Magistratura democratica
Leggi e istituzioni

L'irresistibile forza espansiva dell'autodichia parlamentare

di Giampiero Buonomo
Consigliere parlamentare, Senato della Repubblica*
Sia l'autodichia disciplinata dalla Costituzione all'articolo 66, sia quella invocata dalle amministrazioni degli organi costituzionali si valgono di una complicità insperata: il Legislatore ordinario avalla le loro pulsioni espansive, ben oltre le necessità dello «statuto di garanzia» delle assemblee parlamentari. Nel caso dell'articolo 3 del decreto Severino, l'aporia di sistema è finalmente emersa

L'articolo 3 del decreto legislativo n. 235 del 2012 (il cosiddetto «decreto Severino») esordisce, al comma 1: «Qualora una causa di incandidabilità di cui all'articolo 1 sopravvenga o comunque sia accertata nel corso del mandato elettivo, la Camera di appartenenza delibera ai sensi dell'articolo 66 della Costituzione».

La scelta così operata, da parte del Legislatore delegato, anche dal punto di vista redazionale innova rispetto alla tradizione legistica italiana: quando vent'anni prima s'era posto il problema della sanzione decadenziale per mancato rispetto delle previsioni sulle spese elettorali[1], ci si era limitati a prevedere che «il Collegio regionale di garanzia elettorale dà comunicazione dell'accertamento definitivo delle violazioni (...) al Presidente della Camera di appartenenza del parlamentare, la quale pronuncia la decadenza ai sensi del proprio regolamento» (articolo 15, comma 10 della legge 10 dicembre 1993, n. 515)[2].

Che cosa ha indotto il Legislatore a passare dall'«agnosticismo costituzionale» ad una così recisa qualificazione della fase parlamentare, che porta alla decadenza? Ma soprattutto: è corretto ricondurre l'esame degli effetti dell'incandidabilità nell'alveo della disposizione secondo cui «ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità»?

1. L'incandidabilità tra incapacità elettorale ed ineleggibilità

Le fattispecie astratte di impedimento all'assunzione o al mantenimento dell'ufficio di parlamentare, nel momento in cui si approvavano in Assemblea costituente gli articoli 65 e 66 della Costituzione, erano l’ineleggibilità e l’incompatibilità. Da una costola dell’ineleggibilità, l’elaborazione scientifica dei successivi decenni ha enucleato la categoria della perdita della capacità elettorale passiva: sicuramente anche ad essa le Giunte facevano riferimento sin dalle prime legislature quando si riferivano alle «cause di ineleggibilità sorte posteriormente alla elezione» che non possono essere rimossa dalla volontà dell’eletto[3].

Se la perdita di uno dei requisiti personali di capacità elettorale comporta la decadenza dell’eletto, ciò avviene ai sensi del combinato disposto dell’articolo 2, del decreto del Presidente della Repubblica 20 marzo 1967, n. 223, recante il testo unico per la disciplina dell’elettorato attivo, e dell’articolo 6 del decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361; in altri termini, se in corso di mandato la condizione di elettore viene meno – per una di quelle cause oggetto della riserva di legge di cui all’articolo 48 quarto comma Cost., positivamente enunciate nel citato testo unico del 1967 – cessa anche la legittimazione ad occupare il seggio, ed ha luogo la procedura di decadenza.

Non si può quindi certo sostenere che nel giudizio conferito alle Camere, ai sensi dell’articolo 66 Cost., non rientri anche l’accertamento dell’assenza o della perdita dei requisiti soggettivi per essere eletti: lo dimostra la relazione che diede conto delle decisioni assunte a maggioranza dalla Giunta nel caso Previti per effetto dell’ineleggibilità sopravvenuta, quando esprima una perdita delle qualità personali di elettorato passivo sopraggiunta in corso di mandato. In quella sede si ricordò che «l'ineleggibilità sopravvenuta è (...) la violazione, mentre la decadenza è la sanzione che l'ordinamento parlamentare vi riconnette nel momento in cui, non attraverso un meccanismo automatico bensì mediante una deliberazione della Camera, tale violazione sia definitivamente accertata». Il sindacato sull’assenza di cause ostative al mantenimento dell’ufficio parlamentare, in tal caso, si mantiene all’interno del solco tracciato dal principio di legalità, come acclarato dalla giurisprudenza parlamentare[4]: non di una generica recall del mandato elettivo si tratta, ma «di una accertata situazione di ineleggibilità, la quale altrimenti, se non conducesse ad una decadenza dal mandato parlamentare, resterebbe paradossalmente priva di concreta sanzione e, di fatto, ineffettiva»[5].

Il problema dell'articolo 66, semmai, si pone per l'incandidabilità, almeno fino a quando l'istituto permarrà gravemente eccentrico rispetto allo schema codicistico della pena accessoria (che, ai sensi dell’ultimo comma dell’articolo 28 del codice penale, comporta la perdita dell'elettorato attivo e passivo e, conseguentemente, l'applicazione del citato D.P.R. n. 223/1967): nonostante le ampie riserve dottrinarie, la Corte costituzionale lo ha ripetutamente e convintamente ricondotto alle modalità di esplicazione dell'art. 51, primo comma, della Costituzione, che demanda al Legislatore il potere discrezionale di fissare «i requisiti» in base ai quali i cittadini possono accedere alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza (cfr., ex multis, la sentenza n. 132 del 2001)[6].

