestione collettiva delle risorse immateriali che la individuano, ma redistribuisce quelle risorse al di fuori della comunità di riferimento, rafforzando o creando ex novo legami di solidarietà sociale (e politica) fra la comunità studentesca e gli attori sociali al di fuori di essa. L’attività delle cliniche legali da una parte redistribuisce potere sociale e simbolico consentendo a soggetti, in vario senso definiti marginali, di divenire attori sulla scena della giustizia; dall’altra crea vere e proprie forme di reddito indiretto e si iscrive nei processi di produzione di welfare dal basso attraverso cui prendono forma le istituzioni del comune.

[1] M.R. Marella, Introduzione. Per un diritto dei beni comuni, in M.R. Marella (a cura di), Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, Ombre corte, Verona, 2012, pp. 9-28; Ead., Beni comuni. Oltre l’opposizione natura/cultura in Lettera internazionale, 113/2012.

[2] Per es. T. Negri, Il recinto dei beni comuni, recensione a Oltre il pubblico e il privato, cit.,in Il manifesto, 14 aprile 2012 [può leggersi anche in www.ombrecorte.it/rass.asp?id=304, ultima visita 14 aprile 2016].

[3] Sulla “genesi” dei beni comuni v. infra e M.R. Marella, Bene comune. E beni comuni: le ragioni di una contrapposizione, in F. Zappino, L. Coccoli, M. Tabacchini, Genealogie del presente. Lessico politico per tempi interessanti, Mimesis, Milano-Udine, 2014, pp. 25-39.

[4] Così Du. Kennedy, Three Globalizations of Law and Legal Thoughts, in D. Trubek & A. Santos (eds.) The New Law and Economic Development. A Critical Appraisal, Cambridge: Cambridge University Press, 2006, pp. 19-73.

[5] Du. Kennedy, A Critique of Adjudication [fin de siècle], Harvard University Press, 1997.

[6] Cfr. ex multis F. Olsen, Constitutional Law: Feminist Critique of the Public/Private Distinction, 10 Const. Comment. 319 (1993), e per una sintesi, M. Albertson Fineman, Feminist Legal Theory, 13 J. Gender Soc. Pol’y & L. 13 (2005).

[7] P. Napoli, Indisponibilità, servizio pubblico, uso. Concetti orientativi su comune e beni comuni, in Politica & società, 2013, pp. 403, 408 ss.

[8] Jorge Esquirol, Titling and Untitled Housing in Panama City, 4 Tennessee Journal of Law & Policy (2014).

[9] Per una discussione A. Negri, Il diritto del comune, in A. Negri (G. Roggero cur.), Il comune in rivolta. Sul potere costituente delle lotte, Ombre corte, Verona, 2012, p. 144.

[10] Su cui è fondamentale l’approccio realista di Yan Thomas, Il valore delle cose, a cura di Michele Spanò, Quodlibet, Macerata, 2015 e le osservazioni di Paolo Napoli, op. cit., e Id., Un patrimonio che non appartiene a nessuno, ne L’Indice dei libri del mese, 1.11.2015.

[11] Classicamente P. Grossi, Un altro modo di possedere. L’emersione di forme alternative alla coscienza giuridica postunitaria, Giuffrè, Milano, 1977.

[12] Wesley N. Hohfeld, Some Fundamental Legal Conceptions as Applied in Judicial Reasoning, 23 Yale L.J. 16 (1913).

[13] Thomas C. Grey, The Disintegration of Property, in Liberty, Property and the Law, edited with introductions by Richard A. Epstein, 2000 e Du. Kennedy, Property as Fetish and Tool, file disponibile presso l’autore.

[14] Questa idea, ci ricorda Toni Negri (Il diritto del comune, cit., pp. 147 ss.), è già limpidamente presente in Pasukanis.

[15] Si veda amplius M.R.Marella, Introduzione. Per un diritto dei beni comuni, cit.

[16] Cfr. J. Boyle, The Second Enclosure Movement and the Construction of the Public Domain, Law and Contemporary Problems, Vol. 66, pp. 33-74, Winter-Spring 2003.

[17] Così C. Lévi Strauss (Tristi tropici, Milano, Il Saggiatore, 1965) citato da A. Petrillo, Ombre del comune: l’urbano fra produzione collettiva e spossessamento, in Oltre il pubblico e il privato, cit., p. 203.

[18] Cfr. M. Hardt e A. Negri, Commonwealth, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 2009, pp. 249 ss.

[19] Cfr. D. Harvey, Il capitalismo contro il diritto alla città, ombre corte, Verona, 2012.

[20] Quanto alle prime, declinarle in termini di beni comuni significa reclamarne la libera accessibilità su basi non discriminatorie. Le seconde, nella ricostruzione giuridica corrente, sono messe in relazione ai diritti sociali riconosciuti dalla Costituzione e tipici del welfare state: la sfida del definirle beni comuni sta nel reclamare per esse una gestione diversa, partecipata, soppiantando il modello tradizionale che vede l’ente pubblico erogatore del pubblico servizio e il cittadino/suddito portatore della pretesa alla prestazione. Per un approfondimento si consenta il rinvio a M.R. Marella, The Commons as a Legal Concept, 27 Law & Critique (2016), pp. 13 ss.

[21] Ma si consenta il rinvio a M.R. Marella, Introduzione. La difesa dell’urban commons, in M.R. Marella (cur.), Oltre il pubblico, cit., p. 185; F. Treggiari, Bene comune: la città medievale, ibidem, p. 222.

[22] Sheila Foster, Collective Action and the Urban Commons, 87 Notre Dame L.R. 57 (2011).

