Magistratura democratica
Leggi e istituzioni

La democrazia ha bisogno di cittadini democratici *

di Luciano Violante
professore, già Presidente della Camera dei deputati

1. Il regime democratico si afferma in Italia sulla base di alcune grandi scelte strategiche: la Lotta di Liberazione, il referendum istituzionale, una Costituzione che considera centrale per la tenuta della democrazia l’integrazione tra società e istituzioni, a differenza di altre carte dell’epoca che si occupavano prevalentemente dell’equilibrio tra i poteri. 

Nell’ambito della discussione di stasera, mi soffermo sulla scelta repubblicana. 

 

2. Quella repubblicana non è solo una forma di governo. E’ una visione del mondo che ha alle spalle il repubblicanesimo, una solida e antica filosofia politica, che risale ad Aristotele e a Cicerone, ha percorso l’esperienza dei comuni italiani, è stata ripresa da Machiavelli, ha rappresentato una delle anime dell’umanesimo rinascimentale, ha segnato i caratteri della rivoluzione americana e quella francese. Da noi è inevitabile riferirsi al pensiero di Mazzini e di Cattaneo e poi al Partito d’Azione. 

Il concetto centrale della concezione repubblicana è l’uomo libero da domini altrui e che, proprio perché libero, ha il dovere di partecipare alla Res Publica attraverso l’esercizio delle virtù civili, orientate alla costruzione della polis. 

«La Repubblica è la cosa del popolo- scrive Cicerone nel Primo dei sei Libri- e popolo non è ogni unione di uomini raggruppata a caso come un gregge, ma l’unione di una moltitudine stretta in società dal comune sentimento del diritto (iuris consensu) e dalla condivisione dell’utile collettivo».

Il carattere di Res Publica che assume lo Stato, comporta il rifiuto dell’autoritarismo, la partecipazione alla vita pubblica, la centralità dei doveri di solidarietà, l’impegno per il progresso civile della società, una concezione positiva della politica, la valorizzazione dei partiti politici, il rispetto delle istituzioni, lo sviluppo della conoscenza e della informazione. Mentre il liberalismo si ferma alle dichiarazioni di eguaglianza formale, il repubblicanesimo presuppone l’eguaglianza sostanziale.

Nella seconda metà dell’Ottocento, in corrispondenza con le lotte contadine e operaie, la dottrina repubblicana si diffonde nelle campagne e nelle città perché conferisce una cornice politica tanto alle rivendicazioni emancipatorie dei ceti subalterni quanto alle aspirazioni della borghesia più illuminata.

Per questa ragione i valori propri della cultura repubblicana si sono strettamente integrati con gli obbiettivi del nascente movimento sindacale, del cattolicesimo democratico e della sinistra politica. 

Nelle letture più semplici dei lavori della Costituente si fa frequentemente riferimento al compromesso tra la cultura cattolica, quella socialista e quella liberale; sin è trascurato, invece il compromesso più gravido di effetti, quello tra la cultura repubblicana la cultura liberale. 

 

3. E’ difficile, forse anche un po’ scivoloso, parlare di una nuova antropologia costituzionale. Ma l’intreccio tra l’articolo 2 che richiama i diritti inviolabili e i doveri inderogabili dei cittadini e l’art. 3 che fissa il dovere della Repubblica di garantire l’eguaglianza sostanziale segna in modo assai chiaro la nuova cittadinanza.

Le Costituzioni sono figlie della storia; la partecipazione di parti di popolo e di parti delle classi dirigenti tanto alla Lotta di Liberazione, quanto alla mobilitazione per il referendum istituzionale portò a tradurre in principi costituzionali quello che era già avvenuto nella società. La nostra democrazia non si sarebbe esaurita nell’equilibrio tra i poteri; ai cittadini, pubblici funzionari o privati, la Costituzione chiedeva di non essere spettatori, ma protagonisti della crescita della democrazia, con specifici diritti e specifici doveri nei confronti della società e delle istituzioni.

 

4. Quei diritti e quei doveri hanno fondamenti prepolitici. 

Il fondamento pre-politico del riconoscimento dei diritti fondamentali, trae origine dal personalismo cattolico, più che dalla tradizione illuministica. Il fondamento pre-politico dei doveri sta invece nella solidarietà propria della concezione repubblicana.

