Magistratura democratica

Beni comuni, un lodevole vicolo cieco?

di Ermanno Vitale

Rappresenta la dottrina dei beni comuni – in tutte o in alcune delle sue distinte declinazioni – un’alternativa credibile, praticabile e desiderabile alla visione del mondo neoliberale oggi dominante? Oppure, sia pur mossa dalle migliori intenzioni, si tratta di una proposta teorica alla fine inconsistente, un esercizio di retorica che alimenta nostalgie e pericolose illusioni, senza peraltro neppure scalfire le pareti dell’edificio del capitalismo contemporaneo? La discussione mostra, di tanto in tanto, un corto circuito fra dimensione giuridica della ricerca intorno ai beni comuni e la proposta politica imperniata sui beni comuni.

L'Autore rilancia la riflessione di Luigi Ferrajoli, secondo cui quel che occorre non è l’andare a cercare il comune in un mitico oltre, oltre al pubblico e al privato, ma la riqualificazione del pubblico mediante una sua più rigorosa costituzionalizzazione

1. Lo stato d’animo con il quale scrivo questo breve saggio è ambivalente. Per un verso sono grato dell’invito a collaborare, e ne sono lusingato; per l’altro, con qualche imbarazzo mi chiedo che cosa possa ancora dire di minimamente originale, almeno come prospettiva dalla quale affrontare il tema, rispetto a quanto già proposto non solo in Contro i beni comuni ma anche in una serie di articoli successivi[1]. Forse un punto di partenza non ancora esperito – l’ultimo? – per dire le stesse cose ma in un altro modo è quello che consiste nel tentativo di illuminare meglio il possibile fraintendimento contenuto nel titolo del mio libro, soprattutto in quel «contro» che a prima vista fa pensare ad una condanna senza appello della dottrina dei beni comuni, quasi fosse un’eresia, da parte di un ortodosso fautore del neoliberalismo imperante.

Questo era il pegno da pagare – almeno così valutai di comune accordo con l’editore – per aumentare le possibilità che il variegato arcipelago “benecomunista” si sentisse intellettualmente provocato e accettasse quello che Bobbio avrebbe definito un «invito al colloquio». Debbo dire che l’obiettivo è stato raggiunto in buona misura, almeno a giudicare dagli inviti in tal senso ricevuti in tutta Italia da diversi gruppi e associazioni culturali che hanno sposato la suggestiva proposta teorica e politica dei beni comuni, anche se debbo aggiungere, con rammarico, che a evitare il confronto sono stati proprio gli esponenti di maggiore spicco di tale dottrina.

Chi ha voluto dialogare ha potuto agevolmente scoprire che sotto quel “titolo esca” si delineava una riflessione che, in primo luogo, condivide in buona misura con la dottrina dei beni comuni la critica al paradigma neoliberista e alla “privatizzazione del mondo” che subordina le potestà pubbliche ai poteri selvaggi del mercato e, in secondo luogo, avanza una serie di proposte finalizzate alla riduzione delle disuguaglianze e alla redistribuzione delle risorse che presuppongono la riqualificazione democratica dei processi decisionali e il rovesciamento della gerarchia che ora vede le dinamiche del mercato, in particolare dei mercati finanziari, soverchiare nettamente le forme di allocazione delle risorse via mano pubblica.

Alla fine ciò che propongo è un tentativo di sintesi, o magari solo di giustapposizione, delle analisi e delle indicazioni prescrittivo-normative cui sono giunti autori come Luigi Ferrajoli e Luciano Gallino, sulle quali ritornerò più avanti[2]. Pur nella articolazione delle posizioni, il vero avversario comune è – dovrebbe essere – la visione della società quale già adombrata da Platone descrivendo le caratteristiche del regime oligarchico: «Il fatto che una simile città risulta necessariamente non una ma due: l’una dei poveri, l’altra dei ricchi, che abitano nello stesso luogo, ma continuano a complottare gli uni contro gli altri» (Repubblica, 551d). E tra i primi a determinare grosso modo la proporzione di queste due città non troviamo il movimento altermondialista o Occupy Wall Street, o i report di Oxfam, bensì Gracco Babeuf che nel 1795 scrive: «Il commercio, dicono i suoi fautori, deve tutto vivificare […] Sì, ecco ciò che il commercio dovrebbe fare ma non fa. Esso deve arrecare nutrimento a tutti i suoi agenti, e deve farlo in modo uguale, ma lo fa assai inegualmente. Mi chiedo chi siano quei novantanove uomini mal vestiti su cento che incontro sia nelle nostre campagne sia nelle nostre città.»[3].

Se questa premessa è condivisibile, e condivisa, se è quest’analisi che ci spinge a cercare alternative che rovescino o correggano più o meno radicalmente quest’ordine sociale, economico, politico e giuridico, allora l’oggetto della nostra discussione si riassume nella seguente domanda: rappresenta la dottrina dei beni comuni – in tutte o in alcune delle sue distinte declinazioni – un’alternativa credibile, praticabile e desiderabile alla visione del mondo neoliberale oggi dominante? Oppure, sia pur mossa dalle migliori intenzioni, si tratta di una proposta teorica alla fine inconsistente, un esercizio di retorica che alimenta nostalgie e pericolose illusioni, senza peraltro neppure scalfire le pareti dell’edificio del capitalismo contemporaneo?

