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Sanitari: è possibile uno “scudo penale” più efficace dell’attuale?

di Nello Rossi
direttore di Questione Giustizia

Il recentissimo decreto legge Draghi introduce, adattandola alle operazioni di somministrazione dei vaccini anti-Covid, una scriminante analoga – ma non identica - a quella introdotta, nel 2017, dalla legge Gelli Bianco nell’ambito di una disciplina delle ipotesi di colpa medica che resta oggetto di molte critiche dei professionisti della sanità. E’ un dato positivo, ma per rispondere alle comprensibili preoccupazioni di medici ed infermieri occorre anche ricercare nuove soluzioni sul terreno del procedimento penale, prevedendo una prima linea di tutela dell’interesse collettivo del personale sanitario. 

1. Il problema

Il decreto legge 1 aprile 2021 n. 44 regola diversi aspetti della persistente emergenza epidemica nel nostro Paese e contiene, tra l’altro, una norma specificamente diretta a disciplinare il regime della “responsabilità sanitaria da somministrazione del vaccino anti SARS-CoV-2.”

L’art. 3 del decreto legge , subito denominato dalla stampa come “decreto Draghi”,  prevede al riguardo: «Per i fatti di cui agli articoli 589 e 590 del codice penale verificatisi a causa della somministrazione di un vaccino per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV -2, effettuata nel corso della campagna vaccinale straordinaria in attuazione del Piano di cui all’articolo 1, comma 457, della legge 30 dicembre 2020, n.178, la punibilità è esclusa quando l’uso del vaccino è conforme alle indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio emesso dalle competenti autorità e alle circolari pubblicate sul sito istituzionale del Ministero della salute relative alle attività di vaccinazione». 

In sostanza la norma introduce una scriminante, stabilendo che i sanitari incaricati delle somministrazioni non sono punibili per «i fatti di cui agli articoli 589 e 590 del codice penale» (omicidio colposo e lesioni colpose) ricollegabili alla somministrazione di uno dei vaccini autorizzati, tutte le volte che questi siano stati utilizzati  in conformità alle disposizioni emanate dal Ministero della salute ed alle indicazioni fornite nei provvedimenti autorizzativi dell’immissione in commercio dei vaccini stessi. 

Questo dunque lo “scudo penale”[1] offerto ai sanitari impegnati in una campagna di vaccinazione nella quale per una serie di ragioni – inedito carattere di massa, novità dei prodotti inoculati, indispensabile accelerazione impressa alle sperimentazioni, pur svolte secondo protocolli severi e rassicuranti – non possono essere completamente esclusi gravi o gravissimi eventi avversi come le lesioni o la morte delle persone vaccinate.[2]    

Si è di fronte - come qualcuno ha sostenuto – ad una norma superflua? Ed  è vero che essa si traduce nella mera ripetizione - con riguardo alle operazioni vaccinali - del regime generale della responsabilità penale degli esercenti la professione sanitaria già tracciato dalla legge 8 marzo 2017, n. 24, la c.d. legge Gelli Bianco? [3].

Come è noto, il regime generale di cui si parla è quello dettato dall’art. 6  della legge Gelli Bianco che ha introdotto nel codice penale l’articolo 590-sexies, concernente la responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario, prevedendo per i sanitari una peculiare scriminante  formulata nei seguenti termini: «Qualora l’evento (cioè la morte o le lesioni del paziente n.d.r.) si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto».

Ad avviso di chi scrive, il raffronto tra l’art. 3 del decreto legge Draghi – riferito alle sole operazioni di vaccinazione– e la disciplina di segno generale prevista dall’art. 6 della legge Gelli Bianco non autorizza a far ritenere inutile e superflua la recentissima disposizione concernente le vaccinazioni. 

E ciò per due distinte considerazioni. 

La prima è che, a ben guardare, le statuizioni del decreto legge Draghi offrono ai sanitari incaricati delle vaccinazioni una tutela più ampia ed incisiva di quella offerta dalla legge Gelli Bianco. 