L’intreccio tra i diritti e i doveri costituzionali è costruito in modo tale da favorire l’integrazione tra i cittadini e le istituzioni e quindi l’unità politica. Alla stessa logica risponde il principio reiteratamente affermato dalla Corte Costituzionale di leale cooperazione tra gli organi costituzionali, come condizione fondamentale per un corretto funzionamento del sistema. La Costituzione distingue tra i doveri del comune cittadino e quelli del cittadino incaricato di funzioni pubbliche. 

Per l’art. 4, «Ogni cittadino ha il dovere di svolgere secondo le proprie possibilità e la propria scelta un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». L’art. 54 stabilisce l’obbligo di fedeltà alla Repubblica e fissa un modello di etica pubblica: «i cittadini cui siano affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore». 

Si tratta delle due dimensioni nelle quali si articola la cittadinanza repubblicana: la partecipazione al progresso della società e il dovere di adempiere correttamente alle funzioni pubbliche. Al funzionario pubblico è richiesto di adempiere ai propri compiti «con disciplina e onore» non per ragioni retoriche, ma perché deve concorrere alla integrazione tra società e istituzioni. La disciplina è il complesso di comportamenti che si connette all’onore. E l’onore va inteso come la reputazione della quale chi riveste pubbliche funzioni, funzionario, magistrato, politico, deve rendersi meritevole per favorire l’integrazione tra istituzioni e società.

Al contrario il funzionario pubblico corrotto o fazioso, il dirigente politico senza onore, superficiale o incapace, il cittadino disinteressato alla cosa pubblica diventano fattori di disintegrazione dell’unità politica del Paese. Quanto è accaduto dopo il 1992, da Tangentopoli al populismo, credo che abbia corrisposto appunto a processi di disintegrazione della società e del sistema politico, determinati dalla carenza di disciplina e onore in molti settori della vita pubblica. Non posso non ricordare il discorso di Bettino Craxi alla Camera il 3 luglio 1992; disse la verità sul sistema di finanziamenti illeciti e invitò ad effettuare un’opera di risanamento, altrimenti disse «prevarranno la disgregazione e l’avventura». Colpevolmente non lo ascoltammo e prevalsero la disgregazione e l’avventura.

 

5. Il dovere di solidarietà politica ha un complemento nell’art. 48: «votare è un dovere civico».

Nella prima Sottocommissione si discusse a lungo su come qualificare il dovere di votare. La lunghezza della discussione e la sua intensità erano prova della esigenza di completare la definizione della figura di cittadino responsabile.

La cultura repubblicana riteneva che il vincolo costituisse un corollario della partecipazione democratica. Fissare in Costituzione il dovere di votare avrebbe completato questa nuova antropologia costituzionale. 

Il rischio di essere troppo stringenti condusse all’attuale debole formulazione. 

Tuttavia, pochi anni dopo, il testo unico delle leggi per l’elezione della Camera dei deputati (Dpr 361/1957) dichiarava l’esercizio del voto come un obbligo, prevedendo sanzioni, anche se di natura modesta. I principi erano due: 

- art. 4: L’esercizio del voto è un obbligo al quale nessun cittadino può sottrarsi senza venir meno ad un suo preciso dovere verso il Paese.

- art. 115: L’elettore, che non abbia esercitato il diritto di voto, deve darne giustificazione al sindaco del Comune nelle cui liste elettorali è iscritto.

Queste norme furono definitivamente superate nel 1993; da allora nessuno ha più ripreso il tema. 

 

6. Il partito politico è una manifestazione del diritto di associazione dei cittadini: «Tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (Art. 49 Cost). Mi permetto di sottolineare che mentre il PdCM dirige la politica generale del governo (art 95), i partiti concorrono a determinare la politica nazionale. 

Nella Costituzione il partito non è entità calata dall’alto; è frutto dell’impegno politico dei singoli. Del tutto diversa è l’idea di partito che traspare dalla costituzione tedesca e da quella francese. L’art. 21 della Costituzione tedesca stabilisce che «I partiti concorrono alla formazione della volontà politica del popolo». Non dissimile è l’art. 4 della Costituzione francese: «I partiti e i gruppi politici concorrono alla espressione del suffragio». 