Questo è per me il nodo della questione. Non so se un giorno l’elaborazione teorica di tale dottrina produrrà risposte convincenti, se indicherà almeno i contorni di un modello di società alternativa da realizzare: quel giorno ne riparleremo volentieri. Per il momento, le versioni di “benecomunismo” che a mia conoscenza il dibattito ha prodotto non soddisfano i requisiti minimi richiesti dal metodo analitico, forse arido e poco adatto a suscitare emozioni e muovere all’azione ma piuttosto utile a separare il grano di una riflessione bene argomentata dalla pula di discorsi generici e contraddittori. Le quattro domande che ho posto nel mio piccolo libro restano, mi pare, ancora lì, sostanzialmente inevase. Che cosa siano i beni comuni, nel duplice senso di quale sia la loro definizione e dunque di quali “beni” si possa concretamente dire che sono “comuni”; a chi sono comuni quali beni comuni; chi li amministrerà; infine, se questa dottrina sia da considerarsi una forma di piena realizzazione o di necessario superamento del costituzionalismo dei diritti fondamentali, con particolare riferimento alla nostra Costituzione[4].

Ma lasciamo pure perdere la filosofia analitica e lo stile “bobbiano” e rammentiamo come affrontavano il tema della trasformazione dei rapporti socio-economici e politici coloro che sferrarono l’attacco più poderoso e temibile al capitalismo che finora si sia storicamente visto. Rilegga il lettore il Manifesto del Partito comunista di Marx e Engels e lo confronti non solo e non tanto con Un manifesto di Mattei quanto con tutta la riflessione attuale sui beni comuni[5]. Non soltanto sarebbe risibile dire della dottrina dei beni comuni ciò che a ragione gli autori potevano orgogliosamente dire del comunismo – uno spettro che si aggira per l’Europa e che è già riconosciuto come una potenza da tutte le potenze europee – ma risulta impietosamente evidente la diversa caratura dell’analisi storico-politica e soprattutto della capacità programmatica di indicare ai militanti la meta e le tappe per raggiungerla. Si pensi al giudizio storicamente lusinghiero, distaccato e privo di accuse moralistiche sul nemico di classe – «la borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria»[6] – e all’indicazione piuttosto precisa di dieci provvedimenti che nei Paesi più progrediti la classe proletaria dovrà prendere appena conquistato il potere: espropriazione della proprietà fondiaria, imposta fortemente progressiva, abolizione del diritto di successione, confisca della proprietà di tutti gli emigrati e ribelli, nazionalizzazione del sistema bancario e creditizio, così come di tutti i mezzi di trasporto, moltiplicazione delle fabbriche nazionali, uguale obbligo di lavoro per tutti, misure atte a eliminare gradualmente l’antagonismo tra città e campagna, istruzione pubblica e gratuita. A proposito di tutte queste misure si dice chiaramente che potranno essere prese, almeno in un primo momento, «solo mediante interventi dispotici nel diritto di proprietà e nei rapporti borghesi di produzione»[7]. L’importanza di definire quanto più concretamente e dettagliatamente possibile i modi cui si dovrà realizzare la fase transitoria definita “dittatura del proletariato” continuerà a essere ben presente a Marx, per esempio nella Critica al programma di Gotha (1875). Fino a che punto abbattere lo stato borghese e come sostituire burocrazia e ministeri con una “nuova macchina”, ovvero con la forma organizzativa dello Stato proletario che dovrà preparare le condizioni per l’avvento della società senza Stato sarà in seguito uno dei temi dominanti, se non il vero e proprio leit motiv, sia del confronto interno al marxismo sia della discussione con le altre forme di socialismo e con il pensiero anarchico[8].

Avendo come stella polare – scegliete voi – o il metodo bobbiano o la chiarezza e la capacità diagnostica e propositiva del Manifesto del 1848, o tutti e due, indipendentemente dalla condivisione o meno delle idee che propugnano, vengo dunque al dibattito italiano sui beni comuni, sul quale, anche per ragioni di spazio, preferisco concentrarmi. Mi basta qui ricordare che la ricerca anglosassone sui commons, la cui principale esponente era l’economista Elinor Ostrom, si colloca placidamente all’interno del modello liberale e capitalista di società, limitandosi a affermare che, dandosi certe condizioni, i commons non sono una tragedia ma la miglior risposta per tutelare proprio l’ordine proprietario[9]. Esattamente il contrario di quegli studiosi italiani che per lo più interpretano i beni comuni come grimaldello della rivoluzione o comunque come strumento di riformismo radicale senza però dir nulla di preciso su come immaginano tale percorso, rivoluzionario o riformistico che sia.