Infatti, in ragione dell’estrema standardizzazione delle operazioni vaccinali e dell’esigenza che esse si svolgano con la maggiore rapidità possibile,  i sanitari saranno  liberati da responsabilità penale per gli eventi avversi per il solo fatto di aver seguito “le regole” - fissate dalle autorità sanitarie o dai produttori dei vaccini – senza che ad essi venga richiesta (come avviene per la legge Gelli) una specifica valutazione, all’atto delle vaccinazioni, dell’adeguatezza di tali regole ai casi concreti. 

In altri termini, la libera scelta compiuta da chi si sottopone alla vaccinazione e l’osservanza delle prescrizioni saranno sufficienti a conferire alla vaccinazione un carattere di piena liceità rendendo operativa la scriminante penale. [4]

Il secondo motivo per cui la disposizione dell’art. 3 del decreto legge Draghi non può ritenersi inutile è che essa mira ad assicurare la certezza del diritto, fugando ogni possibile equivoco sulla sussistenza della “scriminante” penale nella campagna di vaccinazione in atto ed indicandone con precisione gli estremi. 

In conclusione sul punto, siamo evidentemente di fronte a due norme - l’art. 590 sexies del codice penale e l’art. 3 del decreto legge Draghi- parallele per struttura e ratio, la seconda delle quali , grazie al suo più ristretto campo di applicazione costituito dalle sole operazioni vaccinali, introduce una scriminante più incisiva perché ancorata a condizioni specifiche e integralmente predeterminate. 

Resta però che il complessivo regime giuridico delineato dalla legge Gelli Bianco (e riproposto, nei termini di cui si è detto , in occasione della pandemia, dal decreto legge Draghi)  è da tempo oggetto di valutazioni critiche dei professionisti della sanità , che lo ritengono insufficiente , ed è fonte di non pochi attriti istituzionali nonché di tentativi di correzione[5].

Cerchiamo di esaminare più da vicino le ragioni dell’insoddisfazione e delle critiche e la natura degli attriti.  

 

2. Il dilemma

Da più parti si è sottolineato che le preoccupazioni dei sanitari si appuntano - più che sul regime di diritto sostanziale della responsabilità penale - sul procedimento penale che frequentemente si instaura a loro carico a seguito della morte o delle lesioni di un assistito. Con il corredo dell’iscrizione nel registro degli indagati e del successivo iter procedimentale e/o processuale.   

Sul piano del diritto sostanziale è evidente che i sanitari non possono aspirare ad un regime di immunità nei casi in cui eventi lesivi o fatali per i pazienti siano stati causati dalla loro imprudenza, negligenza o imperizia.[6]

Ed è altrettanto evidente che il regime di responsabilità è stato reso più lineare dalla espressa previsione della non punibilità delle condotte professionali che vengano dimostrate conformi ai canoni ufficiali ed alle buone pratiche clinico-assistenziali che risultino adeguate alle specificità del caso concreto.

La dimostrazione di essersi uniformati alle linee guida risultanti da atti normativi o alle buone pratiche dettate dalla scienza medica dovrebbe essere - in linea di principio e salve le indispensabili valutazioni delle peculiarità dei casi concreti- sufficiente a scagionare i sanitari da possibili accuse di imperizia, sottraendoli a più complesse e problematiche verifiche sul nesso di causalità tra i comportamenti tenuti e gli eventi lesivi. [7]

Ciò che però più preoccupa e spaventa i sanitari – perché li trasforma in parafulmini degli esiti infausti delle malattie e delle cure, inducendoli non di rado a rifugiarsi nella medicina difensiva, ortodossa anche a costo di essere inefficace – è l’inevitabilità, o quanto meno la difficile evitabilità, della loro iscrizione nel registro degli indagati e del successivo iter procedimentale, con tutto ciò che questo comporta in termini di spese, coinvolgimento personale e patemi d’animo.

In moltissimi casi, cioè, è l’avvio di procedimento penale il vero spauracchio, anche se questo,  a mesi o ad anni di distanza (a seconda di una richiesta di archiviazione o di un rinvio a giudizio) si concluderà con una pronuncia di assoluzione. 