In entrambe le Costituzioni viene trascurato il ruolo culturale e civile dei partiti nella organizzazione della società, nella costruzione di comunità pensanti, nella formazione della opinione pubblica, nella diffusione delle idee, delle proposte e delle analisi, nella partecipazione politica. Ruolo invece, che i partiti politici italiani, hanno svolto perfettamente per almeno trent’anni. 

 

7. Il peso decisivo dei partiti nei primi decenni della Repubblica dipese dalle specifiche contingenze storiche e politiche. 

L’Assemblea Costituente, dopo lunghi dibattiti, rifiutò di affidare il consolidamento del sistema politico alle regole costituzionali, come aveva invece fatto la Germania nella sua Costituzione, quasi coeva alla nostra, ma che non aveva, come da noi, un conflitto aperto tra partiti filoatlantici e partiti filosovietici. 

In Italia tra i dirigenti dei due blocchi c’era fiducia, ma c’era profonda e reciproca sfiducia nei confronti degli eventuali obbiettivi dei due paesi leader, Unione Sovietica e Stai Uniti. Perciò nessuno aveva interesse a costruire regole rigide che potessero essere utilizzate dall’avversario vincente. Conseguentemente, non fu fissata nessuna regola per la stabilità dei governi; solo il consenso dei partiti avrebbe potuto far funzionare la Repubblica. 

Garanti del corretto funzionamento del sistema sarebbero stati non il Parlamento né il Governo, né le regole istituzionali, ma le intese tra i partiti politici, in particolare quelli vincitori. Questa intesa, che forse, per i motivi ispiratori, potremmo chiamare patto repubblicano, fu possibile perché negli anni dell’antifascismo, nella Lotta di Liberazione, nel vuoto di potere creato dalla fuga del re, nell’impegno per il referendum istituzionale, in Assemblea Costituente si venne costruendo un riconoscimento reciproco e una comunanza di obbiettivi che dette vita a un comune quadro di riferimento ideale. 

La questione fu spiegata da un intervento di Giorgio Amendola in Assemblea Costituente:

«Si è parlato del tentativo di dare alla nostra democrazia condizioni di stabilità con norme legislative. E’ evidente che una democrazia deve riuscire ad avere una sua stabilità se vuole governare e realizzare il suo programma; ma non è possibile ricercare questa stabilità in accorgimenti legislativi …e c’è il fatto nuovo e positivo della formazione dei grandi partiti democratici, che sono condizione di una disciplina democratica. Oggi la disciplina, la stabilità è data dalla coscienza politica, affidata all’azione dei partiti politici[1]» Il partito era considerato come formatore di disciplina, torna il richiamo dell’art. 54 Cost., e costruttore di coscienza politica.

 

8. Tuttavia, la comune Koinè, da sola, sarebbe stata insufficiente. Occorrevano comportamenti coerenti. Il progetto andò in porto perché i maggiori dirigenti politici del tempo, si comportarono “con disciplina e onore”, i cittadini parteciparono alla vita pubblica (la partecipazione al voto superava il 90%), i partiti, tutti i partiti, con milioni di iscritti, furono protagonisti della costruzione di un nuovo rapporto tra società e poteri pubblici.

Gli indirizzi di fondo furono due: evitare ulteriori lacerazioni, dopo la guerra civile, di qui ad esempio la cosiddetta amnistia Togliatti, e guidare il Paese verso la rinascita. 

Il patto non escludeva la lotta politica, che a volte assai dura. Machiavelli riflettendo, nel Commento alla Prima Deca di Tito Livio, sulla grandezza della Roma repubblicana, sostenne che quella grandezza dipendeva dall’ordinamento del conflitto, dalla capacità di dare ordine alla contesa. 

I dirigenti politici dell’epoca sapevano determinare l’ordinamento del conflitto e lo rispettavano attraverso una sorta di doppio standard. Lo scontro era duro nella società, ma in Parlamento bisognava far rinascere il Paese. Ne è prova il ricorso limitato ai voti segreti da parte delle opposizioni nella Prima Legislatura (1948-1953): in 1.114 sedute vennero effettuati solo 175 voti segreti; invece, nella IX Legislatura (1983-1987), inizio della crisi dei rapporti tra i partiti, in 634 sedute si tennero invece ben 2.485 voti segreti.