Fatta questa precisazione, proverò a ricostruire e analizzare quattro posizioni che considero oggi significative nella discussione nostrana sui beni comuni. La prima, di impianto filosofico, è quella riconducibile al terzo volume della trilogia scritta da Antonio Negri con Michael Hardt, intitolata Comune. Oltre il privato e il pubblico[10]; la seconda, di matrice prevalentemente giusromanistica, fa capo ai saggi di Paolo Maddalena, e in particolare al volume Il territorio bene comune degli italiani. Proprietà collettiva, proprietà privata e interesse pubblico[11]; la terza, a cavallo tra diritto privato e costituzionale, trova espressione soprattutto in vari contributi di Stefano Rodotà; infine la quarta, che si colloca all’interno di un’ampia riflessione di filosofia e teoria generale del diritto, si incontra nell’opera di Luigi Ferrajoli.

L’ordine di quest’elenco è assiologico: parto dalla posizione che ritengo a me più estranea per concludere con la proposta nella quale, a grandi linee, mi riconosco. Una posizione non propriamente “benecomunista” ma che, come vedremo, riconosce la categoria dei beni comuni assegnandole un ruolo importante ma ben circoscritto in un progetto normativo di teoria del diritto e della democrazia assai più articolato e ambizioso. Una posizione che, a mio avviso, andrebbe utilmente integrata, soprattutto per gli aspetti socio-economici, con le riflessioni e le proposte che ci ha lasciato Luciano Gallino.

 

2. La prefazione del libro di Hardt e Negri s’intitola Il divenire Principe della moltitudine. Basterebbe questo titolo per comprendere che il tentativo è quello di costruire un progetto alternativo, articolando «un’etica dell’azione politica democratica all’interno e contro l’Impero»[12], che al tempo stesso richiama e critica quel progetto di palingenesi sociale proprio della tradizione comunista, e di Gramsci in particolare. In luogo della classe, del proletariato, e del partito che come “Principe” la organizza allo scopo della conquista del potere, abbattendo il capitalismo e la classe dominante che vi corrisponde, la borghesia, abbiamo ora il nuovo soggetto rivoluzionario costituito dalla “moltitudine” che si dovrà organizzare per rovesciare l’Impero, ossia quell’insieme di istituzioni economiche e politiche globali che disciplinano in modo ferreo un mondo caratterizzato da «guerra, sofferenza, miseria e sfruttamento»[13].

Mentre il concetto marxiano di classe risulta tutto sommato chiaro, più problematico appare quello di moltitudine. Forse perché avvezzi a associarlo semanticamente a quello di folla, di insieme appunto contingente e non organizzato di individui che, se vuole agire politicamente, deve darsi istituzioni capaci di esprimere una volontà collettiva (per esempio, la moltitudo hobbesiana che si trasforma in società civile mediante il patto di unione), l’idea di affidare la rivoluzione alla moltitudine ci suona inconsueta, a dirla tutta improbabile. In effetti è difficile incontrare in Comune di Hardt e Negri una definizione chiara di moltitudine: si intende tuttavia che si tratta della moltitudine dei poveri, delle classi subalterne nelle loro differenti espressioni, dei precari, dei migranti, degli esclusi a vario titolo «dall’ordine della proprietà»[14]. Ma si tratta, come ben sapeva già Marx, di forme di subalternità estremamente diversificate, spesso non solo distinte ma anche opposte. Il proletariato degli stracci stava con Napoleone III, non con la rivoluzione. E se si afferma che la ricomposizione delle moltitudini degli oppressi «è sempre stato il compito della lotta di classe»[15], ciò significa ammettere la indeterminatezza della moltitudine come soggetto politico rivoluzionario.

Ma come si fa una rivoluzione senza la classe come soggetto politico e il partito come suo strumento? Qui entrano in scena i beni comuni: «La democrazia della moltitudine è concepibile e possibile nella misura in cui tutti condividono e partecipano insieme al comune. Con il termine “comune” intendiamo, in primo luogo, la ricchezza comune del mondo materiale – l’aria, l’acqua, i frutti della terra e tutti i doni della natura – che nei testi classici del pensiero politico occidentale è sovente caratterizzata come l’eredità di tutta l’umanità da condividere insieme. Per comune si deve intendere, con maggior precisione, tutto ciò che si ricava dalla produzione sociale, che è necessario per l’interazione sociale e per la prosecuzione della produzione, come le conoscenze, i linguaggi, i codici, l’informazione, gli affetti e così via»[16]. Il processo di privatizzazione del comune sostenuto dalle politiche neoliberiste – in verità, direi innanzitutto di privatizzazione del pubblico – non si contrasta mediante «la regolazione pubblica e un governo dell’economia di tipo keynesiano e/o socialista», perché capitalismo e socialismo «sono entrambi dei regimi di proprietà che escludono il comune», mentre solo un progetto politico di «istituzione del comune»[17], né privato né pubblico, e pertanto né capitalista né socialista, può aprire un nuovo spazio alla politica, salvando l’umanità dalla corruzione morale e dalle molteplici catastrofi che ne conseguono proprio grazie alla trasformazione in potere di quella capacità di pensare forme di vita innovative, incentrate sul “comune”, generata dal binomio valoriale povertà e amore che caratterizza la moltitudine.