Non sono certo mancati , in questi anni,  i tentativi di ridurre, temperare, circoscrivere  le pratiche di “iscrizioni” – frettolose, poco meditate o a troppo ampio raggio - effettuate sotto l’ombrello della formula omnicomprensiva dell’atto dovuto. 

Basterà menzionare al riguardo la circolare del 2 ottobre 2017, adottata dall’allora Procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone,[8] ed i molti consensi giustamente ricevuti dall’iniziativa. 

Nella circolare veniva opportunamente ricordato che «se è evidente la funzione di garanzia che riveste l’iscrizione all’interno del procedimento...la condizione di indagato è connotata altresì da aspetti innegabilmente negativi» giacché «dall’iscrizione - e dai fisiologici atti processuali che ne conseguono - si dispiegano per la persona indagata effetti pregiudizievoli non indifferenti, sia sotto il profilo professionale ( in particolare per i pubblici dipendenti ma non solo ) sia in termini di reputazione». Effetti pregiudizievoli – proseguiva la circolare – «diversi dal danno connesso alla notizia dell’iscrizione indebitamente o impropriamente propalata...e che sono riconducibili all’iscrizione in quanto tale». 

Di qui, sempre secondo la circolare, l’esigenza, per i magistrati del pubblico ministero, di abbandonare la «concezione formalistica imperniata sull’approccio ispirato ad una sorta di "favor inscriptionis"», criterio non formalizzato ed estraneo al sistema «e di assumere una più meditata responsabilità per le iscrizioni effettuate».   

Assolutamente condivisibile per la maggior parte dei procedimenti penali (si pensi in particolare a quelli per complessi reati economici ed amministrativi), questa impostazione lo è meno per i procedimenti che prevedono, fin dalle loro prime fasi, il compimento di atti irripetibili e segnatamente nei procedimenti per colpa medica . 

A dire il vero la circolare non mancava di esaminare anche questo particolare aspetto, giungendo però – almeno ad avviso di chi scrive – a conclusioni non del tutto persuasive.   

Con riguardo ai procedimenti per ipotesi di colpa medica il Procuratore della Repubblica di Roma scriveva: «in tali frangenti si verifica talora che, a malintesi fini di garanzia, nell’immediatezza di una denuncia per il resto di cui all’art. 590 sexies c.p. siano iscritti quali indagati numerosi operatori sanitari , così da consentirne la partecipazione all’atto irripetibile rappresentato dall’esame autoptico. Si tratta di un’opzione non condivisa da quest’ufficio e che confonde i presupposti con le conseguenze; sino a quando non vi siano indizi specifici in ordine alla condotta di questo o quell’operatore sanitario, non vi sono i presupposti perché alcuno di essi sia avvertito del compimento di atti irripetibili e in seguito, quindi, nessuno potrà validamente opporre di non essere stato iscritto e avvisato». (neretto del redattore). 

Ora, quest’ultimo passaggio del ragionamento - che si traduce nell’equazione "nessuna iscrizione, nessun diritto di partecipare all’accertamento tecnico irripetibile" - sembra connotato  proprio da quel formalismo che nella circolare si è giustamente inteso contrastare e risulta disarmonico rispetto alla lettera e ancor più alla ratio dell’art. 360 del codice di rito. 

L’equilibrata disciplina dettata dal codice di rito per regolare lo svolgimento degli accertamenti tecnici irripetibili è ispirata dalla consapevolezza che tali accertamenti possono rivelarsi decisivi nel corso del procedimento e del processo e che perciò non è opportuno che essi siano svolti «esclusivamente» dal consulente tecnico del pubblico ministero e – se nominato – del consulente tecnico della persona offesa. 

Non è un caso che le indicazioni della circolare romana abbiano ricevuto – in questa specifica sfera – consensi meno pieni e spontanei che in altri ambiti e che la prassi registri tuttora moltissime iscrizioni dei sanitari nel registro degli indagati, qualificate come altrettanti “atti dovuti” per ragioni di garanzia. 

E’ infatti proprio nei casi di colpa medica che il “dilemma” sui tempi e sui modi dell’iscrizione nel registro degli indagati si presenta in tutta la sua intatta problematicità. 