 

9. Il tema centrale di quegli anni era la “protezione della democrazia” rispetto ai partiti filosovietici. Per tenere ferma l’intesa tra le forze antifasciste, furono decisive la scelta di Togliatti diretta a bloccare ogni spinta insurrezionale e la determinazione di De Gasperi nel respingere tutte le istanze di restrizione delle libertà politiche e sindacali che venivano dall’interno del suo stesso partito, dal Vaticano e dall’ambasciata degli Stati Uniti.

De Gasperi ne spiegò la ragione in un colloquio con l’inviato di Pio XII, Mons. Pavan: «Non è che con i comunisti si sia deboli e con i missini si sia intransigenti. Il fatto è che esiste una legge che interdice la ricostruzione del fascismo e della sua ideologia. Mentre non esiste alcuna legge che vieti il comunismo. Inoltre non va dimenticato che una percentuale dal 35% al 40% degli elettori italiani ha votato socialcomunista: come si può prendere oggi di petto il comunismo in Italia? Sarebbe la guerra civile o forse la guerra vera e propria[2]».

Le vicende successive all’attentato a Togliatti confermarono la validità della intesa.

Il 14 luglio 1948, l’allora segretario del PCI mentre usciva da Montecitorio, fu colpito da uno studente con quattro colpi di pistola, uno dei quali perforò la nuca. Erano passati tre mesi dalle elezioni politiche in cui la Democrazia Cristiana aveva sconfitto comunisti e socialisti. Il clima era teso. L’attentato ebbe gravi conseguenze: in tutta Italia furono organizzati scioperi e cortei di protesta e per qualche giorno sembrò che stesse per iniziare una nuova guerra civile guidata dai comunisti. Ci furono duri scontri tra polizia e manifestanti. 

Appena ripreso dall’operazione chirurgica, Togliatti invitò i dirigenti del Partito Comunista a interrompere le manifestazioni. Già il 15 luglio, il giorno dopo l’attentato, Giuseppe Di Vittorio, segretario della CGIL, interruppe lo sciopero generale, e il 16 luglio i deputati comunisti ritirarono la richiesta di dimissioni del governo. 

Nel mese di settembre, dopo una lunga convalescenza, Togliatti tornò alla direzione del PCI e, confermando la sua strategia di legittimazione dei comunisti come responsabile forza di governo, criticò duramente chi aveva partecipato al tentativo di insurrezione.

Tuttavia, gran parte del mondo occidentale nutriva non del tutto infondata sfiducia nella democraticità dei partiti comunisti europei legati all’URSS. 

Su De Gasperi vennero perciò effettuate pesanti pressioni per una legge elettorale maggioritaria, così come era stato fatto in Francia. Il disegno di legge fu presentato e venne chiamato “legge truffa” perché, prevedendo un premio di maggioranza, alterava la rappresentanza dei partiti alla Camera rispetto ai voti ricevuti. Fu il primo e unico tentativo di rompere il patto repubblicano. Il Paese si lacerò. La legge non scattò per solo 57.000 voti con 1.300.000 schede nulle, bianche o contestate. Una revisione delle schede avrebbe potuto probabilmente capovolgere il risultato. Ma De Gasperi resistette e non autorizzò il ricalcolo. Le ragioni furono spiegate da Giulio Andreotti in un libro successivo proprio su De Gasperi (Intervista su De Gasperi): «la sua unica preoccupazione -scrive Andreotti parlando di De Gasperi- era il non accentuare la divisione del Paese, che per la battaglia elettorale aveva raggiunto limiti quasi drammatici, e il non creare motivi di crisi per la nostra giovane democrazia, alla quale egli aveva dedicato ogni energia. De Gasperi, certamente, prevedeva nere possibilità per l’inasprirsi della questione istituzionale e minacce di sfaldamento o di rottura tra i cattolici».

De Gasperi pose l’unità della Repubblica in cima alle sue preoccupazioni e per questo pagò il prezzo dell’allontanamento dalla scena politica.