Sono consapevole che, nel tentativo di restituire una sintesi del pensiero di Hardt e Negri, si corre il forte rischio di farne involontariamente la caricatura. Ma questo rischio dipende in buona misura dal linguaggio infiammato di retorica rivoluzionaria di cui fanno uso, e che francamente in qualche passaggio sconfina nello sprezzo del ridicolo. Delle istituzioni del mondo nuovo – o vecchissimo, temo – innervato dal “comune” nulla si dice, non v’è traccia di quel disegno costituzionale che caratterizza anche le utopie più ardite, a partire dalla Repubblica platonica. E pare troppo comodo cavarsela affermando che sarà la stessa moltitudine, cammin facendo, a disegnare queste istituzioni, le istituzioni che produrranno la gestione democraticamente partecipata del “comune” da parte della “moltitudine”. Da questo stile di pensiero, ancor prima che dai suoi contenuti, credo debbano prendere le distanze tutti coloro che in buona fede si battono faticosamente contro la “privatizzazione del mondo”, contro le politiche neoliberiste e neocoloniali che in effetti continuano a generare guerra, sofferenza, miseria e sfruttamento.

 

3. Un altro modo di argomentare in favore dei beni comuni e di una limitazione severa della proprietà privata, tanto radicale quanto problematico, proviene da studiosi del diritto romano, nel quale si troverebbero elementi per affermare la precedenza storica della proprietà collettiva su quella privata. Una precedenza che diventa immediatamente non solo storica ma anche assiologica, nel senso che si dichiara subito che quella forma di organizzazione economica e sociale fondata sulla proprietà collettiva della terra andrebbe riscattata dall’oblio per diventare, ovviamente ripensata all’altezza dei nostri tempi, modello prescrittivo di una società futura meglio ordinata.

A questo proposito vorrei soffermarmi, sia pur brevemente, su un saggio di Paolo Maddalena, Per una teoria dei beni comuni, pubblicato su MicroMega, 9/2013[18], dove si anticipano i temi essenziali del già citato Il territorio bene comune degli italiani. Scelgo questo testo per una ragione molto semplice: mi pare più esplicito e diretto del libro, quindi più utile a definire in silhouette la “teoria” proposta di Maddalena. Incrociando diritto romano e lo Schmitt del Nomos della terra, egli afferma: «fin dalle origini […] si parlò del “rapporto di appartenenza” del territorio al popolo, e cioè di una “proprietà collettiva” che è insita nella “somma dei poteri sovrani” spettanti al popolo. Né si può tacere che questo tipo di appartenenza ebbe per i romani qualcosa di sacro, se è vero com’è vero che si giunse ad affermare che “pulcrum est pro patria mori”, è bello morire per la patria». A quanto pare fu Numa Pompilio a creare una prima divisione tra ager compascuus, di proprietà e uso comune, e piccole porzioni di terra cedute ai patres familiarum, porzioni pari a mezzo ettaro e quindi strettamente limitate al soddisfacimento delle necessità familiari.

In questa prospettiva, continua Maddalena, «occorre tener presente che “l’originaria appartenenza del territorio al popolo” a titolo di “sovranità” non viene meno con la “cessione” a singoli o a un ente pubblico della “proprietà privata”. In altri termini, la storia dimostra che sulla proprietà privata insiste quella che Carl Schmitt definisce la “superproprietà” del popolo, nel senso che il popolo come ha “ceduto” la proprietà privata così può riacquistarla. Si tratta, in sostanza, della distinzione medievale tra “dominium eminens” e “dominium utile”, la quale assicurava al re la “preminente” titolarità di tutto il territorio».

Penso di intuire, o almeno così mi pare, le ragioni che muovono Maddalena a recuperare questi concetti. Essi sfociano nel tentativo di dare nuova vita a quegli articoli, oggi abbondantemente negletti, della nostra Costituzione che vanno dal 41 al 46, intesi nel loro complesso a stabilire limiti alla proprietà privata e alla libera iniziativa che non debbono essere in contrasto con l’utilità sociale, così come a prevedere che parte dei mezzi di produzione possa essere riservata a comunità di utenti e lavoratori. Comprendo e condivido questo tentativo[19]. Mi domando però, ancora una volta, se in termini teorici, ma non solo, il prezzo da pagare che implica il percorso disegnato da Maddalena sia accettabile. Come non vedere che riferirsi a Schmitt, sia pure a quello “addomesticato” del dopoguerra, porta con sé l’irruzione nella modernità politica dell’organicismo, e della inquietante equazione nazionalistica «un popolo, una cultura, una terra, uno Stato»? Che in nome della “superproprietà” originaria di quel soggetto collettivo che chiamiamo “popolo” e della volontà sovrana che ne deriva (comunque espressa) si può arrivare a sopprimere non solo la proprietà privata ma anche tutto l’insieme dei diritti della persona e del cittadino? Che questa idealizzazione della volontà generale del popolo in quanto espressione di una intelligenza collettiva eticamente sana e incorruttibile è una sciocchezza, e non è affatto escluso che tale volontà produca decisioni ben diverse da quella auspicate da Maddalena riguardo alla gestione del territorio, alle questioni ambientali, ai temi dell’economia e della finanza ecc ecc.? Potrei continuare, ma il riassunto sta tutto il quel «pulcrum est pro patria mori», che a me personalmente fa accapponare la pelle, perché è inequivocabilmente un motto che ha alimentato la retorica della destra (chi per la patria muor vissuto è assai). E mi risulta francamente imbarazzante contrastare la destra neoliberista con l’armamentario concettuale della destra reazionaria[20].