In tali casi, infatti, l’iscrizione può certamente costituire , per le ragioni sin qui ricordate,  un atto più o meno gravemente pregiudizievole da non compiere affrettatamente. 

Ma dalla mancata tempestiva iscrizione può derivare, in prospettiva, il pregiudizio ancora maggiore scaturente dalla mancata partecipazione dell’interessato ad una attività non più reiterabile e di regola molto rilevante per l’esito finale del procedimento penale. 

La verità è che il dilemma che si delinea nei casi di colpa medica tra opposte esigenze di garanzia non è risolubile nel quadro delle norme in vigore e sinché non vi sarà un intervento legislativo esso è destinato a generare scelte diverse ma tutte in qualche modo discutibili e foriere di effetti negativi. 

Solo il legislatore può dar vita ad una soluzione più equilibrata, magari utilizzando la sede della conversione in legge del decreto Draghi come occasione per sperimentare – in scala ridotta e temporalmente circoscritta all’emergenza Covid – un’opzione suscettibile, in seguito, di essere generalizzata a tutte le ipotesi di indagini ed accertamenti in materia di colpa medica

 

 3. Una possibile soluzione

In questo scritto si intende -  in termini problematici e con gli inevitabili limiti di una riflessione iniziale sull’argomento – indicare una ragionevole via d’uscita al “dilemma” prospettato. 

Via di uscita realizzabile promuovendo l’ingresso in campo, nella fase iniziale dei procedimenti penali e nel corso degli accertamenti tecnici irripetibili , di un consulente tecnico e di un difensore investiti del compito di rappresentare e tutelare (non gli interessi dei singoli operatori sanitari ma) l’interesse collettivo della categoria dei professionisti della sanità all’esecuzione migliore - perché svolta in contraddittorio -  di operazioni di accertamento tecnico non più replicabili successivamente.   

Il carattere stesso della proposta – incentrata sull’iter da seguire nei procedimenti per colpa medica  - impone di articolarne schematicamente i passaggi :  

a)    in presenza di fatti o atti (denunce, referti medici, querele) che rendano necessario l’avvio di indagini preliminari relative ad ipotesi di colpa medica , il pubblico ministero che debba compiere accertamenti tecnici irripetibili ai sensi dell’art. 360 c.p.p. - e in particolare  un’autopsia-  avrebbe facoltà di procrastinare l’iscrizione nel registro degli indagati delle persone potenzialmente responsabili (o indicate come tali in atti di parte). Per effetto di tale “facoltà” il pubblico ministero, nella fase antecedente allo svolgimento degli accertamenti, non sarebbe più tenuto a procedere  all’iscrizione di uno o più sanitari nel registro degli indagati, agli avvisi nei loro confronti previsti dall’art. 360, comma primo, c.p.p. ed alla nomina di un difensore d’ufficio ex art. 364, comma 2, del codice di rito; 

b)    in luogo di tali adempimenti il pubblico ministero dovrebbe avvisare, senza ritardo, gli Ordini professionali dei sanitari interessati e nominare – attingendo a rotazione da elenchi di professionisti unitariamente predisposti dagli Ordini stessi – un consulente tecnico tenuto a partecipare agli accertamenti tecnici irripetibili oltre  ad un difensore d’ufficio; soggetti, questi, portatori di competenze diverse che sarebbero chiamati a rappresentare e  tutelare  l’interesse collettivo dei professionisti della sanità al corretto svolgimento delle operazioni non replicabili ; 

c)     questa forma di tutela di un interesse collettivo – sempre fortemente presente nelle vicende di eventuale colpa medica – dovrebbe essere  solo “aggiuntiva” e non “sostitutiva” delle possibili difese individuali dei sanitari “interessati” agli esiti degli accertamenti. Questi ultimi, infatti, tempestivamente avvisati dai loro Ordini professionali degli accertamenti disposti, avrebbero comunque facoltà di chiedere al pubblico ministero di parteciparvi anche a titolo individuale, nominando un proprio consulente tecnico e un difensore di fiducia; 