[23] Antonio Negri, Dalla fabbrica alla metropoli. Saggi politici, Datanews, 2008; M. Hardt & A. Negri, Commonwealth, cit.

[24] Giorgio Agamben, La città e la metropoli, in Posse, 2007. Cfr. anche A. Cavalletti, La città biopolitica. Mitologie della sicurezza, Bruno Mondadori, Milano, 2005; Roma disambientata, La metropoli come dispositivo, in M.R. Marella (cur.), Oltre il pubblico, cit., p. 242.

[25] D. Harvey, Rebel Cities. From the Right to the Cities to the Urban Revolution, London New York, Verso, 2012.

[26] A. Negri, opp. citt. alla nota 23.

[27] Per un approfondimento rinvio a M.R. Marella, The Commons as a Legal Concept, cit; Ead., Exploring the Limits of Property’s Sociability, Ombre corte, Verona, in corso di pubblicazione.

[28] V. note 16 e 17.

[29] In tema, di recente, A. Quarta, La polvere sotto il tappeto. Rendita fondiaria e accesso ai beni comuni dopo trent’anni di silenzio, in Rivista critica del diritto privato, 2013, p. 253.

[30] Cfr. E. Moises Peñalver, S. K. Katyal, Property Outlaws, 155 U. Pa. L. Rev. 1095 (2007).

[31] Questo almeno in principio. Le cose possono poi andare diversamente com’è avvenuto per il Municipio dei Beni comuni istituito presso l’ex Colorificio Toscano nel cuore di Pisa (cfr. Progetto Rebeldia (cur.), Rebelpainting. Beni comuni e spazi sociali: una creazione collettiva, !Rebeldia edizioni, s.d.), un caso di delocalizzazione di un’attività industriale, dismissione della fabbrica e abbandono del complesso immobiliare che si è tuttavia risolto nella tutela penale della proprietà. Sulla vicenda v. I giuristi per il colorificio, www.comunemente.unipg.it/index.php/materiali.html, ultima visita 11.04.2016.

[32] S. Rodotà, Postfazione. Beni comuni: una strategia globale contro lo human divide, in M.R. Marella (cur.), Oltre il pubblico, cit., p. 311.

[33] Cfr., diffusamente, A. Quarta, Non-proprietà. Teoria e prassi dell’accesso ai beni, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2016.

[34] Cfr. L. Francario, Le destinazioni della proprietà a tutela del paesaggio, Jovene, Napoli, 1986 e Sulla legittimità costituzionale di norme limitative dello jus excludendi del proprietario di fondi non chiusi, in Rivista Giuridica Ambientale, 1991, p. 481; G. Liotta, Profili dell’accesso nel diritto privato, Cedam, 1992 e da ultimo M. Ferrari, Proprietà e diritto ad essere inclusi, in Rivista critica del diritto privato, 2016, p. 525.

[35] Corte di cassazione di Roma, 9 marzo 1887, in Foro it., 1887,. I, p. 397. Nel caso di specie la Cassazione di Roma aveva proibito ai proprietari di Villa Borghese di chiudere i cancelli e impedire il passeggio ai cittadini, e quindi di porre fine a una plurisecolare tradizione di libero accesso.

[36] Si rimanda al sito ufficiale dell’Ex-Asilo Filangieri, www.exasilofilangieri.it.

[37] D. Harvey, Il capitalismo contro il diritto alla città. Neoliberalismo, urbanizzazione, resistenze, Ombre corte, Verona, 2012.

[38] Cfr. C. Serra, Le nostre città invase dal demone del cibo, 23/02/2017, http://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2017/02/23/news/le-nostre-citta-invase-dal-demone-del-cibo-1.295714, ultima visita 16/05/2017.

[39] Du. Kennedy, Property as Fetish and Tool, lecture at the conference This Land is Your Land: Remaking Property After Neoliberalism, 5/04/2017, reperibile in http://geo.coop/story/property-fetish-and-tool. Ultima visita 16/05/2017.

[40] A. Vercellone, Urban Commons e Modelli di Governo: Il Community Land Trust, in A. Quarta, M. Spanò (ed.), Beni Comuni 2.0. Controegemonia, Nuove Istituzioni, Mimesis, Milano, 2016.

[41] Du. Kennedy, The Limited Equity Coop model as a vehicle for affordable housing in a race and class divided society, Howard Law Journal Vol 46, n. 1, 2002.

[42] È il caso del progetto Eva, con il quale un gruppo di abitanti di Pescomaggiore, frazione de L’Aquila, ha realizzato un villaggio “autocostruito e autofinanziato” per gestire in maniera partecipata l’emergenza post-terremoto e consentire al maggior numero di persone di non abbandonare la propria terra (si rimanda al sito ufficiale del progetto: www.pescomaggiore.org/, ultima visita 16/05/2017).

[43] S. Foster, op.cit.; S. Foster, C. Iaione, The City as a Commons, 34 Yale L. & Pol’y Rev. 281, 2016, reperibile in SSRN: https://ssrn.com/abstract=2653084 o http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.2653084.

[44] Le cliniche legali sono istituzioni accademiche in cui studenti di diritto sono chiamati ad affiancare docenti e ricercatori nella risoluzione di casi reali. Lo scopo è arricchire l’esperienza formativa degli studenti e perseguire insieme valori di ordine sociale e ambientale.

[45] Per informazioni e materiali relativi alla Clinica legale «Salute, Ambiente e Territorio» si rimanda all’apposita sezione del sito web del Dipartimento di giurisprudenza di Perugia: www.giurisprudenza.unipg.it/didattica/cliniche-legali/law-clinic-salute-ambiente-e-territorio/35-generale/import/ricerca (ultima visita 17/05/17).