La sconfitta sulla legge elettorale segnò la fine del centrismo; acquisirono invece una forte credibilità le forze che in nome della Costituzione si erano opposte alla legge maggioritaria. Cominciò il disgelo e si avviò l’attuazione della Costituzione sulla quale sino a quel momento c’era stato l’ostruzionismo della maggioranza, che in caso di successo della legge elettorale maggioritaria, avrebbe potuto ottenere il quorum necessario per alcune modifiche della Costituzione. Il fallimento di quella legge portò al fallimento del progetto e aprì la strada all’attuazione. Per la vastità e la profondità dell’impegno si trattò di un vero e proprio State building: la Corte Costituzionale nel1956; il Consiglio Superiore dalla Magistratura nel 1958; le Regioni nel 1970; abolizione dell’adulterio nel 1968; introduzione divorzio nel 1970; Statuto dei diritti dei lavoratori, nel 1970; legge quadro sugli asili nido nel 1971; Processo del lavoro, nel 1973; partecipazione dei genitori alle attività scolastiche nella scuola primaria, 1974; nuovo diritto di famiglia nel 1975; interruzione volontaria della gravidanza nel 1978; abolizione del delitto d’onore, 1981. E’ emblematico della nuova cultura civile e politica il testo dell’articolo 1 della Legge 6 dicembre 1971 n. 1044 sulla istituzione degli asili nido: «L'assistenza negli asili-nido ai bambini di età fino a tre anni nel quadro di una politica per la famiglia, costituisce un servizio sociale di interesse pubblico. 

Gli asili-nido hanno lo scopo di provvedere alla temporanea custodia dei bambini, per assicurare una adeguata assistenza alla famiglia e anche per facilitare l'accesso della donna al lavoro nel quadro di un completo sistema di sicurezza sociale».

 

10. Ma l’Italia restava un paese diviso. L’attuazione della Costituzione era vista dalla parte più nostalgica e conservatrice della società italiana, come una sorta di immeritato regalo alle sinistre che avvalendosi delle nuove istituzioni avrebbero potuto esercitare un potere di condizionamento improprio sulla società e sulle istituzioni. Su un altro versante, sulla estrema sinistra, frange diverse ritenevano che quel tipo di riforme avrebbe consegnato definitivamente l’Italia al sistema capitalistico (SIM). Il processo di attuazione costituzionale ebbe quindi di fronte due nemici, uno a destra e l’altro a sinistra. Il primo reagì alle riforme prevalentemente con le stragi e poté godere di coperture in organi pubblici, come ha recentemente riconosciuto lo stesso Presidente della Repubblica; il secondo con omicidi e aggressioni dirette principalmente a colpire coloro che rendevano credibile l’azione dei poteri pubblici. La mafia concorse eliminando coloro che si opponevano, in nome della legalità, ai suoi progetti di espansione politica ed economica.

Per effetto di queste lacerazioni, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, mentre Parlamento, partiti e governo mettono in campo lo State Building, nella società si avvia la stagione della violenza politica. Dal 1969 al 1992 il Paese è colpito da undici stragi politiche, due stragi di mafia, due opposti terrorismi, tre tentativi di rovesciamento violento del governo, l’omicidio di un uomo di Stato, di 24 magistrati e di undici giornalisti. Secondo una ricostruzione dei fatti relativi proprio al terrorismo nazionale, nel solo periodo compreso tra il 1969 e il 1982, in Italia, ci sono stati 2.712: gli attentati rivendicati da organizzazioni terroristiche. Delle 1.119 vittime, i morti sono stati oltre 500, mentre i feriti 768. Operò un numero eccezionalmente elevato di gruppi terroristici: ben 657 differenti sigle sono state impiegate per rivendicare azioni e attentati. Accadeva qualcosa di assolutamente inedito nella vicenda italiana. Esplodevano bombe con decine e decine di vittime in piazze e stazioni, appartenenti alle forze di polizia, magistrati, giornalisti, erano uccisi da bande armate. Allo scopo di impedire che i responsabili venissero individuati, settori degli apparati pubblici che evidentemente condividevano la strategia delle stragi, si muovevano per salvare i responsabili: manipolavano testimoni, distruggevano e falsificavano le prove, tutto in violazione dei parametri costituzionali di “disciplina e onore”. Alcuni mezzi di comunicazione sbeffeggiavano e accusavano di protagonismo i magistrati che cercavano di accertare le responsabilità. 