d)     la decisione del pubblico ministero di “ammettere” o di “negare” tale forma di partecipazione individuale sarebbe adottata sulla base degli stessi criteri con i quali il pubblico ministero avrebbe effettuato le iscrizioni dei nominativi nel registro degli indagati ; con il corollario che, in caso di diniego, le risultanze degli accertamenti irripetibili non sarebbero utilizzabili nei confronti dei soggetti originariamente esclusi dalle operazioni tecniche e successivamente iscritti nel registro degli  indagati; 

e)    le spese derivanti da tale meccanismo - imperniato sull’intervento necessario di un consulente tecnico estratto dagli elenchi predisposti dagli Ordini e da un difensore di ufficio - dovrebbero essere fronteggiate attingendo da un Fondo pubblico inserito nel bilancio del Ministero della Giustizia o della Salute . 

 

4. Porre rimedio alla solitudine di medici ed infermieri

La previsione, da parte del legislatore,  di un siffatto modus procedendi, sortirebbe una pluralità di effetti positivi tanto per i sanitari quanto per il pubblico ministero procedente. 

I primi – quando abbiano sin dall’inizio della vicenda motivate ragioni di confidare nella correttezza del loro operato e nella infondatezza delle denunce nei loro confronti – potrebbero essere sollevati dall’onere (giuridico ed economico) di tutelarsi individualmente attraverso la nomina di un proprio consulente tecnico e di un proprio difensore, sapendo che l’interesse collettivo di categoria (e, di riflesso, anche  il loro interesse individuale)  sarà adeguatamente rappresentato nel corso degli accertamenti tecnici irripetibili. 

E ciò pur conservando, come si è detto, la facoltà di una piena partecipazione agli accertamenti tramite il proprio consulente e il proprio difensore e potendo invocare l’inutilizzabilità degli atti compiuti tutte le volte che il diniego opposto dal pubblico ministero alla richiesta di partecipazione individuale si dimostri ingiustificato per effetto di una successiva incriminazione. 

Dal canto suo il pubblico ministero potrebbe seguire un percorso più lineare di quello attuale, sottraendosi all’alternativa tra un’iscrizione frettolosa perché considerata “dovuta” - sempre dannosa anche se dettata da esigenze di garanzia - e una eventuale iscrizione ritardata, magari più meditata ma potenzialmente nociva per la persona iscritta nel registro degli indagati tutte le volte che gli accertamenti irripetibili siano stati compiuti in sua assenza. 

In termini più generali e di sistema, la riduzione del rischio dei sanitari di essere per così dire “aprioristicamente” coinvolti in procedimenti penali e nei relativi oneri economici potrebbe (dovrebbe ) tradursi in una riduzione dell’importo delle loro polizze assicurative , consentendo alle strutture sanitarie ed ai liberi professionisti di destinare modesti importi al Fondo (comunque cofinanziato da fondi pubblici)  tenuto a remunerare i tecnici incaricati del compito di rappresentanza e tutela dell’interesse collettivo della categoria dei sanitari.  

Più  che di uno “scudo penale” si tratterebbe di una sorta di “scudo procedimentale”,  in grado di tenere al riparo i sanitari tanto dal pregiudizio sociale sfavorevole che resta connesso – pur dopo tanti chiarimenti e smentite di magistrati e di giuristi – all’iscrizione nel registro degli indagati per una ipotesi di lesioni o di omicidio colposo quanto dall’onere di doversi necessariamente attivare per avere un minimo di tutela, ricorrendo a titolo individuale ad una consulenza tecnica e a una difesa giuridica.  

Lo schema sin qui sinteticamente tratteggiato avrebbe bisogno di essere specificato e completato nei dettagli – tutt’altro che marginali – riguardanti le modalità di finanziamento e di gestione del Fondo e i criteri di scelta e di nomina dei consulenti tecnici su base territoriale. 

Ma è difficile negare che dall’accoglimento della soluzione prospettata - e comunque dall’entrata in campo di tutori degli interessi collettivi di quanti operano nella sanità pubblica e privata – possa derivare una più matura gestione di una vicenda collettiva resa sempre più aspra e complicata dalla crescita esponenziale  delle denunce e degli  esposti nei confronti dei sanitari. 