Benché la Corte l'abbia esplicitamente ricondotta al genus dell’ineleggibilità[7], l'incandidabilità spezza il parallelismo tra elettorato attivo ed elettorato passivo: con essa si istituisce una limitazione che attiene soltanto al diritto di concorrere alle cariche elettive (e, una volta ottenuto il seggio, a permanervi fino alla scadenza del mandato). La consolidata giurisprudenza costituzionale  dalla citata sentenza del 2001, ai recenti casi De Magistris[8] e De Luca[9]  considera l’incandidabilità un effetto extrapenale della condanna[10]; la misura è meramente amministrativa, in quanto attinente ai requisiti elettorali passivi, per cui non le si applicherebbero garanzie, come l'irretroattività, poste per le sanzioni penali. Appena avuta cognizione della sentenza di condanna definitiva  ad uno dei reati e sopra i limiti di durata della pena, contemplati dal decreto Severino  «sotto dettatura» del medesimo il prefetto procede, per gli amministratori locali, ad infliggere la decadenza.

Se dunque per una species particolare dell’ineleggibilità la procedura di accertamento diverge da quella ordinaria, è comprensibile che sia stata prestata particolare cura  sin dalla nascita dell'incandidabilità, con la legge n. 55 del 1990  nel richiamare il modello di tutela, fissato dalla legge 20 marzo 1865, n. 2248, allegato E[11] (in quanto recepito nel sistema costituzionale di tutela dei diritti civili e politici): da un lato il sistema impugnatorio ex post è coerente con il principio secondo cui il contenzioso che investe problemi di status elettorale è devoluto integralmente all'autorità giudiziaria ordinaria[12]; dall’altro lato, la stessa composizione degli uffici elettorali competenti ad applicare ex ante la disciplina dell’incandidabilità – in cui si registra la partecipazione di componenti della medesima autorità, investita della supervisione del relativo procedimento – presumibilmente garantisce da un assetto delle competenze amministrative in materia elettorale eccessivamente sperequato a favore dell’Esecutivo o comunque delle amministrazioni uscenti.

Il problema, per un parlamentare in carica, è proprio nel diverso riparto che l'articolo 3 del decreto Severino traccia, per il confine tra i poteri dello Stato coinvolti nella procedura di decadenza. Escluso ovviamente un qualsiasi ruolo in capo all'Esecutivo, si è scelto di invocare l'articolo 66 della Costituzione, per portare tutto in autodichia. L'analisi tecnico-normativa dell'atto del Governo sottoposto a parere parlamentare n. 521 della XVI legislatura, in proposito, sostiene che «le disposizioni dell'art. 3 sulla incandidabilità sopravvenuta nel corso del mandato parlamentare si conformano al principio di autoregolamentazione delle Camere» (ATN, § 4). Dal «giudizio» sui titoli, si passa quindi ad una più generale (e generica) autoregolamentazione, che parrebbe attrarre nell'immunità della sede ogni tipo di atto che riguardi i parlamentari in carica, sia esso amministrativo, sia esso giurisdizionale.

Stante l'assunto iniziale (la natura di effetto extrapenale della sentenza di condanna)[13], forse era comprensibile il desiderio di introdurre un minore automatismo, nell'applicazione di un decreto la cui rigidità è stata più volte stigmatizzata. La diversa risposta dei due strumenti  incandidabilità ed interdizione  è illuminante, circa l'assenza di proporzionalità nel decreto Severino[14]. Infatti, è evidente che la graduabilità dell'interdizione dai pubblici uffici  tutta interna alla valutazione del giudice penale che ai sensi dell’articolo 133 c.p. pronuncia la condanna  è assente quando la restrizione discenda ope legis dalla condanna: il fatto che l’incandidabilità addirittura sfugga alla valutazione dell’organo giudicante, che conosce della vicenda penale, potrebbe avere seri riflessi sul diritto tutelato dall'articolo 3 del primo protocollo alla Cedu[15].

La soluzione non dovrebbe essere creare una scappatoia per una particolare categoria (i parlamentari): la disparità di trattamento con gli altri potenziali destinatari dell'effetto decadenziale (amministratori locali) è stata già sollevata, sia pure infruttuosamente, per altri motivi di doglianza, in sede di giudizio di costituzionalità. Resta comunque piuttosto discutibile che  nell'accezione di verifica dei titoli, ai fini dell'attrazione in autodichia ex articolo 66 Cost.  con l'articolo 3 si sia fatta rientrare questa particolarissima fattispecie di incapacità elettorale passiva: se non si crede nella sua natura solo amministrativa, si riconosca che l'afflittività colpisce tutti i cittadini e la si riporti a sistema[16]; se si crede che l'incandidabilità, nell'attuale formulazione, discende all'articolo 54, secondo comma, Cost., non si ammetta una procedura di favore che, con la verifica dei poteri, ha veramente poco a che fare.

2. Verifica dei poteri: attività amministrativa o attività giurisdizionale?

La commistione tra attività amministrativa ed attività giurisdizionale  così realizzatasi nel decreto Severino  non costituisce soltanto un'aporia sistematica: essa si inserisce in un filone di assai preoccupante dilatazione dell'autodichia parlamentare, avallato da statuizioni del Legislatore ordinario.