Milano, con la strage di piazza Fontana, Brescia, con la strage di Piazza Loggia, Bologna, con la strage del due agosto, sono state teatro di tre diverse tragedie della convivenza democratica: prima le stragi e poi le deviazioni per salvare i responsabili. Tuttavia, altri, migliaia di altri, lavoravano, nel rischio, con “disciplina e onore”. 

Non si è trattato di accidenti nel fisiologico percorso di una democrazia; quelle tragedie hanno cercato di impedire, con una lucida strategia omicida, che democrazia si realizzasse. Una osservazione apparentemente marginale: sono stati uccisi dal terrorismo e dalla mafia i dirigenti politici democristiani più in vista che seguivano gli indirizzi di Aldo Moro: Pier Santi Mattarella, Vittorio Bachelet, Roberto Ruffilli.

Questo breve excursus è la premessa per la domanda che segue: come mai ce l’abbiamo fatta? come mai siamo sopravvissuti e abbiamo vinto?

Da dove è nata questa nostra capacità? Come è nato nella società e nelle istituzioni questo diffuso e radicato senso della necessità della difesa della democrazia, nonostante il rischio di perdere la vita?

La Costituzione fu messa alla prova da proposte che andavano dalla introduzione della pena di morte, ad un fermo di polizia di durata indeterminata. Mentre nel mondo politico e in parte della opinione pubblica circolavano queste tendenze, in tutto il resto del Paese si inverano, i modelli di funzionario pubblico, di cittadino, e di partito politico propri della Costituzione.

Attraverso l’impegno di partiti e di sindacati, attraverso la scuola e le diverse associazioni, attraverso la partecipazione popolare alla discussione pubblica, anche attraverso scontri duri nel sindacato, nei partiti e nelle fabbriche, il cittadino sente che il momento è cruciale, che c’è bisogno di lui; diventa protagonista, capisce che sono in discussione non astratti modelli di democrazia, ma le proprie libertà. 

 

11. Si manifestarono tre diverse forme di quell’etica repubblicana che è alla base della Costituzione.

Lo spazio del dibattito pubblico fu riempito da libri, articoli, interviste, manifestazioni, lezioni, documentazioni rese leggibili anche ai non esperti. I documenti con i quali le BR rivendicavano gli omicidi erano commentati per far intendere, con le parole stesse dei terroristi, quali fossero le loro finalità. Questo fu il primo fenomeno. 

I partiti politici e i sindacati, seppure in misura diversa, si mobilitarono e mobilitarono. Inchieste giornalistiche rivelarono depistaggi e corruzioni. 

Centinaia di cittadini comuni in tutta Italia lessero, organizzarono, discussero. Magistrati e investigatori che operavano con disciplina e onore furono criticati violentemente come faziosi portatori di interessi di parte; ma continuarono a lavorare anche perché una parte grande dell’opinione pubblica popolare capiva i rischi e capiva che quel lavoro e quei sacrifici erano per la Repubblica.

Da documenti dell’epoca risulta che a Torino la cosa che aveva più allarmato e sorpreso i brigatisti era la partecipazione della gente comune alle discussioni sul terrorismo che si facevano nei Comitati di quartiere. Non avevano previsto che comuni cittadini sentissero la partecipazione come un dovere di conoscenza e di solidarietà politica; non avevano previsto che comuni cittadini si schierassero con la magistratura e le forze di polizia. E molti compresero che quelle manifestazioni consegnavano a chi nelle istituzioni rischiava la vita una forza d’animo che dava senso al sacrificio.

La seconda forma dell’etica repubblicana è stata quella associativa. La Casa della Memoria di Brescia, l’Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, l’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili a Firenze, sono la dimostrazione di un impegno civile che ha coltivato la memoria non come vendetta, ma come impegno per la verità. Queste associazioni, a oltre quarant’anni dai fatti, indicono tutt’ora manifestazioni, discussioni e dibattiti, insegnano nelle scuole, hanno raccolto e digitalizzato tutti gli atti dei diversi processi, che sono a disposizione degli studiosi. Manlio Milani, Presidente Associazione dei caduti di Piazza della Loggia, a che perse la moglie nella strage ha spiegato il senso di queste associazioni. 