All’acuirsi della sensibilità sociale sui temi della responsabilità degli operatori della salute farebbe riscontro una linea di legittima tutela di interessi collettivi di lavoratori che sono quotidianamente impegnati in attività ardue e rischiose e non meritano di essere lasciati soli ad affrontare gli effetti psicologici ed economici di un procedimento penale. 

Sarebbe un modo di porre rimedio alla solitudine nella quale medici e infermieri sono stati relegati in questi anni, spesso subendo uti singuli anche le conseguenze negative delle carenze e delle deficienze organizzative delle strutture nelle quali hanno operato. 


 
[1] L’espressione “scudo penale” è qui impiegata perché essa è ormai largamente invalsa nel dibattito pubblico relativo al regime di responsabilità sanitaria, divenendo una formula che riassume un vasto campo di problemi. Si tratta comunque di una formula tutt’altro che felice perché evocatrice di immagini di immunità o amnistia preventiva che hanno poco a che fare con la ricerca di un equilibrato regime di responsabilità sanitaria in grado di garantire il personale sanitario ed i cittadini assistiti.

[2] In tema di vaccinazioni va segnalata la recente sentenza n. 118 del 23.6.2020 (Pres.  Cartabia, Est. Zanon) che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge 25 febbraio 1992, n. 210 (Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni di emoderivati), nella parte in cui non prevede il diritto a un indennizzo, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla medesima legge, a favore di chiunque abbia riportato lesioni o infermità, da cui sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, a causa della vaccinazione (non obbligatoria ma raccomandata) contro il contagio dal virus dell’epatite A.  Nella decisione si legge tra l’altro che: «Nell'orizzonte epistemico della pratica medico-sanitaria, la distanza tra raccomandazione e obbligo è assai minore di quella che separa i due concetti nei rapporti giuridici. In ambito medico, raccomandare e prescrivere sono azioni percepite come egualmente doverose in vista di un determinato obiettivo. (Cfr. sentenze della Corte cost. n. 137 del 2019 e n. 5 del 2018). La previsione del diritto all'indennizzo - in conseguenza di patologie in rapporto causale con una vaccinazione obbligatoria o raccomandata - non deriva affatto da valutazioni negative sul grado di affidabilità medico-scientifica della somministrazione di vaccini. Al contrario, tale previsione completa il "patto di solidarietà" tra individuo e collettività in tema di tutela della salute e rende più serio e affidabile ogni programma sanitario volto alla diffusione dei trattamenti vaccinali, al fine della più ampia copertura della popolazione. (Cfr. le sentenze del giudice costituzionale n. 5 del 2018, n. 268 del 2017 e n. 107 del 2012)». 

[3] Sul regime della responsabilità sanitaria nella legge Gelli Bianco cfr.  L. Viola, La nuova responsabilità sanitaria (L. 8.3.2017, n. 24, Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie, in G.U. 17.3.2017, n. 64), Centro Studi Diritto Avanzato Edizioni, Milano, 2017; R. F. Iannone, La responsabilità medica dopo la riforma Gelli-Bianco – Legge 24/2017, Edizioni Ad Maiora, Roma; G. Ponzanelli, La responsabilità medica: dal primato della giurisprudenza alla disciplina legislativa, in Danno e responsabilità, 2016, 8-9/2016, Ipsoa, 816. Più in generale sui temi della causalità nella responsabilità penale vedi : F. Stella, Etica e razionalità del processo penale nella recente sentenza sulla causalità delle sezioni unite della Suprema Corte di Cassazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, p. 767, nonché Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, seconda edizione, Milano, 2000; G. Canzio, Prova scientifica, ragionamento probatorio e libero convincimento del giudice nel processo penale, in Dir. pen. e processo, 2003, p. 1193.; C. Brusco, La causalità nella responsabilità penale del medico, in Danno e responsabilità, 2007, n. 12, Ipsoa, p. 1209; G. Fiandaca, Causalità (rapporto di), voce Dig. Pen., III, 1988, p. 455.