La proclamazione degli eletti (amministrativa) e l'attività di convalida del parlamentare (giurisdizionale)[17] già da tempo registrano ambiti di interferenza. Viene subito in mente la chiusa della sentenza n. 1 del 2014 sul Porcellum, secondo cui «le elezioni che si sono svolte in applicazione anche delle norme elettorali dichiarate costituzionalmente illegittime costituiscono, in definitiva, e con ogni evidenza, un fatto concluso, posto che il processo di composizione delle Camere si compie con la proclamazione degli eletti»[18]: se perfino il giudice delle leggi considera «rapporto esaurito» l'attribuzione dei seggi  ignorando la regiudicanda ancora aperta del processo di convalida  è perché la verifica parlamentare dei poteri, operata ai sensi dell'articolo 66 Cost., crea più problemi di quanti ne risolva. Già da un decennio, ad esempio, si è voluto coinvolgere la Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato nell’attività amministrativa di proclamazione del subentrante[19], quando la stessa Giunta è poi chiamata a giudicarne la correttezza mediante la verifica dei poteri ai sensi dell’articolo 66 della Costituzione e del Regolamento per la verifica dei poteri del Senato.

L'euritmia del sistema  caratterizzato dalla previsione di inizio legislatura sul potere di proclamazione dell’Ufficio elettorale regionale  dovrebbe trovare la sua naturale conferma nelle vicende successive del seggio, laddove si rendesse vacante in corso di legislatura. Ma allora le varie surroghe  operate dopo l’annullamento di parte della legge elettorale, in presenza di vacanze di seggio  si sarebbero dovute proclamare a livello di Ufficio elettorale regionale: può quindi essere utile, per la sostenibilità complessiva del sistema, che una componente «amministrativa» del procedimento elettorale sia attratta verso l'alto. L'unica cosa che stride col sistema è coprire questa attività con l'articolo 66 della Costituzione.

L’evocazione a sproposito dell’autodichia, invero, è un portato della seconda Repubblica: l'articolo 66 comparve per la prima volta nella novella alla legge n. 18 del 1979 operata con la legge 27 marzo 2004, n. 78, quanto alla (neoistituita) incompatibilità dei parlamentari nazionali con l’elezione a membri del Parlamento europeo.

In giurisprudenza si era infatti già affacciata la tesi secondo cui la giurisdizione di cui all'articolo 66 della Costituzione, in ordine alle cause di incompatibilità sopravvenute, non fosse esclusiva, cioè non escludesse che sul versante relativo alla carica non conciliabile con il mandato parlamentare potessero legittimamente pronunciarsi organi amministrativi o addirittura giudiziari[20]. Quindi a fortiori si sarebbe potuta sostenere la praticabilità – anche per questa nuova incompatibilità – delle procedure contenziose attinenti alla composizione di un altro organo parlamentare, appartenente all'Unione europea, il cui ordinamento giuridico è strettamente compenetrato con il nostro[21].

Invece, la clausola di riserva introdotta all'articolo 44 della legge n. 18 del 1979 (ad opera della citata legge n. 78 del 2004) pareva messa apposta per escludere le condizioni di incompatibilità tra parlamentare italiano e parlamentare europeo, da quelle che danno luogo alla procedura di contestazione attivabile da parte di qualsiasi cittadino elettore con ricorso alla Corte d'appello. Si fa infatti espressa riserva di quanto disposto dall'articolo 66 della Costituzione, il che può significare o che sul versante parlamentare il ricorso non ha efficacia (cosa inutile perché ovvia) o che l'intera materia dell'incompatibilità che riguarda un parlamentare nazionale è conferita ai soli organi di giurisdizione domestica[22]. In ambedue i casi, il sistema delineato dalla legge n. 78 del 2004 rischiava di creare un ambito privo di tutela: l'obbligo di optare non si sarebbe potuto conseguire – come per tutte le altre cause di incompatibilità – con l'azione popolare, di qualsiasi cittadino che ricorresse alla Corte d'appello.

La clausola di salvaguardia, quindi, conseguiva l’effetto di negare operatività al principio della perfetta bilateralità delle cause di incompatibilità: eppure esse possono (rectius: devono) essere conosciute da ambedue i lati delle cariche ricoperte (con conseguente procedura di decadenza nel caso di mancata opzione). La bilateralità è un istituto che le Giunte delle Camere hanno sempre cercato di respingere, quasi che costituisse interferenza  nella libertà del mandato parlamentare  anche soltanto l’intimazione ad optare proveniente da un altro organo dello Stato; ciò anche se l’unico rischio che dovesse conseguire (dalla mancata opzione) fosse la decadenza dalla carica diversa da quella parlamentare. Ma la sentenza n. 277 del 2011 della Corte costituzionale  che muove dalla «considerazione della naturale corrispondenza biunivoca delle cause di incompatibilità, che vengono ad incidere necessariamente su entrambe le cariche coinvolte dalla relativa previsione»  ha infine consacrato che i divieti di cumulo di munera publica sono rilevanti sotto due diverse verticali: quella della carica che si detiene già, e quella della carica che si assume. Nel caso dei sindaci e dei presidenti di provincia, questo significa che (in virtù degli articoli 62 e 63 del TUEL) anche il tribunale civile territorialmente competente può intimare al sindaco-parlamentare di optare tra il seggio parlamentare e la carica di sindaco, pena la decadenza dal (solo) seggio di sindaco[23].