«Noi siamo il paese delle Associazioni delle vittime. Cosa vuol dire che i familiari si riuniscono e si battono per avere giustizia? Vuol dire che senza l'impegno di una parte di società per strappare la verità, è difficile che la verità venga fuori. Vuol dire che c'è una ferita nelle regole della democrazia, nel nostro Paese, talmente profonda che non può essere rimarginata con l'oblio, la rimozione. Vuol dire che c'è una ferita nel concetto di libertà»[3].

Credo che nessun altro paese abbia vissuto esperienze così intensamente drammatiche e così profondamente formative. 

Il terzo fenomeno, quello a mio avviso più specifico della esperienza italiana e che ha costituito davvero il pilastro della nostra capacità di resistenza alla violenza è stata la immediata disponibilità non solo di magistrati, ma, quello che più conta, di appartenenti alle forze di polizia, a prendere immediatamente il posto dei caduti. Dopo l’omicidio di Giacomo Ciaccio Montalto (1983) Carlo Palermo va da Trento a Trapani, e sfugge a un attentato che ucciderà una madre con due bambine; Rocco Chinnici, dopo l’uccisione di Cesare Terranova (25 settembre 1979), prende il suo posto, e viene ucciso a sua volta il 29 luglio 1983; la responsabilità non resta vacante perché Antonino Caponnetto si sposta immediatamente da Firenze a Palermo per succedergli nella direzione dell’Ufficio Istruzione. Il 9 agosto 1991 la mafia uccide a Reggio Calabria Antonino Scopelliti che il 30 gennaio successivo avrebbe dovuto sostenere in Cassazione l’accusa contro i boss condannati in appello nel maxiprocesso istruito da Falcone e Borsellino. Un altro magistrato, Vito D’Ambrosio, prende immediatamente il suo posto, sostiene l’accusa e ottiene la condanna di tutti i capi mafia. Giancarlo Caselli lascia Torino, dopo le stragi del 1992, per andare a dirigere la Procura di Palermo. “Disciplina e onore”. Questi sono gli esempi noti. Poi ci sono quelli non noti: le centinaia di donne e uomini delle forze di polizia che hanno continuato, senza interruzioni, a fare le scorte prendendo il posto dei colleghi uccisi e sapendo certamente che in caso di assassinio, per loro non ci sarebbero state le manifestazioni solenni che in genere hanno accompagnato le morti dei magistrati. La forza degli umili ha salvato il Paese. 

Le stragi, il terrorismo nero e il terrorismo rosso non sono stati senza esito. Hanno rallentato e poi interrotto il percorso riformatore, costringendoci ad altre tragiche priorità. Eppure attraverso l’impegno di grande parte della società italiana per la libertà, contro il terrorismo, si avviava, forse non del tutto consapevolmente, un secondo virtuoso processo, quello del Nation building[4]. Nasceva una nazione nuova, attenta, impegnata.

Attraverso comportamenti pubblici e privati improntati a «disciplina e onore», (art. 54 Cost.), attraverso l’attuazione di doveri inderogabili di «solidarietà politica e sociale» (art. 3 Cost), attraverso partiti che favorivano la determinazione da parte dei cittadini della politica nazionale contro il terrorismo e per la riforma dello Stato (art. 49 Cost.) si rafforzavano processi di integrazione; nella resistenza alla violenza nella società e alle slealtà nelle istituzioni si costruiva unità politica. Una nazione intera si riconosceva nei valori della Repubblica e della Costituzione. 

Il processo si collegava ad una nuova stagione politica, quella del compromesso storico e della unità nazionale, che era guidata da Aldo Moro e da Enrico Berlinguer, entrambi ispirati ad una forte fiducia nel progetto costituzionale. Le forze da loro rappresentate, la Dc e il PCI, che avevano riportato insieme nelle elezioni del 1976 più del 70% dei voti, con una partecipazione superiore al 90%, cercarono vie per sbloccare il sistema politico perché ormai il patto repubblicano fondato su intese di fatto appariva insufficiente rispetto alle esigenze di cambiamento. E’ noto che gran parte dei militanti democristiani e comunisti non erano d’accordo perché sembrava che quel dialogo annacquasse le responsabilità del passato degli uni e degli altri. Ma prevaleva alla fine una ragione costituzionale: l’intesa serve alla Repubblica. Forse fu l’ultimo tentativo di rianimare il patto repubblicano attraverso un processo di democracy building.