[4] Di particolare interesse ai fini che qui interessano le considerazioni che seguono sul c.d. rischio consentito:  «il reato colposo, intessuto attorno alle regole cautelari, è impregnato della categoria del rischio consentito. Le regole sottendono, con variabile intensità, ponderazioni che riguardano, solitamente, l’utilità, la pericolosità dell’attività; nonché la disponibilità, il costo e l’efficacia dei rimedi cautelari disponibili: un farmaco può essere usato, nonostante vi sia il pericolo di effetti particolari, purché ciò avvenga nei limiti di accettabilità determinati dall’autorità di controllo. Le regolamentazioni che predefiniscono l’area del consentito assumono, talvolta, un’alta carica valoriale: richiedono difficili ponderazioni politiche di interessi e valori al lume della scienza disponibile. Se ne è parlato sopra, ricordando alcuni casi topici e l’insegnamento che attribuisce, con giustificata enfasi,  alla sfera pubblica le scelte valoriali di cui si discute: il singolo, si afferma, non può essere lasciato solo di fronte a scelte cruciali! (…). Le regole predefiniscono l’ambito di accettabilità di attività insanabilmente esposte ad incontrollabili eventi avversi. L’esito di tale assetto della regolamentazione è che, fermo lo stato delle conoscenze e degli strumenti cautelari, la disciplina legale determina ed esaurisce l’ambito di ciò che può essere chiesto al garante. Insomma, non v’è spazio per la pretesa di cautele aggiuntive. La colpa specifica è l’unica pertinente. (…) l’insieme dei principi e delle normazioni di cui si è dato conto rende chiaro che la temperie pandemica non lascia, nel nostro campo, spazio ragionevole all’azione penale, se non in casi marginali: causalità, colpa, rischio consentito, scudo legale ergono una barriera che scoraggia intraprese che disperano di essere fruttuose nell’ottica accusatoria. Tuttavia, la necessità di un intervento normativo che finisce con il sacramentare principi ben radicati nella dogmatica penalistica rende l’idea che, talvolta, la giurisprudenza esprime giudizi estremamente severi, anche umanamente irragionevoli, che generano serpeggianti timori. Insomma, lo scudo pandemico sembra recare un condivisibile ammonimento ad inverare nella prassi il principio della responsabilità personale colpevole» (R. Blaiotta, Diritto penale e sicurezza sul lavoro, Giappichelli, Torino, 2020, 114-115).

[5] Numerosi sono stati i tentativi di intervenire - con emendamenti legati alla eccezionale situazione generata dalla pandemia - sul regime della responsabilità sanitaria nella fase di conversione del decreto-legge n. 18/2020 (Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19).  Su questo tema si rinvia alle attente riflessioni svolte nell’articolo Decreto legge n. 18/2020: l’inserimento di norme sulla responsabilità sanitaria di G. Battarino ed E. Scoditti, in questa Rivista on line, del 3.4.2020. Gli autori, dopo aver sottolineato «le condizioni estreme in cui infermieri e medici sono costretti a operare e l’emergere di fenomeni deprecabili di promozione pubblicitaria di taluni studi legali per l’incentivazione di denunce e cause nei confronti dei sanitari che in questo periodo stanno soccorrendo e curando i malati di COVID-19: fenomeni che hanno portato a simmetriche censure da parte di Ordini professionali dei medici e degli avvocati e dello stesso Consiglio nazionale forense» sottopongono ad un accurato esame critico i diversi emendamenti presentati , giungendo alla conclusione che «L’ordinamento civile è pronto a recepire la pandemia ed i giudici hanno tutti gli strumenti per fare giustizia, senza la necessità di integrazioni» quali quelle ipotizzate «che potrebbero avere effetti diversi rispetto a quelli attesi». E, però, aggiungono gli autori dell’articolo «Se il legislatore reputa tuttavia politicamente opportuno inserire “uno scudo giuridico” per i medici...si potrebbe...immaginare la seguente disposizione: "Costituisce causa non imputabile ai sensi dell’art. 1218 del codice civile la sproporzione tra le risorse disponibili e il numero di pazienti, determinatasi nel corso dell’emergenza epidemiologica COVID-19 di cui alla delibera del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020, che abbia cagionato l’impossibilità di eseguire esattamente la prestazione sanitaria"», ponendo in luce come «l’effetto di tale disposizione sarebbe quello di precostituire ex lege il giudizio di non imputabilità della causa di impossibilità della prestazione. L’esistenza del requisito soggettivo della causa di esenzione dalla responsabilità risarcitoria sarebbe dunque prevista in via astratta e generale dalla norma. Resterebbe di competenza del giudice nella singola controversia l’accertamento dell’esistenza del requisito oggettivo, e cioè se la circostanza in discorso abbia nel concreto determinato l’impossibilità di rispettare le regole di diligenza professionale. Una disposizione di questo tipo, prevista per la responsabilità contrattuale, avrebbe poi inevitabili ricadute ermeneutiche sul contenuto della colpa nella responsabilità extracontrattuale (art. 2043), che dovrebbe essere interpretata in modo omogeneo alla colpa contrattuale disciplinata dall’art. 1218». Sul piano penalistico poi gli autori rilevano come gli emendamenti finalizzati ad una «riduzione dell’area di responsabilità alle condotte dolose e a quelle colpose consistite in “palese e ingiustificata violazione dei principi basilari” della professione o dei protocolli e programmi emergenziali rischia di convalidare l’idea che sia necessario e urgente garantire un’immunità rispetto a condotte colpose diffuse: come se, insomma, si dovesse virare verso uno stato di eccezione determinato dal fatto che infermieri e medici stiano in questo momento sistematicamente commettendo degli illeciti e che vadano “coperti”, rispetto a generali colpe professionali rispetto alle quali dovrebbero essere “dichiarati impuniti” con una sorta di amnistia preventiva». Inoltre «un intervento di diritto penale emergenziale di favore, configurato come una sospensione dei principi di responsabilità accuratamente costruiti dalla legge 8 marzo 2017, n. 24 (e dalla giurisprudenza civile e penale che l’ha sinora applicata)» risulterebbe di dubbia costituzionalità.