Un altro caso di evocazione dell'autodichia sui titoli di ammissione dei parlamentari  stavolta per impedire ad una legge, già approvata, di operare  si registra in ordine alla travagliata vicenda dell'impugnazione degli atti elettorali preparatori[24]. Il diniego di giurisdizione, in proposito, era stato storicamente smentito dall’approvazione dell’art. 44 secondo comma lett. d) della legge n. 69/2009: esso introduceva la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nelle controversie concernenti atti del procedimento elettorale preparatorio per le elezioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Con l'esercizio della delega in esso attribuita al Governo, non si sarebbero mai potuti verificare altri casi come quello del «ricorso Pizza», che determinò somma incertezza alla vigilia delle consultazioni elettorali politiche del 2008; il mancato esercizio della delega a riformare il contenzioso elettorale, per quanto riguarda le elezioni politiche, ha invece rappresentato un vero e proprio inadempimento costituzionale. Quando in sede parlamentare si cercò di recuperare il mancato esercizio della delega conferita al Governo sul punto[25], il Relatore ricordò «che l'osservazione avanzata dal senatore Sanna era emersa anche in occasione dell'esame del primo decreto correttivo: il Governo ha preferito non intervenire sulla materia, nel rispetto dell'autodichia delle Camere»[26].

Nonostante quanto sostenuto nella seduta del 12 settembre 2012 della prima Commissione permanente del Senato, la norma di delega non violava affatto l'autodichia delle Camere, visto che la stessa Corte costituzionale l'aveva menzionata come dato significativo de iure condendo nella sua sentenza n. 259 del 2009[27]. Qui abbiamo un caso in cui lo stesso Legislatore è stato smentito dall'Esecutivo, onerato della delega: anche se nel far ciò il Governo si è assicurato il sostegno in fase di parere parlamentare, questo non ha impedito di dedurre il mancato esercizio della delega nel successivo contenzioso costituzionale, attivato dai ricorsi del gruppo di avvocati coordinati dall'onorevole Besostri[28]. Resta però il fatto che la vera anomalìa opera a monte, quando è lo stesso Legislatore (delegato o meno) che ammanta la sua astensione dal provvedere, con argomenti fondati sul richiamo di norme costituzionali, più o meno conferenti.

3. La clausola di salvaguardia down-up

Solo ordinamenti che non hanno ben chiaro il concetto di “primarietà” della norma rendono necessario, in luogo di un metodo di risoluzione ex ante delle antinomie giuridiche, una casistica che volta per volta dipana il quesito del rango dell’intervento normativo, rispetto alle fonti di diverso livello. La cultura giuridica continentale, tra Montesquieu e Kelsen, ha invece decisamente definito – in una «norma sulle fonti» – gli “scalini” della piramide normativa, sia negli ordinamenti a Costituzione flessibile sia in quelli a Costituzione rigida. In questi ultimi, in particolare, non è necessario porsi volta per volta il problema della collocazione, nell’ordinamento giuridico, della norma che si va a creare: il nomen juris dello strumento che la incorpora (la disposizione) provvederà alla bisogna, senza che nella sua prosa si renda necessario interpolare clausole di salvaguardia delle norme di rango superiore o clausole di supremazia verso norme di rango inferiore.

Se questa è la teoria, è però innegabile che nella pratica clausole di salvaguardia esistano e continuino ad essere previste: così come è innegabile che non sempre ad esse si possa applicare il brocardo secondo cui quod abundat non vitiat. Anche nei rapporti tra fonti di diverso rango, sostenere un’ovvietà può essere utile: la Corte, nella sentenza n. 23 del 2011, ha rintuzzato l'argomentazione dell'Avvocatura generale dello Stato e della parte privata secondo cui alla carica del Presidente del Consiglio dei ministri sarebbe da riconoscere una «nuova fisionomia» in quanto ricoperta da «persona che ha avuto direttamente la fiducia e l’investitura dal popolo». I giudici di palazzo della Consulta hanno infatti ricordato che «la disciplina elettorale, in base alla quale i cittadini indicano il «capo della forza politica» o il «capo della coalizione», non modifica l’attribuzione al Presidente della Repubblica del potere di nomina del Presidente del Consiglio dei ministri, operata dall’art. 92, secondo comma, Cost., né la posizione costituzionale di quest’ultimo». Benché l’affermazione seguisse (e non precedesse) la disamina dei principi costituzionali che inducevano la Corte a statuire in modo così cristallino, è innegabile che la statuizione si giovasse anche dell’ultimo periodo del comma 3 dell’articolo 14-bis del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati (come modificato proprio alla legge n. 270/2005), ai sensi del quale «restano ferme le prerogative spettanti al Presidente della Repubblica previste dall'articolo 92, secondo comma, della Costituzione».

L’importante è che l’ovvietà sia veramente un’ovvietà: o meglio, che con la clausola non si pregiudichi la possibilità, per l’unico interprete della Costituzione, di affermare se il Legislatore ha decampato dal suo ruolo, arrogandosi una competenza che spetta soltanto alla Corte costituzionale.