 

4. Aliena tanto dalle suggestioni medievali quanto da quelle dell’antica Roma è la riflessione sui beni comuni proposta da Stefano Rodotà. Pur preferendo non entrare in diretta polemica con quegli studiosi che in nome dei beni comuni ripropongono forme di organicismo politico, egli prende in tutta evidenza un’altra strada, quella del “costituzionalismo dei bisogni”. A partire dalla considerazione di alcuni bisogni elementari della persona – accesso libero all’acqua, al cibo, ai farmaci, a internet come mezzo di conoscenza e comunicazione – si definiscono i diritti fondamentali corrispondenti, diritti che sottraggono questi beni alla logica proprietaria e del profitto e li caratterizzano come beni comuni. In altri termini, si tratta di stilare una lista, non fissa ma storicamente variabile, di beni comuni in quanto beni pubblici prioritari, mediante i quali sia possibile agire per superare lo spaventoso human divide prodotto dal mercato globale, ovvero dotando la battaglia in favore della riduzione delle disuguaglianze dello strumento giuridico consistente nel riconoscimento di alcuni beni come comuni. Questa impostazione produce almeno due conseguenze degne di rilievo. In primo luogo, se questo è il quadro teorico, l’andare oltre il pubblico e il privato diventa un falso problema, perché i beni comuni stanno accanto ai beni pubblici e a quelli privati come tertium genus: un genus che appare piuttosto un “sotto-genere”, una specie di beni pubblici strettamente vincolata al soddisfacimento di bisogni elementari della persona e dunque alla garanzia concreta ed immediata dei diritti fondamentali che corrispondono a tali bisogni. In questo senso, pur essendo ammissibile e financo favorita la gestione di alcuni beni comuni nella forma della “comunità di utenti” e similari, ovvero mediante la partecipazione attiva di associazioni di cittadini, l’ultima parola nelle decisioni di indirizzo e in caso di controversie spetta pur sempre ai regolatori pubblici, con buona pace delle moltitudini e dei Quirites.

In secondo luogo, Rodotà ha ben presente il pericolo di porre in un unico sacco – quello indistinto dei beni comuni – beni strutturalmente diversi, e come tali da tener distinti in quanto alla loro gestione: «Se, per esempio, si considera la conoscenza in rete, uno dei temi centrali della discussione, ci si avvede subito della sua specificità. Gallino ne ha giustamente parlato come di un bene pubblico globale. Ma proprio questa sua globalità rende problematico, o improponibile, uno schema istituzionale di gestione che faccia capo a una comunità di utenti, cosa necessaria e possibile in altri casi. Come si estrae questa comunità dai miliardi di soggetti che costituiscono il popolo di internet?»[21]. Si affaccia così la necessità di distinguere e di evitare la retorica dei beni comuni, predisponendosi a un «lavoro di analisi e di ricomposizione» che porti a «esaminare in forme differenziate il rapporto tra accesso e gestione, dunque lo stesso significato della partecipazione»[22]. Un lungo lavoro, par di capire, dentro e fuori il perimetro del diritto, che permetta di regolare efficacemente iuxta propria principia diverse tipologie di beni comuni.

Eppure quella stessa retorica dei beni comuni dalla quale Rodotà intende prendere le distanze pare spesso afferrarlo e avere la meglio sui propositi di analisi, classificazione, ricomposizione. Per dirlo chiaro: si avverte, di tanto in tanto, un corto circuito fra dimensione giuridica della ricerca intorno ai beni comuni e la proposta politica imperniata sui beni comuni. Mi limito a un paio di esempi. Dopo aver chiaramente connesso la nozione di bene comune al soddisfacimento dei diritti fondamentali della persona, rifiutando di ipostatizzare e personificare la “Natura” come titolare di diritti, Rodotà scrive: «ma i beni comuni si distendono pure in una dimensione più larga dove, accanto al riferimento ai diritti fondamentali, compare quello riguardante un governo del cambiamento inteso come salvaguardia dell’ecosistema e della stessa sopravvivenza dell’umanità. Anche qui, evidentemente, compaiono diritti, come quello alla tutela dell’ambiente, e soggetti ai quali sono riferibili – l’umanità, le generazioni future»[23]. Per quanto abbia a cuore la salvaguardia dell’ecosistema, non posso rinunciare a chiedermi quale sia, fuor di retorica, la differenza tra la Natura e l’Umanità, o le generazioni future, come soggetto titolare di diritti.