[6] Sul punto cfr. ancora l’articolo di G. Battarino e E. Scoditti, citato nella nota precedente.  

[7] G. Battarino, nello scritto Risposta all’emergenza sanitaria e triage. Appunti per una lettura penalistica, in questa Rivista on line, 26.3.2020, ricorda come su questa tematica sia intervenuta la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (Cass. SS.UU., 21 dicembre 2017, n. 8770) sottolineando l’utilità dell’introduzione delle linee-guida sia quale criterio di orientamento per il sanitario, a cui permettono di essere «oggi posto in grado di assumere in modo più efficiente ed appropriato che in passato, soprattutto in relazione alle attività maggiormente rischiose, le proprie determinazioni professionali» – sia sotto il profilo giuridico poiché rappresentano «una plausibile risposta alle istanze di maggiore determinatezza che riguardano le fattispecie colpose qui di interesse. Fattispecie che, nella prospettiva di vedere non posto in discussione il principio di tassatività del precetto, integrato da quello di prevedibilità del rimprovero e di prevenibilità della condotta colposa, hanno necessità di essere etero-integrate da fonti di rango secondario concernenti la disciplina delle cautele, delle prescrizioni, degli aspetti tecnici che in vario modo fondano il rimprovero soggettivo”; con la precisazione, tuttavia che si tratta non di “norme regolamentari che specificano quelle ordinarie senza potervi derogare, ma regole cautelari valide solo se adeguate rispetto all’obiettivo della migliore cura per lo specifico caso del paziente e implicanti, in ipotesi contraria, il dovere, da parte di tutta la catena degli operatori sanitari concretamente implicati, di discostarsene».

[8] Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma (N. 3225/17Prot.Gab.TAB. ) avente ad oggetto: Osservanza delle disposizioni relative all’iscrizione delle notizie di reato, Roma 2 ottobre 2017  https://www.questionegiustizia.it/data/doc/1436/la_circolare_della_procura_di_roma_n_3225_17.pdf  Sulla circolare cfr. il commento di Donatella Stasio https://www.questionegiustizia.it/articolo/no-a-iscrizioni-frettolose_pignatone-sfata-la-leggenda-dell-atto-dovuto_17-10-2017.php    

 

10/04/2021
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