L’assassinio di Moro segnò il rapido declino di quell’esperienza perché privò Berlinguer dell’unico interlocutore capace di guidare la Dc in quella difficile alleanza. 

Il terrorismo e le stragi chiusero in poco tempo i tre grandi processi politici del dopoguerra: lo State building attraverso l’attuazione della Costituzione, il Nation Building attraverso una comune solidaristica Koinè democratica, il Democracy Building attraverso il rinnovamento del sistema politico. E si chiuse la possibilità di un rinnovamento del sistema politico.

Ma quelle tre fasi, restano nella nostra storia recente come grandi esperienze di attuazione del modello costituzionale di partito e di cittadino.

La stessa etica ci ha visto successivamente protagonisti anche nell’impegno contro le mafie; evidentemente resta al fondo della nostra appartenenza nazionale la fedeltà a quei valori. 

Oggi, di fronte a processi di diseguaglianza e di disintegrazione sociale, che la politica fatica a fronteggiare, credo che sia matura l’ora degli intellettuali, alcuni dei quali oggi sembrano preferire facili demolizioni a difficili ricostruzioni. Senza una teoria ricostruttiva della democrazia del XXI Secolo, sarà difficile riallacciare i sandali; eppure bisogna farlo perché quei valori costituzionali che disegnano i doveri dei cittadini e le funzioni dei partiti politici sono pienamente in grado di riproporre l’etica della Repubblica come fondamento di una nostra riaffermata identità politica. Essere intellettuali, concludo, anche alla luce dell’art. 4, dev’essere sentito come una responsabilità, non come un privilegio.


 
 
[1] G. Amendola, Atti Ass. Cost. Seconda sottocommissione, seduta del 5 settembre 1946, pp. 124-125.

[2] Verbale del colloquio con De Gasperi redatto da Monsignor Pavan in A. Riccardi, Pio XII e Alcide De Gasperi, una storia segreta, Laterza 2003, pp. 71-79.

[3] Intervista in www.28maggio1974Brescia.it 

[4] V. per tutti A. Wimmer, Nation Building. Why Some Countries Come Together While Others Fall Apart, Princeton University Press, 2018, pp. 23 ss, 209 ss.

[*]

Relazione svolta al Festival delle Istituzioni, Università di Catania, 15 ottobre 2023.

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13/09/2022
“La grande naturalizzazione brasiliana”: il senso della cittadinanza fra passato, presente e futuro

Le recenti rimessioni alle Sezioni unite della Corte di Cassazione della questione relativa alla richiesta di riconoscimento della cittadinanza italiana iure sanguinis, formulata da alcuni cittadini brasiliani, diretti discendenti di destinatari dei provvedimenti di naturalizzazione coatta e di massa emanati dal Governo brasiliano fra il 1889 ed il 1891, rappresenta un valido spunto per riflettere sul valore della cittadinanza nell’attualità.

28/07/2022
Le regole sulla cittadinanza o l’autoreferenzialità di un potere che non vuole invecchiare

L’Italia disciplina attualmente l’acquisto della cittadinanza con regole sostanzialmente regressive rispetto a quelle vigenti all’inizio dello scorso secolo. La legge 91/92 ripete, infatti, la legge n. 555 del 1912, ed anzi, lega la questione dello status ai flussi migratori in entrata, restringendone l’accesso ai nuovi cittadini. Così se, nel corso degli anni, anche in attuazione di specifici obblighi comunitari, i residenti possono vantare o pretendere, la piena parità nell’ambito dei diritti civili e sociali, l’accesso ai diritti politici, decretato dall’acquisto della cittadinanza, rimane costretto in logiche già tracciate e non “aggiornate” agli avvenimenti che hanno connotato il XIX secolo. Un ritardo, o meglio un anacronismo, che esclude le tante generazioni di giovani che, in parte invertendo la linea di tendenza dei loro coetanei “italiani”, chiedono di partecipare al fine comune che, ieri come oggi, consiste nel buon governo della comunità.

21/07/2022