Ancora più evidente è l’uso politico dei famosi referendum sulla gestione pubblica dell’acqua del giugno 2011. A me pare che collegare le vere e proprie guerre per l’acqua già in corso in diverse aree del pianeta e il rischio concreto di sete per le persone e di difficoltà per l’uso agricolo e industriale anche in Italia all’esito del voto nei nostri referendum – «ventisette milioni di italiani hanno detto sì in un referendum contro la privatizzazione dell’acqua, che veniva così collocata nella dimensione dei beni comuni»[24] – sia appunto un esercizio di retorica e non di rigore teorico e chiarificazione concettuale. Supporre una così alta consapevolezza di tali questioni in ventisette milioni di elettori è veramente un azzardo argomentativo. Sarebbe come credere davvero che il 4 dicembre tutti i no al referendum costituzionale fossero motivati dalla condivisione delle ragioni espresse dai Comitati del No. Se così fosse, l’Italia sarebbe un Paese culturalmente e politicamente molto diverso, e molto migliore. Non voler neppur dubitare, almeno pubblicamente, che il risultato di quei referendum sull’acqua fosse probabilmente frutto di opinioni e convenienze legate più alla rozza materia che ai nobili ideali, si spiega, a mio giudizio, solo nella dimensione della lotta politica contingente, che spesso fa velo all’analisi spassionata e all’approfondimento teorico.

 

5. A mia conoscenza, l’invito a classificare e a distinguere, a trovare una possibile collocazione dei beni comuni nella teoria giuridica e negli ordinamenti positivi incontra una prima adeguata risposta nella riflessione di Luigi Ferrajoli. Egli osserva innanzitutto che la nozione di “beni comuni” rischia di essere al tempo stesso troppo estesa, comprendendo “cose” che non sono “beni”, e troppo ristretta, escludendo beni che sono essenziali, vitali, ma non sono affatto definibili come “comuni”. Di conseguenza, «sarà utile procedere a una ridefinizione del concetto di “beni comuni” depurata dai suoi usi retorici e quanto più possibile ancorata al lessico giuridico»[25]. Su questa via incontriamo innanzitutto l’art. 810 del nostro codice civile, per cui sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti. Certamente il codice civile conosce solo i beni patrimoniali, disponibili e esigibili, spettanti a ciascuno con esclusione degli altri, ma ciò non significa che non si possa distinguere, all’interno di quanto si definisce genericamente “bene”, due specie, e cioè i beni fondamentali e i beni patrimoniali: «i primi definibili come i beni che formano oggetto dei diritti fondamentali, i secondi come i beni che formano oggetto di diritti patrimoniali»[26].

In questo modo si crea una categoria, quella dei beni fondamentali, che comprende tutti quei beni che vanno ugualmente garantiti a tutti, perché vitali, e quindi in quanto tali da considerare fuori delle logiche mercantili, anzi in opposizione a queste ultime. Ma essere una categoria di beni non assoggettata alle logiche del mercato non significa ancora poterla qualificare di per sé come equivalente alla categoria dei “beni comuni”, che qualifica invece solo i beni «accessibili a tutti pro indiviso». La specie dei beni fondamentali deve a sua volta essere divisa in tre sottospecie, una sola delle quali merita la qualifica di “beni comuni”. Insomma, una classificazione analiticamente appropriata distinguerà i beni fondamentali nel seguente modo: «in primo luogo, i beni comuni, cioè le res communes omnium, il cui uso o accesso alle quali è vitale per tutte le persone e che formano perciò l’oggetto di diritti fondamentali di libertà di uso o godimento; in secondo luogo, quelli che possiamo chiamare beni personalissimi, come sono le parti del corpo umano, che formano l’oggetto di diritti fondamentali di immunità, cioè di libertà da lesioni, incluse quelle provenienti da atti di disposizione; in terzo luogo, quelli che possiamo chiamare beni sociali perché oggetto dei diritti fondamentali sociali alla salute e alla sussistenza, come i farmaci salva-vita e gli alimenti di base»[27]. Da queste distinzioni dipendono, infine, le diverse tecniche di garanzia da approntare per le tre sottospecie di beni fondamentali così delineate.

Alla luce di questa classificazione, un duro colpo viene inferto alla retorica “benecomunista”. Infatti l’acqua, osserva Ferrajoli, non può essere propriamente definita un bene comune: «L’acqua potabile non è più, di fatto, un bene solo naturale, né tanto meno un bene comune naturalmente accessibile a tutti. Più di un miliardo di persone non hanno la possibilità di accedervi e per questo milioni di persone muoiono ogni anno»[28]. L’acqua è divenuta un bene scarso, e si cerca di trasformarla – paradossalmente, ma fino a un certo punto, se si guarda alla questione dall’angolo visuale del profitto – in un bene patrimoniale. È qui che dovrebbero intervenire le tecniche di garanzia atte a sottrarre al mercato quel bene fondamentale che è l’acqua, da considerare “un bene pubblico” sottoposto a vincoli quali l’obbligo della distribuzione gratuita a tutti nella misura necessaria a minimi vitali, la definizione di limiti massimi di consumo e la tassazione su basi progressive dei consumi compresi tra il limite minimo e massimo.