L’eccesso di potere legislativo, con surrettizia violazione della «costituzionalità» della materia, è sicuramente un vizio grave e, purtroppo, spesso ricorrente, in epoca di crescente «dittatura della maggioranza». Ma il Legislatore eccede non soltanto quando disciplina con legge ordinaria un ambito riservato alla Costituzione; decampa dal suo proprium anche il Legislatore in malafede che avalla, con la clausola di salvaguardia, una sua interpretazione estensiva, cervellotica o in frode alla Costituzione.

Ben s’intenda: nella discrezionalità lata del legislatore può ben rientrare non solo la scelta su come disciplinare una materia, ma anche quella sul se normarla. Ma l’utilizzo della clausola di salvaguardia di una norma costituzionale, per motivare questa scelta, può costituire una forma di slealtà istituzionale: precostituire un’interpretazione della norma richiamata costituisce ingerenza nell’unicità della giurisprudenza costituzionale, potestà che resta in capo alla sola Corte costituzionale[29].

È quello che avviene quando il richiamo alla Costituzione è fatto in ambiti di difficoltosa (o nulla) capacità di accesso alla Corte, nei quali il rischio che l’ultima parola sia quella del Legislatore è elevatissimo. Ne abbiamo visti vari esempi, caratterizzati dall'evocazione espressa del parametro costituzionale; eppure la clausola  con cui una norma di rango inferiore (nella specie: l’articolo 3 comma 1 del decreto legislativo n. 235 del 2012) richiama una norma di rango superiore (nella specie: l’articolo 66 della Costituzione)  è giunta sotto i riflettori della cronaca politica solo quando il Senato si è pronunciato (negativamente) sulla decadenza di un senatore attinto da una condanna definitiva. La Corte costituzionale si pronuncerà anche sulla fondatezza o meno del riferimento all’articolo 66 contenuto nell’articolo 3 del decreto Severino? Dipenderà dall’attivazione dello strumento conflittistico e dalla sua ammissibilità. Quello che sin d’ora possiamo dire è che il Legislatore, nell’inserire la clausola, cerca di far passare una lettura dell’autodichia sui titoli tutt’altro che ovvia o scontata.

Ma la tecnica normativa in esame non è meno insidiosa, quando il richiamo è generico o implicito. È quanto avviene quando la previsione di una disciplina di legge è estesa agli organi costituzionali, a condizione che essi la recepiscano «nell'ambito della loro autonomia». La teorizzazione di questo modus procedendi è nel parere approvato dalla prima Commissione del Senato sul disegno di legge n. 2814 della XVI legislatura: esso è fondamentale nella ricostruzione  poi prevalsa nella relativa legge di conversione  della «combinazione di norme disposte dalla Costituzione o da leggi costituzionali, da fonti proprie dell'autonomia degli organi costituzionali e, nei limiti costituzionalmente vincolati, anche dalla legge ordinaria»[30].

Benché l'indirizzo della più recente giurisprudenza costituzionale sia nel senso che lo «statuto di garanzia» delle assemblee parlamentari operi quando «sia dimostrato, secondo criteri rigorosi, il nesso funzionale»[31], il Legislatore continua ad eccettuare  dall'operatività automatica delle sue stesse previsioni  ambiti di mero diritto del lavoro, diritto appaltistico o diritto amministrativo, quando ricadano geograficamente nei palazzi che ospitano organi costituzionali. Pur essendo quanto meno discutibile che nella funzione di una Camera parlamentare vi sia quella di procedere alla locazione di immobili, ad esempio, all’articolo 2-bis del decreto-legge 15 ottobre 2013, n. 120[32] si ricadde nella medesima «attrazione in autodichia»[33]: per quella norma, potevano disdettare un affitto esoso «le amministrazioni dello Stato, le regioni e gli enti locali, nonché gli organi costituzionali nell'ambito della propria autonomia» (corsivo aggiunto); con il che si affermava implicitamente che, se era frutto di autonomia la vicenda modificativa o estintiva del rapporto locatizio, implicitamente lo era anche la costituzione del medesimo, in una materia che  come i fatti successivi si incaricheranno di dimostrare  era totalmente extrafunzionale.

Quale fosse il ruolo entro il quale esercitare l'autonomia parlamentare, nell'applicare una previsione automatica per tutte le altre pubbliche amministrazioni, resta oscuro: ma che la posizione costituzionale degli organi richiedesse un'eccettuazione, un'attenuazione o comunque una salvaguardia, all'interno della legge, faceva parte di una narrativa a cui tutti gli attori della vicenda parlamentare, nei loro testi[34], concedettero.

Non c'è alcun bisogno che  in ambiti extrafunzionali  la legge dica specificamente per gli organi costituzionali ciò che dice, generalmente, per tutti gli enti pubblici e per le pubbliche amministrazioni. Anche qui la salvaguardia legislativa di una norma costituzionale assolutamente inconferente, è come l'ipocrisia secondo François de La Rochefoucauld: un omaggio che il vizio rende alla virtù.

*I contenuti dell'articolo esprimono esclusivamente le posizioni personali dell’Autore


[1] Sanzione che in Francia si spinge fino alla fictio della decadenza per ineleggibilità, con cui il Consiglio costituzionale dichiara «d’ufficio dimissionario» l’eletto all’Assemblea nazionale che si riveli inadempiente degli obblighi di legge (articolo LO 128 del codice elettorale francese, in combinato disposto con l’articolo LO 136-1 del medesimo codice), perché non ha reso la dichiarazione patrimoniale ovvero non ha reso il rendiconto delle spese elettorali (o lo ha reso talmente inesatto da vederselo respinto, ovvero ne ha superato i limiti di legge).

