Magistratura democratica
Magistratura e società

Ricordo di Alessandro Pizzorusso: "Mite, limpido e rigoroso"

di Livio Pepino
Presidente dell’Associazione studi giuridici Giuseppe Borré
Tre flash per rievocare il suo metodo di affrontare la realtà e l'attualità del suo approccio ai temi dell'amministrazione della giustizia

Quando se ne va un Maestro, diventato negli anni un amico, è difficile condensarne in poche battute (non già il pensiero ma) anche solo alcuni tratti. Scelgo dunque, per parlare di Alessandro Pizzorusso, tre soli flash, che sottolineano, insieme, il suo metodo di affrontare la realtà e l’attualità del suo approccio ai temi dell’amministrazione della giustizia (omettendo di occuparmi della sua imponente produzione accademica, culminata nella prosecuzione e conclusione del Commentario della Costituzione fondato da Giuseppe Branca, di cui altri, di me ben più competenti, potranno dire). Dunque tre flash.

Primo. Negli ultimi mesi del 1971 nasce Qualegiustizia, la rivista voluta da Magistratura democratica che più di ogni altra ha contribuito a cambiare la cultura e gli indirizzi di giudici e pubblici ministeri nel nostro Paese. Pizzorusso, pretore a Moncalieri fino al 1972, vi tiene un rubrica, l’«Obiettivo sulle ordinanze di remissione alla Corte costituzionale», che per molti giovani giudici di allora – io tra quelli – è stata un punto di riferimento. Nel primo fascicolo la rubrica si apre con queste parole (attenzione: siamo nel 1971…): «L’ordinamento costituzionale instaurato in Italia nel 1948 […] ha un contenuto prima che normativo, polemico: polemico verso il fascismo che era stato appena rovesciato ad opera delle forze politiche protagoniste della Resistenza, ma polemico altresì nei confronti di tutto quel complesso di leggi, di prassi, di tradizioni, assai più antiche del fascismo, che avevano costretto fino a ieri il nostro paese in una condizione di sottosviluppo materiale e culturale». L’incipit – netto ed esplicito, senza fronzoli o distinguo – non è una semplice affermazione di principio ma la base su cui si innesta la presentazione di alcune ordinanze di rimessione alla Corte. Tra queste una, del giudice istruttore di Rovigo, relativa a una norma oggi incredibilmente tornata di moda, quell’articolo 414 del codice penale (“Istigazione a delinquere”) che aveva condotto, come si sottolinea nel testo, all’incriminazione e alla condanna di padre Ernesto Balducci e don Lorenzo Milani. Nel segnalare l’ordinanza, Pizzorusso ne sottolinea la necessità quasi con “candore”, per usare il termine che gli riserverà – come connotazione del suo essere – Pino Borré (intervento all’XI congresso di Magistratura democratica, Napoli, 29 febbraio - 3 marzo 1996, in Aa.Vv., Compiti della politica. Doveri della giurisdizione, quaderno di Questione giustizia, Angeli, Milano, 1998, p. 332), considerato «l’atteggiamento assunto dalle giurisdizioni superiori che non esitano a condannare per comportamenti di questo genere».

Secondo. Dieci anni dopo il testimone di Qualegiustizia è raccolto da Questione giustizia, nel cui n. 3 Pizzorusso commenta il convegno svoltosi a Genova nel febbraio 1982, per iniziativa del Centro studi e iniziative per la riforma dello Stato, sul pubblico ministero. Pizzorusso è, da sempre, critico sulla «completa irresponsabilità» delle procure, per le quali sostiene la necessità di «un efficace raccordo con il Parlamento» (cfr. Per un collegamento fra organi costituzionali politici e pubblico ministero, in G. Conso [a cura di], Pubblico ministero e accusa penale, Zanichelli, 1979, p. 41 ss.). Ma in quello scritto (Riflessioni sul ruolo del pubblico ministero) opera una svolta ed esprime la convinzione che «la scelta a favore della soluzione che considera il pubblico ministero come un soggetto indipendente, dotato di strutture quanto più è possibile simili a quelle degli organi giudicanti, costituisca ormai, almeno con riferimento all’attuale fase della storia costituzionale italiana, una scelta irreversibile». Non – continua Pizzorusso – per l’emergere di «argomenti capaci di convincere a pieno della fondatezza di tale tesi sotto il profilo teorico […] ma per l’esperienza della Commissione inquirente per i reati ministeriali e di altri organi di analoga struttura» e per il conseguente «pericolo di una simile evoluzione del pubblico ministero, ove i suoi organi fossero sottoposti a una forma di controllo politico, sia attraverso il ripristino della loro dipendenza dall’esecutivo, sia attraverso l’introduzione di un loro raccordo col Parlamento». C’è, in queste parole, molto, in termini di contenuto ma anche di metodo: il giurista deve sempre misurare l’impatto delle sue costruzioni teoriche con la realtà e, a differenza dei princìpi, i percorsi per realizzarli devono sempre essere tenuti aperti.