Più in generale, ciò che Ferrajoli rivendica non è l’andare a cercare il comune in un mitico oltre, oltre al pubblico e al privato, una ricerca che rischia – questa volta sì paradossalmente – di consegnare ulteriori spazi e porzioni di beni pubblici alla logica di un privato “politicizzato” che riveste i panni del “comune”, ma la riqualificazione del pubblico mediante una sua più rigorosa costituzionalizzazione: «Riconoscere e garantire determinati beni vitali come fondamentali vuol dire sottrarli alla disponibilità della politica e del mercato e renderli accessibili a tutti. E questo si può fare soltanto con la loro stipulazione come beni costituzionali, cioè previsti come fondamentali da Costituzioni rigide: garantiti da immunità, cioè dal divieto di mercificazione, ove di tratti di beni comuni o di beni personalissimi, e dall’obbligo della loro prestazione gratuita, ove si tratti di beni sociali. Assistiamo invece, anziché a un allargamento della sfera pubblica, al suo restringimento e smantellamento. Si pensi alla vendita di beni demaniali e alla privatizzazione di essenziali servizi e funzioni pubbliche, affidate a privati e inevitabilmente mercificate»[29].

 

6. Far sparire il mercato con un colpo di bacchetta magica o ridurlo a mera residualità, come vorrebbe il “benecomunismo rivoluzionario”, appare oggi una prospettiva assai difficilmente praticabile e forse neppure desiderabile, perlomeno guardando agli esiti delle società che si sono ispirate alle dottrine egualitarie. Per nulla facile ma in qualche modo percorribile appare la via dell’incivilimento del capitalismo finanziario proposta da Gallino, che contribuisce a dare concretezza al quadro teorico disegnato da Ferrajoli mediante una ponderata mixis di beni fondamentali sottratti al mercato e di beni scambiati su mercati efficacemente ed effettivamente regolati, dove «efficacemente ed effettivamente regolati» significa non solo regolare efficacemente la concorrenza tra le imprese ma anche fissare limiti effettivi che configurino una reale responsabilità sociale delle imprese medesime. A proposito di incivilimento del capitalismo finanziario, è opportuno soffermarsi sulla domanda che Gallino fece di fronte alla grande crisi iniziata nell’estate 2007 – crisi i cui effetti sono tuttora in corso: dov’erano le regole e i regolatori, le istituzioni di controllo nazionali e sovrannazionali, che avrebbero dovuto intervenire tempestivamente per impedirla, o perlomeno per contenerne la portata? Molto semplicemente, quelle regole non c’erano più: non solo non erano state adeguate alla regolazione di una realtà economica e finanziaria globale che dagli anni Ottanta era significativamente mutata, ma erano state scientemente smantellate sia in Europa sia negli Usa dai fautori della deregolazione dei mercati. Tra costoro si possono contare i leader di quelle che furono le sinistre europee, affascinati, secondo Gallino, dalla «mitologia neoliberale o liberista»[30]. Dal punto di vista politico, sia detto qui di passaggio, si potrebbe muovere nei loro confronti l’accusa di alto tradimento nei confronti dei loro rappresentati. Guardando le cose da questo punto di vista, dall’(auto)affondamento di fine secolo della socialdemocrazia presa sul serio, occorre ammettere che, sotto il profilo critico, si sono dati buoni argomenti ai fautori del superamento sia del pubblico sia del privato, e a maggior ragione della loro “collusione”.

L’altra grande crisi, quella del ’29, aveva prodotto come reazione una serie di misure di controllo dei mercati finanziari che negli anni Ottanta vennero appunto smantellate. È esperienza di qualsiasi piccolo risparmiatore grosso modo cinquantenne l’irruzione, a partire dagli anni Novanta, nelle sue opzioni di investimento, assai caldeggiate da varie figure di promoter, di molteplici strumenti finanziari di enorme complessità e ad alto rischio che precedentemente erano riservati esclusivamente ai grandi investitori. In quegli anni non furono solo indebolite le vecchie regole: ne furono fatte di nuove e più complesse, che ponevano le attività finanziarie liberalizzate al riparo da eventuali contestazioni mosse da «qualche pignolo rappresentante della legge»[31], o da associazioni di risparmiatori, o magari da qualche istituzione concorrente. A fronte di tutto ciò, l’asimmetria di conoscenza e di informazione, oltre che di effettiva capacità di agire in giudizio, tra risparmiatori e lavoratori, da un lato, e grandi operatori finanziari, dall’altro, era ed è spaventosa.

Nell’improbo tentativo di incivilire il capitalismo, e di non lasciare che le regole siano scritte da Autorità di controllo che sono presidiate dai controllati, Gallino qualche proposta di regolazione del cosiddetto “finanzcapitalismo” l’aveva fatta. Per esempio, suggeriva di tornare a separare le banche di deposito e prestito da quelle d’investimento; di ridurre le dimensioni globali del sistema finanziario riconducendolo a funzione di servizio e sostegno dell’economia reale (narrow banking); di ridurre al contempo le dimensioni delle bank holding company; di ridurre drasticamente la finanza ombra, riportando in bilancio quanto è effettivamente detenuto dalle società finanziarie; di regolamentare in forma stringente il mercato dei derivati, riducendo gli scambi non registrati (Otc) e imponendo che le transazioni siano effettuate tramite piattaforme sottoposte a vigilanza; di vietare o limitare fortemente la cartolarizzazione dei crediti da parte delle banche, per non creare masse incontrollate di denaro; di cambiare le modalità di erogazione dei compensi dei manager e dei trader, che attualmente inducono all’irresponsabilità sociale delle attività economiche e finanziarie[32].