[2] «Si richiama l’attenzione sul fatto che le statuizioni di cui all’articolo 15 della legge 10 dicembre 1993, n. 515 – che prevedono la sanzione della decadenza dalla carica parlamentare per determinate violazioni della disciplina della campagna elettorale – non incidono sulle attività di verifica dei risultati elettorali. Infatti, l’accertamento del Collegio regionale di garanzia elettorale può eventualmente comportare una causa di ineleggibilità sopravvenuta e potrà essere, se del caso, valutato indipendentemente dal giudizio di convalida delle elezioni» (v. seduta della Giunta del Senato del 30 giugno 1994; statuizione ripetuta nelle successive legislature).

[3] V. il seguente emendamento proposto dal deputato Jervolino, presidente della Giunta delle elezioni della Camera:

1. Le cause di ineleggibilità sorte posteriormente alla elezione determinano nei riguardi del mandato parlamentare:

a) la incompatibilità, nei casi in cui la posizione sopravvenuta può essere rimossa dalla volontà dell’eletto mediante opzione;

b) la decadenza, nei casi in cui la posizione sopravvenuta non può essere rimossa dalla volontà dell’eletto.

2. L’opzione per eliminare la incompatibilità deve essere esercitata nel termine di trenta giorni dalla comunicazione all’interessato. Decorso tale termine, si fa luogo alla decadenza (Atti Camera, II legislatura, Assemblea, discussioni, 20 marzo 1956).

[4] La Giunta della Camera, in quell’occasione, a maggioranza sostenne l’autonomia concettuale e giuridica della figura dell'ineleggibilità sopravvenuta, che «venne affermata già in occasione del precedente relativo al deputato Mario Ottieri (IV legislatura)  dichiarato fallito e cancellato dalle liste elettorali del comune di ultima residenza  allorquando la Camera, nella seduta del 13 aprile 1967, con l'approvazione della proposta di decadenza formulata dalla Giunta, riconobbe pacificamente come causa di decadenza una situazione di ineleggibilità intervenuta solo successivamente all'elezione del deputato in questione (ed altrettanto avrebbe fatto, sia pure in riferimento a diversa fattispecie, nel caso del deputato Tanassi, condannato nell'ambito del «processo Lockheed» dalla Corte costituzionale e dichiarato decaduto dalla Camera nella seduta del 13 marzo 1979)» (Doc. III, n. 3 della XV legislatura della Camera).

[5] Loc. ult. cit.

[6] La Corte aveva individuato già la ratio dell'incandidabilità nelle finalità di salvaguardia dell'ordine e della sicurezza pubblica, di tutela della libera determinazione degli organi elettivi, di buon andamento e trasparenza delle amministrazioni pubbliche (sentenze n. 407 del 1992, nn. 197, 218 e 288 del 1993, nn. 118 e 295 del 1994, n. 141 del 1996): finalità, queste, «di indubbio rilievo costituzionale» (sentenza n. 197 del 1993), connesse «a valori costituzionali di rilevanza primaria» (sentenza n. 218 del 1993), che sarebbero tutte realizzate dalle norme dell'art. 15 della legge n. 55 del 1990, poi recepite nel TUEL.

[7] Non solo perché essa «attiene alla definizione dei requisiti di accesso alle cariche elettive», ma anche perché è «l'espressione del venir meno di un requisito soggettivo per l'accesso alle cariche considerate» (cfr. Corte cost., sentenze nn. 118 e 295 del 1994). 

[8] Corte costituzionale, sentenza n. 236 del 2015.

[9] Corte costituzionale, sentenza n. 276 del 2016.

[10] Analogamente, si esprime la sentenza del Consiglio di Stato Sez. V, 6 febbraio 2013, n. 695.

[11] Essa all'articolo 2 afferma che «sono devolute alla giurisdizione ordinaria tutte le cause per contravvenzioni e tutte le materie nelle quali si faccia questione d'un diritto civile o politico, comunque vi possa essere interessata la pubblica amministrazione, e ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell'autorità amministrativa».

[12] Corte di cassazione, sezioni unite civili, ordinanza del 28 maggio 2015, n. 11131.

[13] E nella misura in cui tale assunto reggerà allo scrutinio convenzionale: v. Giorgio Spangher, Gli attrezzi del penalista, in Mondoperaio, 5/2015.

[14] Quello della carenza di proporzionalità è il vero problema della «sostenibilità convenzionale» dell'istituto dell'incandidabilità, mentre i rilievi espressi in sede di parere parlamentare si sono soffermati essenzialmente sulla necessità di «chiarire l'ambito temporale di applicazione dell'ipotesi in cui la condizione di incandidabilità sopravviene o è accertata dopo la proclamazione degli eletti» (Legislatura 16ª  Senato della Repubblica  Commissioni 1° e 2° riunite  Resoconto sommario n. 136 del 18/12/2012).