TerzoNell’ottobre del 2003 Pizzorusso, che è stato anni prima componente del Consiglio superiore della magistratura, partecipa a un incontro di formazione per uditori giudiziari, organizzato dal Consiglio sul tema «Il profilo costituzionale del giudice e del pubblico ministero: il confronto tra il modello formale e l’attuazione pratica nella prospettiva storica e comparatistica». Ai partecipanti all’incontro è distribuita, come d’abitudine, una cartella contenente materiali di studio sul tema, tra cui tre scritti in corso di pubblicazione, inviati dal relatore. In uno di tali articoli, predisposto per l’Accademia dei Lincei, Pizzorusso esamina – come sempre senza giri di parole – le modifiche in corso nel sistema di governo autonomo della magistratura e scrive: «La legge di riforma dell’ordinamento del Consiglio superiore approvata nel 2002, [...] ha determinato il numero dei consiglieri eletti dal Parlamento la cui presenza è necessaria per la validità delle sedute del Consiglio in modo tale che è sufficiente che quattro di essi si assentino perché si determini l’invalidità della seduta e quindi venga bloccato il funzionamento del Consiglio. E dato che una convenzione parlamentare assegna alla maggioranza cinque degli otto posti destinati ai “laici” e che in regime di partito-azienda tra il leader della maggioranza parlamentare e i “suoi” membri del Consiglio sussiste un vincolo assai stretto, la minaccia è molto più reale di quanto fosse in passato, quando i partiti riconoscevano una certa autonomia agli eletti al Consiglio su loro designazione» (cfr. Giustizia e giudici, in Questione giustizia, n. 1/2004, p. 195, ove possono leggersi anche gli altri documenti qui citati). L’affermazione di questa elementare verità, in un contesto assolutamente proprio, determina la minaccia di dimissioni dai propri incarichi di alcuni componenti del Consiglio designati dal Polo delle Libertà e, forse per scongiurarle, un documento di solidarietà nei loro confronti, con connessa critica a Pizzorusso, di tutti i membri togati (nonché una analoga dichiarazione del capo dello Stato). Mi piace ricordare che la profonda amarezza di Pizzorusso fu, almeno in parte, mitigata, dalla netta presa di posizione, oltre che dei più autorevoli costituzionalisti italiani, di Questione giustizia

Questo – mite, ma insieme limpido e rigoroso – era Alessandro Pizzorusso. Coerentemente, negli anni ruggenti del berlusconismo, aveva accettato, forzando la sua stessa indole, una notevole esposizione pubblica in difesa della Costituzione e dei princìpi dello Stato di diritto. Negli ultimi anni, poi, si era molto ritratto, limitando gli interventi e le prese di posizione (anche nel comitato scientifico di questa Rivista, di cui aveva fatto parte fin dall’inizio e la cui importanza aveva continuato a sottolineare, in conversazioni e messaggi privati, fino a qualche mese fa): per l’età, per ragioni di salute ma anche – inutile nasconderlo – per una delusione crescente sugli sviluppi della vicenda costituzionale del Paese, nelle norme e nella prassi, anche per quanto riguarda l’assetto e il funzionamento della giurisdizione (a cui aveva dedicato tanta parte dei suoi studi, diffondendoli anche fuori dall’area degli specialisti, sin dal “libricino”, come una volta ebbe a definirlo, L’organizzazione della giustizia in Italia, pubblicato per i tipi di Einaudi nel 1982 e poi oggetto di numerose diverse edizioni). C’è, per non dimenticarlo un solo modo: riprendere le sue idee e il suo rigore.

                                                                                    

16/12/2015
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