Sono proposte ispirate dalla convinzione che sia necessario intraprendere il percorso inverso, transitando nuovamente da forme di soft law a forme di hard law, e che ricondurre la finanza al suo ruolo di servizio dell’economia reale sia la premessa per affrontare la doppia crisi di lunga durata che ci attanaglia, quella di un sistema economico che sfrutta irresponsabilmente le risorse ambientali e pretende contraddittoriamente di vendere le proprie sempre più numerose merci generando al contempo disoccupazione e povertà strutturali. A me pare siano proposte condivisibili che ci impegnano a studiare a fondo questi meccanismi, senza abbandonarci a vuote tirate retoriche per il “comune” contro il pubblico e il privato. Questo impegno è premessa necessaria alla riaffermazione di una “pedagogia civile” che restituisca al lavoro e alla salvaguardia dell’ambiente la centralità che gli spetta all’interno dei rapporti economico-sociali.

Mi chiedo se tutti questi temi – senza dubbio complessi e magari noiosi nei loro tecnicismi ma meritevoli di analisi e sforzo conoscitivo se si vuole davvero contrastare efficacemente, almeno sul piano delle idee, il capitalismo contemporaneo – siano affrontati con competenza, in una dimensione sia qualitativa sia quantitativa, o di fatto risultino solo superficialmente presenti nella discussione intorno ai beni comuni. Mi chiedo insomma se e quando le lodevoli ma confuse, e talvolta nostalgiche, aspirazioni “benecomuniste” prenderanno la forma di una ragionevole utopia anziché di un vicolo cieco. Per il momento non resta che sospendere il giudizio.

[1] E. Vitale, Contro i beni comuni. Una critica illuminista, Laterza, Roma-Bari 2013. Quanto agli articoli, mi permetto di segnalare i due più recenti: Mercati selvaggi e palingenesi “benecomuniste”. Quale spazio per un liberalismo sociale? in Rivista della regolazione dei mercati, 1, 2016; Distinguendo. Un’applicazione alla dottrina dei beni comuni, in Diritto e società, 3, 2016.

[2] I parr. 2-5 del presente testo riprendono, con qualche modifica, i parr. 3-7 del saggio Distinguendo, cit.; il par. 6 corrisponde in parte al par. 4 del saggio Mercati selvaggi, cit.

[3] Lettera a C. Germain del 28 luglio 1795 in G. Babeuf, Il tribuno del popolo, Editori riuniti, Roma 1969, pp. 210-11.

[4] Cfr. Vitale, Contro i beni comuni, cit., pp. 32-35.

[5] Cfr. U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Bari-Roma, 2011.

[6] K. Marx, F. Engels, Il Manifesto del Partito Comunista, Einaudi, Torino 1998, p. 9.

[7] Ivi, p. 31.

[8] Cfr. soprattutto Lenin, Stato e rivoluzione, Editori Riuniti, Roma 1970.

[9] Cfr. E. Ostrom, Governare i beni collettivi, Marsilio, Venezia 2006. Basti vedere quali sono i classici che lei stessa elenca (p. 313) come autori di riferimento – Hobbes, Montesquieu, Hume, Smith, Hamilton, Tocqueville – per capire che non si tratta del parterre della rivoluzione.

[10] M. Hardt, A. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010.

[11] P. Maddalena, Il territorio bene comune degli italiani, introduzione di S. Settis, Donzelli, Roma 2014.

[12] Hardt, Negri, op.cit., p. 7

[13] Ibidem

[14] Ivi, p. 51.

[15] Ivi, p. 246.

[16] Ivi, pp. 7-8.

[17] Ivi, p. 9.

[18] Farò riferimento alla versione apparsa su MicroMega online in data 27/03/2014.

[19] Un percorso per certi versi analogo, che parte da alcune istituzioni di diritto romano per argomentare in favore della tutela dei beni comuni, si trova in A. Di Porto, Res in usu publico e ‘beni comuni’. Il nodo della tutela, Giappichelli, Torino, 2013.

[20] A proposito di una versione di quest’espressione, Bobbio risponde a Viroli che lo intervista sugli ideali repubblicani: «Stai attento con l’amor di patria; pensa al motto “dulce et decorum est pro patria mori”, ripetuto infinite volte e scritto sui frontoni degli edifici pubblici. Anche il fascismo parlava di patria, diceva che bisogna difendere la patria, che bisogna dar la vita per la patria» (N. Bobbio, M. Viroli, Dialogo intorno alla Repubblica, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 13).

[21] S. Rodotà, Mondo dei diritti, mondo dei beni in AA.VV., Tempo di beni comuni, cit., p. 121.

[22] Ivi, p. 120.

[23] Ivi, p. 127.

[24] Ivi, p . 117.

[25] L. Ferrajoli, Beni fondamentali in AA.VV., Tempo di beni comuni, cit., p. 141.

[26] Ibidem.

[27] Ivi, p. 142

[28] Ivi, p . 144.

[29] Ibidem.

[30] L. Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino, p. 69.

[31] Ivi, p. 73

[32] Cfr. L. Gallino, op. cit., in part. pp. 252-91.