[15] Cfr. Corte europea dei diritti dell'uomo, decisione 13 marzo 2012 sul caso Saccomanno e altri contro Italia, «quando deve esaminare questioni di conformità di una restrizione all’articolo 3 del Protocollo n. 1, la Corte si rifà essenzialmente a due criteri: cerca, da una parte, di stabilire se vi sia stato un abuso o una mancanza di proporzionalità e, dall’altra, se la restrizione abbia pregiudicato la libera espressione dell’opinione del popolo».

[16] Per una proposta in tal senso, cfr. il disegno di legge Atto Senato n. 1054 della XVII legislatura, che configura una interdizione «limitata» alla sola perdita del diritto di eleggibilità, mediante provvedimento del medesimo giudice della cognizione, pronunciato nel dispositivo della condanna penale definitiva per determinati reati.

[17] Nella particolare accezione di «giustizia politica», per cui v. Cassazione, Sezioni unite civili, sentenza 8 aprile 2008, n. 9151.

[18] § 7 del Considerato in diritto della sentenza 4 dicembre-13 gennaio 2014, n. 1 della Corte costituzionale.

[19] La legge elettorale per il Senato, nella versione precedente alla legge n. 570 del 2005, attribuiva esplicitamente all’Ufficio elettorale regionale (articolo 19, comma 6 del decreto legislativo n. 533 del 1993) la competenza a proclamare i senatori subentranti nella quota proporzionale. La predetta Novella del 2005 ha abrogato il riferimento, lasciando non disciplinata la questione di chi sia titolato a proclamare i senatori subentranti in caso di vacanza di seggio in corso di legislatura. La Giunta del Regolamento del Senato, in mancanza di una disciplina specifica, ha ritenuto «ragionevole ipotizzare l’implicito ripristino del sistema antecedente il 1993 che, appunto, vedeva la predetta Giunta [delle elezioni] competente in subiecta materia» (Atti parlamentari, XV legislatura, Giunte e commissioni, Giunta del regolamento, 5 giugno 2006, intervento del presidente Marini Franco). In base a queste considerazioni, la Giunta del Regolamento il 7 giugno 2006 ha varato per il Senato un parere corrispondente alla disposizione dell’articolo 17-bis, comma 3, del Regolamento della Camera, il quale espressamente attribuisce alla Giunta delle elezioni la competenza ad accertare i candidati subentranti.

[20] Cfr. nota a Tribunale di Ancona, 19 novembre 1985, in Giurisprudenza di merito, 1987, n. 3, 781 e seguenti.

[21] Come dimostra, tra l’altro, la Corte di giustizia dell’Unione europea (Quarta Sezione), sentenza 30 aprile 2009 nelle cause riunite C‑393/07 e C‑9/08, §§ 67 e seguenti.

[22] Lo ricordava, nella seduta del 29 aprile 2009, il presidente della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato, secondo cui «già nel 2004  al momento della notifica al Parlamento europeo della proclamazione effettuata a livello nazionale il candidato eletto riveste ancora la carica di parlamentare nazionale  l'invito ad optare da parte dell'Ufficio elettorale nazionale presso la Corte di cassazione fu rivolto in termini tali da consentire la completezza del plenum del Parlamento europeo alla prima seduta. Vi fu però già all’epoca il tentativo di sfuggire a questa conclusione  conforme a razionalità, buon senso e rispetto del dovere di correttezza nei confronti dell’elettorato – invocando letture capziose delle norme nazionali (in primis l’articolo 44 della legge n. 18 del 1979, che contiene una clausola di salvaguardia dell’articolo 66 della Costituzione)» (Legislatura 16ª – Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari – Resoconto sommario n. 30 del 28/04/2009).

[23] È perciò venuta meno a Catania (caso del senatore Stancanelli) l’implicazione che si traeva dall'articolo 66 Cost., in termini di esclusività del giudizio parlamentare (secondo cui solo la Camera di appartenenza può intimare al suo componente di optare tra il seggio parlamentare e la carica di sindaco, pena la decadenza dal seggio di parlamentare). Del resto già nella seduta del 27 gennaio 2010 la Giunta delle elezioni della Camera aveva dato atto che l'Assemblea non aveva voluto sollevare conflitto contro il Tribunale civile di Asti, per la sentenza n. 687 del 10 settembre 2008, nel giudizio instaurato dall'azione popolare volta a far decadere da presidente della provincia di Asti per incompatibilità la deputata Anna Teresa Armosino.

[24] Per una disamina della questione, si rinvia a Gabriele Maestri, I simboli della discordia: normativa e decisioni sui contrassegni dei partiti, Giuffré, 2012: alle pagine 310-312, tra l'altro, si dà conto della posizione del presidente della Giunta del Senato, onorevole Marco Follini, ostile a ricomprendere tali atti nel giudizio di cui all'articolo 66 Cost. (a tal fine invocando anche la relazione D'Onofrio della precedente legislatura, allegata alla Resoconto sommario n. 10 del 31/07/2008 della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato).

[25] In sede consultiva sull'atto del governo n. 499 della XVI legislatura (schema di decreto legislativo concernente ulteriori disposizioni correttive e integrative al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, recante codice del processo), il senatore Sanna «ricorda che l'articolo 44, comma 2, lettera d), della legge delega (n. 69 del 2009) prevede la razionalizzazione e unificazione delle norme vigenti per il processo amministrativo sul contenzioso elettorale,  introducendo la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nelle controversie concernenti atti del procedimento elettorale preparatorio per le elezioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Osserva che il Governo non ha dato corso a tale parte della delega e dunque propone di integrare il parere, sottolineando l'esigenza di colmare la lacuna, anche in considerazione delle disposizioni previste dal disegno di legge n. 2156-B (anticorruzione), all'esame delle Commissioni riunite 1a e 2a, in tema di incandidabilità» (Legislatura 16ª  Senato della Repubblica  1ª Commissione permanente  Resoconto sommario n. 425 del 12/09/2012).

[26] Loc. ult. cit., intervento del relatore Sarro.

[27] Per un cui commento v. Paola Torretta, Quale giudice per il contenzioso pre-elettorale politico? Riflessioni sulla sentenza della Corte costituzionale n. 259 del 2009, in Forum di quaderni costituzionali, 26 aprile 2010.

[28] Cfr. G. Buonomo (a cura di), L'Italicum e la Corte: tavola sinottica delle doglianze, in Nomos, n. 2/2016.

[29] Su quanto questa esclusività sia messa a repentaglio, vedasi Antonello Lo Calzo, Il principio di unicità della giurisdizione costituzionale e la giustizia domestica delle Camere, in www.federalismi.it, 14 maggio 2014.

[30] Legislatura 16º  1ª Commissione permanente  Resoconto sommario n. 307 del 13/07/2011, allegato: per una sua attenta disamina, v. le pagine 74-75 del libro Testa-Gerardi, Parlamento zona franca, Rubbettino ed., 2013, che si soffermano anche su una analoga clausola di salvaguardia contenuta all'articolo 52, comma 2 della legge n. 196 del 2009 (pagine 109-110).

[31] § 4.4 del Considerato in diritto della sentenza della Corte costituzionale n. 120 del 2014.

[32] Convertito, con modificazioni, dalla legge 13 dicembre 2013, n. 137.

[33] A fare da perfetto péndant, sotto il profilo dell'autocrinia, all'assoggettamento dei terzi in rapporto con le Camere alla relativa giurisdizione domestica, in virtù dei regolamenti approvati con delibera dell’Ufficio di Presidenza della Camera dei deputati del 22 marzo 1999, n. 155, e con delibera del Consiglio di Presidenza del Senato del 5 dicembre 2005, n. 180. 

[34] In sede di esame del decreto-legge n. 120, l'emendamento 2.145 recitava: «Dopo l'articolo 2, aggiungere il seguente: Art. 2-bis - 1. Le amministrazioni dello Stato, le regioni e gli enti locali, nonché gli organi costituzionali nell'ambito della propria autonomia, hanno facoltà di recedere entro il 31 dicembre 2014, dai contratti di locazione di immobili in corso alla data di entrata in vigore della presente legge. Il termine di preavviso per l'esercizio del diritto di recesso è stabilito in trenta giorni, anche in deroga ad eventuali clausole difformi previste dal contratto». Nel medesimo esame passò l'articolo aggiuntivo 2.0500 della Commissione, che recitava: «Dopo l'articolo 2, aggiungere il seguente: Art. 2-bis - 1. Anche ai fini della realizzazione degli obiettivi di contenimento della spesa di cui agli articoli 2, comma 5, e 3, comma 1, le amministrazioni dello Stato, le regioni e gli enti locali, nonché gli organi costituzionali nell'ambito della propria autonomia, hanno facoltà di recedere entro il 31 dicembre 2014, dai contratti di locazione di immobili in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. Il termine di preavviso per l'esercizio del diritto di recesso è stabilito in trenta giorni, anche in deroga ad eventuali clausole difformi previste dal contratto» (corsivi aggiunti). Dopo la scabrosa vicenda del decreto cd. salva-Roma  in cui l’approvazione dell’emendamento soppressivo dell’articolo 2-bis, operata in 5ª Commissione del Senato il 17 dicembre 2013, diede luogo al ritiro del ddl di conversione in legge del decreto-legge 31 ottobre 2013, n. 126  il Governo affrontò il punto (ma senza innovare sul sintagma «nell'ambito della propria autonomia») nel decreto-legge 30 dicembre 2013, n. 151, anch'esso decaduto. Infine, la questione fu decisa con il testo definitivo introdotto in sede di conversione, all'articolo 24 del decreto-legge n. 66 del 2014, mediante l'emendamento 24.5 (testo 2), che recitava: «Dopo il comma 2, aggiungere i seguenti: 2-bis. L'articolo 2-bis del decreto-legge 15 ottobre 2013, n. 120, convertito con modificazioni, dalla legge 13 dicembre 2013, n. 137, è sostituito dal seguente: 2-bis. - (Facoltà di recesso delle pubbliche amministrazioni da contratti di locazione) 1. Anche ai fini della realizzazione degli obiettivi di contenimento della spesa di cui agli articoli 2, comma 5, e 3, comma 1, le amministrazioni individuate ai sensi dell'articolo 1, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196 e gli organi costituzionali nell'ambito della propria autonomia, possono comunicare, entro il 31 luglio 2014, il preavviso di recesso dai contratti di locazione di immobili in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. Il recesso è perfezionato decorsi 180 giorni dal preavviso, anche in deroga ad eventuali clausole che lo limitino o lo escludano» (corsivo aggiunto).

03/04/2017
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